giovedì 13 settembre 2018

16 Settembre 2018 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario


“E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere” (Mc 8,27-35).

Il viaggio verso Gerusalemme è iniziato, e durante il cammino che lo porta nei villaggi intorno a Cesarea di Filippo, Gesù parla con i suoi discepoli. Egli Sa di essere “qualcuno” per la gente; sa di essere sulla bocca di moltissime persone; sa che in giro si parla molto di lui; è naturale quindi che il discorso cada sulla sua persona, sull’opinione che la gente ha di lui.
“Chi dice la gente (letteralmente “gli uomini”) che io sia?”.
Ed ecco la risposta: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri uno dei profeti” (Mc 8,28).
Ora, se per gli scribi, per i capi del Tempio, per i farisei, Gesù è un demonio, un belzebù, un “posseduto”, per le persone umili che lo hanno avvicinato, è un profeta, un uomo buono, uno “in gamba”. Non sanno bene chi egli sia, ma per loro è decisamente un personaggio carismatico; anche se non hanno capito la grande novità della sua missione, lo considerano comunque uno all’altezza dei grandi profeti.
Ma Gesù non si accontenta delle chiacchiere, vuole andare più a fondo, vuol sapere quello che “loro” pensano di lui, se almeno loro lo hanno veramente capito, e riformula la domanda: “Ma voi chi dite che io sia?”. Essi infatti erano stati testimoni oculari dei suoi miracoli; ad essi egli aveva più volte parlato di sé e della sua missione. Ora vuole una verifica.
Prontamente interviene “o Petròs”, il Pietro: Marco, quando lo chiama così, con l’articolo, lo fa per evidenziare la sua testardaggine, la sua ottusità; quando invece vuol indicare l’apostolo che crede, l’innamorato di Gesù, lo chiama con entrambi i suoi nomi: “Simon Pietro” è pertanto l’apostolo che ama, che crede, anche se la sua fede non è ancora perfetta, se è ancora dubbiosa; “il Pietro” invece, è la pietra, l’ostinato, colui che vuole imporre a tutti le sue idee, e quindi è ostile, contrario, anche con Gesù.
Da notare che Gesù si era rivolto a tutti (“Voi chi dite...”) ma è lui che prende la parola, parla e sentenzia per tutti. Si fa portavoce del pensiero altrui, considerandolo a priori condiviso con il suo.
Egli dunque è convinto di sapere, di aver capito tutto, e dice: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). “Cristo” in greco, “Messia” in ebraico, hanno lo stesso significato: entrambi vogliono dire “l’unto, il consacrato”.
Qui però si impone una considerazione: Pietro doveva sapere perfettamente che il Messia, per gli ebrei, mai si sarebbe contaminato con la gente comune, con il popolino, con gli emarginati. Ora, gli era successo di vedere Gesù accompagnarsi normalmente con questa gente? Sì. Lo aveva visto toccare i lebbrosi? Sì. Lo aveva visto guarire in terra pagana, quando invece il Messia avrebbe dovuto combatterli e distruggerli i pagani? Sì. Aveva visto parlare Gesù con le donne? Sì. Aveva visto Gesù sedere con i peccatori? Sì. Ebbene, nonostante tutto ciò Pietro non aveva capito: egli era stato testimone di queste cose, aveva visto con i suoi occhi le fondamentali diversità tra come doveva essere il Messia biblico e come si comportava Gesù, senza che neppure un minimo dubbio si insinuasse nella sua mente. Egli infatti aveva sì guardato tutto con gli occhi, ma non con quelli del cuore: e se non viene toccato il cuore, si è convinti di vedere bene quando invece si è ciechi.
Alla domanda di Gesù, dunque, Pietro ripete letteralmente l’appellativo tradizionale del Messia ebraico (l’unto, il Cristo), dimostrando chiaramente in questo modo di non conoscerlo, di non saper spiegare chi egli fosse realmente. Per Pietro il Cristo, il Messia, rimane colui che divide i buoni dai cattivi, gli ebrei dai non ebrei, i meritevoli dai non meritevoli: ma un Messia così è totalmente l’opposto di Gesù, il Figlio di Dio che insegna e pratica l’amore per tutti.
Egli infatti continua a definirsi semplicemente il “Figlio dell’Uomo”, non il Cristo, non il Messia.
Ma cosa vuol dire con questo titolo? Figlio dell’Uomo è un’espressione per dire l’Uomo veramente umano. Un’espressione sconvolgente. Gesù, Figlio di Dio, lui stesso Dio, non si identifica come il Cristo, il Messia, l’unto delle Scritture, ma semplicemente come “uomo”, “un figlio d’Uomo”.
Un grande insegnamento per noi: “Vuoi essere divino? Sii umano, completamente umano”. Noi pensiamo che per essere divini sia necessario essere santi, perfetti, “in-umani”. Ma qual è invece il “modello di Dio” che Gesù personalmente ci ha documentato? Forse il santo, il puro, il sacerdote, il levita, l’incontaminato? No: ma il samaritano eretico che si prende cura dell’uomo ferito (Lc 10,29-37). L’essere “divino” pertanto non è assolutamente proporzionale a quanto preghiamo, ma a quanto sappiamo prenderci cura dell’umano.
Nei vangeli non troviamo mai un Gesù che fa la carità, l’elemosina. Troviamo invece di continuo un Gesù che guarisce, che si prende cura delle persone. Umanità, amore, che non sono assistenza ma: “Mi prendo cura di te. Voglio cioè che tu sia il tesoro, la perla, il meglio che tu possa immaginare”.
In pratica quindi non ci limiteremo a spiegare ai nostri fratelli quant’è bello, quant’è appagante il Cielo; ma insegneremo loro come lo possono raggiungere agevolmente con le loro ali, per goderlo all’infinito. Non esibirsi in grandi disquisizioni teologiche, dunque, ma praticare umilmente la carità: questo è l’amore vero, autentico.
Per molte persone amare significa invece possedere l’altro. Cioè: “Ti amo perché sei come me, pensi come me, ti comporti esattamente come me; ti amo perché stai con me, sei legato a me, mi riami e sei d’accordo in tutto con me”. Ma questo non è l’amore: l’amore è volere sinceramente il bene, il meglio per l’altro, chiunque egli sia, qualunque sia il suo pensiero.
Dopo la dichiarazione di Pietro, Gesù comunica agli apostoli le grandi tappe della sua missione redentrice: Egli cioè “doveva soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Sul “soffrire molto” in passato si è costruita una spiritualità, una “imitazione” di Cristo, molto rigida e impegnativa. Qualcuno è arrivato a dire che Gesù è stato mandato da Dio soltanto per espiare i nostri peccati, soffrendo in maniera disumana. Nella sua opera redentrice sono state messe in risalto soprattutto le strazianti sofferenze di un Dio, oltraggiato come un delinquente, condannato a morire sul patibolo della croce, piuttosto che l’immenso atto d’amore di un Padre che ha sacrificato il suo Figlio amatissimo per restituire all’uomo la sua originale dignità; lo stesso amore che Cristo ha portato sulla terra, lasciandolo in eredità a noi, come unico esempio di Vita.
Però dopo tre giorni Egli sarebbe risuscitato. Perché dopo tre giorni? Perché Gesù doveva aspettare tre giorni? Dov’è stato in quei tre giorni? I “tre giorni” vanno interpretati con la cultura del tempo: per la mentalità giudaica infatti la morte avveniva dopo tre giorni. Per tre giorni l’anima del defunto era ancora presente e solo dopo tre giorni, quando il corpo cominciava a decomporsi e a perdere i suoi tratti fisionomici, sopraggiungeva la morte, definitivamente, senza speranza. Lazzaro di Betania infatti era morto già da quattro giorni all’arrivo di Gesù (Gv 11,39): da qui il disappunto dei parenti per il suo ritardo.
Resuscitare “dopo tre giorni” vuol dire allora che la morte, la sofferenza, il patibolo, legati alla vita terrena di Gesù, non hanno più alcun potere su di lui. Egli poteva soffrire, poteva essere condannato, poteva subire di tutto, ma in quanto Vita, una volta morto avrebbe vinto Lui, perché la Vita è e sarà sempre più forte di tutto. Quindi non si tratta di “tre giorni” riferiti al tempo, ma solo simbolici. Gesù non ha bisogno di tempo per risorgere: tre giorni è solo per dire che era veramente morto.
A questo punto che fa Pietro? Rimprovera Gesù! Da notare l’osservazione di Marco: “Lo prende in disparte” (Mc 8,32). Pietro parla a nome di tutti ma cerca di isolare Gesù per impedire che gli altri sentano i loro discorsi e si scandalizzino: “No, caro Gesù, soltanto tu pensi che le cose stiano così. Il Messia non è come dici tu! Qui ti sbagli!”. Egli dimostra qui tutta la sua ostinazione, la sicurezza di un presuntuoso: “Io so come stanno le cose; sei tu, caro Gesù, che devi ascoltare me”.
Ma Gesù gli risponde a tono, rimettendolo seccamente nei ranghi: “Mettiti dietro a me Satana”.
In pratica Pietro e Gesù litigano e se ne dicono di santa ragione. “Tu non capisci niente”, dice Pietro. “Io, non capisco niente? Ma sei tu l’omuncolo che non riesce ad andare oltre il pensiero degli uomini! Sei semplicemente come Satana”. Nella Bibbia Satana è l’oppositore, l’avversario per definizione, colui che in tribunale rappresenta l’accusa; qui Pietro è un satana perché si oppone a Gesù, ai suoi piani di salvezza, gli sbarra la strada, lo vuole costringere a sottomettersi alla sua volontà. Per questo Gesù lo rimette immediatamente in riga: “Dietro di me”; doveva cioè rispettare esattamente l’ordine datogli al momento della chiamata: “Vieni e seguimi!”. È l’uomo che deve seguire Gesù, non il contrario.
Quindi rivolto ai discepoli e alla folla dice: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Un invito che in passato veniva posto a giustificazione di una spiritualità basata sulla sofferenza, per la quale seguire Gesù significava esaurirsi, distruggersi, punirsi, rinunciare a qualunque soddisfazione (“rinnegare sé stessi”) e quindi soffrire. Più si amava la sofferenza, più si amava la propria “croce”, più si era votati alla santità. Quindi per seguire Gesù era necessario rinunciare a tutte le cose belle e gratificanti della vita: ricchezze, comodità, divertimenti, viaggi, spettacoli, amore, coccole; bisognava rinunciare all’affermazione della propria personalità, annientare qualunque rigurgito di orgoglio, autodistruggersi, procedere con lo sguardo rivolto costantemente al suolo, consapevoli della propria nullità.
Ma questa non è la strada indicata da Gesù, non sta qui il Dio da seguire: il Dio da imitare, da raggiungere, è il Dio dell’uomo realizzato, dell’uomo nella pienezza della sua personalità, è il Dio della vita, della festa, della gioia, della felicità umana, dell’amore: Egli è venuto non per deprimere questa umanità, già così tanto caduta in basso, ma per esaltarla, per guarirla, per espanderla spiritualmente, per fortificarla.
Ma cosa significa allora “rinnegare sé stessi?”. Letteralmente, “dire di no”, rifiutarsi cioè di pensare come Pietro e gli apostoli, che vedevano in Gesù soltanto la possibilità di conquistare potere, prestigio, forza, autorità, benessere personale.
È il momento che prima o poi arriva puntualmente per tutti: una volta incontrato Gesù sulla propria strada, una volta trovata la Vita, trovato Colui che ci riempie l’anima, dobbiamo decidere se accettare il suo invito speciale, se seguirlo oppure no, valutando dubbi, paure, tornaconti umani, progetti di vita; perché una volta deciso, non possiamo più tornare indietro. Dobbiamo avere il coraggio di trasformare il nostro “destino” in una scelta di vita ben ponderata, matura, libera. Sono infatti le decisioni ferme, convinte, sofferte, che determinano la qualità della nostra vita. È il nostro decidere che ne inizia la formazione, la realizzazione passo dopo passo: perché siamo convinti che quella e null’altra è la “nostra” strada. Soprattutto per la vita “consacrata” (preti, frati, suore) scegliere un percorso così impegnativo, voler seguire una “vocazione” così vincolante e selettiva, senza una scelta ponderata, una decisione consapevole, convinta, significa votarsi ad un fallimento assicurato; significa procedere trascinandosi ai margini della vita. “Pretendere” poi un sovvertimento del Vangelo per poter tornare sui propri passi, sconfessare la propria decisione, tradire la bellezza di una scelta iniziale entusiasmante, è sinonimo di insipienza, di immaturità, di caducità mentale.
Del resto, qualunque decisione implica sempre una rinuncia; la vita ci prospetta una vasta gamma di possibilità, alle quali dobbiamo in gran parte rinunciare. Non possiamo fare tutto, e quindi dobbiamo accantonare ciò che riteniamo superfluo, non importante, vitale, e scegliere ciò che invece giudichiamo essenziale, ciò per cui merita veramente di vivere.
Per trovare la Vita vera, dobbiamo perdere “questa vita”, questo modo di pensare, di concepire il mondo. Per seguire Gesù dobbiamo essere disposti a lasciare tutte le nostre certezze terrene, i nostri affetti fuorvianti, le nostre paure, i nostri appigli, i nostri riferimenti limitati. Per seguirlo, in una parola, dobbiamo “lasciare tutto” (Lc 5,11). Per vivere il nuovo dobbiamo lasciare il vecchio. Per trovare la vita vera, dobbiamo lasciare quella falsa. Amen!


giovedì 6 settembre 2018

9 Settembre 2018 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario


“E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!” (Mc 7,31-37).

Dopo aver constatato la preconcetta chiusura mentale degli scribi e dei farisei nei confronti della sua Parola, come ci ha testimoniato Marco nel vangelo di domenica scorsa, Gesù volta loro le spalle e se ne va. La sua è una decisione esemplare: non intende farsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. È un uomo assolutamente libero Gesù. Non tiene in alcun conto ciò che le persone rappresentano (la posizione sociale, i loro titoli, il loro alto rango, la loro autorità), siano pure “sacerdoti del tempio”, dotti scribi o pii farisei. Ai suoi occhi tutti quelli che lo seguono sono semplicemente “persone”. Ciò che a lui preme, ciò che lo colpisce, non è il livello sociale, ma il cuore dell’uomo, i sentimenti che ognuno ha dentro di sé. Per cui, di fronte ai meschini attacchi degli “eletti”, Gesù cambia territorio, si trasferisce in terra pagana, a Tiro e Sidone.
Ed è proprio qui, non tra gli eletti ebrei, che Egli incontra una fede esemplare.
Un fenomeno abbastanza comune anche oggi: è più facile imbattersi in una fede genuina e profonda tra i non credenti, che tra le persone che si professano “religiose”: la religione infatti può essere professata anche solo mediante pratiche di pietà esteriori, che non coinvolgono l’adesione della mente e del cuore; la fede assolutamente no: la fede è quella profonda convinzione interiore che guida il nostro agire, determina le nostre opere; la fede è ciò che viviamo dentro, è la fiducia che abbiamo nella Vita, quella Vita che ossigena continuamente il nostro cuore; è l’Amore che pulsa e scorre nelle nostre vene.
Dunque qui, in terra “straniera”, Gesù rimane sorpreso da tanta fede, e la premia: dapprima guarisce la figlia di una donna pagana “siro-fenicia”; quindi, commosso dalla fiducia degli accompagnatori, restituisce la parola ad un sordomuto.
È lui, dunque, il beneficiario della bontà divina, come ci narra il vangelo di oggi.
Ebbene, in che modo possiamo noi ritrovarci in quel sordomuto? Quali riferimenti per la nostra vita possiamo trarre da questo episodio?
Dobbiamo leggerlo soltanto come una conferma della bontà e della bravura di Gesù nel guarire ogni tipo di malattia, anche tra i pagani, oppure è un formale invito a metterci seriamente in discussione?
Chiediamoci prima di tutto: chi è un sordomuto? Per dire sordomuto Marco usa qui due termini: κωφος (kòfos) che vuol dire ottuso, spento, senza energia, sordo, insensibile, stolto, pazzo; e μογιλαλος (moghilàlos) che invece indica uno con difficoltà di parola, balbettante, uno che tartaglia, che non parla perché ha difficoltà a farlo correttamente. Molto probabilmente quindi non alluderebbe tanto ad un sordo totale fin dalla nascita, ma di qualcuno che ha perso gradualmente la sua facoltà di sentire e, riferito a noi, uno che è diventato incapace di “sentirsi”. Ora, spiritualmente parlando, chi è sordo è sempre muto, assente: perché solo se “ci sentiamo”, se siamo “collegati” con noi stessi, possiamo esprimere qualcosa di noi.
Ecco allora che se ci scopriamo “scollegati”, se non ci sentiamo più, è arrivato il momento di “scuoterci” scrupolosamente, di aprirci, di riscoprire quello che siamo e abbiamo dentro. Fuggiamo dal “rumore” assordante di un mondo che ci stordisce l’anima. Il silenzio, il raccoglimento, sono infatti i presupposti per la nostra crescita spirituale.
Alcuni pagani portano dunque davanti a Gesù questo poveretto e lo pregano di “imporgli la mano”. Non hanno le idee chiare, non gli chiedono espressamente di guarirlo: a loro basta che Gesù lo “tocchi”. Ancora una volta dei pagani dimostrano di avere più fede dei religiosi ebrei.
E Gesù premia la loro fiducia. Come sempre Egli non fa distinzione tra osservanti e infedeli, ma interviene con la sua grazia beneficiando chiunque, purché dotato di una fede umile e sincera.
Questo deve confortarci: perché anche se non siamo completamente “di chiesa”, anche se i nostri rapporti con la religione sono un po’ conflittuali, anche se nella nostra vita ci siamo allontanati da Lui, se siamo “tiepidi”, non praticanti, Egli è comunque sempre disponibile a guarirci, a perdonarci, a sanare le fratture della nostra vita: su questo non dobbiamo avere incertezze, pregiudizi, diffidenze. Se ci avviciniamo umilmente e gli diciamo di fidarci di Lui, Gesù ci salva, ci guarisce; e lo fa non perché gli mostriamo l’etichetta di “cristiani”, ma perché gli dimostriamo di avere fede in Lui, di essere dispiaciuti per come siamo, di volerci risollevare dalle nostre miserie, di confidare completamente e sinceramente nel suo amore. Di questo dobbiamo essere convinti; su questo deve poggiare ogni nostra sicurezza.
A questo punto cosa fa Gesù con il sordomuto? Per prima cosa lo trascina “lontano dalla folla”.
Nei vangeli succede spesso che Gesù porti il malato lontano dalla folla, in disparte, nella solitudine: nella guarigione della figlia di Giairo, deve cacciare fuori di casa tutta la gente che urla e che sbraita a causa della sua morte; prende con sé solo il padre, la madre e alcuni suoi discepoli (Mc 5,40); nel caso del paralitico, che non può raggiungere Gesù col suo lettino a causa della grande ressa, alcuni lo calano dall’alto nella stanza dove Lui si trova (Mc 2,4); il ragazzo epilettico viene guarito prima che la gente accorra da Gesù (Mc 9,25); al cieco di Betsaida, dopo averlo guarito, ordina di “non entrare nel villaggio” (Mc 8,22); l’emoroissa, che tocca il mantello di Gesù di nascosto protetta dalla calca della gente, è costretta a venire fuori dall’anonimato, dalla folla, e mettersi in gioco: “Chi mi ha toccato?” (Mc 5,30). E via dicendo.
Quando uno è immerso nella folla, non è nessuno, è uno dei tanti, è anonimo. Gesù, invece, fa sempre uscire i malati dalla folla, li individua, li fa venire avanti, li mette al centro.
Egli non vuole l’anonimato; tutti devono avere la loro identità, devono essere “qualcuno”, avere un nome; bisogna cioè essere sé stessi. La folla sono i condizionamenti dell’ambiente circostante, sono i giudizi impietosi delle persone vicine, che magari amiamo pure. Finché rimarremo succubi dei loro pregiudizi, delle loro valutazioni, non potremo mai guarire, non potremo venirne fuori, non potremo ascoltarci, essere noi stessi. La folla, in questo modo, ci impedisce di agire liberamente, di fare le nostre scelte, di seguire le nostre aspirazioni per paura che qualcuno ci disapprovi, per paura di rendere scontento qualcuno, di farci rifiutare da qualcuno.
Non è un caso che nella nostra società si faccia abuso di anestetizzanti, di psicofarmaci; non è un caso che la gente sia sempre di corsa, non si fermi mai, segua sempre un ritmo convulso; non è un caso che non sappia più fare silenzio, che la vita scorra nel rumore più assordante. Sono tutte cose che servono a non farci “sentire”, a non farci pensare: perché in fondo in fondo noi abbiamo paura di misurarci con la nostra coscienza.
Per questo motivo, anche in questo caso, Gesù porta l’uomo lontano dalla folla: “Tu non sei uno dei tanti. Tu sei tu. Riprenditi la tua vita. Mostra chi sei, non vergognarti di te, del tuo volto!”: e, prima di tutto, gli tocca le orecchie con le dita: deve cioè aprirgliele materialmente, deve stappargliele, deve eliminare qualunque diaframma che ostacoli un perfetto ascolto, una percezione minuziosa e totale. Poi gli tocca la lingua con la saliva. Deve scioglierla per consentirgli di parlare, di esprimersi, di “dirsi”. In altre parole Gesù lo invita a tirar fuori tutto quello che ha dentro, la sua gioia, la sua rabbia, il suo dolore, le sue emozioni. Deve raccontarsi. Deve vincere la paura di essere giudicato, di essere rifiutato, deriso. Deve insomma tirar fuori la sua personalità autentica.
Quindi, con gli occhi rivolti al cielo, Gesù impartisce al sordomuto un ordine secco e perentorio: “Apriti”; Gesù cioè lo scuote, lo strattona; è quasi arrabbiato con lui per la sua tranquilla chiusura in sé stesso, per il suo disinteresse a voler tornare a sentire, a parlare, a vivere. Gli va bene così, è soddisfatto della sua condizione: da qui l’urlo di Gesù per svegliarlo dal suo letargo, per spaccare quella corazza di indifferenza in cui egli si è rinchiuso.
Quante volte Gesù deve urlare per svegliarci, per scuoterci dal nostro sonno, dal nostro torpore!
E quante altrettante volte noi, puntualmente, lasciamo risuonare a vuoto il suo invito: “Apriti… apriti! Dà una dimensione alla tua vita, fa entrare in te il nuovo, vivi, canta, proclama a tutti che Dio è amore. Ricordati che rimanere chiuso, sordo e muto, significa per te morire”.
“Apriti!”: di fronte a tale imperativo evitiamo di ripetere “Non ce la faccio!”: non è vero che non ce la facciamo, abbiamo soltanto paura di andare incontro a delusioni, di soffrire, e non ci rendiamo conto che rimanendo chiusi, serrati, isolati, siamo destinati a subire insoddisfazioni e sofferenze ben più gravi.
“Apriti!”: facciamolo! Perché condannarci a portare nel cuore pesanti massi e pietre strazianti? Perché privarci della gioia e dell’intensità dell’Amore di Dio soltanto per paura di soffrire? Apriamo la nostra mente, leggiamo, impariamo, frequentiamo corsi di studio, facciamo nuove esperienze. Non fermiamoci dicendo: “Questo mi basta”. Non dobbiamo aver paura di perdere le nostre vecchie idee, di doverle cambiare, di doverle verificare.
“Apriti!”: differenziamo i nostri discorsi. Non parliamo sempre delle solite cose: il tempo, i prezzi, la salute, il cibo, le cose da fare, il calcio, la politica, ecc. Parliamo di noi, di quello che sentiamo dentro, di quello che pensiamo veramente. Allarghiamo le nostre amicizie. Incontriamo persone nuove, stili di vita diversi: ascoltiamo e impariamo. Non temiamo di fare nuove esperienze di vita. Oggi i giovani (e non soltanto!) sono perennemente assenti, inebetiti dallo smanettare convulso sul loro cellulare, totalmente assorti in chat insulse, in puerili giochetti elettronici, come se al mondo non ci fosse null'altro da vedere, da pensare o da fare: preferiscono rimanere sclerotizzati piuttosto che aprirsi a ben più infiniti e luminosi orizzonti.
“Apriti!”. “E perché no?”: questo dovremmo rispondere all’invito costante, quasi assillante, di Gesù; perché se non saremo noi ad aprirci, nessuno potrà farlo mai! Eppure ne varrebbe decisamente la pena, perché dentro di noi giacciono ricchezze inimmaginabili, un potenziale dal valore incalcolabile del quale, rimanendo chiusi, nessuno mai potrà usufruirne: con la nostra apatia scegliamo di rimanere un tesoro inutile per noi e per gli altri. Infatti se non ci apriamo, chi potrà mai amarci? Chi potrà condividere con noi i suoi progetti, le sue aspirazioni? Se non ci apriamo, siamo destinati a vivere una vita che non ci appartiene, vivere sotto mentite spoglie, con un altro nome! Rischiamo di venire considerati la persona che non siamo! Se non ci apriamo, non approderemo mai a nulla, saremo amorfi, un niente: esattamente dei morti viventi. Amen.


giovedì 30 agosto 2018

2 Settembre 2018 – XXII Domenica del Tempo Ordinario


“Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”. (Mc 7,1-8.14-15.21-23).

Dopo la lunga parentesi in cui abbiamo meditato per intero il sesto capitolo del vangelo di Giovanni, riprendiamo la lettura di Marco che ci accompagnerà fino alla conclusione di quest’anno liturgico. Per meglio comprendere l’assurdità dell’episodio che Marco oggi ci propone, dobbiamo necessariamente rifarci ai fatti che immediatamente lo precedono: Gesù ha appena vissuto tre esperienze fortissime in prossimità del lago di Tiberiade.
La prima sulla riva: molta gente lo seguiva perché “erano come pecore senza pastore” (6,34). Avevano lasciato casa, lavori, campi e si erano perfino disinteressati del cibo pur di ascoltarlo. E proprio per loro Gesù opera la moltiplicazione dei pani; Egli si trova dunque di fronte ad una gran folla di persone assettate, affamate, che vogliono sapere, che vogliono nutrirsi, che vogliono mangiare cibo di vita.
La seconda durante la traversata del lago: i suoi discepoli sono angosciati per il forte vento e non riescono a remare. Gesù va loro incontro camminando sulle acque. I discepoli sono talmente terrorizzati da scambiarlo per un fantasma. Ma Gesù dice: “Coraggio sono io, non abbiate paura” (6,47-52): Gesù sente, percepisce la paura, il terrore dei suoi amici: il terrore di affondare nelle acque impetuose, il terrore nel vederlo, il terrore nel vedere e nel sentire cose straordinarie che non riescono a metabolizzare.
La terza esperienza è dopo l’approdo sulla riva opposta del lago: la gente lo riconosce e lungo tutto il suo passaggio una folla di malati e paralitici, solo toccando il suo mantello, improvvisamente “venivano salvati” (6,53-56): Gesù percepisce in tutta quella gente il dolore della malattia, della sofferenza, dei loro limiti, dei loro condizionamenti.
Gesù insomma si sente immerso nella vita, è attorniato da gente che vive ai margini dell’esistenza umana, dove la miseria scorre, dove si soffre, dove si cerca disperatamente di sopravvivere: dove si piange, ci si dispera, dove ci si rialza, dove, insomma, si vivono intensamente sentimenti di pathos, di dolore, di sofferenza, di angoscia.
E mentre Gesù vive dentro di sé queste esperienze, calandosi nella disperazione della folla che lo pressa da ogni parte, alcuni farisei e scribi si fanno largo e avvicinatolo gli rinfacciano: “I tuoi discepoli non si sono lavate le mani; i tuoi discepoli mangiano di sabato; i tuoi discepoli toccano persone impure; i tuoi discepoli non sono religiosi perché non rispettano tutte le leggi”. Ecco, questo è il loro grande assillo, il loro problema esistenziale! È naturale quindi che Gesù di fronte a tanta stupida superficialità si scateni. Diventa furibondo contro questi ottusi legalisti, questi “ipocriti”, questa gente che rispetta tutti i 613 precetti della legge soltanto per salvare le apparenze, per farsi belli di fronte agli altri. E si rivolge loro ruvidamente, gelidamente, quasi con rabbia: “Sono questi i vostri problemi vitali? Siete senza cuore, non avete anima, non avete ancora capito né percepito chi è davvero Dio, cosa vuole e a che cosa ci chiama tutti. Con le vostre stupide tradizioni e leggi vi fate soltanto compatire. Voi vi preoccupate di essere a posto, bravi, in perfetta regola davanti agli altri; io invece mi preoccupo dell’uomo, della sua anima, dell’amore, della vita. A voi interessano i precetti della legge, a me interessa l’uomo, le sue fatiche, le lacrime, le conquiste, i piccoli passi, le libertà conquistate. A voi interessano queste leggi perché siete prigionieri di voi stessi; a me interessa l’uomo perché sono libero. A voi interessa l’apparire; a me interessa l’essere”.
All’epoca la legge ebraica era ancora scrupolosamente rispettata da tutti. Il favore poi, di cui i farisei godevano tra i loro concittadini, era fuori discussione. Pertanto Gesù, criticandoli, si scaglia non solo contro di loro ma contro un sistema di valori, che era accettato e condiviso dall’intera popolazione. Ciò che Gesù dice è quindi contro la morale comune di allora; le sue parole, agli occhi delle autorità religiose sono altamente scandalose.
Del resto le regole dei farisei originariamente non erano stupide; è che nel corso dei secoli hanno perso il loro valore. Lavarsi le mani o rispettare il sabato aveva sicuramente un senso molto profondo. Era un modo per dire: “Devo avvicinarmi a Dio con le mani e soprattutto con il cuore puro; ritagliare un tempo, il sabato, di preghiera, di silenzio, di pace, per vivere ricordandomi che Dio è il signore del tempo e di ogni giorno. In quel giorno non farò niente non perché Dio voglia che io non faccia niente, ma perché nessun lavoro può essere paragonato a Dio”. Gesti che col tempo hanno perso la loro anima, si sono svuotati. Non hanno più significato, si continuano a fare perché si è sempre fatto così, perché si è stati abituati così.
Quando un gesto perde la sua anima, diventa automaticamente formale o “fondamentalista”. Un gesto esprime (o dovrebbe esprimere) un senso, un’anima, un sentimento del cuore; è la conseguenza di un impulso interiore, di ciò che abbiamo e proviamo dentro. Se perdiamo di vista l’obiettivo, se il nostro gesto non esprime più questa intenzione è inutile, è formale, sicuramente inutile e spesso falso.
I farisei dunque erano perfetti, digiunavano più del necessario e non trasgredivano nessuna regola. Ma questa loro osservanza, questa “purezza” esteriore decretava la loro impurità, poiché si ritenevano gli unici ad essere amati da Dio, e quindi rispettabili: loro soltanto erano in regola, tutti gli altri no!
Dobbiamo purtroppo ammettere che un certo residuo di questa mentalità è ancora oggi abbastanza diffuso nel nostro cristianesimo “moderno”. Ci preoccupiamo ancora molto del lato “esteriore” del nostro credere. Fino a qualche tempo fa i pastori seguivano scrupolosamente la prassi di “quantificare”, di “contabilizzare” tutto ciò che riguardava la vita cristiana, a volte trascurandone lo spirito; per esempio, la domanda classica che veniva rivolta al penitente in confessionale era: “Da quanto tempo non ti confessi?”, “Quante volte hai fatto quell’azione, o mancato ai tuoi doveri?”. Quindi alla fine la penitenza veniva commisurata al numero dei peccati e alla loro ripetitività. In proposito esistevano veri e propri prontuari. Cose che inconsciamente inducevano il credente a preoccuparsi più dei particolari “esteriori” che di provare autentico dolore per le proprie malefatte. I numeri imperavano e stabilivano i contenuti della fede: bisognava conoscere a menadito le 7 domande del Padre Nostro, i 10 comandamenti, le 14 opere di misericordia (7 spirituali e 7 corporali), i 7 sacramenti, le 5 parti o condizioni del sacramento della penitenza, i 7 peccati capitali, le 7 virtù teologali, le 4 virtù cardinali, i 5 sensi corporei, i 7 doni dello Spirito Santo e i loro 12 frutti, le 8 beatitudini, i 4 novissimi, i 15 misteri del rosario, ecc. ecc. In una parola era fondamentale conoscere e seguire pedissequamente le prescrizioni del catechismo.
Oggi tutto è stato spazzato via da uno tsunami: conoscenze complementari e mnemoniche al pari di verità dottrinali fondamentali; tutto è sfumato, dimenticato, superato, sparito. Oggi i sacramenti, l’Eucaristia, la Confessione, hanno perduto il loro valore, il loro significato affascinante e salutare. L’individuo è l’unico referente della propria vita cristiana: tutto è stato affidato alla sua sensibilità, alla sua coscienza, per cui tutto è relativo, condizionato, valido solo “ad personam”. Tanto, Dio è misericordia assoluta, e assicura alla condotta di tutti una totale sanatoria postuma.
Una teoria e una prassi non meno ipocrite del legalismo farisaico di allora, tanto condannato da Gesù!
Il vangelo di oggi ci sottolinea pertanto una cosa fondamentale: che il nostro credere non deve mai fermarsi all’esterno, la nostra fede non deve esprimersi mai a beneficio dell’apparire; non dobbiamo preoccuparci dell’esteriorità, perché la bontà, la convinzione, la sincerità, la rettitudine del nostro comportamento dipende esclusivamente dall’interno, dal nostro animo, dall’intenzione, dalla volontà con cui facciamo le cose.
Per questo è importante saper leggere di volta in volta il nostro cuore: sentiamo che è pieno di rancore, di rabbia, di odio, di invidia, di gelosia? Allora dobbiamo fare attenzione, perché il “male” radicato dentro di noi, una volta all’esterno, condizionerà i nostri rapporti con gli altri seminando altro male. Sentiamo invece dentro di noi felicità, voglia di vivere, entusiasmo, fiducia, amore, bisogno di aprirci, di donarci agli altri? Allora tutto quello che faremo non potrà che essere positivo. Il nostro mondo, la nostra vita, saranno sempre pieni di demoni, se dentro di noi avremo demoni. Saranno sempre affidabili, pieni di gioia e di bellezza se dentro il nostro cuore regnerà l’amore. Perché quello che ci rende giusti non è quello che entra dentro di noi, ma quello che ne esce.
Gesù è stato chiaro: “Tutto dipende dal tuo cuore” perché “Ciò che hai dentro è la tua vita o la tua morte”. Amen.


giovedì 23 agosto 2018

26 Agosto 2018 – XXI Domenica del Tempo Ordinario


«Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo [le sue parole], disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono» (Gv 6,60-69).

Giovanni nel vangelo di oggi ci descrive la reazione avuta dai presenti subito dopo aver udito le parole sconvolgenti di Gesù: “Io sono il pane vivo e se uno non mangia di questo pane non avrà la vita... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui”.
Molti di quelli che lo seguivano, i “superficiali”, i semplici curiosi, già se n’erano andati: erano talmente scollegati dalla loro interiorità, dalle emozioni, da loro stessi, che mai sarebbero stati in grado di capire quelle parole, di metabolizzare quei concetti: “Mangiare la carne di un uomo? ma cosa dice costui?” Parole effettivamente astruse per chi non entra nel loro significato; parole di Dio, invece, per chi entra. Parole stupide e senza senso per chi è morto dentro; parole di vita eterna per chi è vivo. In ogni caso parole difficili.
Anche i discepoli, pur avendo capito il senso del discorso, gli dicono: “Gesù, questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”. Cioè: sono bei concetti, ma chi può capirli, seguirli, dar loro retta, metterli in pratica? E Gesù di rimando: “È vero. Ma dovete capire che se vi limitate ad applaudirmi, a dirmi che parlo bene, a lodarmi, il vostro seguirmi non serve a niente! L’unica cosa che conta è che dovete cambiare vita! Queste belle parole, come dite voi, non servono a nulla se rimangono solo parole; sono un niente se non diventano la vostra vita, la vostra carne, il vostro sangue”. Parole che non hanno bisogno di chiarimenti.
A questo punto, però, è molto importante che poniamo delle serie domande a noi stessi, cercando di dare una risposta leale e concreta: “Perché noi discepoli moderni di Gesù, che andiamo sempre a Messa, non cambiamo mai? Perché pur pregando spesso siamo sempre gli stessi? Perché abbiamo tanta paura di guardarci dentro? Perché la nostra vita spirituale non fa mai un passo in avanti? Perché continuiamo a fare quello che ci fa comodo, invece di sforzarci di seguire le parole di Gesù con maggior impegno e fedeltà?
Non fermiamoci alle solite giustificazioni, inutili e inconcludenti: “vorrei ma non posso”, “non ho tempo per queste cose in quanto molto impegnato nel lavoro”, “mi piacerebbe ma non ci riesco”, “ci provo sempre, ma è troppo impegnativo per me”! Solo soltanto delle scuse: cerchiamo piuttosto, una buona volta, di essere sinceri e onesti con noi stessi! Guardiamo ai fatti: se in noi non cambia mai nulla, vuol dire semplicemente che quanto facciamo non ci tocca, ci scivola addosso, i nostri propositi, le nostre messe, le nostre preghiere sono soltanto delle belle abitudini, delle iniziative carine, ma che si esauriscono in fretta come un fuoco di paglia che produce solo cenere; siamo cioè dei cristiani fasulli, completamente inaffidabili; abbiamo una fede asfittica, senza vigore, che non ci tocca intimamente, non ci scalfisce, non ci sconvolge, che ci lascia completamente indifferenti.
Molta gente va in chiesa, ed è contenta di andarci, perché poi “si sente bene”; molte persone pregano e pregano anche tanto: molte persone pensano spesso a Dio ed esprimono dei concetti religiosi molto profondi. Ma rimangono solo concetti, iniziative… e questo non basta: Gesù non sa che farsene di queste cose se investono solo la nostra area esteriore, se non si trasformano in vita vissuta.
Abbiamo visto che su questo è molto chiaro, addirittura duro: “È lo Spirito che dà la vita, la carne (l’esteriorità) non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”.
In altre parole: “Perché continuate a venire qui, se poi siete sempre gli stessi? Se mi amaste, vi trasformereste. Se non lo fate, è perché preferite vivere di “chiacchiere”, di belle omelie su Dio; di liturgie che sono come dei pii teatrini, privi di fede e di amore per me. Se è questo che volete, potete anche andarvene!”.
“Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6,66).
Una constatazione amara che colpisce come un ceffone in pieno viso anche noi, discepoli superficiali, che viviamo di apparenza. Dobbiamo renderci conto che la fede cristiana non consiste nello scuotere le corone del rosario in chiesa, non è esibirsi nel fare elemosina, non è partecipare a tutti i gruppi possibili di alta spiritualità carismatica, non è un “bla, bla, bla”, un battere le mani o dimenarsi; “avere fede”, “vivere da cristiani”, significa al contrario cambiare radicalmente il nostro carattere, il nostro modo di sentire (cuore), i nostri pensieri (mente), il nostro progetto di vita (anima), l’intera nostra personalità.
Dobbiamo essere decisi. Non come quei pochi discepoli rimasti vicini a Gesù, ma scossi, tentennanti, dubbiosi, indecisi: al punto che Egli, bruscamente, quasi spazientito, senza troppi giri di parole, improvvisamente chiede: “Volete andarvene anche voi?” (6,67). Apparentemente li tratta male: eppure gli apostoli erano la sua casa, i suoi amici, i suoi “partner”. Ma Gesù non accetta neppure da loro, l’indifferenza, l’indecisione di chi non ha coraggio di “mettere mano all’aratro”. Egli esige un rapporto basato sulla libertà, sulla sincerità. Un aut aut coraggioso il suo: “Siete liberi di rimanere o di andarvene”. Non usa particolari strategie per trattenerli: né sensi di colpa, né il suo fascino, né il suo potere, né la manipolazione, né l’adulazione, ecc.
A questo punto, però, il solito Pietro, impulsivo e passionale, sbotta: “Ma Signore da chi vuoi che andiamo? Chi altri mai troveremo in grado di darci quello che ci dai tu?”.
L’economia, il mondo, la società, ci possono dare soldi e benessere, ma non possono darci la felicità dell’anima, la sensazione di essere vivi, la passione, la vitalità.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. La giustizia e la magistratura possono darci sentenze, ma solo tu sai cosa c’è nel cuore dell’uomo. Tu solo conosci la vera giustizia e la verità.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. La famiglia può darci amore e affetto, gioia e unione, ma nessun amore può spegnere la nostra sete del tuo amore infinito, della tua approvazione. Solo tu puoi amarci di un amore incondizionato. Lo psicologo, l’analista, possono migliorare le nostre relazioni, possono curare e rimarginare le ferite della nostra mente. Ma poi, altri dolori, altre ferite, altri dispiaceri si accumulano nella nostra anima, nel nostro cuore.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?” Chi è sempre disponibile ad ascoltarci? Chi può asciugare in ogni istante le nostre lacrime? Chi è sempre pronto a sorreggerci? Quando sbagliamo, quando combiniamo guai terribili, da chi possiamo ogni volta ricorrere certi di essere accolti? Chi ci può dire: “Io ti perdono, va’ in pace, tutto è cancellato, ricomincia da capo come una creatura nuova”? Quando “scantoniamo”, quando inganniamo noi stessi per paura di affrontare la realtà, sei Tu che ci riporti in noi stessi; sei Tu che permetti ai casi della vita di costringerci a farlo. Per fortuna ci sei Tu! Chi altro può dirci: “Va bene così”, in modo da farci sentire accolti, a nostro agio, anche se non siamo perfetti? Chi altro può dirci: “Ci sono io”, così da sentirci sempre seguiti, accompagnati, soprattutto quando non sappiamo dove andare? Chi altro può dirci: “Non aver paura”, quando siamo paralizzati dal terrore? Solo Tu, Signore. Solo Tu hai parole di vita eterna! Da chi altro possiamo andare? Amen.




giovedì 16 agosto 2018

19 Agosto 2018 – XX Domenica del Tempo Ordinario


“In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Gv 6,51-58).

Giovanni ha scritto un vangelo diverso dagli altri; più che sugli avvenimenti che riguardavano la persona di Gesù, la sua attenzione era concentrata sulle sue parole, sugli insegnamenti. Egli ha lungamente “ragionato” su questi elementi, ha voluto capirli, interpretarli, dare loro un senso, spiegarli, applicarli alla nostra vita: per questo il suo è un vangelo talvolta difficile da capire, un vangelo eminentemente spirituale; egli parla da “mistico”, fa teologia piuttosto che cronistoria.
A lui, per esempio, non interessa neppure il fondamentale racconto dell’ultima cena: tant’è che non riporta alcun particolare dei preparativi, del luogo dove avviene, della sua ambientazione storica; egli è concentrato esclusivamente sul celebre discorso del Pane di vita, sul significato di questo cibo particolare, sul senso e sulle implicazioni che esso doveva avere sulla vita spirituale dei discepoli presenti e su quella di ogni suo discepolo futuro. Dal suo vangelo risulta che Gesù ha sì celebrato con i suoi discepoli un rito pasquale di saluto, di offerta e di memoria, prima di accomiatarsi da questo mondo (ultima cena); ma ciò che emerge dal suo racconto, è soprattutto la preoccupazione di far capire l’importanza che Egli ha attribuito a questo cibo e quindi la necessità per tutti i discepoli futuri di accettare il suo invito a reiterare lo stesso suo rito, facendone “memoria”, cibandosi e cibando gli altri, di quel pane di vita che è Gesù stesso.
Questo modo introspettivo di porsi di fronte agli eventi, diventa fondamentale anche per noi. Nella nostra vita ci succedono ogni giorno tante cose, più o meno importanti. Ebbene, se noi ci fermiamo solo all’esterno di ciò che ci succede, alla crosta storica, se rimaniamo solo in superficie, non entreremo mai dentro la vita, alla nostra vita, quando invece è fondamentale per noi cogliere il senso profondo di ciò che ci accade, capire dove la vita vuole farci andare.
Allora niente rimane più senza senso, perché in questo modo acconsentiamo alla Vita (Dio) di insegnarci ciò che ci deve insegnare, e a noi di capire, di imparare ad essere suoi discepoli.
Vivendo così nulla ci sarà estraneo, incomprensibile, scandalizzante, inaccettabile: tutto diventerà parte della nostra vita, potremo accogliere ogni esperienza, ogni incontro, ogni persona. Perfino i fatti più tragici, come le malattie e la morte, pur rimanendo tragici, avranno comunque un senso, qualcosa da dirci e da farci capire, diventeranno maestri per la nostra vita.
È chiaro che i Giudei non capiscono le parole di Gesù; soprattutto non sanno percepire il vero significato del termine “carne: “Ma come può costui darci da mangiare la sua carne?”. I suoi stessi discepoli gli diranno: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”.
Ora, mangiare la “sarx” di Gesù, la sua carne, per Giovanni significa “cambiare vita”: introdurre dentro di noi la sua “carne” significa adottare il suo stesso stile di vita, diventare altri Cristi, abbandonare i vecchi modelli di comportamento, i nostri schemi antichi e perversi; vuol dire relazionarci con gli altri in maniera completamente nuova, più sana, più accogliente, più caritatevole. “Nutrirsi di Gesù” significa insomma far entrare Dio nelle pieghe e nelle fibre della nostra esistenza.
“Mangiare la carne”, “bere il sangue”: quando Gesù pronuncia queste parole sa perfettamente di irritare, scandalizzare, provocare rifiuto, contrasto, disapprovazione. Perché allora Giovanni le riporta così fedelmente? Perché vede lontano: vuole in pratica mettere in guardia la Chiesa di ogni tempo da quel genere di spiritualismo “disincarnato”, anche oggi tornato tanto di moda. Egli riporta volutamente queste espressioni così forti per proporci plasticamente quello che deve essere il nostro impatto con Cristo, con la sua Parola, con il suo “Lieto annuncio”: dobbiamo cioè “mangiarlo”, adottando le stesse fasi del naturale processo digestivo: nel senso di masticarlo, triturarlo, frantumarlo, per poi digerirlo, metabolizzarlo. Dobbiamo cioè, questa è la cosa essenziale, di assimilare, di assorbire, di fare nostri lo stile, il cuore e la mente di Gesù. Di “trasformarlo” nella nostra vita.
In pratica Giovanni ci avverte: “Fai attenzione tu che vai a prendere l’Eucarestia domenicale; per il fatto che ricevi il corpo di Cristo, non vuol dire che mangi veramente la carne di Gesù”. In altre parole ci dice che se il corpo di Cristo non ci trasforma, non ci altera, nel senso che ci rende altri, diversi da quelli che siamo; se non scuote i nostri modi di vivere e di pensare, se non ci mette in discussione con noi stessi, possiamo mangiare tutte le Eucarestie che vogliamo, ma non mangeremo mai la “carne di Cristo”. Troppo riduttivamente nella Chiesa è stata identificata la carne di Cristo con l’ostia domenicale. Il che è vero, verissimo, ma troppo spesso siamo ben lontani dal pensarlo; questa “carne di Cristo” rappresenta per noi un semplice simbolismo, non la “mangiamo”, non provoca in noi l’incontro decisivo e trasformante in Lui. Per noi “credenti” tutto è diventato puro formalismo!
Eppure, grazie alla preghiera della comunità, al dono dello Spirito e all'imposizione delle mani di un prete (talvolta purtroppo lui stesso inconsapevole del potere che ha), Gesù nella Messa si rende cibo, si rende carne viva per noi.
Per questo dobbiamo essere lì; per questo dobbiamo radunarci, perché, affamati, abbiamo urgente bisogno di saziare il cuore, di illuminare il cammino, e soprattutto di credere, senza ambiguità, senza ritrosia; dobbiamo credere con tutto il cuore e con tutta l'anima che noi mangiamo il corpo di Cristo, quel corpo “risorto”, quel corpo uscito dal sepolcro la mattina di Pasqua, vittorioso sulla corruzione e la morte. Noi mangiamo questo corpo, perché è di Dio, e Dio è infinito, dovunque, al di fuori del tempo e dello spazio, inesauribile, presente nella sua interezza in ogni frammento di pane e in ogni goccia di vino consacrati.
Nella Messa domenicale noi ci nutriamo pertanto di Gesù risorto; è un pezzo di risurrezione che entra e cresce dentro di noi: una cosa straordinaria! La Messa non dà soltanto qualcosa di buono, di santo, di grande: la Messa ci trasforma, ci “fa essere”. Ci fa diventare direttamente Cristo risorto.
Certo, partecipare a certe Messe nelle nostre chiese non è che aiuti poi tanto la crescita della nostra fede: sono Messe “stanche”, non entusiasmano, non edificano, non coinvolgono, sono troppo superficiali, “esteriori”; le viviamo con un senso di abitudine e di noia, sbirciando di nascosto l’orologio. Inutile scandalizzarci, strapparci le vesti, non è un’eresia! Nelle nostre celebrazioni quello che soprattutto manca è purtroppo l’entusiasmo di una fede vissuta: spesso in chi presiede, sempre nella stragrande maggioranza di noi “cristiani” presenti.
Eppure noi per primi dovremmo fare di quella Cena il cuore della settimana, lo stimolo per la nostra vita; per primi dovremmo far diventare le nostre Eucarestie un capolavoro di autenticità, di bellezza, di lode, un incontro irrinunciabile con Cristo.
“Carne e sangue”, in questo modo, non saranno più termini esagerati: non lo saranno perché passeremo attraverso l'esperienza unica che Gesù propone; non lo saranno perché avvertiremo il vincolo profondissimo di amore che egli nutre nei nostri confronti: e in Lui nulla è eccessivo.
Purtroppo noi non crediamo, la nostra fede è posticcia, disancorata dalla vita; siamo ancora troppo lontani dalla vera fede: sissignori, proprio noi: noi malati di possesso, di accumulo, di sicurezze, di garanzie; noi, che viviamo sul crinale dell’idolatria, che rischiamo di dimenticare il significato della parola “gratuità” e cavalchiamo la logica del tornaconto; noi, che permettiamo alla pubblicità di plasmare i nostri bisogni, per poi correre di domenica ai nuovi “templi” commerciali per il gusto di saziarli; noi, che non sappiamo più nemmeno chiamare per nome i sentimenti che ci abitano, che siamo analfabeti del cuore e balbuzienti dello Spirito. Proprio noi che ci professiamo cristiani, non abbiamo più fede! “Sono cristiano ma non praticante!”. Risposta idiota, che lascia trasparire un’ignoranza totale del problema!
Oggi Gesù ci invita a nutrirci di Lui, a nutrirci di Amore, della Sua carne e del Suo sangue, dono totale di sé stesso nelle mani del Padre, dono perpetuo della Sua Pasqua. Nutrirci di Lui per capire finalmente e credere che “la carne che dona vita eterna” è quella offerta per amore, e non quella conservata “sotto vuoto”; che la gratuità è il ritmo cardiaco della felicità; che solo Dio sazia l’insaziabile desiderio di amore che ci abita. Viviamo da uomini vivi, viviamo da risorti con Cristo e in Cristo.
Purtroppo quante persone incontriamo che sono dei morti viventi; vivono anagraficamente, ma in pratica sono morti: non si commuovono più, il loro cuore è diventato duro come una pietra, non sanno più piangere, non provano più tenerezza, più amore, più dolore per nulla, sono sterili, senza sentimenti, sono maschere prive di qualunque emozione. “Che fine ha fatto la loro vita?”.
Giorgio Faletti, comico, scrittore e cantautore scomparso nel 2014, in una sua canzone diceva: “Che la morte mi colga vivo”. Già, che la morte ci colga vivi! Non si tratta quindi di essere in vita ma di essere vivi. Amen.


giovedì 9 agosto 2018

12 Agosto 2018 – XIX Domenica del Tempo Ordinario


“In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: Io sono il pane disceso dal cielo. E dicevano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: Sono disceso dal cielo?” (Gv 6,41-51).

La protesta dei Giudei, la loro “mormorazione” nei confronti di Gesù, altro non è che un tentativo di manipolare, alterare, rendere diversa, quella che è la realtà, cercando di compromettere alla base la sua credibilità: “Ma costui non è il figlio del carpentiere? Conosciamo bene suo padre e sua madre, come può dire tali stupidaggini?”. Praticamente cercano di convincere loro stessi e gli altri che quanto egli dice non può essere vero. Per questo si agitano, mormorano e protestano.
Già la protesta: siamo tutti maestri in questo.
Basta che un nonnulla si scosti dai nostri parametri che immediatamente scatta la nostra reazione. Ma contro la realtà qualunque protesta è inutile: la realtà non si cambia, va accettata e vissuta.
Quando stiamo per protestare, dovremmo prima di tutto chiedercene il vero motivo, perché nella vita ci sono delle realtà inoppugnabili, indipendentemente dalla nostra comprensione e accettazione: per esempio che non siamo unici, che le persone non sono tutte uguali: ci sono quelle più sensibili, più intelligenti, più attraenti, più affascinanti di noi; ci sono persone decisamente “più” di noi in tutto; e questo non ci piace proprio, perché, anche se pubblicamente lo ammettiamo, in cuor nostro siamo sempre convinti di essere noi i migliori o quantomeno alla pari. Nel nostro egocentrismo siamo convinti di essere l’epicentro dell’universo, il perno su cui ruota il mondo intero. La realtà invece è che il mondo, la vita, l’universo, va avanti comunque anche senza di noi. Noi siamo soltanto un’insignificante goccia d’acqua nel mare, una piccola foglia in una foresta tropicale, una microscopica cellula dell’universo. Non ci piace ammetterlo, ma è così. Non siamo nessuno, siamo ininfluenti nello scorrere del tempo: vorremmo invece essere “qualcuno”, vorremmo che i posteri ci ricordassero con ammirazione, vorremmo essere nel cuore di tutta la gente, menzionati nei libri di storia. Ma tutto quanto facciamo, o abbiamo fatto, nel corso della nostra vita, sia in famiglia, che nel lavoro o nel sociale, tutto, dopo un po’, viene dimenticato. Chi vivrà dopo di noi, i nostri stessi figli, faranno scelte diverse dalle nostre, adotteranno strategie contrarie, e il mondo continuerà ad andare avanti come prima, o anche meglio di prima. È normale, è giusto che sia così.
Nella vita tutto inizia e tutto finisce, tutto si evolve troppo in fretta. Noi vorremmo che certi momenti particolari non finissero mai: come certe serate con i nostri cari, certi momenti di pace e serenità a contatto con la natura, le gioie dell’amore, il riabbracciare le persone care che ci stavano lontane. Invece no, tutto finisce, tutto passa. Tutto quello che da stolti pensavamo fosse eterno, si rivela poi caduco e provvisorio. La nostra stessa vita, il nostro “essere”, dipende dall’evolversi dell’età e delle cose. “Panta rei” dicevano gli antichi: tutto scorre, tutto è sfuggente, tutto è proiettato nel divenire, nel domani: il presente è l’attimo che appartiene già al passato, il tempo è uno scorrere implacabile di istanti inafferrabili.
Noi ne siamo condizionati, dominati; pensiamo di essere i protagonisti indiscussi, di essere noi a pianificare il futuro, a scegliere la nostra esistenza, le amicizie che vogliamo, il lavoro, la professione, la donna o l’uomo da sposare. E invece non è così. Non ci piace ma questa è la realtà! Tutti abbiamo bisogno degli altri. Vorremmo farne volentieri a meno, vorremmo essere completamente autonomi, gestori della prosperità, del benessere; vorremmo organizzare la nostra vita liberamente, senza alcuna interferenza, senza essere costretti a sorbirci il giudizio della gente, ad ascoltare ciò che pensano di noi. Vorremmo…
E, invece, ci ritroviamo deboli, insufficienti, incapaci, legati; talmente bisognosi degli altri, da non riuscire a stare da soli nemmeno pochi giorni della nostra vita; ci ritroviamo ad elemosinare compagnia e amore in mille modi, talvolta anche in maniera avvilente.
Ecco, queste sono le realtà contro cui non possiamo nulla, contro le quali la nostra “mormorazione” è inutile. Le vorremmo completamente diverse, come le immaginiamo, come ci piacciono. Ma le vicende della vita sono sempre diverse, più grandi di noi, indipendenti da noi. Abbiamo la pretesa di cambiarle, ma dobbiamo arrenderci. Quante volte esclamiamo angosciati: “Questo no! Questo non mi doveva capitare, Dio non me lo doveva fare!”. Dobbiamo imparare invece ad accettare le circostanze della vita come vengono, con serenità e rassegnazione, perché forse Dio, proprio attraverso di essi, vuole insegnarci ciò che dovremmo sapere, farci scoprire quella realtà che ci è più difficile accettare. La realtà, Dio, la Vita, sono più grandi di noi: avere fede, avere fiducia, significa accettarli, accoglierli, fidarci di loro e lasciarci portare. Perché tutto ha un senso anche se noi non lo capiamo.
Ma torniamo al vangelo: mentre dunque Gesù parla di un pane che scende dal cielo, i giudei non capiscono e mormorano: sono su un piano diverso, totalmente inconciliabile.
Un detto cinese dice: “Quando uno indica la luna con un dito, lo sciocco guarda il dito”.
È quanto succede ai Giudei: Gesù sta parlando di cose alte, elevate, profonde; sta rivelando suo Padre, il Dio vero, quello che sazia la fame, e loro non riescono ad andare oltre il dito. Per loro Gesù non può essere altro che il figlio di Giuseppe, il falegname; per loro il pane è solo quello di farina; per loro il cielo è solo quello che manda il sole e la pioggia; per loro Dio è solo uno da pregare perché faccia vincere i nemici e tenga lontane le disgrazie. Non capiscono che Dio è Amore, e che l’Amore è felicità.
Purtroppo, per gli uomini d’oggi, la felicità è “avere” qualcosa. Felicità per essi è avere denaro, ricchezze, una posizione socialmente superiore, un’abitazione sontuosa, essere stimati, invidiati, temuti. Stolti!
Non capiscono che felicità è poter sentire la Vita che li inabita, che cresce, che diviene, che si espande dentro di loro. Felicità è poter vivere serenamente quel che si è, essere consapevoli dei propri limiti, gustare le piccole conquiste quotidiane. Felicità è percepire al proprio fianco la presenza costante e amorevole di Dio.
Dio, invece, lo hanno ridotto ad una preghierina scaramantica da dire ogni tanto, un rito distratto da compiere, ma soprattutto una “rottura” da evitare, un impiccio di cui non sanno che farsene. Sono ciechi. Dio è Vita, è la sensazione di essere immersi in Qualcosa di più grande, di più profondo; è vivere l’esperienza divina di appartenere ad un di Più incalcolabile, di essere risucchiati da una corrente impetuosa che ci mette in salvo, al sicuro; è sentirsi amati nonostante le nostre continue meschinità; è sentirsi felici e fortunati di esistere, perché per questo Qualcuno ci ha regalato l’esistenza; è sentire che non dobbiamo mai temere alcunché, perché c’è un grande Abbraccio che ci sorregge e che ci difende da ogni pericolo.
Tutto nella nostra vita è importante. Prendiamo per esempio i figli: i figli, per molti, rappresentano il successo, la realizzazione della loro vita: se non li hanno, la vita non ha senso; se li hanno, devono essere obbedienti, devono diventare i migliori per renderli felici e non deluderli. Sono solo degli sprovveduti! I figli sono il dono che la vita ci fa per consentirci di esprimere l’amore che portiamo dentro; sono il “mezzo” per realizzare la nostra vita, sono il senso delle nostre giornate. Ma sono un mezzo, non il fine: sono uno stupore da vivere, una meraviglia da contemplare, una scuola di vita da cui imparare la gratuità (diamo senza avere aspettative), il distacco (li amiamo pur sapendo che se ne andranno), l’alterità (sono “altri”, diversi, opposti da noi), l’umiltà (ci fanno vedere le nostre debolezze, le nostre fragilità, i nostri difetti), ecc.; sono noi stessi proiettati nel futuro: ma non sono il “fine” della nostra vita.
E così per tutte le cose. Possiamo banalizzare qualunque cosa ci riguardi, possiamo rendere tutto insignificante o inutile, ma anche entusiasmante, profondo, divino. Dipende solo da noi!
Gesù poi dice: “Io sono il pane vivo”. Quindi c’è un pane vivo e c’è un pane morto: c’è un pane “vivo” che nutre l’anima, e un pane “morto” che nutre solo il corpo.
Quale dei due nutre veramente? Qual è insostituibile?”. Il pane era il cibo normale per gli antichi. Dire “pane” significava dire cibo, significa nutrirsi, sfamarsi; ogni giorno noi assumiamo cibo, ne abbiamo bisogno. Ma è sufficiente questo pane della terra a saziarci? O cerchiamo ancora qualcos’altro, qualcosa che soddisfi la nostra anima e il nostro cuore? Il cibo riempie il nostro stomaco, ma cos’è che riempie la nostra anima? Di cosa deve sfamarsi?
Ci siamo mai chiesti perché i maghi e le chiromanti sono sempre pieni di clienti? Perché gli studi dei terapeuti sono sempre stracolmi di persone? Perché siamo così depressi e alienati? Perché siamo così isterici, “schizzati”, tristi, depressi? Cos’è che ci manca? Semplicemente il pane che nutre la nostra anima.
La più grande fame dell’uomo è quella d’amore e noi non ne assumiamo a sufficienza. Siamo bisognosi d’amore. Abbiamo bisogno di essere amati, che qualcuno creda in noi, che qualcuno ci apprezzi, ci dia importanza e fiducia. Se non siamo amati, non siamo nessuno, non valiamo nulla: esserci o non esserci è la stessa cosa, vivere o morire non cambia nulla.
Le storie e le vicissitudini della gente sono le storie di uomini e donne che soffrono di enormi vuoti d’amore: senza che nessuno sia in grado di porvi rimedio. Quando ci capita di sentirci soli, chiamiamo un amico, qualcuno che ci faccia compagnia; quando ci sentiamo giù di morale, cerchiamo qualcuno che ci ascolti, che ci consoli. Ma quando sentiamo questa fame terribile di amore, niente e nessuno può saziarcela: l’unica soluzione è di agganciarci a Dio, di sentire che ci possiamo fidare di Lui, di percepire che Egli non ci lascerà mai soli, che non saremo mai dimenticati, che apparteniamo ad un Tutto che non finirà mai.
“Io sono il pane della vita”. Noi abbiamo un assoluto bisogno di questo pane disceso dal cielo, di questo pane Vero, di questo pane che nutre la parte migliore di noi stessi, la nostra parte divina, la nostra anima. È il pane dell’Amore: e noi, uomini deboli, abbiamo continuamente bisogno di mangiarlo, di riacquistare le nostre forze, il nostro coraggio, di sentire Qualcuno che ci rassicuri e ci ripeta: “Ti porto nel palmo delle mie mani, che hai da temere? Giammai ti lascerò cadere nel vuoto”. Amen.



giovedì 2 agosto 2018

5 Agosto 2018 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù rispose loro: In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo” (Gv 6,24-35).

Domenica scorsa abbiamo letto il miracolo della moltiplicazione dei pani. Oggi il vangelo ci racconta quel che è successo subito dopo: la folla, entusiasta di Gesù, vuol farlo re: egli ha moltiplicato il cibo all’infinito, li ha sfamati tutti; é uno che fa miracoli, uno potente, uno che può prendersi cura di loro; uno pertanto che deve essere assolutamente il loro capo.
A questo punto Gesù scappa, ma la gente lo insegue, continua a cercarlo ovunque, e lo ritrova sull’altra sponda del lago: lo vogliono loro re ad ogni costo, vogliono avere assicurato ogni giorno quel pane che li sazia.
Gesù questo l’ha capito bene, tant’è che li mette subito con le spalle al muro: “Voi mi cercate solo perché avete mangiato e vi siete saziati”; e aggiunge immediatamente: “Quello che dovete cercare però non è tanto il cibo materiale, ma il pane spirituale, quello che non perisce, quello che dura per la vita eterna”.
“Vita eterna”: in greco ci sono due modi per dire “vita”: il primo è “bios”, che indica la vita fisica, biologica, quella che inizia e finisce; il secondo è “zoè” che si riferisce alla vita interiore, alla vita spirituale, quella indistruttibile, senza fine, eterna. Ed è esattamente questo il termine che Giovanni fa dire qui da Gesù.
Ora, tutti sappiamo bene che se non mangiamo, se non nutriamo la nostra vita fisica (bios), moriamo. È una cosa naturale, ovvia. Ma è altrettanto naturale e ovvio che se non nutriamo la nostra vita interiore (zoè), la nostra anima muore. Semplice, elementare!
Eppure, quanti di noi si preoccupano oggi di nutrire la loro vita spirituale? A chi sta veramente a cuore? Se ci capita di interpellare le persone con un banale “Come stai?”, tutti, indistintamente, rispondono riferendosi alla salute, al lavoro, agli affari. E si fermano qui. Per loro la vita è una sola, quella fisica. Dimostrano di ignorare di avere un’anima. Oppure sanno benissimo di averla, ma non ci pensano, si vergognano di parlarne, hanno paura di ammettere qualunque riferimento con Dio, con il soprannaturale, perché conoscono bene i doveri e le problematiche che poi ne derivano.
Se però ad un certo punto della nostra vita, tutto sembra andare a rotoli, se la salute viene meno, se i nostri progetti di vita si infrangono, immediatamente ci lamentiamo con Dio, ci arrabbiamo con Lui, gli rinfacciamo la sua bontà e le sue promesse di costante aiuto. Cadiamo in depressione, piangiamo, ci sentiamo abbandonati da tutti e non riusciamo a dare un senso alla nostra vita. Soltanto che, invece di prendercela con Dio, dovremmo prendercela con noi stessi per aver dissipato il nostro tempo, per non aver seminato nulla di spirituale, di eterno; ci siamo occupati solo del nostro star bene, dei piaceri della vita, della carriera, del denaro, della gloria. Per Dio, per la nostra anima, non abbiamo fatto nulla, assolutamente nulla.
La vita spirituale non è a sé stante, autonoma, indipendente da noi: al contrario essa è strettamente subordinata alle nostre opere, alle nostre scelte: se non la coltiviamo, non la alimentiamo, non curiamo quel piccolo seme che Dio ha seminato in noi, essa morirà, si seccherà, la perderemo strada facendo. All’inizio c’era, è sbocciata con il soffio divino che ha generato la nostra vita, doveva crescere, irrobustirsi, doveva diventare la guida sicura nel nostro inutile vagabondare nel tempo, ma noi l’abbiamo ignorata: senza alcun nostro interesse, senza le nostre cure salutari, è deceduta, si è spenta.
Se causare la morte di qualcuno, ancorché involontariamente, lo riteniamo un dramma, una tragedia incalcolabile, perché causare la morte dell’anima, opponendoci a Dio di vivere in noi, non preoccupa ormai più nessuno? Forse che la morte spirituale è meno drammatica di quella corporale? Che l’essere esclusi dalla visione finale di Dio, dal suo amore eterno, è meno tragico?
Non facciamoci illusioni fuorvianti: anche se riuscissimo a raggiungere il massimo del benessere, anche se la nostra vita terrena fosse ai massimi vertici, privi di una concreta vita spirituale, continueremmo a non apprezzare nulla, ci sentiremmo incompleti, perennemente insoddisfatti, dei falliti. Nulla di questo mondo potrà mai appagarci, nulla riuscirà a soddisfarci completamente; non ci basta il tempo che abbiamo per vivere: cinquanta, settanta, novant’anni: quando saremo giunti al dunque, vorremo sempre altro tempo. La fine ci sembrerà sempre troppo prematura; la cruda realtà dei limiti umani, un’ingiustizia. Perché noi siamo stati pensati da Dio per l’eternità, per un tempo senza fine, per un mondo infinito “al di là” di questo. Non ci sarà mai in questo mondo abbastanza ricchezza che ci appaghi, che ci soddisfi. Più ne abbiamo, ancor più ne vorremmo: i soldi saranno sempre il nostro tarlo quotidiano, non ci basteranno mai. Se avessimo tutta la terra, vorremmo la luna; se avessimo la luna cercheremmo l’intero sistema solare; perché noi siamo fatti per godere di una ricchezza in grado di colmare la nostra anima e non le nostre case, le nostre tasche, i nostri conti bancari. Noi siamo fatti per una ricchezza che non passa mai, per la Ricchezza che resta.
Nessun successo sarà mai in grado di renderci veramente felici. Possiamo essere famosi, osannati, rispettati, emulati e applauditi. Possiamo far in modo che tutti dicano bene di noi. Possiamo essere dei “miti”, ma questo non basterà mai a renderci davvero felici. Abbiamo un bisogno costante di nuovi e più grandi successi, perché nell’intimo cerchiamo un’altra felicità: una Felicità che non è di questo mondo, che non possiamo raggiungere qui, poiché la nostra vita spirituale, quel seme dello Spirito che è dentro di noi, ci spinge continuamente all’eterno.
Poi, Gesù prosegue: “Credete in me, in colui che Dio ha mandato” (Gv 6,29).
La fede dei discepoli continua ad essere insicura, non sono ancora completamente convinti, hanno bisogno di ulteriori riscontri; per cui insistono: “Ma tu, quale segno ci dai per poterti credere?” (Gv 6,30).
Questo è il punto. I discepoli vogliono conferme, prove, altri segni. Chi ancora non crede, chiede miracoli, cerca all’esterno quella spinta, quell’impulso, che non trova dentro di sé; chiede cioè qualcosa di straordinario che lo convinca a credere, anzi che lo costringa a credere. Ma non capisce che Dio non vuole dei “costretti”, non gli interessa gente che crede perché non può farne a meno; egli non ama le persone “tappetino”: vuole uomini liberi, uomini che lo seguano non perché obbligati da una legge o affascinati da miracoli o visioni soprannaturali, ma perché lo amano, perché lo sentono palpitare vivo nel loro cuore.
Gesù è chiaro: il miracolo che mi chiedete, l’opera di Dio che voi volete imitare, è una sola: “che crediate in colui che egli ha mandato”. Tutto qui: “fides sufficit”, basta la fede in Dio; per fare “miracoli” non serve nient’altro. Una fede però che deve essere vera, profonda, autentica, animata dall’amore; perché solo così sarà possibile fare, in suo nome, opere “divine”, sensazionali. Niente esibizionismi funamboleschi, niente spettacoli da baraccone: il divino non si rivela su ordinazione, ad un nostro cenno; Gesù non sopporta le false commedie da palcoscenico. Se sono i miracoli che servono oggi nel mondo, se di “segni” c’è bisogno, siamo noi che dobbiamo diventare “miracoli” umani, “segni” viventi di Dio. Come? Credendo sul serio in Lui: aderendo a Lui, alla sua volontà, con una fede libera, sincera, convinta, espressione del nostro sincero e umile amore per Lui; una fede che deve essere il nostro sostentamento, quel cibo divino, quel “pane” quotidiano che unico può dare vigore alla nostra anima.
“Io sono quel pane”, dice Gesù. Ecco perché ogni giorno dobbiamo aver fame di lui, ogni giorno dobbiamo sentirne un bisogno assillante, ogni giorno dobbiamo avvertire la necessità vitale di rimangiarlo. Lui è sempre a nostra disposizione, continua ad aspettarci ogni giorno; la sua è un’offerta costante di amore, perché conosce questo nostro insaziabile bisogno di Lui.
Allora, ogni volta che ci accostiamo all’Eucaristia diciamogli: “Ti aspettavo, Gesù, ho bisogno di te!”, e sentiremo Lui che, entrando nel nostro cuore, ci risponderà dolcemente: “Sono qui solo per te, non vedevo l’ora di venire per aiutarti, per darti una mano, per amarti, per guarirti, per servirti, per tenerti stretto a me”. Amen.