giovedì 27 settembre 2018

30 Settembre 2018 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

“Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva… Non glielo impedite, perché… chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” (Mc 9,38-43.45.47-48).

Per inquadrare bene le proteste che Giovanni, uno dei dodici, rivolge a Gesù anche per conto degli altri, dobbiamo fare un passo indietro rispetto al testo del vangelo di oggi: solo qualche giorno prima, infatti, proprio loro, i discepoli più vicini a Gesù, non erano riusciti a scacciare il demonio da un ragazzino. Figuriamoci come rimasero quando un tizio qualunque, uno che addirittura non apparteneva al gruppo che seguiva Gesù, c’era riuscito, eccome! Cosa non fa la gelosia! Cosa non fa pensare l’invidia: volevano intervenire immediatamente per impedirglielo, per farlo smettere. Già soltanto l'averlo pensato, però, mette in evidenza quanto i discepoli fossero ancora lontani dalla logica del “servizio”; erano purtroppo ancora succubi di quella mentalità degli israeliti che pretendevano di avere in esclusiva il monopolio della salvezza.
Un po’ come succede spesso anche a noi, nonostante siano trascorsi da allora oltre duemila anni: le nostre petulanti pretese hanno più o meno lo stesso sapore: “Ma come, noi che andiamo sempre in chiesa, che ci sforziamo di osservare le leggi di Dio, che non rubiamo, non uccidiamo, siamo trattati da Dio come tutti gli altri; anzi a volte Egli dimostra di amare maggiormente proprio quelli che ne combinano di tutti i colori! Questo non è giusto!”.
Se meditiamo però le parole che Gesù pronuncia nel vangelo di oggi, entriamo decisamente in crisi: praticamente demoliscono questo nostro vittimismo, questo nostro distorto modo di pensare.
È una mentalità che ci ha sempre posto al di sopra degli altri: lungo i secoli, infatti, la chiesa ha finito col sentirsi un po’ come l’arca di Noè: rimanerle al di fuori era impossibile salvarsi. Soltanto chi vi faceva parte, chi era cioè al suo interno, aveva la possibilità di essere alla fine accolto tra gli eletti: in pratica la salvezza era riservata ai soli “battezzati”: i cristiani cattolici si sentivamo un po’ onnipotenti, molto esclusivisti. Le parole del vangelo di oggi ci invitano invece ad essere meno trancianti, più cauti nei nostri giudizi: “Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi” (Mc 9,40). Cosa vuol dirci qui Gesù? In sostanza, ci invita a non lanciare giudizi preconcetti, proprio perché le persone, nei riguardi di Dio, possono comportarsi in maniera diversa: ci sono quelle che lo combattono apertamente, che gli sono ostili, che si schierano decisamente contro di Lui e della sua Chiesa; ma ci sono anche dei non “battezzati”, di persone cioè che non praticano, che dimostrano pubblicamente di non appartenere al “gruppo” dei suoi “discepoli”, che tuttavia in cuor loro lo ammirano e apprezzano il suo vangelo.
L’appartenenza ad una presunta “élite” privilegiata, non deve mai condizionare i nostri criteri di giudizio. Dio non è una “esclusiva”, un “privilegio” riservato a qualche movimento; “avere fede” in Lui non si può dimostrare vantando una certa “iscrizione”, appartenendo ad un certo gruppo; la fede è una espressione dell’anima, dello spirito, una adesione amorevole e incondizionata a Gesù e al suo vangelo, che porta a viverli coerentemente, ad operare di conseguenza. Gesù ha abolito decisamente il criterio di scelta: “Soltanto quelli dei nostri”.
In altre parole, quando un giorno lo incontreremo, Egli non verificherà certo se abbiamo il regolare “badge” che ci identifica come cattolici; non ci chiederà sicuramente se abbiamo militato in qualche associazione prestigiosa, se ci siamo distinti in dotte disquisizioni, se ci siamo impegnati in qualche rinomato movimento carismatico; al contrario vorrà sapere cosa abbiamo fatto di buono per gli altri, come siamo messi dentro, con la nostra anima; vorrà sapere se abbiamo amato i nostri fratelli, se li abbiamo trattati con carità. Gesù non ha mai chiesto a nessuno: “Tu sei dei miei? Sei cattolico? Da dove vieni? Di che nazionalità sei?”. Al contrario chiederà: “Hai operato veramente il bene, hai amato sul serio, sei stato disponibile, accogliente, con tutti, hai ascoltato e praticato i miei insegnamenti?”. A quanti risponderanno positivamente, egli di sicuro dirà: “Dio è in te, tu sei benedetto! Entra nel mio regno”. 
Gesù in pratica oggi ci dice che Dio è disponibile per tutti, che appartiene a tutti, anche a quanti non appartengono al nostro “gruppo”, anche a chi non si definisce cristiano; il Bene è anche fuori della chiesa, perché chiunque fa il bene è legato a Dio: “Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa” (9,41).
Non esiste un unico modo di vivere. Non esiste un unico sistema per essere religiosi, per salvarsi, per arrivare a Dio. Esistono molte vie. Ciò che conta non è se le persone “sono come noi” ma se trasudano di verità, di sincera ricerca di Dio, di amore. Se sono così, anche se non si fregiano del nome, sono comunque “cristiane”.
“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo spirito” (Gv 3,8). Dio è più grande dei nostri schemi e delle nostre regole. Dio fa sorgere cristiani anche fra i non cristiani. S. Tomaso diceva: “Da qualunque parte venga, la verità è originata dallo Spirito”. Dovunque c’è il bene, dovunque c’è qualcuno che ama, dovunque c’è un’anima grande e uno spirito profondo e onesto, lì immancabilmente c’è Dio.
“Ovunque tu incontri la verità – affermava Erasmo da Rotterdam - considerala sempre cristiana”.
Purtroppo la nostra società è ancora molto lontana da Gesù: la corruzione dilaga, la verità latita, la menzogna e l’inganno la fanno da padroni; non esiste l’ascolto, il rispetto, l’amore. Esiste solo l’egoismo, la corsa al potere, la faziosità, il preconcetto assoluto. Assistiamo ad una tendenziosa legittimazione dell’egoismo, del crimine, della violenza, dell’imbroglio. Non serve fare delle ricerche: le pagine di cronaca quotidiana, i media dell’informazione, ce ne offrono un continuo, triste, desolante florilegio.
Troppo spesso noi cattolici ci comportiamo irrazionalmente, siamo come tanti bambini capricciosi: solo quello che facciamo noi va bene, solo se viene fatto come lo facciamo noi è perfetto; solo il nostro pensiero è quello valido; solo il nostro punto di vista è quello giusto. Solo il nostro Dio è quello vero!
Dobbiamo invece ascoltare tutti, avvicinarli con rispetto, confrontarci con loro e capire le loro ragioni. La religione (etimologicamente da “re-ligo” = legare insieme strettamente) dovrebbe aiutarci proprio a questo: legare insieme tutte le esperienze di vita, trovare ciò che abbiamo in comune, trovare ponti, collegamenti, riferimenti, illuminarci su ciò che unisce e su ciò che divide, per trovare una prospettiva condivisa.
Dobbiamo arrivare a pensare che le stesse cose possono essere fatte in modi diversi dai nostri, ottenendo lo stesso risultato. La vita, la giornata, il lavoro, l’educazione dei figli, l’impostazione della vita, sono tutte cose che possono essere pensate e affrontate in modi diversi. E non è detto che uno sia migliore o peggiore dell’altro; che uno sia giusto e l’altro sbagliato, che uno sia buono e l’altro cattivo: si tratta semplicemente di percorrere strade diverse per raggiungere un medesimo traguardo. E questo dovrebbe bastarci.
Il vangelo passa poi a parlare dello scandalo, di questa “pietra d’inciampo” come viene definito altrove. Lo scandalo è come quel sassolino che entra nella scarpa e ci impedisce di camminare. “Scandalo” quindi per il vangelo non è tanto qualcosa che ha a che fare con il sesso; più genericamente è tutto ciò che non ci fa vivere, che ci soffoca, che ci impedisce di procedere nel nostro retto cammino.
E qui Gesù, per eliminarne ogni possibile causa, porta alcune soluzioni drastiche: sono esempi estremi, che ovviamente non vanno attuati alla lettera, ma capiti nel loro profondo significato dimostrativo. In pratica egli vuol dire: “Se c’è qualcosa che ti fa male, che ti impedisce di proseguire nel tuo cammino di vita, che non ti rende libero, che ti paralizza, che ti blocca, è meglio per te toglierlo, tagliarlo, eliminarlo, anche se ciò ti è difficile e doloroso”.
Ogni scelta importante comporta infatti un “taglio”, un cambiamento radicale, una netta inversione di rotta, una soluzione che sia in grado di modificare, recidere, neutralizzare ciò che al momento è negativo, fa male; da qui l’importanza del discernimento, dell’esame personale, del chiarire con grande onestà intellettuale che cosa vogliamo, se quello che vogliamo è veramente un bene per noi.
Le scelte vitali straziano quasi sempre il cuore, l’anima, proprio per la loro inevitabilità: non è possibile transigere, non è possibile giocare in termini di “salvezza”: quando bisogna operare, quando è necessario incidere, bisogna farlo. Anche senza anestesia: certamente non è piacevole, anzi è maledettamente doloroso. Ma è vitale. Bisogna essere risoluti, decisi e fermi, altrimenti ci si perde, si opta per il nulla, per la perdizione eterna. “Meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geenna…”. Chi ha orecchi da intendere, intenda. Amen.



giovedì 20 settembre 2018

23 Settembre 2018 – XXV Domenica del Tempo Ordinario


“Partirono di là e attraversarono la Galilea, ma non voleva che alcuno lo sapesse, perché istruiva i suoi discepoli” 
(Mc 9,30-37).

Gesù chiede nuovamente ai suoi la riservatezza nei suoi confronti: non vuole che la gente sappia della sua presenza. Egli vuole, prima del precipitare degli eventi, concentrarsi su di loro, per formarli, istruirli; per questo ha bisogno di tempo e di tranquillità.
Compattare un gruppo, una squadra, è decisivo per compiere qualunque impresa: se non si dispone di una buona squadra, si può essere bravi quanto si vuole ma non si va da nessuna parte. E Gesù lo sa. Egli sa benissimo che da solo il suo messaggio non potrebbe continuare. Per questo forma un gruppo di volontari, di appassionati, di gente libera, di gente che lo segue perché coinvolta, “presa”, entusiasta: e ad esso Egli dedica tempo e formazione, perché saranno loro che lo aiuteranno e che poi continueranno la sua missione.
Gesù dunque parla agli apostoli e dice loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà” (Mc. 9,31).
Abbiamo già sentito domenica scorsa (Mc 8,27-35) un annuncio analogo: ma questa volta è un po’ diverso: se nel primo Gesù indica come autori della sua passione e morte le autorità religiose, tutta gente ebrea, qui parla più in generale di “uomini”. È l’umanità intera quindi che si rifiuta di accettare quella vera umanità che il Figlio dell’uomo è venuto a portare su questa terra, un’umanità che è solidarietà, perdono, amore, tenerezza, compassione, servizio, non violenza.
“Ma essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione” (Mc. 9,32). Non chiedono perché hanno paura dei chiarimenti, preferiscono non capire perché intuiscono che la novità degli insegnamenti del Maestro, del suo Vangelo, è completamente diversa dalla loro, da quella che essi intendono. Essi pensano ad una grande nazione, con a capo Gesù; ad un forte esercito, magari proprio sotto la loro guida, con armi e potere. Essi vedono in Gesù il nuovo Davide che restaurerà l’antico regno. Ma Gesù non è nulla di tutto questo. Lui è il “Figlio dell’uomo”.
Giunti a Cafarnao Gesù chiede loro: “Di cosa stavate discutendo lungo la via?” (Mc 9,33). È chiaro che non hanno voluto coinvolgere Gesù nel loro parlottio. Camminava insieme a loro, ma essi lo hanno volutamente escluso dai loro discorsi: come mai? Perché, annotazione molto bella di Marco, essi stavano discutendo su chi sarebbe stato “il più grande” nel nuovo regno di Gesù. Ancora una volta dimostrano di non aver capito nulla delle sue spiegazioni. Sono completamente “fuori”.
Gesù, che pensa sempre in positivo, finge di interpretare il loro parlottio come un semplice scambio di opinioni, di amichevoli riflessioni su qualcosa di interessante, di profondo: nella sua domanda infatti Marco gli fa usare il verbo “dialoghìzomai”, che indica appunto un conversare pacifico, tranquillo; quando invece la loro era stata una vera e propria discussione, una disputa, un autentico “dialalèo”; in questo modo egli vuol evidenziare i due modi diversi di affrontare il discorso: Gesù è mosso dall’amore, e con amore si rivolge a loro; i discepoli invece nei loro discorsi dimostrano tutta la loro ambizione, la voglia di successo, un desiderio smodato di gloria mondana. Una differenza abissale di mentalità, che essi, colti in fallo, dimostrano di avere in parte percepito, per cui, dice il vangelo, non rispondono: “essi tacevano” (Mc 9,34). Il loro è il classico silenzio dell’imbarazzo, l’ammutolirsi di chi capisce improvvisamente e di trovarsi sul versante opposto.
A questo punto Gesù, che conosceva bene la situazione, avrebbe potuto arrabbiarsi sul serio: “Siete dei testoni irrecuperabili, possibile che vi ostiniate ancora a non voler capire?”. Invece si siede, e pazientemente riparte offrendo loro una nuova opportunità. Ben diverso da noi, che di fronte ad una contrarietà scattiamo immediatamente: Lui sa che tutto si impara con calma e con grande pazienza.
E a scanso di ulteriori equivoci, spiega: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti, il servo di tutti” (Mc 9,35). Parole chiarissime, che vanno ben oltre la loro discussione: essi infatti avevano litigato su chi sarebbe stato il “più grande”, Gesù invece stabilisce il comportamento di chi vuol essere il “primo”: due situazioni diverse, perché mentre per gli apostoli “il più grande” è in assoluto uno che è “più” degli altri, per Gesù essere il “primo” non comporta l’essere “più” di nessuno: se per la discussione dei discepoli uno solo può diventare il “più grande”, per lui, al contrario, tutti, discepoli e non, possono essere i “primi”; come? diventando “servi” degli altri. E qui dobbiamo fare attenzione alle parole: Gesù parla volutamente di “servo”, non di “schiavo”: il termine usato è “diàconos”, non “doulos”: quindi una differenza sostanziale, un approccio completamente diverso, perché mentre il “diacono” si mette spontaneamente a servizio degli altri, in maniera libera e volontaria, lo schiavo no: lui fa le cose solo perché è costretto a farle.
Essere “servo” dei fratelli, quindi, comporta un atteggiamento sinceramente propositivo, vuol dire in pratica non considerarci superiori a loro, non disprezzarli, non fagocitarli, non dominarli, non discriminarli. Vuol dire trattarli come trattiamo noi stessi, con la stessa cura, con la stessa sollecitudine, con lo stesso entusiasmo: ben consapevoli che nessuno è inferiore a noi, e che noi non siamo superiori a nessuno.
L’essere “servi”, pertanto, esclude anche ogni forma di servilismo, contrariamente a come talvolta ci hanno fatto credere: esclude cioè l’annullamento di noi stessi, della nostra dignità, l’umiliarci, l’esaurirci fino quasi a morire per “servire” gli altri; non vuol dire obbedire sempre e comunque passivamente, stare sempre zitti, essere accondiscendenti sempre, in qualunque caso, soprattutto quando non dovremmo, quando la coscienza ci impone di fare chiarezza per il bene di altri. Insomma non si deve accettare di essere considerati persone inutili, degli zerbini da calpestare: si cadrebbe in una forma di spiritualità esasperata, inutile, dannosa. Significherebbe non considerare la grande dignità che Dio ha riconosciuto a ciascuno di noi, in quanto opera delle sue mani.
E che fa Gesù a questo punto? Prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia.
Ma perché un bambino? Per la nostra cultura il bambino è il simbolo della tenerezza, dell’amore, della vulnerabilità, una creatura importante da difendere e da accudire. Ma ai tempi di Gesù un bambino non era nessuno, non contava nulla, non aveva alcuna autorità, non aveva voce su nulla. Era come se non esistesse. “È così che dovete comportarvi, dice Gesù: dovete essere tutti come dei bambini!”. Che non vuol dire essere “infantili”, ma sentirsi come loro, essere cioè come loro incapaci di dominare gli altri, incapaci di usare forza e potere nei loro confronti; tant’è che “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me e Colui che mi ha mandato” (Mc 9,37). In altre parole, sottolinea Gesù, “dovete essere come me, dovete imitare me, uomo mite e umile, che pur avendo potere, mi sono comportato come se non l’avessi”.
Il “vero potere” è quindi non avere potere. Il vero potere è amare: perché l’amore, come il bambino, non ha potere. Se avesse potere, non sarebbe più amore, ma autorità, dominio, supremazia: dominerebbe gli altri, li terrebbe in pugno, sottomessi, li manipolerebbe.
Il potere, a differenza dell’amore, ignora gli altri, non si relaziona con loro, impedisce loro di conoscere la verità, di conoscere cosa pensiamo, cosa decidiamo, come viviamo; manipola, seduce, minaccia, vuole avere sempre ragione. Il potere tende solo a distruggere gli altri; l’amore al contrario li valorizza, li sostiene, previene i loro bisogni, asciuga le loro lacrime, condivide le loro gioie.
C’è un solo modo di esercitare positivamente il potere, esercitandolo unicamente su noi stessi: per migliorare le nostre virtù, per superare le contrarietà che incontriamo nel nostro cammino spirituale, per fare della nostra vita un canale di grazia; per raggiungere insomma l’amore vero di Gesù, l’unico amore che dà pace e pienezza, l’unico amore che ama senza alcuna costrizione. In tal caso non impegnare il nostro potere per questo, equivale solo a comportarci esattamente come quei discepoli, ottusi e ostinati, che cercavano alibi, deleghe e giustificazioni inutili. Amen.



giovedì 13 settembre 2018

16 Settembre 2018 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario


“E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere” (Mc 8,27-35).

Il viaggio verso Gerusalemme è iniziato, e durante il cammino che lo porta nei villaggi intorno a Cesarea di Filippo, Gesù parla con i suoi discepoli. Egli Sa di essere “qualcuno” per la gente; sa di essere sulla bocca di moltissime persone; sa che in giro si parla molto di lui; è naturale quindi che il discorso cada sulla sua persona, sull’opinione che la gente ha di lui.
“Chi dice la gente (letteralmente “gli uomini”) che io sia?”.
Ed ecco la risposta: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri uno dei profeti” (Mc 8,28).
Ora, se per gli scribi, per i capi del Tempio, per i farisei, Gesù è un demonio, un belzebù, un “posseduto”, per le persone umili che lo hanno avvicinato, è un profeta, un uomo buono, uno “in gamba”. Non sanno bene chi egli sia, ma per loro è decisamente un personaggio carismatico; anche se non hanno capito la grande novità della sua missione, lo considerano comunque uno all’altezza dei grandi profeti.
Ma Gesù non si accontenta delle chiacchiere, vuole andare più a fondo, vuol sapere quello che “loro” pensano di lui, se almeno loro lo hanno veramente capito, e riformula la domanda: “Ma voi chi dite che io sia?”. Essi infatti erano stati testimoni oculari dei suoi miracoli; ad essi egli aveva più volte parlato di sé e della sua missione. Ora vuole una verifica.
Prontamente interviene “o Petròs”, il Pietro: Marco, quando lo chiama così, con l’articolo, lo fa per evidenziare la sua testardaggine, la sua ottusità; quando invece vuol indicare l’apostolo che crede, l’innamorato di Gesù, lo chiama con entrambi i suoi nomi: “Simon Pietro” è pertanto l’apostolo che ama, che crede, anche se la sua fede non è ancora perfetta, se è ancora dubbiosa; “il Pietro” invece, è la pietra, l’ostinato, colui che vuole imporre a tutti le sue idee, e quindi è ostile, contrario, anche con Gesù.
Da notare che Gesù si era rivolto a tutti (“Voi chi dite...”) ma è lui che prende la parola, parla e sentenzia per tutti. Si fa portavoce del pensiero altrui, considerandolo a priori condiviso con il suo.
Egli dunque è convinto di sapere, di aver capito tutto, e dice: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). “Cristo” in greco, “Messia” in ebraico, hanno lo stesso significato: entrambi vogliono dire “l’unto, il consacrato”.
Qui però si impone una considerazione: Pietro doveva sapere perfettamente che il Messia, per gli ebrei, mai si sarebbe contaminato con la gente comune, con il popolino, con gli emarginati. Ora, gli era successo di vedere Gesù accompagnarsi normalmente con questa gente? Sì. Lo aveva visto toccare i lebbrosi? Sì. Lo aveva visto guarire in terra pagana, quando invece il Messia avrebbe dovuto combatterli e distruggerli i pagani? Sì. Aveva visto parlare Gesù con le donne? Sì. Aveva visto Gesù sedere con i peccatori? Sì. Ebbene, nonostante tutto ciò Pietro non aveva capito: egli era stato testimone di queste cose, aveva visto con i suoi occhi le fondamentali diversità tra come doveva essere il Messia biblico e come si comportava Gesù, senza che neppure un minimo dubbio si insinuasse nella sua mente. Egli infatti aveva sì guardato tutto con gli occhi, ma non con quelli del cuore: e se non viene toccato il cuore, si è convinti di vedere bene quando invece si è ciechi.
Alla domanda di Gesù, dunque, Pietro ripete letteralmente l’appellativo tradizionale del Messia ebraico (l’unto, il Cristo), dimostrando chiaramente in questo modo di non conoscerlo, di non saper spiegare chi egli fosse realmente. Per Pietro il Cristo, il Messia, rimane colui che divide i buoni dai cattivi, gli ebrei dai non ebrei, i meritevoli dai non meritevoli: ma un Messia così è totalmente l’opposto di Gesù, il Figlio di Dio che insegna e pratica l’amore per tutti.
Egli infatti continua a definirsi semplicemente il “Figlio dell’Uomo”, non il Cristo, non il Messia.
Ma cosa vuol dire con questo titolo? Figlio dell’Uomo è un’espressione per dire l’Uomo veramente umano. Un’espressione sconvolgente. Gesù, Figlio di Dio, lui stesso Dio, non si identifica come il Cristo, il Messia, l’unto delle Scritture, ma semplicemente come “uomo”, “un figlio d’Uomo”.
Un grande insegnamento per noi: “Vuoi essere divino? Sii umano, completamente umano”. Noi pensiamo che per essere divini sia necessario essere santi, perfetti, “in-umani”. Ma qual è invece il “modello di Dio” che Gesù personalmente ci ha documentato? Forse il santo, il puro, il sacerdote, il levita, l’incontaminato? No: ma il samaritano eretico che si prende cura dell’uomo ferito (Lc 10,29-37). L’essere “divino” pertanto non è assolutamente proporzionale a quanto preghiamo, ma a quanto sappiamo prenderci cura dell’umano.
Nei vangeli non troviamo mai un Gesù che fa la carità, l’elemosina. Troviamo invece di continuo un Gesù che guarisce, che si prende cura delle persone. Umanità, amore, che non sono assistenza ma: “Mi prendo cura di te. Voglio cioè che tu sia il tesoro, la perla, il meglio che tu possa immaginare”.
In pratica quindi non ci limiteremo a spiegare ai nostri fratelli quant’è bello, quant’è appagante il Cielo; ma insegneremo loro come lo possono raggiungere agevolmente con le loro ali, per goderlo all’infinito. Non esibirsi in grandi disquisizioni teologiche, dunque, ma praticare umilmente la carità: questo è l’amore vero, autentico.
Per molte persone amare significa invece possedere l’altro. Cioè: “Ti amo perché sei come me, pensi come me, ti comporti esattamente come me; ti amo perché stai con me, sei legato a me, mi riami e sei d’accordo in tutto con me”. Ma questo non è l’amore: l’amore è volere sinceramente il bene, il meglio per l’altro, chiunque egli sia, qualunque sia il suo pensiero.
Dopo la dichiarazione di Pietro, Gesù comunica agli apostoli le grandi tappe della sua missione redentrice: Egli cioè “doveva soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Sul “soffrire molto” in passato si è costruita una spiritualità, una “imitazione” di Cristo, molto rigida e impegnativa. Qualcuno è arrivato a dire che Gesù è stato mandato da Dio soltanto per espiare i nostri peccati, soffrendo in maniera disumana. Nella sua opera redentrice sono state messe in risalto soprattutto le strazianti sofferenze di un Dio, oltraggiato come un delinquente, condannato a morire sul patibolo della croce, piuttosto che l’immenso atto d’amore di un Padre che ha sacrificato il suo Figlio amatissimo per restituire all’uomo la sua originale dignità; lo stesso amore che Cristo ha portato sulla terra, lasciandolo in eredità a noi, come unico esempio di Vita.
Però dopo tre giorni Egli sarebbe risuscitato. Perché dopo tre giorni? Perché Gesù doveva aspettare tre giorni? Dov’è stato in quei tre giorni? I “tre giorni” vanno interpretati con la cultura del tempo: per la mentalità giudaica infatti la morte avveniva dopo tre giorni. Per tre giorni l’anima del defunto era ancora presente e solo dopo tre giorni, quando il corpo cominciava a decomporsi e a perdere i suoi tratti fisionomici, sopraggiungeva la morte, definitivamente, senza speranza. Lazzaro di Betania infatti era morto già da quattro giorni all’arrivo di Gesù (Gv 11,39): da qui il disappunto dei parenti per il suo ritardo.
Resuscitare “dopo tre giorni” vuol dire allora che la morte, la sofferenza, il patibolo, legati alla vita terrena di Gesù, non hanno più alcun potere su di lui. Egli poteva soffrire, poteva essere condannato, poteva subire di tutto, ma in quanto Vita, una volta morto avrebbe vinto Lui, perché la Vita è e sarà sempre più forte di tutto. Quindi non si tratta di “tre giorni” riferiti al tempo, ma solo simbolici. Gesù non ha bisogno di tempo per risorgere: tre giorni è solo per dire che era veramente morto.
A questo punto che fa Pietro? Rimprovera Gesù! Da notare l’osservazione di Marco: “Lo prende in disparte” (Mc 8,32). Pietro parla a nome di tutti ma cerca di isolare Gesù per impedire che gli altri sentano i loro discorsi e si scandalizzino: “No, caro Gesù, soltanto tu pensi che le cose stiano così. Il Messia non è come dici tu! Qui ti sbagli!”. Egli dimostra qui tutta la sua ostinazione, la sicurezza di un presuntuoso: “Io so come stanno le cose; sei tu, caro Gesù, che devi ascoltare me”.
Ma Gesù gli risponde a tono, rimettendolo seccamente nei ranghi: “Mettiti dietro a me Satana”.
In pratica Pietro e Gesù litigano e se ne dicono di santa ragione. “Tu non capisci niente”, dice Pietro. “Io, non capisco niente? Ma sei tu l’omuncolo che non riesce ad andare oltre il pensiero degli uomini! Sei semplicemente come Satana”. Nella Bibbia Satana è l’oppositore, l’avversario per definizione, colui che in tribunale rappresenta l’accusa; qui Pietro è un satana perché si oppone a Gesù, ai suoi piani di salvezza, gli sbarra la strada, lo vuole costringere a sottomettersi alla sua volontà. Per questo Gesù lo rimette immediatamente in riga: “Dietro di me”; doveva cioè rispettare esattamente l’ordine datogli al momento della chiamata: “Vieni e seguimi!”. È l’uomo che deve seguire Gesù, non il contrario.
Quindi rivolto ai discepoli e alla folla dice: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Un invito che in passato veniva posto a giustificazione di una spiritualità basata sulla sofferenza, per la quale seguire Gesù significava esaurirsi, distruggersi, punirsi, rinunciare a qualunque soddisfazione (“rinnegare sé stessi”) e quindi soffrire. Più si amava la sofferenza, più si amava la propria “croce”, più si era votati alla santità. Quindi per seguire Gesù era necessario rinunciare a tutte le cose belle e gratificanti della vita: ricchezze, comodità, divertimenti, viaggi, spettacoli, amore, coccole; bisognava rinunciare all’affermazione della propria personalità, annientare qualunque rigurgito di orgoglio, autodistruggersi, procedere con lo sguardo rivolto costantemente al suolo, consapevoli della propria nullità.
Ma questa non è la strada indicata da Gesù, non sta qui il Dio da seguire: il Dio da imitare, da raggiungere, è il Dio dell’uomo realizzato, dell’uomo nella pienezza della sua personalità, è il Dio della vita, della festa, della gioia, della felicità umana, dell’amore: Egli è venuto non per deprimere questa umanità, già così tanto caduta in basso, ma per esaltarla, per guarirla, per espanderla spiritualmente, per fortificarla.
Ma cosa significa allora “rinnegare sé stessi?”. Letteralmente, “dire di no”, rifiutarsi cioè di pensare come Pietro e gli apostoli, che vedevano in Gesù soltanto la possibilità di conquistare potere, prestigio, forza, autorità, benessere personale.
È il momento che prima o poi arriva puntualmente per tutti: una volta incontrato Gesù sulla propria strada, una volta trovata la Vita, trovato Colui che ci riempie l’anima, dobbiamo decidere se accettare il suo invito speciale, se seguirlo oppure no, valutando dubbi, paure, tornaconti umani, progetti di vita; perché una volta deciso, non possiamo più tornare indietro. Dobbiamo avere il coraggio di trasformare il nostro “destino” in una scelta di vita ben ponderata, matura, libera. Sono infatti le decisioni ferme, convinte, sofferte, che determinano la qualità della nostra vita. È il nostro decidere che ne inizia la formazione, la realizzazione passo dopo passo: perché siamo convinti che quella e null’altra è la “nostra” strada. Soprattutto per la vita “consacrata” (preti, frati, suore) scegliere un percorso così impegnativo, voler seguire una “vocazione” così vincolante e selettiva, senza una scelta ponderata, una decisione consapevole, convinta, significa votarsi ad un fallimento assicurato; significa procedere trascinandosi ai margini della vita. “Pretendere” poi un sovvertimento del Vangelo per poter tornare sui propri passi, sconfessare la propria decisione, tradire la bellezza di una scelta iniziale entusiasmante, è sinonimo di insipienza, di immaturità, di caducità mentale.
Del resto, qualunque decisione implica sempre una rinuncia; la vita ci prospetta una vasta gamma di possibilità, alle quali dobbiamo in gran parte rinunciare. Non possiamo fare tutto, e quindi dobbiamo accantonare ciò che riteniamo superfluo, non importante, vitale, e scegliere ciò che invece giudichiamo essenziale, ciò per cui merita veramente di vivere.
Per trovare la Vita vera, dobbiamo perdere “questa vita”, questo modo di pensare, di concepire il mondo. Per seguire Gesù dobbiamo essere disposti a lasciare tutte le nostre certezze terrene, i nostri affetti fuorvianti, le nostre paure, i nostri appigli, i nostri riferimenti limitati. Per seguirlo, in una parola, dobbiamo “lasciare tutto” (Lc 5,11). Per vivere il nuovo dobbiamo lasciare il vecchio. Per trovare la vita vera, dobbiamo lasciare quella falsa. Amen!


giovedì 6 settembre 2018

9 Settembre 2018 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario


“E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!” (Mc 7,31-37).

Dopo aver constatato la preconcetta chiusura mentale degli scribi e dei farisei nei confronti della sua Parola, come ci ha testimoniato Marco nel vangelo di domenica scorsa, Gesù volta loro le spalle e se ne va. La sua è una decisione esemplare: non intende farsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. È un uomo assolutamente libero Gesù. Non tiene in alcun conto ciò che le persone rappresentano (la posizione sociale, i loro titoli, il loro alto rango, la loro autorità), siano pure “sacerdoti del tempio”, dotti scribi o pii farisei. Ai suoi occhi tutti quelli che lo seguono sono semplicemente “persone”. Ciò che a lui preme, ciò che lo colpisce, non è il livello sociale, ma il cuore dell’uomo, i sentimenti che ognuno ha dentro di sé. Per cui, di fronte ai meschini attacchi degli “eletti”, Gesù cambia territorio, si trasferisce in terra pagana, a Tiro e Sidone.
Ed è proprio qui, non tra gli eletti ebrei, che Egli incontra una fede esemplare.
Un fenomeno abbastanza comune anche oggi: è più facile imbattersi in una fede genuina e profonda tra i non credenti, che tra le persone che si professano “religiose”: la religione infatti può essere professata anche solo mediante pratiche di pietà esteriori, che non coinvolgono l’adesione della mente e del cuore; la fede assolutamente no: la fede è quella profonda convinzione interiore che guida il nostro agire, determina le nostre opere; la fede è ciò che viviamo dentro, è la fiducia che abbiamo nella Vita, quella Vita che ossigena continuamente il nostro cuore; è l’Amore che pulsa e scorre nelle nostre vene.
Dunque qui, in terra “straniera”, Gesù rimane sorpreso da tanta fede, e la premia: dapprima guarisce la figlia di una donna pagana “siro-fenicia”; quindi, commosso dalla fiducia degli accompagnatori, restituisce la parola ad un sordomuto.
È lui, dunque, il beneficiario della bontà divina, come ci narra il vangelo di oggi.
Ebbene, in che modo possiamo noi ritrovarci in quel sordomuto? Quali riferimenti per la nostra vita possiamo trarre da questo episodio?
Dobbiamo leggerlo soltanto come una conferma della bontà e della bravura di Gesù nel guarire ogni tipo di malattia, anche tra i pagani, oppure è un formale invito a metterci seriamente in discussione?
Chiediamoci prima di tutto: chi è un sordomuto? Per dire sordomuto Marco usa qui due termini: κωφος (kòfos) che vuol dire ottuso, spento, senza energia, sordo, insensibile, stolto, pazzo; e μογιλαλος (moghilàlos) che invece indica uno con difficoltà di parola, balbettante, uno che tartaglia, che non parla perché ha difficoltà a farlo correttamente. Molto probabilmente quindi non alluderebbe tanto ad un sordo totale fin dalla nascita, ma di qualcuno che ha perso gradualmente la sua facoltà di sentire e, riferito a noi, uno che è diventato incapace di “sentirsi”. Ora, spiritualmente parlando, chi è sordo è sempre muto, assente: perché solo se “ci sentiamo”, se siamo “collegati” con noi stessi, possiamo esprimere qualcosa di noi.
Ecco allora che se ci scopriamo “scollegati”, se non ci sentiamo più, è arrivato il momento di “scuoterci” scrupolosamente, di aprirci, di riscoprire quello che siamo e abbiamo dentro. Fuggiamo dal “rumore” assordante di un mondo che ci stordisce l’anima. Il silenzio, il raccoglimento, sono infatti i presupposti per la nostra crescita spirituale.
Alcuni pagani portano dunque davanti a Gesù questo poveretto e lo pregano di “imporgli la mano”. Non hanno le idee chiare, non gli chiedono espressamente di guarirlo: a loro basta che Gesù lo “tocchi”. Ancora una volta dei pagani dimostrano di avere più fede dei religiosi ebrei.
E Gesù premia la loro fiducia. Come sempre Egli non fa distinzione tra osservanti e infedeli, ma interviene con la sua grazia beneficiando chiunque, purché dotato di una fede umile e sincera.
Questo deve confortarci: perché anche se non siamo completamente “di chiesa”, anche se i nostri rapporti con la religione sono un po’ conflittuali, anche se nella nostra vita ci siamo allontanati da Lui, se siamo “tiepidi”, non praticanti, Egli è comunque sempre disponibile a guarirci, a perdonarci, a sanare le fratture della nostra vita: su questo non dobbiamo avere incertezze, pregiudizi, diffidenze. Se ci avviciniamo umilmente e gli diciamo di fidarci di Lui, Gesù ci salva, ci guarisce; e lo fa non perché gli mostriamo l’etichetta di “cristiani”, ma perché gli dimostriamo di avere fede in Lui, di essere dispiaciuti per come siamo, di volerci risollevare dalle nostre miserie, di confidare completamente e sinceramente nel suo amore. Di questo dobbiamo essere convinti; su questo deve poggiare ogni nostra sicurezza.
A questo punto cosa fa Gesù con il sordomuto? Per prima cosa lo trascina “lontano dalla folla”.
Nei vangeli succede spesso che Gesù porti il malato lontano dalla folla, in disparte, nella solitudine: nella guarigione della figlia di Giairo, deve cacciare fuori di casa tutta la gente che urla e che sbraita a causa della sua morte; prende con sé solo il padre, la madre e alcuni suoi discepoli (Mc 5,40); nel caso del paralitico, che non può raggiungere Gesù col suo lettino a causa della grande ressa, alcuni lo calano dall’alto nella stanza dove Lui si trova (Mc 2,4); il ragazzo epilettico viene guarito prima che la gente accorra da Gesù (Mc 9,25); al cieco di Betsaida, dopo averlo guarito, ordina di “non entrare nel villaggio” (Mc 8,22); l’emoroissa, che tocca il mantello di Gesù di nascosto protetta dalla calca della gente, è costretta a venire fuori dall’anonimato, dalla folla, e mettersi in gioco: “Chi mi ha toccato?” (Mc 5,30). E via dicendo.
Quando uno è immerso nella folla, non è nessuno, è uno dei tanti, è anonimo. Gesù, invece, fa sempre uscire i malati dalla folla, li individua, li fa venire avanti, li mette al centro.
Egli non vuole l’anonimato; tutti devono avere la loro identità, devono essere “qualcuno”, avere un nome; bisogna cioè essere sé stessi. La folla sono i condizionamenti dell’ambiente circostante, sono i giudizi impietosi delle persone vicine, che magari amiamo pure. Finché rimarremo succubi dei loro pregiudizi, delle loro valutazioni, non potremo mai guarire, non potremo venirne fuori, non potremo ascoltarci, essere noi stessi. La folla, in questo modo, ci impedisce di agire liberamente, di fare le nostre scelte, di seguire le nostre aspirazioni per paura che qualcuno ci disapprovi, per paura di rendere scontento qualcuno, di farci rifiutare da qualcuno.
Non è un caso che nella nostra società si faccia abuso di anestetizzanti, di psicofarmaci; non è un caso che la gente sia sempre di corsa, non si fermi mai, segua sempre un ritmo convulso; non è un caso che non sappia più fare silenzio, che la vita scorra nel rumore più assordante. Sono tutte cose che servono a non farci “sentire”, a non farci pensare: perché in fondo in fondo noi abbiamo paura di misurarci con la nostra coscienza.
Per questo motivo, anche in questo caso, Gesù porta l’uomo lontano dalla folla: “Tu non sei uno dei tanti. Tu sei tu. Riprenditi la tua vita. Mostra chi sei, non vergognarti di te, del tuo volto!”: e, prima di tutto, gli tocca le orecchie con le dita: deve cioè aprirgliele materialmente, deve stappargliele, deve eliminare qualunque diaframma che ostacoli un perfetto ascolto, una percezione minuziosa e totale. Poi gli tocca la lingua con la saliva. Deve scioglierla per consentirgli di parlare, di esprimersi, di “dirsi”. In altre parole Gesù lo invita a tirar fuori tutto quello che ha dentro, la sua gioia, la sua rabbia, il suo dolore, le sue emozioni. Deve raccontarsi. Deve vincere la paura di essere giudicato, di essere rifiutato, deriso. Deve insomma tirar fuori la sua personalità autentica.
Quindi, con gli occhi rivolti al cielo, Gesù impartisce al sordomuto un ordine secco e perentorio: “Apriti”; Gesù cioè lo scuote, lo strattona; è quasi arrabbiato con lui per la sua tranquilla chiusura in sé stesso, per il suo disinteresse a voler tornare a sentire, a parlare, a vivere. Gli va bene così, è soddisfatto della sua condizione: da qui l’urlo di Gesù per svegliarlo dal suo letargo, per spaccare quella corazza di indifferenza in cui egli si è rinchiuso.
Quante volte Gesù deve urlare per svegliarci, per scuoterci dal nostro sonno, dal nostro torpore!
E quante altrettante volte noi, puntualmente, lasciamo risuonare a vuoto il suo invito: “Apriti… apriti! Dà una dimensione alla tua vita, fa entrare in te il nuovo, vivi, canta, proclama a tutti che Dio è amore. Ricordati che rimanere chiuso, sordo e muto, significa per te morire”.
“Apriti!”: di fronte a tale imperativo evitiamo di ripetere “Non ce la faccio!”: non è vero che non ce la facciamo, abbiamo soltanto paura di andare incontro a delusioni, di soffrire, e non ci rendiamo conto che rimanendo chiusi, serrati, isolati, siamo destinati a subire insoddisfazioni e sofferenze ben più gravi.
“Apriti!”: facciamolo! Perché condannarci a portare nel cuore pesanti massi e pietre strazianti? Perché privarci della gioia e dell’intensità dell’Amore di Dio soltanto per paura di soffrire? Apriamo la nostra mente, leggiamo, impariamo, frequentiamo corsi di studio, facciamo nuove esperienze. Non fermiamoci dicendo: “Questo mi basta”. Non dobbiamo aver paura di perdere le nostre vecchie idee, di doverle cambiare, di doverle verificare.
“Apriti!”: differenziamo i nostri discorsi. Non parliamo sempre delle solite cose: il tempo, i prezzi, la salute, il cibo, le cose da fare, il calcio, la politica, ecc. Parliamo di noi, di quello che sentiamo dentro, di quello che pensiamo veramente. Allarghiamo le nostre amicizie. Incontriamo persone nuove, stili di vita diversi: ascoltiamo e impariamo. Non temiamo di fare nuove esperienze di vita. Oggi i giovani (e non soltanto!) sono perennemente assenti, inebetiti dallo smanettare convulso sul loro cellulare, totalmente assorti in chat insulse, in puerili giochetti elettronici, come se al mondo non ci fosse null'altro da vedere, da pensare o da fare: preferiscono rimanere sclerotizzati piuttosto che aprirsi a ben più infiniti e luminosi orizzonti.
“Apriti!”. “E perché no?”: questo dovremmo rispondere all’invito costante, quasi assillante, di Gesù; perché se non saremo noi ad aprirci, nessuno potrà farlo mai! Eppure ne varrebbe decisamente la pena, perché dentro di noi giacciono ricchezze inimmaginabili, un potenziale dal valore incalcolabile del quale, rimanendo chiusi, nessuno mai potrà usufruirne: con la nostra apatia scegliamo di rimanere un tesoro inutile per noi e per gli altri. Infatti se non ci apriamo, chi potrà mai amarci? Chi potrà condividere con noi i suoi progetti, le sue aspirazioni? Se non ci apriamo, siamo destinati a vivere una vita che non ci appartiene, vivere sotto mentite spoglie, con un altro nome! Rischiamo di venire considerati la persona che non siamo! Se non ci apriamo, non approderemo mai a nulla, saremo amorfi, un niente: esattamente dei morti viventi. Amen.


giovedì 30 agosto 2018

2 Settembre 2018 – XXII Domenica del Tempo Ordinario


“Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”. (Mc 7,1-8.14-15.21-23).

Dopo la lunga parentesi in cui abbiamo meditato per intero il sesto capitolo del vangelo di Giovanni, riprendiamo la lettura di Marco che ci accompagnerà fino alla conclusione di quest’anno liturgico. Per meglio comprendere l’assurdità dell’episodio che Marco oggi ci propone, dobbiamo necessariamente rifarci ai fatti che immediatamente lo precedono: Gesù ha appena vissuto tre esperienze fortissime in prossimità del lago di Tiberiade.
La prima sulla riva: molta gente lo seguiva perché “erano come pecore senza pastore” (6,34). Avevano lasciato casa, lavori, campi e si erano perfino disinteressati del cibo pur di ascoltarlo. E proprio per loro Gesù opera la moltiplicazione dei pani; Egli si trova dunque di fronte ad una gran folla di persone assettate, affamate, che vogliono sapere, che vogliono nutrirsi, che vogliono mangiare cibo di vita.
La seconda durante la traversata del lago: i suoi discepoli sono angosciati per il forte vento e non riescono a remare. Gesù va loro incontro camminando sulle acque. I discepoli sono talmente terrorizzati da scambiarlo per un fantasma. Ma Gesù dice: “Coraggio sono io, non abbiate paura” (6,47-52): Gesù sente, percepisce la paura, il terrore dei suoi amici: il terrore di affondare nelle acque impetuose, il terrore nel vederlo, il terrore nel vedere e nel sentire cose straordinarie che non riescono a metabolizzare.
La terza esperienza è dopo l’approdo sulla riva opposta del lago: la gente lo riconosce e lungo tutto il suo passaggio una folla di malati e paralitici, solo toccando il suo mantello, improvvisamente “venivano salvati” (6,53-56): Gesù percepisce in tutta quella gente il dolore della malattia, della sofferenza, dei loro limiti, dei loro condizionamenti.
Gesù insomma si sente immerso nella vita, è attorniato da gente che vive ai margini dell’esistenza umana, dove la miseria scorre, dove si soffre, dove si cerca disperatamente di sopravvivere: dove si piange, ci si dispera, dove ci si rialza, dove, insomma, si vivono intensamente sentimenti di pathos, di dolore, di sofferenza, di angoscia.
E mentre Gesù vive dentro di sé queste esperienze, calandosi nella disperazione della folla che lo pressa da ogni parte, alcuni farisei e scribi si fanno largo e avvicinatolo gli rinfacciano: “I tuoi discepoli non si sono lavate le mani; i tuoi discepoli mangiano di sabato; i tuoi discepoli toccano persone impure; i tuoi discepoli non sono religiosi perché non rispettano tutte le leggi”. Ecco, questo è il loro grande assillo, il loro problema esistenziale! È naturale quindi che Gesù di fronte a tanta stupida superficialità si scateni. Diventa furibondo contro questi ottusi legalisti, questi “ipocriti”, questa gente che rispetta tutti i 613 precetti della legge soltanto per salvare le apparenze, per farsi belli di fronte agli altri. E si rivolge loro ruvidamente, gelidamente, quasi con rabbia: “Sono questi i vostri problemi vitali? Siete senza cuore, non avete anima, non avete ancora capito né percepito chi è davvero Dio, cosa vuole e a che cosa ci chiama tutti. Con le vostre stupide tradizioni e leggi vi fate soltanto compatire. Voi vi preoccupate di essere a posto, bravi, in perfetta regola davanti agli altri; io invece mi preoccupo dell’uomo, della sua anima, dell’amore, della vita. A voi interessano i precetti della legge, a me interessa l’uomo, le sue fatiche, le lacrime, le conquiste, i piccoli passi, le libertà conquistate. A voi interessano queste leggi perché siete prigionieri di voi stessi; a me interessa l’uomo perché sono libero. A voi interessa l’apparire; a me interessa l’essere”.
All’epoca la legge ebraica era ancora scrupolosamente rispettata da tutti. Il favore poi, di cui i farisei godevano tra i loro concittadini, era fuori discussione. Pertanto Gesù, criticandoli, si scaglia non solo contro di loro ma contro un sistema di valori, che era accettato e condiviso dall’intera popolazione. Ciò che Gesù dice è quindi contro la morale comune di allora; le sue parole, agli occhi delle autorità religiose sono altamente scandalose.
Del resto le regole dei farisei originariamente non erano stupide; è che nel corso dei secoli hanno perso il loro valore. Lavarsi le mani o rispettare il sabato aveva sicuramente un senso molto profondo. Era un modo per dire: “Devo avvicinarmi a Dio con le mani e soprattutto con il cuore puro; ritagliare un tempo, il sabato, di preghiera, di silenzio, di pace, per vivere ricordandomi che Dio è il signore del tempo e di ogni giorno. In quel giorno non farò niente non perché Dio voglia che io non faccia niente, ma perché nessun lavoro può essere paragonato a Dio”. Gesti che col tempo hanno perso la loro anima, si sono svuotati. Non hanno più significato, si continuano a fare perché si è sempre fatto così, perché si è stati abituati così.
Quando un gesto perde la sua anima, diventa automaticamente formale o “fondamentalista”. Un gesto esprime (o dovrebbe esprimere) un senso, un’anima, un sentimento del cuore; è la conseguenza di un impulso interiore, di ciò che abbiamo e proviamo dentro. Se perdiamo di vista l’obiettivo, se il nostro gesto non esprime più questa intenzione è inutile, è formale, sicuramente inutile e spesso falso.
I farisei dunque erano perfetti, digiunavano più del necessario e non trasgredivano nessuna regola. Ma questa loro osservanza, questa “purezza” esteriore decretava la loro impurità, poiché si ritenevano gli unici ad essere amati da Dio, e quindi rispettabili: loro soltanto erano in regola, tutti gli altri no!
Dobbiamo purtroppo ammettere che un certo residuo di questa mentalità è ancora oggi abbastanza diffuso nel nostro cristianesimo “moderno”. Ci preoccupiamo ancora molto del lato “esteriore” del nostro credere. Fino a qualche tempo fa i pastori seguivano scrupolosamente la prassi di “quantificare”, di “contabilizzare” tutto ciò che riguardava la vita cristiana, a volte trascurandone lo spirito; per esempio, la domanda classica che veniva rivolta al penitente in confessionale era: “Da quanto tempo non ti confessi?”, “Quante volte hai fatto quell’azione, o mancato ai tuoi doveri?”. Quindi alla fine la penitenza veniva commisurata al numero dei peccati e alla loro ripetitività. In proposito esistevano veri e propri prontuari. Cose che inconsciamente inducevano il credente a preoccuparsi più dei particolari “esteriori” che di provare autentico dolore per le proprie malefatte. I numeri imperavano e stabilivano i contenuti della fede: bisognava conoscere a menadito le 7 domande del Padre Nostro, i 10 comandamenti, le 14 opere di misericordia (7 spirituali e 7 corporali), i 7 sacramenti, le 5 parti o condizioni del sacramento della penitenza, i 7 peccati capitali, le 7 virtù teologali, le 4 virtù cardinali, i 5 sensi corporei, i 7 doni dello Spirito Santo e i loro 12 frutti, le 8 beatitudini, i 4 novissimi, i 15 misteri del rosario, ecc. ecc. In una parola era fondamentale conoscere e seguire pedissequamente le prescrizioni del catechismo.
Oggi tutto è stato spazzato via da uno tsunami: conoscenze complementari e mnemoniche al pari di verità dottrinali fondamentali; tutto è sfumato, dimenticato, superato, sparito. Oggi i sacramenti, l’Eucaristia, la Confessione, hanno perduto il loro valore, il loro significato affascinante e salutare. L’individuo è l’unico referente della propria vita cristiana: tutto è stato affidato alla sua sensibilità, alla sua coscienza, per cui tutto è relativo, condizionato, valido solo “ad personam”. Tanto, Dio è misericordia assoluta, e assicura alla condotta di tutti una totale sanatoria postuma.
Una teoria e una prassi non meno ipocrite del legalismo farisaico di allora, tanto condannato da Gesù!
Il vangelo di oggi ci sottolinea pertanto una cosa fondamentale: che il nostro credere non deve mai fermarsi all’esterno, la nostra fede non deve esprimersi mai a beneficio dell’apparire; non dobbiamo preoccuparci dell’esteriorità, perché la bontà, la convinzione, la sincerità, la rettitudine del nostro comportamento dipende esclusivamente dall’interno, dal nostro animo, dall’intenzione, dalla volontà con cui facciamo le cose.
Per questo è importante saper leggere di volta in volta il nostro cuore: sentiamo che è pieno di rancore, di rabbia, di odio, di invidia, di gelosia? Allora dobbiamo fare attenzione, perché il “male” radicato dentro di noi, una volta all’esterno, condizionerà i nostri rapporti con gli altri seminando altro male. Sentiamo invece dentro di noi felicità, voglia di vivere, entusiasmo, fiducia, amore, bisogno di aprirci, di donarci agli altri? Allora tutto quello che faremo non potrà che essere positivo. Il nostro mondo, la nostra vita, saranno sempre pieni di demoni, se dentro di noi avremo demoni. Saranno sempre affidabili, pieni di gioia e di bellezza se dentro il nostro cuore regnerà l’amore. Perché quello che ci rende giusti non è quello che entra dentro di noi, ma quello che ne esce.
Gesù è stato chiaro: “Tutto dipende dal tuo cuore” perché “Ciò che hai dentro è la tua vita o la tua morte”. Amen.


giovedì 23 agosto 2018

26 Agosto 2018 – XXI Domenica del Tempo Ordinario


«Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo [le sue parole], disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono» (Gv 6,60-69).

Giovanni nel vangelo di oggi ci descrive la reazione avuta dai presenti subito dopo aver udito le parole sconvolgenti di Gesù: “Io sono il pane vivo e se uno non mangia di questo pane non avrà la vita... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui”.
Molti di quelli che lo seguivano, i “superficiali”, i semplici curiosi, già se n’erano andati: erano talmente scollegati dalla loro interiorità, dalle emozioni, da loro stessi, che mai sarebbero stati in grado di capire quelle parole, di metabolizzare quei concetti: “Mangiare la carne di un uomo? ma cosa dice costui?” Parole effettivamente astruse per chi non entra nel loro significato; parole di Dio, invece, per chi entra. Parole stupide e senza senso per chi è morto dentro; parole di vita eterna per chi è vivo. In ogni caso parole difficili.
Anche i discepoli, pur avendo capito il senso del discorso, gli dicono: “Gesù, questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”. Cioè: sono bei concetti, ma chi può capirli, seguirli, dar loro retta, metterli in pratica? E Gesù di rimando: “È vero. Ma dovete capire che se vi limitate ad applaudirmi, a dirmi che parlo bene, a lodarmi, il vostro seguirmi non serve a niente! L’unica cosa che conta è che dovete cambiare vita! Queste belle parole, come dite voi, non servono a nulla se rimangono solo parole; sono un niente se non diventano la vostra vita, la vostra carne, il vostro sangue”. Parole che non hanno bisogno di chiarimenti.
A questo punto, però, è molto importante che poniamo delle serie domande a noi stessi, cercando di dare una risposta leale e concreta: “Perché noi discepoli moderni di Gesù, che andiamo sempre a Messa, non cambiamo mai? Perché pur pregando spesso siamo sempre gli stessi? Perché abbiamo tanta paura di guardarci dentro? Perché la nostra vita spirituale non fa mai un passo in avanti? Perché continuiamo a fare quello che ci fa comodo, invece di sforzarci di seguire le parole di Gesù con maggior impegno e fedeltà?
Non fermiamoci alle solite giustificazioni, inutili e inconcludenti: “vorrei ma non posso”, “non ho tempo per queste cose in quanto molto impegnato nel lavoro”, “mi piacerebbe ma non ci riesco”, “ci provo sempre, ma è troppo impegnativo per me”! Solo soltanto delle scuse: cerchiamo piuttosto, una buona volta, di essere sinceri e onesti con noi stessi! Guardiamo ai fatti: se in noi non cambia mai nulla, vuol dire semplicemente che quanto facciamo non ci tocca, ci scivola addosso, i nostri propositi, le nostre messe, le nostre preghiere sono soltanto delle belle abitudini, delle iniziative carine, ma che si esauriscono in fretta come un fuoco di paglia che produce solo cenere; siamo cioè dei cristiani fasulli, completamente inaffidabili; abbiamo una fede asfittica, senza vigore, che non ci tocca intimamente, non ci scalfisce, non ci sconvolge, che ci lascia completamente indifferenti.
Molta gente va in chiesa, ed è contenta di andarci, perché poi “si sente bene”; molte persone pregano e pregano anche tanto: molte persone pensano spesso a Dio ed esprimono dei concetti religiosi molto profondi. Ma rimangono solo concetti, iniziative… e questo non basta: Gesù non sa che farsene di queste cose se investono solo la nostra area esteriore, se non si trasformano in vita vissuta.
Abbiamo visto che su questo è molto chiaro, addirittura duro: “È lo Spirito che dà la vita, la carne (l’esteriorità) non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”.
In altre parole: “Perché continuate a venire qui, se poi siete sempre gli stessi? Se mi amaste, vi trasformereste. Se non lo fate, è perché preferite vivere di “chiacchiere”, di belle omelie su Dio; di liturgie che sono come dei pii teatrini, privi di fede e di amore per me. Se è questo che volete, potete anche andarvene!”.
“Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6,66).
Una constatazione amara che colpisce come un ceffone in pieno viso anche noi, discepoli superficiali, che viviamo di apparenza. Dobbiamo renderci conto che la fede cristiana non consiste nello scuotere le corone del rosario in chiesa, non è esibirsi nel fare elemosina, non è partecipare a tutti i gruppi possibili di alta spiritualità carismatica, non è un “bla, bla, bla”, un battere le mani o dimenarsi; “avere fede”, “vivere da cristiani”, significa al contrario cambiare radicalmente il nostro carattere, il nostro modo di sentire (cuore), i nostri pensieri (mente), il nostro progetto di vita (anima), l’intera nostra personalità.
Dobbiamo essere decisi. Non come quei pochi discepoli rimasti vicini a Gesù, ma scossi, tentennanti, dubbiosi, indecisi: al punto che Egli, bruscamente, quasi spazientito, senza troppi giri di parole, improvvisamente chiede: “Volete andarvene anche voi?” (6,67). Apparentemente li tratta male: eppure gli apostoli erano la sua casa, i suoi amici, i suoi “partner”. Ma Gesù non accetta neppure da loro, l’indifferenza, l’indecisione di chi non ha coraggio di “mettere mano all’aratro”. Egli esige un rapporto basato sulla libertà, sulla sincerità. Un aut aut coraggioso il suo: “Siete liberi di rimanere o di andarvene”. Non usa particolari strategie per trattenerli: né sensi di colpa, né il suo fascino, né il suo potere, né la manipolazione, né l’adulazione, ecc.
A questo punto, però, il solito Pietro, impulsivo e passionale, sbotta: “Ma Signore da chi vuoi che andiamo? Chi altri mai troveremo in grado di darci quello che ci dai tu?”.
L’economia, il mondo, la società, ci possono dare soldi e benessere, ma non possono darci la felicità dell’anima, la sensazione di essere vivi, la passione, la vitalità.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. La giustizia e la magistratura possono darci sentenze, ma solo tu sai cosa c’è nel cuore dell’uomo. Tu solo conosci la vera giustizia e la verità.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. La famiglia può darci amore e affetto, gioia e unione, ma nessun amore può spegnere la nostra sete del tuo amore infinito, della tua approvazione. Solo tu puoi amarci di un amore incondizionato. Lo psicologo, l’analista, possono migliorare le nostre relazioni, possono curare e rimarginare le ferite della nostra mente. Ma poi, altri dolori, altre ferite, altri dispiaceri si accumulano nella nostra anima, nel nostro cuore.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?” Chi è sempre disponibile ad ascoltarci? Chi può asciugare in ogni istante le nostre lacrime? Chi è sempre pronto a sorreggerci? Quando sbagliamo, quando combiniamo guai terribili, da chi possiamo ogni volta ricorrere certi di essere accolti? Chi ci può dire: “Io ti perdono, va’ in pace, tutto è cancellato, ricomincia da capo come una creatura nuova”? Quando “scantoniamo”, quando inganniamo noi stessi per paura di affrontare la realtà, sei Tu che ci riporti in noi stessi; sei Tu che permetti ai casi della vita di costringerci a farlo. Per fortuna ci sei Tu! Chi altro può dirci: “Va bene così”, in modo da farci sentire accolti, a nostro agio, anche se non siamo perfetti? Chi altro può dirci: “Ci sono io”, così da sentirci sempre seguiti, accompagnati, soprattutto quando non sappiamo dove andare? Chi altro può dirci: “Non aver paura”, quando siamo paralizzati dal terrore? Solo Tu, Signore. Solo Tu hai parole di vita eterna! Da chi altro possiamo andare? Amen.




giovedì 16 agosto 2018

19 Agosto 2018 – XX Domenica del Tempo Ordinario


“In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Gv 6,51-58).

Giovanni ha scritto un vangelo diverso dagli altri; più che sugli avvenimenti che riguardavano la persona di Gesù, la sua attenzione era concentrata sulle sue parole, sugli insegnamenti. Egli ha lungamente “ragionato” su questi elementi, ha voluto capirli, interpretarli, dare loro un senso, spiegarli, applicarli alla nostra vita: per questo il suo è un vangelo talvolta difficile da capire, un vangelo eminentemente spirituale; egli parla da “mistico”, fa teologia piuttosto che cronistoria.
A lui, per esempio, non interessa neppure il fondamentale racconto dell’ultima cena: tant’è che non riporta alcun particolare dei preparativi, del luogo dove avviene, della sua ambientazione storica; egli è concentrato esclusivamente sul celebre discorso del Pane di vita, sul significato di questo cibo particolare, sul senso e sulle implicazioni che esso doveva avere sulla vita spirituale dei discepoli presenti e su quella di ogni suo discepolo futuro. Dal suo vangelo risulta che Gesù ha sì celebrato con i suoi discepoli un rito pasquale di saluto, di offerta e di memoria, prima di accomiatarsi da questo mondo (ultima cena); ma ciò che emerge dal suo racconto, è soprattutto la preoccupazione di far capire l’importanza che Egli ha attribuito a questo cibo e quindi la necessità per tutti i discepoli futuri di accettare il suo invito a reiterare lo stesso suo rito, facendone “memoria”, cibandosi e cibando gli altri, di quel pane di vita che è Gesù stesso.
Questo modo introspettivo di porsi di fronte agli eventi, diventa fondamentale anche per noi. Nella nostra vita ci succedono ogni giorno tante cose, più o meno importanti. Ebbene, se noi ci fermiamo solo all’esterno di ciò che ci succede, alla crosta storica, se rimaniamo solo in superficie, non entreremo mai dentro la vita, alla nostra vita, quando invece è fondamentale per noi cogliere il senso profondo di ciò che ci accade, capire dove la vita vuole farci andare.
Allora niente rimane più senza senso, perché in questo modo acconsentiamo alla Vita (Dio) di insegnarci ciò che ci deve insegnare, e a noi di capire, di imparare ad essere suoi discepoli.
Vivendo così nulla ci sarà estraneo, incomprensibile, scandalizzante, inaccettabile: tutto diventerà parte della nostra vita, potremo accogliere ogni esperienza, ogni incontro, ogni persona. Perfino i fatti più tragici, come le malattie e la morte, pur rimanendo tragici, avranno comunque un senso, qualcosa da dirci e da farci capire, diventeranno maestri per la nostra vita.
È chiaro che i Giudei non capiscono le parole di Gesù; soprattutto non sanno percepire il vero significato del termine “carne: “Ma come può costui darci da mangiare la sua carne?”. I suoi stessi discepoli gli diranno: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”.
Ora, mangiare la “sarx” di Gesù, la sua carne, per Giovanni significa “cambiare vita”: introdurre dentro di noi la sua “carne” significa adottare il suo stesso stile di vita, diventare altri Cristi, abbandonare i vecchi modelli di comportamento, i nostri schemi antichi e perversi; vuol dire relazionarci con gli altri in maniera completamente nuova, più sana, più accogliente, più caritatevole. “Nutrirsi di Gesù” significa insomma far entrare Dio nelle pieghe e nelle fibre della nostra esistenza.
“Mangiare la carne”, “bere il sangue”: quando Gesù pronuncia queste parole sa perfettamente di irritare, scandalizzare, provocare rifiuto, contrasto, disapprovazione. Perché allora Giovanni le riporta così fedelmente? Perché vede lontano: vuole in pratica mettere in guardia la Chiesa di ogni tempo da quel genere di spiritualismo “disincarnato”, anche oggi tornato tanto di moda. Egli riporta volutamente queste espressioni così forti per proporci plasticamente quello che deve essere il nostro impatto con Cristo, con la sua Parola, con il suo “Lieto annuncio”: dobbiamo cioè “mangiarlo”, adottando le stesse fasi del naturale processo digestivo: nel senso di masticarlo, triturarlo, frantumarlo, per poi digerirlo, metabolizzarlo. Dobbiamo cioè, questa è la cosa essenziale, di assimilare, di assorbire, di fare nostri lo stile, il cuore e la mente di Gesù. Di “trasformarlo” nella nostra vita.
In pratica Giovanni ci avverte: “Fai attenzione tu che vai a prendere l’Eucarestia domenicale; per il fatto che ricevi il corpo di Cristo, non vuol dire che mangi veramente la carne di Gesù”. In altre parole ci dice che se il corpo di Cristo non ci trasforma, non ci altera, nel senso che ci rende altri, diversi da quelli che siamo; se non scuote i nostri modi di vivere e di pensare, se non ci mette in discussione con noi stessi, possiamo mangiare tutte le Eucarestie che vogliamo, ma non mangeremo mai la “carne di Cristo”. Troppo riduttivamente nella Chiesa è stata identificata la carne di Cristo con l’ostia domenicale. Il che è vero, verissimo, ma troppo spesso siamo ben lontani dal pensarlo; questa “carne di Cristo” rappresenta per noi un semplice simbolismo, non la “mangiamo”, non provoca in noi l’incontro decisivo e trasformante in Lui. Per noi “credenti” tutto è diventato puro formalismo!
Eppure, grazie alla preghiera della comunità, al dono dello Spirito e all'imposizione delle mani di un prete (talvolta purtroppo lui stesso inconsapevole del potere che ha), Gesù nella Messa si rende cibo, si rende carne viva per noi.
Per questo dobbiamo essere lì; per questo dobbiamo radunarci, perché, affamati, abbiamo urgente bisogno di saziare il cuore, di illuminare il cammino, e soprattutto di credere, senza ambiguità, senza ritrosia; dobbiamo credere con tutto il cuore e con tutta l'anima che noi mangiamo il corpo di Cristo, quel corpo “risorto”, quel corpo uscito dal sepolcro la mattina di Pasqua, vittorioso sulla corruzione e la morte. Noi mangiamo questo corpo, perché è di Dio, e Dio è infinito, dovunque, al di fuori del tempo e dello spazio, inesauribile, presente nella sua interezza in ogni frammento di pane e in ogni goccia di vino consacrati.
Nella Messa domenicale noi ci nutriamo pertanto di Gesù risorto; è un pezzo di risurrezione che entra e cresce dentro di noi: una cosa straordinaria! La Messa non dà soltanto qualcosa di buono, di santo, di grande: la Messa ci trasforma, ci “fa essere”. Ci fa diventare direttamente Cristo risorto.
Certo, partecipare a certe Messe nelle nostre chiese non è che aiuti poi tanto la crescita della nostra fede: sono Messe “stanche”, non entusiasmano, non edificano, non coinvolgono, sono troppo superficiali, “esteriori”; le viviamo con un senso di abitudine e di noia, sbirciando di nascosto l’orologio. Inutile scandalizzarci, strapparci le vesti, non è un’eresia! Nelle nostre celebrazioni quello che soprattutto manca è purtroppo l’entusiasmo di una fede vissuta: spesso in chi presiede, sempre nella stragrande maggioranza di noi “cristiani” presenti.
Eppure noi per primi dovremmo fare di quella Cena il cuore della settimana, lo stimolo per la nostra vita; per primi dovremmo far diventare le nostre Eucarestie un capolavoro di autenticità, di bellezza, di lode, un incontro irrinunciabile con Cristo.
“Carne e sangue”, in questo modo, non saranno più termini esagerati: non lo saranno perché passeremo attraverso l'esperienza unica che Gesù propone; non lo saranno perché avvertiremo il vincolo profondissimo di amore che egli nutre nei nostri confronti: e in Lui nulla è eccessivo.
Purtroppo noi non crediamo, la nostra fede è posticcia, disancorata dalla vita; siamo ancora troppo lontani dalla vera fede: sissignori, proprio noi: noi malati di possesso, di accumulo, di sicurezze, di garanzie; noi, che viviamo sul crinale dell’idolatria, che rischiamo di dimenticare il significato della parola “gratuità” e cavalchiamo la logica del tornaconto; noi, che permettiamo alla pubblicità di plasmare i nostri bisogni, per poi correre di domenica ai nuovi “templi” commerciali per il gusto di saziarli; noi, che non sappiamo più nemmeno chiamare per nome i sentimenti che ci abitano, che siamo analfabeti del cuore e balbuzienti dello Spirito. Proprio noi che ci professiamo cristiani, non abbiamo più fede! “Sono cristiano ma non praticante!”. Risposta idiota, che lascia trasparire un’ignoranza totale del problema!
Oggi Gesù ci invita a nutrirci di Lui, a nutrirci di Amore, della Sua carne e del Suo sangue, dono totale di sé stesso nelle mani del Padre, dono perpetuo della Sua Pasqua. Nutrirci di Lui per capire finalmente e credere che “la carne che dona vita eterna” è quella offerta per amore, e non quella conservata “sotto vuoto”; che la gratuità è il ritmo cardiaco della felicità; che solo Dio sazia l’insaziabile desiderio di amore che ci abita. Viviamo da uomini vivi, viviamo da risorti con Cristo e in Cristo.
Purtroppo quante persone incontriamo che sono dei morti viventi; vivono anagraficamente, ma in pratica sono morti: non si commuovono più, il loro cuore è diventato duro come una pietra, non sanno più piangere, non provano più tenerezza, più amore, più dolore per nulla, sono sterili, senza sentimenti, sono maschere prive di qualunque emozione. “Che fine ha fatto la loro vita?”.
Giorgio Faletti, comico, scrittore e cantautore scomparso nel 2014, in una sua canzone diceva: “Che la morte mi colga vivo”. Già, che la morte ci colga vivi! Non si tratta quindi di essere in vita ma di essere vivi. Amen.