giovedì 2 agosto 2018

5 Agosto 2018 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù rispose loro: In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo” (Gv 6,24-35).

Domenica scorsa abbiamo letto il miracolo della moltiplicazione dei pani. Oggi il vangelo ci racconta quel che è successo subito dopo: la folla, entusiasta di Gesù, vuol farlo re: egli ha moltiplicato il cibo all’infinito, li ha sfamati tutti; é uno che fa miracoli, uno potente, uno che può prendersi cura di loro; uno pertanto che deve essere assolutamente il loro capo.
A questo punto Gesù scappa, ma la gente lo insegue, continua a cercarlo ovunque, e lo ritrova sull’altra sponda del lago: lo vogliono loro re ad ogni costo, vogliono avere assicurato ogni giorno quel pane che li sazia.
Gesù questo l’ha capito bene, tant’è che li mette subito con le spalle al muro: “Voi mi cercate solo perché avete mangiato e vi siete saziati”; e aggiunge immediatamente: “Quello che dovete cercare però non è tanto il cibo materiale, ma il pane spirituale, quello che non perisce, quello che dura per la vita eterna”.
“Vita eterna”: in greco ci sono due modi per dire “vita”: il primo è “bios”, che indica la vita fisica, biologica, quella che inizia e finisce; il secondo è “zoè” che si riferisce alla vita interiore, alla vita spirituale, quella indistruttibile, senza fine, eterna. Ed è esattamente questo il termine che Giovanni fa dire qui da Gesù.
Ora, tutti sappiamo bene che se non mangiamo, se non nutriamo la nostra vita fisica (bios), moriamo. È una cosa naturale, ovvia. Ma è altrettanto naturale e ovvio che se non nutriamo la nostra vita interiore (zoè), la nostra anima muore. Semplice, elementare!
Eppure, quanti di noi si preoccupano oggi di nutrire la loro vita spirituale? A chi sta veramente a cuore? Se ci capita di interpellare le persone con un banale “Come stai?”, tutti, indistintamente, rispondono riferendosi alla salute, al lavoro, agli affari. E si fermano qui. Per loro la vita è una sola, quella fisica. Dimostrano di ignorare di avere un’anima. Oppure sanno benissimo di averla, ma non ci pensano, si vergognano di parlarne, hanno paura di ammettere qualunque riferimento con Dio, con il soprannaturale, perché conoscono bene i doveri e le problematiche che poi ne derivano.
Se però ad un certo punto della nostra vita, tutto sembra andare a rotoli, se la salute viene meno, se i nostri progetti di vita si infrangono, immediatamente ci lamentiamo con Dio, ci arrabbiamo con Lui, gli rinfacciamo la sua bontà e le sue promesse di costante aiuto. Cadiamo in depressione, piangiamo, ci sentiamo abbandonati da tutti e non riusciamo a dare un senso alla nostra vita. Soltanto che, invece di prendercela con Dio, dovremmo prendercela con noi stessi per aver dissipato il nostro tempo, per non aver seminato nulla di spirituale, di eterno; ci siamo occupati solo del nostro star bene, dei piaceri della vita, della carriera, del denaro, della gloria. Per Dio, per la nostra anima, non abbiamo fatto nulla, assolutamente nulla.
La vita spirituale non è a sé stante, autonoma, indipendente da noi: al contrario essa è strettamente subordinata alle nostre opere, alle nostre scelte: se non la coltiviamo, non la alimentiamo, non curiamo quel piccolo seme che Dio ha seminato in noi, essa morirà, si seccherà, la perderemo strada facendo. All’inizio c’era, è sbocciata con il soffio divino che ha generato la nostra vita, doveva crescere, irrobustirsi, doveva diventare la guida sicura nel nostro inutile vagabondare nel tempo, ma noi l’abbiamo ignorata: senza alcun nostro interesse, senza le nostre cure salutari, è deceduta, si è spenta.
Se causare la morte di qualcuno, ancorché involontariamente, lo riteniamo un dramma, una tragedia incalcolabile, perché causare la morte dell’anima, opponendoci a Dio di vivere in noi, non preoccupa ormai più nessuno? Forse che la morte spirituale è meno drammatica di quella corporale? Che l’essere esclusi dalla visione finale di Dio, dal suo amore eterno, è meno tragico?
Non facciamoci illusioni fuorvianti: anche se riuscissimo a raggiungere il massimo del benessere, anche se la nostra vita terrena fosse ai massimi vertici, privi di una concreta vita spirituale, continueremmo a non apprezzare nulla, ci sentiremmo incompleti, perennemente insoddisfatti, dei falliti. Nulla di questo mondo potrà mai appagarci, nulla riuscirà a soddisfarci completamente; non ci basta il tempo che abbiamo per vivere: cinquanta, settanta, novant’anni: quando saremo giunti al dunque, vorremo sempre altro tempo. La fine ci sembrerà sempre troppo prematura; la cruda realtà dei limiti umani, un’ingiustizia. Perché noi siamo stati pensati da Dio per l’eternità, per un tempo senza fine, per un mondo infinito “al di là” di questo. Non ci sarà mai in questo mondo abbastanza ricchezza che ci appaghi, che ci soddisfi. Più ne abbiamo, ancor più ne vorremmo: i soldi saranno sempre il nostro tarlo quotidiano, non ci basteranno mai. Se avessimo tutta la terra, vorremmo la luna; se avessimo la luna cercheremmo l’intero sistema solare; perché noi siamo fatti per godere di una ricchezza in grado di colmare la nostra anima e non le nostre case, le nostre tasche, i nostri conti bancari. Noi siamo fatti per una ricchezza che non passa mai, per la Ricchezza che resta.
Nessun successo sarà mai in grado di renderci veramente felici. Possiamo essere famosi, osannati, rispettati, emulati e applauditi. Possiamo far in modo che tutti dicano bene di noi. Possiamo essere dei “miti”, ma questo non basterà mai a renderci davvero felici. Abbiamo un bisogno costante di nuovi e più grandi successi, perché nell’intimo cerchiamo un’altra felicità: una Felicità che non è di questo mondo, che non possiamo raggiungere qui, poiché la nostra vita spirituale, quel seme dello Spirito che è dentro di noi, ci spinge continuamente all’eterno.
Poi, Gesù prosegue: “Credete in me, in colui che Dio ha mandato” (Gv 6,29).
La fede dei discepoli continua ad essere insicura, non sono ancora completamente convinti, hanno bisogno di ulteriori riscontri; per cui insistono: “Ma tu, quale segno ci dai per poterti credere?” (Gv 6,30).
Questo è il punto. I discepoli vogliono conferme, prove, altri segni. Chi ancora non crede, chiede miracoli, cerca all’esterno quella spinta, quell’impulso, che non trova dentro di sé; chiede cioè qualcosa di straordinario che lo convinca a credere, anzi che lo costringa a credere. Ma non capisce che Dio non vuole dei “costretti”, non gli interessa gente che crede perché non può farne a meno; egli non ama le persone “tappetino”: vuole uomini liberi, uomini che lo seguano non perché obbligati da una legge o affascinati da miracoli o visioni soprannaturali, ma perché lo amano, perché lo sentono palpitare vivo nel loro cuore.
Gesù è chiaro: il miracolo che mi chiedete, l’opera di Dio che voi volete imitare, è una sola: “che crediate in colui che egli ha mandato”. Tutto qui: “fides sufficit”, basta la fede in Dio; per fare “miracoli” non serve nient’altro. Una fede però che deve essere vera, profonda, autentica, animata dall’amore; perché solo così sarà possibile fare, in suo nome, opere “divine”, sensazionali. Niente esibizionismi funamboleschi, niente spettacoli da baraccone: il divino non si rivela su ordinazione, ad un nostro cenno; Gesù non sopporta le false commedie da palcoscenico. Se sono i miracoli che servono oggi nel mondo, se di “segni” c’è bisogno, siamo noi che dobbiamo diventare “miracoli” umani, “segni” viventi di Dio. Come? Credendo sul serio in Lui: aderendo a Lui, alla sua volontà, con una fede libera, sincera, convinta, espressione del nostro sincero e umile amore per Lui; una fede che deve essere il nostro sostentamento, quel cibo divino, quel “pane” quotidiano che unico può dare vigore alla nostra anima.
“Io sono quel pane”, dice Gesù. Ecco perché ogni giorno dobbiamo aver fame di lui, ogni giorno dobbiamo sentirne un bisogno assillante, ogni giorno dobbiamo avvertire la necessità vitale di rimangiarlo. Lui è sempre a nostra disposizione, continua ad aspettarci ogni giorno; la sua è un’offerta costante di amore, perché conosce questo nostro insaziabile bisogno di Lui.
Allora, ogni volta che ci accostiamo all’Eucaristia diciamogli: “Ti aspettavo, Gesù, ho bisogno di te!”, e sentiremo Lui che, entrando nel nostro cuore, ci risponderà dolcemente: “Sono qui solo per te, non vedevo l’ora di venire per aiutarti, per darti una mano, per amarti, per guarirti, per servirti, per tenerti stretto a me”. Amen.



giovedì 26 luglio 2018

29 Luglio 2018 – XVII Domenica del Tempo Ordinario


«Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i [cinque] pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto.» (Gv 6,1-15).

Giovanni, nel vangelo di oggi, ci mette di fronte ad una situazione molto concreta: una grande folla (circa cinquemila uomini), attratta dalla fama di Gesù, lo aveva seguito fin oltre il Lago di Tiberiade; il luogo è deserto, e immediatamente si pone il problema di come poter dare qualcosa da mangiare a tutta quella gente, già da tempo assente dalle loro case. Gesù si siede e li avvolge con il suo sguardo amorevole; tutti si sono accomodati sull’erba e attendono le sue parole. Egli, per provare la loro fede, chiede ai suoi discepoli cosa si può fare: certo non hanno molte soluzioni, con sé non hanno proprio nulla; trovano soltanto un ragazzo che casualmente ha cinque pani e due pesci: un niente per tutta quella folla!
Primo insegnamento: la condivisione. Condividendo, mettendole cioè in comune, le cose si moltiplicano. Se si condivide, ce n’è per tutti. Altrimenti, come lo sappiamo, ce n’è solo per l’arroganza di pochi. Condividere tutto però con grande fede, con la benedizione di Dio: questo è il significato del miracolo di Gesù: egli sa perfettamente che i cinque pani e i due pesci del ragazzetto sono un niente di fronte alla moltitudine presente, eppure ordina la condivisione, e man mano che il poco, il niente, viene distribuito, condiviso, automaticamente si moltiplica, non si esaurisce mai… addirittura ne avanza!
Gesù pertanto ci invita a non nascondere il nostro poco, ma a tirarlo fuori, ad usarlo, a fidarci del poco che siamo; a non fare sempre le vittime, a non nasconderci dietro al fatto che non siamo niente, che siamo poco. Anche se effettivamente lo siamo, Dio non guarda mai la quantità, quanto facciamo: Dio guarda come lo facciamo, Dio guarda il nostro cuore.
Tutte le cose all’inizio sono niente. Ma poi crescono. Se ci fidiamo di quel poco che abbiamo, se lo usiamo, se lo mettiamo a disposizione, se non ce ne vergogniamo, un giorno diventerà grande, crescerà e si svilupperà.
Probabilmente i nostri occhi considerano meschino ciò che abbiamo ma fidiamoci di Dio, perché ai suoi occhi nulla è meschino! Forse quando ci guardiamo allo specchio non ci piacciamo, ci butteremmo via. Ma ricordiamoci: veniamo da Dio! Ogni giorno della nostra vita benediciamo ciò che siamo; ogni giorno ringraziamo per essere così, per cercare ogni giorno la nostra trasformazione; ogni giorno cerchiamo per chi dobbiamo diventare pane; ogni giorno “fidiamoci di Dio”.
Il miracolo di Gesù ci insegna, dunque, che più si condivide, più le cose si moltiplicano. Ora, in una comunità, più gente vive insieme, più i miracoli si compiono. Se ognuno fa la sua parte l’impossibile diventa possibile. In un’azienda più ognuno mette a disposizione di tutti le proprie informazioni, le proprie capacità, le proprie risorse professionali e umane, più quell’azienda funzionerà. In famiglia, più si condivide ciò che ciascuno ha vissuto durante la giornata, ciò che ha provato, gli alti e i bassi, e più quella famiglia trova l’unione, diventa forte, intima e profonda. Mi raccontava una suora che nel suo paese dell’America latina, come del resto in tante altre parti del mondo, tutti gli abitanti del villaggio collaborano gratuitamente per costruire le case. Uno deve farsi una casa? Tutti insieme lavorano i fine settimana per lui. Una volta finita in poco tempo la casa, si spostano tutti a costruirne un’altra. E così via. Un’idea semplice, ma geniale, economica ed educativa. Mentre la società tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a singolarizzarci, noi abbiamo invece bisogno di metterci insieme, di aiutarci, di condividere, di offrire ciascuno gratuitamente ciò che può offrire.
Secondo insegnamento: dobbiamo “benedire” quel poco che abbiamo. “Benedire” vuol dire fidarsi di quel che c’è, di quello che siamo, di quello di cui disponiamo. Gesù si fida di quei cinque pani e due pesci, e Dio moltiplica quel poco. “Benedire” vuol dire: “Amo e accetto quel poco che sono perché viene da Dio; perché se sono così è perché Lui vuole che io sia così; è Lui, che sa ogni cosa, che conosce ciò che è bene per me, che mi ha fatto così”. Allora smettiamo di cercare in tutti i modi di essere diversi, smettiamo di voler essere come tutti gli altri, e non essere noi stessi; smettiamo di invidiare gli altri chissà mai per cosa! Benediciamo invece ciò che siamo e ringraziamo Dio per questo; cerchiamo di scoprire da Lui, partendo da ciò che siamo, cosa dobbiamo fare in questa vita per migliorarci, per continuare ad essere sempre più a sua immagine; quali miracoli possiamo fare con Lui. Forse ci sembra poco; ma fidiamoci di Dio. Ci ha creato Lui, Lui sa!
Quando dunque Gesù “benedice”, tutto è possibile, il poco diventa abbondanza per tutti. Le sue parole richiamano le parole che ogni domenica sentiamo durante l’Eucarestia: “Prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo diede loro…”.
Benedire e spezzare per tutti, è ricordarsi da dove viene ogni cosa. Ogni cosa non è nostra. Non è una nostra proprietà. Quindi ricordiamoci la sua origine. Quindi ricordiamoci che è di tutti. Quindi ricordiamoci che tutti ne hanno diritto. Spesso invece noi scambiamo per proprietà ciò che abbiamo semplicemente in uso. Chiamiamo proprietà ciò che non è nostro, ciò che non possiamo portare con noi, che non possiamo vincolare a noi. Abbiamo mai visto un uomo portare con sé i suoi beni dopo la morte? No. E Perché? Unicamente perché non è possibile (anche se ci piacerebbe!). Eppure mentre è in vita, l’uomo si arroga il diritto di chiamare “suo”, ciò che usa soltanto. È una grande illusione. Neppure la “nostra” vita è nostra. Una malattia qualunque ce la può togliere. Basta un incidente qualunque, e la vita improvvisamente si spegne, in un istante ci viene sottratta. Dobbiamo restituirla. E se siamo chiamati a restituirla, vuol dire che non può essere nostra. Allora, cosa c’è di veramente nostro? Solo l’attimo presente; l’istante che stiamo per vivere; l’adesso, l’hic et nunc, come dicono i latini, “il qui e ora”: l’importanza di questa inafferrabile frazione infinitesimale di tempo!
Noi pensiamo invece che la vita ci sia dovuta, sia un diritto, sia senza fine. E, invece, no. È un regalo, un’opportunità. Ci arrabbiamo quando ci viene tolta; ma ci dimentichiamo di gustarla quando ce l’abbiamo, ci dimentichiamo di benedire chi ce l’ha data, di ringraziare Dio per le immense possibilità che ci offre continuamente, ad ogni battito di orologio. Se ringraziassimo di più, se vivessimo nel modo giusto la nostra vita, se fossimo coscienti del grande dono che in ogni istante, in ogni battito di cuore, in ogni respiro ci viene confermato, saremmo più riconoscenti e meno angosciati dalla paura di perderla.
Chi pensa di essere “proprietario” delle cose, non ha motivo di ringraziare nessuno, non ha motivo di stupirsi, di benedire: sono sue, perché farlo? Al contrario soltanto chi sa di non avere nulla può provare gratitudine: per quello che è, per tutte le cose che gli sono date in consegna; soltanto chi sa che nulla gli è dovuto, che niente gli spetta di diritto, che tutto è dono, solo costui può vivere veramente sereno e felice. Solo così penserà meno a sé e più ai fratelli.
In questo senso quel “distribuire a tutti il pane” diventa automaticamente: “siamo tutti un’unica famiglia”.
Quel giorno, in riva al lago, c’era tanta gente: alcuni gli credevano ciecamente, altri intuivano soltanto che in quell’uomo c’era qualcosa di grande e di diverso; altri lo seguivano solo per egoismo, per ricavarne qualcosa; altri lo odiavano, volevano metterlo alla prova, cercavano motivi per ucciderlo; altri ancora erano solo curiosi. Ma Gesù li abbraccia tutti con il suo sguardo amorevole; non fa distinzioni, non guarda in faccia alle singole persone, non si chiede se chi gli sta davanti sia amico o nemico. A tutti indistintamente Egli dà il pane, offre il nutrimento. A tutti Egli offre la stessa opportunità.
Cerchiamo di metterci anche noi nella stessa prospettiva di Gesù; guardiamo anche noi questa povera umanità tanto martoriata, così violentemente fratricida; guardiamola con gli stessi suoi occhi: non ci sono buoni o cattivi, di destra o di sinistra, bianchi o neri, ricchi o poveri, intelligenti o stupidi, religiosi o no. Ci sono solo uomini, creature che hanno fame di Dio, di verità, di pace. È Lui il solo Padre, tutti siamo suoi figli. E a tutti Egli offre il pane del Vangelo, dell’Amore: alcuni lo mangiano, altri non sanno che farsene. Lui ci ama tutti: alcuni si aprono al suo amore, altri no. Siamo suoi figli, e Lui si preoccupa per tutti: alcuni lo ascoltano, altri no. Lui vuole nutrirci tutti di Vita: alcuni si sfamano, altri no. Lui ci vuole tutti nella sua casa: alcuni ritornano, altri no. Lui vuole che nessuno si perda: alcuni lo accolgono, altri lo rifiutano. Ma tutti, tutti, sono suoi figli. Tutti gli stanno a cuore. È il padre di tutti. Li ama tutti. È il Pane di tutti. Il banchetto celeste è aperto a tutti: sta a noi, ai singoli, avere il buon senso di presentarci con la “veste nuziale”. Il suo amore è incondizionato per tutti: dimostrare di esserne degni non è una sua condizione, ma una nostra risposta d’amore.
Ecco: questo è il grande miracolo su cui oggi siamo chiamati a meditare. Amen.


giovedì 19 luglio 2018

22 Luglio 2018 – XVI Domenica del Tempo Ordinario


“In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare” (Mc 6,30-34).

Ci siamo lasciati domenica scorsa con la partenza missionaria dei discepoli: Gesù li ha mandati per le strade della Palestina a “guarire”. Nel vangelo di oggi gli apostoli ritornano e gli riferiscono tutto quello che hanno fatto, tutto quello che è loro successo. E a ragione. Perché essi considerano Gesù l’inizio e il termine del loro viaggio. Sono partiti da Lui, sono stati mandati da Lui, e adesso ritornano a Lui. Lui è il polo di attrazione, il loro riferimento, il loro centro.
Perché lo fanno? Per verificarsi, per condividere le esperienze, per rallegrarsi dei risultati ottenuti. Sono questi, fondamentalmente, i motivi che ci devono guidare nel nostro personale rapporto con il Maestro.
Innanzitutto dobbiamo fare anche noi una “verifica” della nostra vita, del nostro operato. Verificarsi, vuol dire infatti controllare se siamo nel giusto, se agiamo secondo i “canoni”, secondo Verità. Ci verifichiamo non per darci un giudizio, un voto, ma per controllare se come viviamo corrisponde esattamente alle “regole di ingaggio”, se cioè siamo coerenti con la Sua chiamata, con quanto professiamo e crediamo.
Nella vita sono molteplici gli elementi che concorrono alla nostra crescita e maturazione umana e spirituale: elementi che necessitano ogni tanto di essere esaminati, controllati, di essere sottoposti a vere e proprie “verifiche”: uno fondamentale, per esempio, è il nostro lavoro: “Quello che facciamo è definibile un buon lavoro? Il nostro modo di lavorare è corretto? Contribuisce a realizzare i nostri ideali, la nostra personalità, la nostra sensibilità?”. Attenzione, perché noi “siamo ciò che facciamo”, noi cioè siamo, ci identifichiamo, con il nostro lavoro: ora, considerando che per circa un terzo della giornata siamo tutti impegnati nelle nostre attività, se queste non le svolgiamo correttamente, nello spirito del vangelo, in pratica buttiamo via un terzo della nostra vita: uno spreco enorme, decisamente inutile.
Altro elemento importantissimo è l’amare, il donarsi, il dare e ricevere: anche su questo ogni tanto dobbiamo fare una verifica: “Ciò che chiamiamo amore è veramente tale oppure è qualche suo surrogato?”. Perché non basta dire semplicemente: “Io amo”, e sentirci a posto. Il nostro è un amore sincero, oblativo, oppure un morboso attaccamento umano? Amiamo soltanto perché abbiamo paura di rimanere soli, per risvolti economici, per assicurare un futuro alla nostra vita? Ma questo non è amare, è semplicemente un contrabbandare per amore il nostro egoismo, il nostro interesse personale.
Altro elemento vitale che periodicamente bisogna verificare, è la preghiera: “Come e con quale frequenza noi preghiamo? La nostra preghiera consiste solo in una sequenza automatica di parole? È una lista della spesa, un pozzo dei desideri, una richiesta ossessiva di ciò che non riusciamo ad avere?” E ancora: “Da dove sgorga la nostra preghiera? Dalla paura di un Dio vendicatore o dall’amore per un Dio-che è Amore?”.
Anche la felicità, la serenità interiore sono elementi basilari: sono il condimento di una vita positiva, buona, altruista; per cui ogni tanto dobbiamo chiederci: “La nostra vita è davvero felice? Viviamo, oppure ci trasciniamo come dei morti viventi? O viviamo una vita che non è la nostra? O viviamo una vita sdoppiata, bella e meritevole all’esterno, ma falsa e infedele nell’intimo?”. Certo scoprire la coesistenza di un così lacerante dualismo, scoprire che la nostra vita spirituale è un completo fallimento, non è per nulla consolante, anzi ci fa decisamente male; ma è molto peggio continuare a vivere mentendo a noi stessi, continuare a fare per convenienza cose che sappiamo essere non corrette, che non ci convincono, che non sentiamo nostre. In tal caso continuare nell’inganno di noi stessi, equivale accettare l’inutilità di una vita fallimentare, piuttosto che metterci in gioco, rischiare, cambiare.
Ultimo ma non meno importante elemento è il nostro “stare insieme”, il fare comunità; un punto su cui la nostra verifica deve essere severa: magari quello che scopriamo ci metterà in crisi, dovremo misurarci con situazioni che non vorremmo mai conoscere. Forse è per questo motivo che molti non si fermano mai, non riflettono sulla loro esistenza, non si pongono questioni profonde: preferiscono illudersi che tutto vada bene o che, ignorandoli, i problemi non esistano. Ma la politica dello struzzo non ha mai dato frutti apprezzabili… Del resto, “fare verità” su noi stessi vuol dire anche essere preparati ad affrontarne le conseguenze, qualunque esse siano. Solo guardandole in faccia possiamo cambiare; soltanto non raccontandoci “balle” possiamo affrontare e risolvere i nostri veri problemi.
Per poter fare come i discepoli una “verifica”, dobbiamo avere anche noi in Gesù il nostro maestro, la guida, il punto di riferimento, il nostro “confidente”; dobbiamo imparare a parlare con Lui, a confidarci con Lui sul nostro cammino, sulla nostra vita, sulla qualità del nostro lavoro: avremo sempre nuovi e validi motivi per confrontarci con Lui. Soprattutto per condividere tutto con Lui. Una vera, autentica condivisione che crea unione, intimità, quel donarsi senza ambiguità, senza falsità; quel raccontarsi, che ci introduce sempre più l’uno nel cuore dell’altro.
Una condivisione intima che non è una “cronaca” sterile di ciò che abbiamo fatto: “Ho fatto questo, e poi questo, e poi questo…”, ma un’apertura totale della nostra mente, della nostra anima, del nostro cuore, dei nostri sentimenti. Condividere così, è vero, vuol dire esporsi, mostrarsi inermi, senza difese, diventare completamente vulnerabili: ma non c’è unione vera con Gesù senza questo “annullamento”. Purtroppo, nella nostra vita, nelle nostre “condivisioni”, siamo invece abituati a parlare molto, ma a condividere ben poco. Preferiamo parlare tanto degli altri, piuttosto che di noi stessi. Preferiamo non guardare dentro di noi, rimaniamo da soli, all’esterno, nel superficiale. Al contrario se provassimo questa intima condivisione con Lui, la vita acquisterebbe improvvisamente colore e calore: ci sentiremmo accolti, capiti, sentiremmo dentro di noi la sua presenza, percepiremmo tutto il suo amore. E proveremmo quella gioia, quell’intima soddisfazione di comunicargli che, con Lui, riusciamo a fare cose belle, importanti, entusiasmanti: cose concrete, che anche umanamente ci soddisfano e ci rendono orgogliosi, felici.
La vita è un suo dono: solo se viviamo questo dono in costante confronto con Lui, potremo avvertire concretamente la sua presenza, potremo riconoscere la sua mano nei nostri successi, potremo percepire la sua piena fiducia in noi. Nonostante tutto: nonostante Lui sappia bene chi siamo, nonostante conosca i nostri limiti, i nostri errori, i nostri orrori.
Confrontiamoci allora con Lui. Immergiamoci nella meditazione, scendiamo nella nostra anima, misuriamoci là dentro con Lui. Ricarichiamoci: gustiamo nella meditazione silenziosa quella Parola che siamo chiamati a testimoniare. Verifichiamoci, controlliamo l’autenticità del nostro efficientismo, per scongiurare la possibilità di investire tutto il nostro lavoro, tutte le nostre fatiche, in una costruzione inaffidabile, fondata sulla sabbia.
“Andate…”, ci dice Gesù. È vero, è Lui che ci manda: ma non ci manda allo sbaraglio; Egli si preoccupa di noi, ci vuole sempre all’altezza, ci sta costantemente vicino; ci lascia ampia libertà decisionale, ma si preoccupa che le nostre scelte siano sempre corrette, sempre in linea con la sua Parola. Il nostro cammino è in questo modo chiaro e percorribile. Spetta a noi ora piantare e innaffiare come si deve. E alla fine, quando torneremo a Lui, perché è sempre e comunque a Lui che dovremo ritornare, auguriamoci di potergli consegnare, soddisfatti, un buon raccolto. Amen.



giovedì 12 luglio 2018

15 Luglio 2018 – XV Domenica del Tempo Ordinario


Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri (Mc 6, 7-13).

Oggi il vangelo ci offre l’opportunità di fare alcune considerazioni sui discepoli che seguivano Gesù e sul nostro “discepolato” di oggi.
C’è da dire prima di tutto che di quanti seguivano Gesù, non tutti si sono rivelati un esempio costante di fedeltà: alcuni lo tradirono, lo abbandonarono, altri lo rifiutarono spinti da una crisi profonda e da un totale sbandamento: ma quello che conta è che coloro che si lasciarono conquistare dalla passione per questo uomo che aveva rivoluzionato la loro vita, si lasceranno poi catturare, imprigionare, martirizzare.
Non dobbiamo quindi farci condizionare dall’idea che fossero tutti la “perfezione” in assoluto: al contrario faticarono a credere, sbagliarono, dubitarono, vennero meno, né più né meno come oggi accade anche a noi.
Ma allora perché questa gente seguiva Gesù? Ripeto: esattamente come noi; alcuni spinti dalla curiosità, altri dal dolore e dal rimorso di aver sperperato una vita, altri ancora bisognosi dell’amore di quell’uomo giusto e misericordioso.
Per la cronaca: alcuni lo seguivano, ma senza abbandonare le loro case, il loro lavoro: gli offrivano aiuto e ospitalità quand’era in zona. Altri erano sempre con lui, lo accompagnavano ovunque, nella sua vita itinerante.
Erano persone, uomini e donne, che appartenevano agli strati sociali più poveri; gente semplice, ignorante, contadini, pescatori; gente senza rilievo sociale, donne e mendicanti. In genere, quasi tutti, lontani dalle regole dell’Alleanza; erano cioè gente impura, gente che non rispettava le regole religiose del tempo, erano eretici, erano insomma i “lontani”.
Gesù li vede come “pecore senza pastore” e dice: “Voi che nessuno vi vuole, venite da me!”. A lui non interessavano i puri e i santi, ma accoglieva quelli che nessuno voleva, quelli già giudicati, quelli non in regola, gli impuri, gli esclusi, gli scarti della società.
Un particolare, questo, che dovrebbe farci meditare seriamente: noi che ci sentiamo più vicini a lui, noi che ci riteniamo la parte più attiva, quelli che “noi siamo la Chiesa!”, non dobbiamo assolutamente pensare di essere l’élite, la casta degli eletti, quelli “ripieni” di Spirito Santo; nella Chiesa peregrinante ci sono anche i puri e i santi, è vero, ma non solo quelli: ne fanno parte soprattutto i sofferenti, gli abbandonati, quelli che nessuno vuole, gli umili, quelli che in essa cercano rifugio, sostegno nel cammino, conforto, accoglienza e amore.
Ebbene: è esattamente tra questa moltitudine al suo seguito, che Gesù ad un certo punto sceglie i Dodici: sono quasi tutti galilei, persone semplici, a volte perfino poco colte; non vi sono comunque scribi e non vi sono sacerdoti tra loro. Alcuni come Giacomo e Giovanni appartengono ad un livello sociale più alto (avevano barca e garzoni) altri, invece, come Pietro e Andrea sono pescatori poveri, avevano cioè solo una rete con cui pescavano lungo la riva quel poco per sfamarsi.
Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù non ci sono canali preferenziali, non ci sono categorie speciali agevolate: ricchi o poveri, acculturati o ignoranti, di destra o di sinistra, sono tutti sullo stesso piano. Gesù può scegliere chiunque, purché sia sinceramente disponibile, con il cuore aperto, la mente libera da legami condizionanti, pronto a mettersi in gioco, pronto a lasciarsi sconvolgere completamente la vita.
Per questo i “ricchi” di idee, di velleità carrieristiche, di denaro e di fama, i detentori di intoccabili “tradizioni secolari”, difficilmente sono disponibili a seguirlo. Perché lui quando arriva spazza via qualunque zavorra, tutto ciò che è inutile, che non serve alla costruzione del suo Regno.
Gesù è radicale. È impossibile seguirlo soltanto un po’: o lo si segue tutto o niente. Gesù è un’esperienza totale, indivisibile.
Tutti gli ebrei aspettavano la restaurazione del regno politico di Davide e di Salomone: in questo senso Gesù li ha profondamente delusi. Il suo “regno” non è politico, non è materiale. Il suo è un regno che riguarda esclusivamente il cuore e l’anima degli uomini, un regno in cui le persone guariscono e si liberano dai loro nemici interiori. Questo è l’autentico regno di Dio: e sarà sempre così; un regno che non è al di fuori di noi, ma dentro di noi. La nostra “grande liberazione” deve avvenire in noi. Siamo noi che dobbiamo liberarci dai nostri demoni, dai nostri tiranni, dai nostri nemici, per poter seguire la sua chiamata: chi non vuole guardarsi dentro, chi non vuole conoscersi nel profondo, chi non vuole combattere gli abitanti scomodi del proprio cuore, non potrà mai seguire seriamente il Gesù del Vangelo!
Condizione essenziale per poter far parte di questo regno, per poter aderire a questo progetto divino è liberarsi da ogni vincolo umano, da ogni legame mondano.
Cosa certamente non facile, visto che nessuno dei suoi paesani, dei suoi parenti, lo seguì. Anzi i suoi paesani lo rifiutarono apertamente, i suoi parenti tentarono addirittura di prenderlo e segregarlo, per impedirgli di parlare e di agire, facendolo passare per “pazzo”; è per questo che se ne dovette fuggire dal suo paese e trasferirsi sulle rive del lago di Galilea, a Cafarnao.
Del resto la casa (a quel tempo molto più di oggi) era soprattutto il rifugio affettivo: rompere con quelli di casa equivaleva infliggere un’onta gravissima all’intero casato, a tutti i famigliari, un autentico disonore per tutti. Ma Gesù chiede proprio questo: di lasciare non solo la casa fisica, ma soprattutto la casa mentale, i modelli, le idee, gli usi della famiglia, le loro tradizioni. Gesù stesso dice di sé: “Le volpi hanno le tane e gli uccelli del cielo i nidi, ma quest’uomo non ha dove posare capo” (Lc 9,58). La casa, la terra, la barca, erano i mezzi di sussistenza, i punti di riferimento, le cose più ambita e ricercate: e Gesù chiede di abbandonare tutto.
Egli sa bene cosa accadrà: “Non pensiate che io sia venuto a portare pace sulla terra, bensì la spada. Sì, sono venuto a mettere il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera” (Lc 12,51-53). Cioè: per Gesù la famiglia non è la cosa più importante, anzi può essere ingombrante. Vi è qualcosa di più importante: è il regno di Dio, per cui “chi non odia suo padre e sua madre, suo figlio e sua figlia, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Se l’approvazione dei genitori, del capo, dei nostri compagni di cammino, delle persone che amiamo è più importante della nostra libertà interiore, della verità che cerchiamo, della nostra vocazione, allora non possiamo seguire Gesù. Gesù lo dice chiaramente: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto al regno di Dio” (Lc 9,62). Se vogliamo seguire il nostro cammino non possiamo seguire anche il cammino voluto da altri; e non seguendo le loro direttive, venendo meno alle loro aspettative, inevitabilmente li deluderemo, e questo ci procurerà da parte loro un categorico rifiuto. Ma noi dobbiamo essere “liberi”; Gesù a questo proposito è un sovversivo, vuole che i suoi discepoli siano liberi da ogni costrizione, che non debbano rendere conto della loro vita a nessun altro se non a Dio; soltanto a lui essi si devono inchinare. La sequela di Gesù non va fatta per motivazioni logiche o teologiche: ma semplicemente per passione. I suoi discepoli erano degli innamorati perché solo gli innamorati o i pazzi potevano fare quello che essi hanno fatto!
Soprattutto al seguito di Gesù essi hanno imparato un modo di vivere completamente nuovo e diverso dal loro: Lui era tenero con i piccoli e i derelitti; Lui si emozionava di fronte alle sventure e alle sofferenze degli ammalati; Lui non aveva paura di toccare i lebbrosi e le donne, Lui non aveva paura di abbracciarli; Lui era tenace e irremovibile quando c’era da difendere la dignità delle persone; Lui accettava tutti alla sua tavola (simbolo dell’ospitalità del suo cuore) e non aveva pregiudizi di nessun genere; Lui era appassionato della verità, se ne infischiava delle regole stupide o disumane e se c’era da trasgredirle lo faceva senza tanti sensi di colpa; Lui piangeva, gioiva, si stupiva di fronte agli uccelli del cielo e ai gigli del campo; Lui credeva nella forza delle persone e se queste gli credevano, guarivano; Lui amava per davvero e non a parole; Lui si schierava e non temeva di prendere posizione quando c’era da farlo; Lui sì che viveva. Ebbene: una scuola carica di vita e di insegnamenti di cui essi hanno fatto buon uso e che noi troviamo ora sintetizzata in un’unica parola: “eu-anghelion”, “la buona notizia”, il suo Vangelo.
Gesù voleva e vuole che i suoi discepoli vivessero e vivano così, da innamorati dell’Amore e della Vita. Un programma che deve costituire il punto di arrivo per tutti.
Pertanto la nostra prima preoccupazione riguarderà il nostro “fare”, la nostra condotta, il nostro “vivere”, piuttosto che la pretesa di “insegnare” agli altri quello che devono o non devono fare. Per una positiva catechesi la preparazione, lo studio, i corsi di aggiornamento, sono tutte cose utili, necessarie, fondamentali, ma se non sono suffragate da una vita vissuta coerentemente, sono zavorra, sono soltanto un fardello inutile e pesante. Se trascuriamo la nostra vita cristiana, la nostra vita spirituale, tutto il nostro sapere, il nostro insegnare, diventa superfluo, ingombrante, si riduce ad una questione tecnica e sterile, senz’anima e cuore.
Non carichiamoci allora di troppe iniziative, di troppi impegni, di troppe attività associazionistiche, perché troppo spesso portano a farci dimenticare l’unico obiettivo fondamentale: la nostra santificazione. Ecco perché tanti di noi, che si professano persone di fede, praticanti, nella ricerca convulsa del “nuovo”, del “sensazionale”, del “miracoloso”, del “soprannaturale”, finiscono, spiritualmente e cristianamente per vivere alla giornata, senza idee chiare, senza una direzione valida da seguire. Procedono a tentoni, a casaccio, sopravvivono senza sapere il perché delle loro scelte. È fondamentale invece avere un obiettivo ben chiaro, sapere in che direzione andare, cosa voler fare della propria vita. Oggi purtroppo la società del benessere ci spinge convulsamente a fare mille cose in contemporanea, a cimentarci in qualunque attività: ci troviamo impegnati negli sport più disparati, assorbiti in qualsiasi genere di hobby; per la nostra formazione seguiamo qualunque imbonitore ci capiti, qualunque ciarlatano purché parli di “miracoloso”, di “spirituale”, di “metamorfosi antropologica”; siamo schiavi beoti delle mode più ridicole e sciocche del momento; ci buttiamo con ostentazione in ogni genere di volontariato, in ogni “caritas”, volendo dimostrare a tutti la nostra accogliente “autenticità”; viviamo un’esistenza superficiale, discontinua, e cambiando i nostri obiettivi e i nostri interessi con estrema disinvoltura, finiamo per trascurare l’unico obiettivo, quello vitale, che al contrario merita tutta la nostra attenzione: dare cioè un’autentica e generosa risposta all’invito perentorio di seguire Gesù. Un invito che non fa sconti a nessuno, che ci riguarda tutti in prima persona; un invito al quale dobbiamo dare un seguito, una risposta, non a parole ma con i fatti: poiché è un invito che implica un radicale cambiamento di vita, una lotta continua per qualcosa di grande, di assoluto, di duraturo, di soprannaturale, finalizzato ad una totale simbiosi con lo Spirito di Dio Amore.
A questo punto una domanda nasce spontanea: la Chiesa, che dovrebbe essere la solerte madre dei credenti, oggi è veramente la sposa fedele e “discepola” di Cristo? È balsamo per i cuori oppressi e feriti degli uomini? Sa liberarli dai loro dubbi, dalle loro paure, dalle loro ansie? Sa guarirli dai loro demoni interiori? Sa guidarli, rassicurarli nella fede? Perché questa è la sua missione, per questo Gesù l’ha voluta: se perde di vista quest’unico fine, non è più la Chiesa di Cristo!
Gesù nelle sue catechesi è stato molto chiaro: i suoi consigli, le sue istruzioni indicano uno stile di vita nuovo, diverso, provocatorio; uno stile “altro” rispetto a quello del mondo. “Non pane, non bisaccia, non denaro, nulla per il viaggio; solo i sandali e la tunica che portate addosso”: che “tradotto” significa: “i miei discepoli, i miei vescovi, i miei cardinali, i miei preti, monaci, frati, non devono essere angosciati per raggiungere traguardi mondani: lauti stipendi, autovetture di classe, capi “firmati”, ultimi gadget elettronici di tendenza, residenze faraoniche: “per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete… Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?” (Mt 6,25-33). Così pure niente “bastone”: i pastori del Regno si devono distinguere come persone di pace, non violente, non aggressive, non politicizzate. Il Vangelo che devono annunciare non è imposizione, è solo una proposta di benessere, di tranquillità interiore: “Se vuoi, tu puoi vivere così. Ti va?”. Tutto qui.

La domanda che Gesù ha posto una volta ai suoi discepoli è la stessa domanda che pone oggi a tutti noi: “Vuoi seguirmi?”. Che non è una promozione! Non è un invito a passare tra i migliori, un’occasione per diventare ricchi, benestanti, per essere i più fortunati, i più ammirati, per meritare automaticamente il paradiso. Nulla di tutto questo. Accettare di seguire Gesù significa adottare un nuovo stile di vita, significa vivere seriamente questa nuova vita e proporla con l’esempio agli altri. Quella che noi viviamo e che chiamiamo “vita”, in realtà è solo un’alternanza velocissima di illusioni, di momentanee ed ingannevoli felicità, di incessanti contrarietà, di profonde insoddisfazioni. Quella che Gesù ci propone è un’altra “Vita”, una vita vera, concreta, senza fine, proiettata fin d’ora nel futuro godimento dell’Amore eterno di Dio: una Vita beatifica che se nella nostra umanità presente siamo portati a vedere come un miraggio irraggiungibile, un obiettivo inattuabile, accettando l’invito e l’aiuto di Gesù essa diventa automaticamente alla portata delle nostre possibilità, delle nostre forze: a condizione ovviamente che calchiamo con fedeltà e impegno quelle stesse orme che Lui ha lasciato camminando davanti a noi. Amen.


giovedì 5 luglio 2018

8 Luglio 2018 – XIV Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria? (Mc 6,1-6).

Gesù, durante il suo lungo peregrinare, si ferma anche nella sua cittadina natale. E qui il vangelo ci offre un piccolo spaccato di vita paesana: non che Egli faccia per i suoi concittadini qualcosa di straordinario, anzi si comporta esattamente come ha sempre fatto altrove: guarisce gli ammalati e, di sabato, predica nella sinagoga. Anche i suoi lo ascoltano e, come tutti, rimangono stupiti, meravigliati: percepiscono cioè che in lui c’è qualcosa di grande, di soprannaturale che risveglia in loro particolari emozioni, tocca le corde più sensibili della loro anima. Tuttavia giudicano la sua dottrina troppo alta, troppo impegnativa, troppo forte, non adatta a loro. Essi sono diffidenti, hanno le loro idee, hanno le loro tradizioni, hanno i loro schemi: Lui invece dice cose mai sentite, cose “pericolose”, mette in dubbio il loro credo, scopre le loro debolezze, insomma li destabilizza.
Del resto, qui come altrove, Gesù è sempre schietto nel parlare e coerente nell’agire, non si preoccupa di piacere o no alla gente: non è un diplomatico, un politico; dice a ciascuno esattamente quello che ritiene giusto davanti a Dio: dice cioè ai signori farisei che la loro religione è tutta una farsa; dice ai nobili sadducei che dietro la loro religione c’è solo fame di potere e che quindi le loro pratiche religiose sono inutili, stupide, prive di vita.
È naturale che le persone, sentendosi chiamate in causa, toccate sul vivo, messe ciascuna di fronte alla propria coscienza, reagiscano di conseguenza; e lo fanno in due modi diversi: o ascoltando umilmente Gesù, dando retta ai suoi consigli e rivedendo completamente il loro stile di vita, oppure attaccandolo frontalmente, facendolo passare per matto, mettendo in giro su di lui voci maligne e, se non bastasse, fare di tutto per isolarlo, zittirlo, magari addirittura sopprimerlo. Cosa poi puntualmente avvenuta!
Nel caso specifico dei suoi compaesani, però, c’è un’ulteriore aggravante: perché fino a quando Gesù predica in giro per la Palestina, la gente non lo conosce, non sa chi sia, né da dove venga; ma qui lo conoscono tutti e bene! Conoscono la sua famiglia, le sue origini, sanno che è una persona onesta, che non è un imbroglione, e tutti lo acclamano per quello che dice, vuol dire che è proprio un “grande”. E qui s’innesta immediatamente l’invidia, la cattiveria: “Ma come, ha studiato qui con i nostri figli, ce lo ricordiamo da ragazzino, non era certo un sapientone! Ora arriva lui e che fa? Si comporta come un profeta, dice cose per noi troppo difficili e complesse; cerca di stravolgere la nostra vita, le nostre tradizioni. Noi abbiamo sempre fatto così, perché ora dovremmo cambiare? Solo perché viene lui ad imporcelo con le sue idee strane? Chi si crede di essere? Noi sappiamo bene che è un carpentiere, figlio di Giuseppe il falegname... e le sue sorelle sono...Cosa può uscire di buono da una tale famiglia?”.
Hanno deciso di non seguire Gesù: non vogliono in alcun modo dare credito alle sue parole: e lo fanno per principio, per tigna. Non vogliono neppure pensare che Dio possa agire per mezzo di un poveraccio come loro, di uno che conoscono fin troppo bene: sarebbe troppo. Al massimo può essere come uno di loro, niente di più! Purtroppo da che mondo è mondo, uno può fare miracoli, fare salti mortali, cose strabilianti e impossibili, ma per la gente che lo conosce continuerà ad essere sempre lo stesso poveraccio: lo etichettano in un certo modo, e da lì non schiodano.
Il loro dramma è che sono convinti che la loro conoscenza sia sempre attuale, aggiornata negli anni, anche se così non è; per cui si sentono autorizzati a classificarlo, a vederlo non più per quello che attualmente è, per quello che è diventato, ma per il ricordo che ne avevano. Cambiare la propria opinione è infatti uno dei cambiamenti più difficili; comporta la sgradevole necessità di ricredersi, di ammettere i propri errori, di abbandonare vecchie posizioni.
È assurdo, ma noi giudichiamo quasi sempre le persone non per quello che sono al presente, ma per quello che erano anni prima, in base alla conoscenza che abbiamo dei loro genitori, della loro famiglia, dei loro parenti ecc.
E se gli abitanti di Nazareth hanno rifiutato Dio con la scusa di conoscere fin troppo bene Gesù, noi che posizione abbiamo preso nei suoi riguardi? Conosciamo e seguiamo il Dio vero oppure preferiamo seguire un “nostro” Dio, uno che ci siamo costruiti su misura, una etichetta a nostro uso e consumo? Purtroppo noi siamo portati ad essere molto superficiali nei nostri giudizi. Una delle nostre espressioni molto frequenti è: “Come ti conosce tua madre, nessun altro può conoscerti!”. E in un certo senso è vero, perché una madre conosce sicuramente il proprio figlio meglio di chiunque altro; ma dette da noi, in un certo modo, con chiari sottintesi, sono parole che richiamano qualcosa di negativo, per cui si trasformano in un giudizio feroce. Come pure: “Lo sapevo che finiva così, ti conosco bene!”. Che equivale a: “Ti conosco, so come sei; non mi sorprende quindi se non riesci a fare nulla di buono”. E non ci rendiamo conto che magari la realtà, le persone, la vita, sono molto diverse da quel poco che noi diciamo di conoscere, sono ben più grandi dei nostri giudizi e delle nostre etichette.
Leggendo il Vangelo ci colpisce il fatto che, incontrando Gesù, alcune persone si lascino trasformare, ne escano completamente cambiate, rinnovate, non siano più loro; al contrario di altre che rimangono ancorate nei loro pregiudizi, nei loro schemi, nel loro disordine, non lasciandosi neppure sfiorare dal suo amore.
Il motivo che determina questa diversità dipende dall’avere o non avere fede in lui: se cioè queste persone si lasciano attrarre da lui, arrivando anche a sconvolgere completamente la loro vita oppure, se indifferenti, si girano dall’altra parte e proseguono per la loro strada.
Ecco perché avere fede, tanta fede, è fondamentale per noi, per la nostra vita cristiana.
La fede è infatti quella disponibilità mentale mediante la quale riconosciamo, percepiamo, accettiamo che Dio realmente viva, agisca, si manifesti nella nostra vita. “È quel contatto profondamente personale con Dio, che ci tocca nel più intimo e ci mette di fronte al Dio vivente in modo da potergli parlare, poterlo amare, ed entrare in comunione con lui” (Benedetto XVI).
Questo è il presupposto fondamentale: perché Dio non può elargirci le sue particolari grazie se noi non lo accettiamo, se noi non lo vogliamo. Inoltre, se non ci apriamo alla fede, se non ci lasciamo illuminare dalla sua luce, ci auto escludiamo dalla vera felicità, dall’amore autentico, e la nostra vita sarà un continuo tormento, un continuo errare nel buio più totale, senza alcun riferimento ad una meta.
Una cosa soltanto ci può confortare: la certezza che anche quando noi non lo vogliamo considerare, non lo vogliamo vedere, non vogliamo collaborare con lui, Egli rimane comunque in disparte, al nostro fianco, in paziente attesa di un nostro ripensamento, di una nostra “conversione”, pronto ad accoglierci tra le sue braccia.
La fede poi non deve limitarsi alla sola conoscenza teorica: avere fede significa agire concretamente di conseguenza, significa incontrare veramente Dio nella nostra vita, dentro di noi, significa sperimentarlo. E questo dipende solo da noi, perché se non vogliamo lasciarci coinvolgere da lui, se non vogliamo farci tirar dentro, se non vogliamo mettere fine al nostro isolamento, neppure lui potrà farci nulla. Ora, è molto difficile per noi accettare e capire questo concetto: perché in teoria, a parole, tutti vogliamo Dio, tutti lo amiamo, tutti siamo disponibili ad accoglierlo; nella pratica però vivere seguendo i suoi consigli, offrirgli la nostra totale collaborazione, costi quel che costi, è tutta un’altra cosa: perché alla base, la nostra fede non è perfetta, totale coinvolgente: perché non capiamo che Dio ci salva solo se noi lo vogliamo; che possiamo godere dei benefici del suo amore, solo se ci apriamo alla sua grazia; che Dio ci cambia solo se noi glielo permettiamo; che Dio ci porta al centro della Vita solo se noi accettiamo di camminare con Lui. Dio, insomma, senza il nostro apporto personale, non può far nulla per noi.
Il vangelo poi dice che “si scandalizzavano di Gesù. Il verbo greco è molto forte; indica una indignazione, una collera repressa nei confronti di una persona: i suoi concittadini non riescono insomma ad accettare che lui sia diverso da loro, sia migliore, sia considerato e amato dalle folle. In quel verbo c’è tutto il rifiuto, l’odio, lo sdegno, la rabbia, il disprezzo “casalingo” per Gesù, covato dai suoi al di là di ogni considerazione.
Brutta cosa rifiutare gli altri “per principio”, “a prescindere”; perché scatena odio, lotte fratricide, conflitti irreversibili. Vivere nel rifiuto sistematico del prossimo è il sintomo rivelatore di una grave malattia, di una avanzata antropofobia. Come pure sintomo di un malessere interiore è “godere”, essere contenti del fatto che gli altri ci rifiutino; ci sono persone infatti che sono felici nel sentirsi rifiutate, persone masochiste che fanno del vittimismo uno stile di vita: più sono avversate, osteggiate, perseguitate, più sono contente, illudendosi di essere già avanti nella santità: “Guarda come soffro, guarda quanto è crudele il mondo nei miei confronti. Per fortuna Dio è con me, perché io gli sono fedele!”. Valutazione errata: mai provare né tantomeno ostentare qualsivoglia compiacimento o soddisfazione per una presunta personale santità, tanto meno per siffatte banali motivazioni: il rifiuto della nostra persona da parte degli altri deve semmai essere visto come una delle tante prove che accompagnano il duro e silenzioso cammino del seguire Cristo, un innocuo banco di prova della nostra fede e della nostra santità: “Vuoi veramente seguire Gesù? Quanto lo vuoi?”. Se di fronte alla prima critica, al primo rifiuto, abbandoniamo subito i nostri propositi, la nostra “vocazione”, dimostriamo nei fatti quanto le nostre convinzioni siano labili e superficiali. Progetti semplicemente costruiti sulla sabbia. Dice il saggio: “Se un uomo non affronta qualche contrarietà per le idee in cui crede, o non vale niente l’uomo o non valgono nulla le sue idee”.
Il Vangelo poi annota il commento di Gesù in risposta alle male lingue dei suoi paesani: “Nessuno è profeta nella sua patria”. Parole che trovano la loro spiegazione nelle tristi avventure dei profeti dell’intera storia d’Israele; parole che esprimono soprattutto la sua amara rassegnazione di fronte ad un immotivato e stolto rifiuto da parte proprio dei suoi concittadini. E prima di andarsene, dirà ancora: “Neanche se Dio scendesse di persona, voi credereste”.
In queste parole c’è tutta la delusione di Gesù. È il dramma di chi vive in lui, di chi annuncia il suo Regno; è il dramma di tutti i profeti di ogni tempo, di tutti i pastori, via via fino all’ultimo umile e santo prete delle nostre campagne: scontrarsi con persone che pur conoscendo Dio, si rifiutano di vederne e apprezzarne la realtà, la verità, amore. Amen.


venerdì 29 giugno 2018

1 Luglio 2018 – XIII Domenica del Tempo Ordinario


«Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (Mc 5,21-43).

Il vangelo di oggi ci presenta due miracoli di Gesù, due guarigioni: quella della figlia di Giairo e quella dell’emoroissa. I due racconti sono legati tra di loro da un unico filo conduttore, suggerito proprio dall’iniziale “passare” di Gesù da una all’altra riva del lago.
Una sottolineatura, secondo me, che non intende tanto indicare un cambiamento di luogo, quanto di offrire al lettore un vero e proprio stile di vita: “Bisogna oltrepassare”. Dobbiamo cioè andare avanti, dobbiamo crescere, dobbiamo evolverci; dobbiamo avere il coraggio di abbandonare una situazione stantia, nefasta, improduttiva, per andare verso nuove prospettive, più positive, concrete, salutari, perché se non facciamo così ci ammaliamo, ci atrofizziamo, cadiamo nell’indifferenza più totale, cessiamo di vivere nell’anima e nel corpo.
I nostri problemi più gravi nascono infatti perché non vogliamo “passare dall’altra parte”, non vogliamo “maturare”, non vogliamo toccare l’equilibrio instabile delle nostre abitudini ormai anchilosate, perché non vogliamo abbandonare una fase della nostra vita, ancorché superata, per dirigerci decisamente verso un’altra più appropriata. Rimaniamo sempre lì: ma rimanere sempre lì, immobili, irrigiditi, per partito preso o magari per paura, significa accettare una sentenza di morte. Gli istanti della vita passano una sola volta, non si possono ripetere, né fermare: la vita è un continuo andare avanti. Con noi o senza di noi il tempo passa: fermarci significa inesorabilmente autoescludersi dalla realtà, regredire.
Da giovani è difficile diventare adulti; affrancarci totalmente dall’infanzia è un passaggio impegnativo; a volte scegliamo la via apparentemente più facile, preferiamo rimanere quelli che siamo, acerbi, dipendenti da altri, ostaggi del loro potere, della loro volontà. Una volta adulti, non accettiamo di diventare anziani, di perdere le nostre posizioni di dominio, di constatare che altri ci superano, che altri sanno più di noi, che non abbiamo più la forza di imporci come un tempo. Diventare anziani vuol dire infatti accettare che i ruoli ricoperti nella nostra vita, conquistati con tanta passione, passino lentamente e inesorabilmente ad altri: non è assolutamente semplice sentirsi accantonati, messi da parte, soprattutto se non ci convinciamo che l’anzianità è l’età della saggezza, dell’esperienza: l’età in cui si è chiamati a diventare maestri di vita.
Il vangelo di oggi ci evidenzia appunto per i protagonisti la necessità del “passare oltre”, del maturare, di affrontare cioè quei cambiamenti indispensabili per vivere e per amare in modo corretto. Sì, perché talvolta per dimostrare l’amore e assicurare la vita all’altro, anche se ci è particolarmente caro, è necessario distaccarsi, lasciarlo andare, andare oltre i nostri sentimenti, altrimenti rischiamo di soffocarlo, di ucciderlo.
Ma seguiamo il testo: si presenta dunque a Gesù un uomo, Giairo: è il capo della sinagoga. Osserviamo bene le singole parole: “Si recò da Gesù uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo. Non dice: “Giairo, un capo della sinagoga, andò da Gesù”. C’è una differenza fondamentale: il testo cioè per prima cosa evidenzia il ruolo, la carica dell’uomo, e poi ne specifica il nome. Che significa? Che nell’immaginario collettivo il ruolo, la carica, la professione che uno svolge, è più importante della sua individualità, della sua persona. In altre parole è l’attività che determina l’importanza di una persona, non la persona in sé. E questo è un male: perché il grande pericolo che corre chi esercita un “ruolo importante” è quello di identificarsi nel proprio ruolo, cessando di essere Tizio o Caio, per essere sempre e soltanto “il” capo, il professore, il politico. In altre parole avviene in lui una spersonalizzazione, diventerà cioè prigioniero del ruolo, di questo vestito che si è cucito addosso: perché sarà lui, il ruolo, che dopo aver progressivamente fagocitato il suo essere persona, deciderà il suo agire, il suo pensare, il suo pianificare la vita.
Ora, nel caso del Vangelo, la figlia di Giairo è appunto una vittima del “dio-ruolo”: non del suo, ovviamente, ma di quello del padre; nella sua normale crescita di figlia le manca cioè la figura paterna. Giairo è “preso” molto più dal suo ruolo di capo della sinagoga, che dai problemi di sua figlia. Non la vede, non la riconosce, non si accorge neppure che lei crescendo, giorno dopo giorno, si ripiega su se stessa, sfiorisce, si lascia morire: troppo proiettato sulle problematiche di una carriera lontana da lei, non scorge il suo bisogno disperato di avere un padre che la valorizzi, che le riconosca la sua giusta importanza, e soprattutto che l’ami come la cosa più preziosa di questo mondo. 
Gesù, per guarire la figlia, deve pertanto “guarire” prima di tutto il padre, deve riportarlo cioè nella sua originaria dimensione, deve ricollocarlo nella realtà del suo essere padre: realtà che lui ha perduto nelle pieghe del passato, per cui insiste ad avere nel presente una visione della figlia riduttiva, anacronistica, impropria; continua cioè a vederla, a considerarla, a chiamarla ancora, come allora, la sua “figlioletta”. Solo che questa “bimba” ha già dodici anni: un’età in cui, nella Palestina di duemila anni fa, una donna era già considerata adulta, nel fiore della sua maturità; per lei quindi è assurdo, gravemente riduttivo, sentirsi considerata dal padre ancora una “creatura”, una bimba ancora insignificante come donna. Da qui la loro lacerante conflittualità: lei, donna matura, che vuole essere considerata come tale; lui, padre assente, che non intende accettarla per quello che realmente è: si rifiuta di vederla cresciuta, terrorizzato dall’idea di doverla perdere da un momento all’altro. È un uomo troppo preso dal suo ruolo sociale, è un padre immaturo, gravemente “infermo”, che si ostina a voler ignorare l’ormai inevitabile ruolo della figlia, e non si accorge che questa sua miopia ha scatenato in lei un progressivo stato di ansia, di profonda insicurezza, di annullamento di ogni slancio vitale. Soprattutto non capisce che l’unica medicina che può salvare sua figlia è già a sua disposizione, senza dover ricorrere a terzi: farle finalmente sentire tutto il suo amore di padre: “Tu sei mia figlia, mi vai bene, mi piaci così come sei; apriti alla vita, fiorisci, io ti amo e continuerò sempre ad amarti, perché tu sei mia figlia!”.
A questo punto cosa fa Gesù per guarire il padre, l’unico vero responsabile dei problemi della figlia? Gli dice solo: “Non temere, solamente abbi fede”. Cosa significa?
Gesù sente la paura del padre, sente il suo terrore davanti all’eventualità di perdere la figlia: Egli sa che l’unico responsabile della malattia della figlia è lui, il padre, che non vuole vederla crescere, non vuole lasciarla andare, non vuole accettarla come donna. E allora gli dice: “Devi aver fede, devi aver fiducia in lei; smettila di aver paura, di avere tutto questo terrore; devi capire che è proprio questa tua mancanza di fiducia in lei, questa assenza del tuo amore che la uccide; è questa tua paura di perderla che le impedisce di vivere. Se non ti liberi di queste ossessioni, tua figlia non potrà guarire e vivere”.
Poi, rivolto alla figlia, la chiama: “Talità”, giovane ragazza, noi oggi diremmo “signorina”; per Gesù lei non è una bimba, la “figlioletta” del padre: per lui è ormai una donna. Sembra dirle: “Sei grande, matura, indipendente; ricordati che non appartieni a nessuno; non sei proprietà di tuo padre, appartieni solo a te stessa; non vivere quindi da dipendente, da schiava. Tu sei la regina, sei la padrona indiscussa della tua vita, vivi da regina!”.
E la esorta dicendo: “Ègheire”, svegliati; e la ragazza immediatamente “anèste”, si alzò.
L’evangelista usa qui gli stessi verbi tipici della risurrezione di Gesù. Ciò sta a significare che risurrezione non è solo passare dalla morte alla vita; ma c’è risurrezione anche ogni qualvolta noi “passiamo” da uno stile di vita statico, amorfo, ad un altro più vitale, più appassionato, più libero, più vero. In pratica per noi è risurrezione quando guariamo, quando cioè diventiamo più consapevoli di noi stessi e liberiamo gli altri dalle nostre proiezioni di morte.
Allora, “Ègheire!”, svegliamoci! Alziamoci, apriamo gli occhi; non ci accorgiamo che viviamo solo per compiacere gli altri? Che cerchiamo l’approvazione di tutti? Che mendichiamo agàpe, amore, da chi può darci solo eros? Non ci rendiamo conto che in noi si è perso “l’uomo” e viviamo solo del nostro “ruolo” temporaneo? Non vediamo che ce la stiamo raccontando, che ci inganniamo da soli? Che continuiamo a confondere l’amore con il possesso? Non ci accorgiamo che siamo sempre di corsa, perché se ci fermiamo anche solo un istante, capiamo di non aver realizzato nulla? “Ègheire”: il nostro sonno deve finire, le nostre illusioni devono cadere: non lasciamoci trascinare stancamente dagli eventi, non adattiamoci ad essi, non continuiamo a “tirare avanti”. Svegliamoci, “passiamo all’altra riva della vita”, perché solo così riusciremo a vedere in faccia la realtà: dura e terribile all’inizio, in quanto abituati a vedere ciò che non esisteva, ma poi vitale, entusiasmante, eterna. Amen.

giovedì 21 giugno 2018

24 Giugno 2018 – Natività di san Giovanni Battista


“Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: Giovanni è il suo nome”.

È il nuovo che ci fa vivi: questo in estrema sintesi il messaggio del vangelo di oggi, scelto dalla liturgia per commemorare la Nascita di Giovanni Battista, il precursore di Gesù.
Per capirlo meglio dobbiamo necessariamente leggerlo nel suo contesto.
Zaccaria, il padre del Battista, è un sacerdote: in Palestina ve n’erano circa 18.000 su 600.000 persone. Si diventava sacerdoti non per vocazione ma per nascita, di padre in figlio.
Zaccaria era sposato con Elisabetta: il vangelo dice che erano “giusti e che osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”.
Ma non hanno figli. Sono sterili. Grave cruccio, perché nella Bibbia la sterilità è vista come punizione dell’empio da parte di Dio (Gb 15,34). Ora, non si può certo dire che Zaccaria ed Elisabetta fossero persone empie, anzi inizialmente erano molto religiose: con il passare del tempo, però, questa loro impossibilità di avere figli, era diventato un tormento tale da intaccare la loro religiosità, privandola di qualunque slancio del cuore e dell’anima.
Tant’è che quando un giorno l’Angelo del Signore (Dio stesso) apparendo a Zaccaria gli annuncia che Elisabetta avrà un figlio egli, che avrebbe dovuto essere l’uomo più felice del mondo, gli risponde quasi irritato: “Come è possibile? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni!” (Lc 1,18). Come mai il sacerdote Zaccaria è così scostante con l’Angelo, arrivando quasi a rifiutare il figlio che da sempre lui ed Elisabetta ansiosamente aspettavano? Perché le condizioni che l’angelo gli pone implicano delle conseguenze che per lui sono troppo pesanti e incomprensibili: prima di tutto quel “Lo chiamerai Giovanni!”: Zaccaria capisce immediatamente che questo andare contro la tradizione di Israele che stabiliva per il primogenito lo stesso nome del padre o del nonno in segno di “continuità”, significa per lui l’interruzione della sua linea genealogica, significa mettere fine ad un passato, ancorché sterile ed amorfo ma senza contraccolpi, per cedere improvvisamente il passo alla novità, ad un’era messianica rivoluzionaria in cui, e questo è il secondo motivo del suo disappunto, i “figli” avrebbero avuto il compito di “ricondurre verso di loro i cuori dei padri” (Lc 1,16): cosa veramente impensabile, improponibile. Soltanto pensare che da quel momento i figli avrebbero annullato l’atavico rapporto di dipendenza dal padre, manda in frantumi tutte le sue certezze: se prima infatti i figli erano i continuatori, i trasmettitori alle generazioni future del patrimonio paterno, fatto di storia, di esperienze, di ideali, di valori, adesso improvvisamente sono i padri che devono convertirsi alle novità dei figli, sono questi che assumono il ruolo di maestri nei confronti dei loro padri; l’inesperta gioventù si impone sulla saggezza dei vecchi. È questa la grande novità destabilizzante: l’avvento di una prospettiva storica radicalmente innovativa e rivoluzionaria (il Battista, Gesù Cristo). È dura, è contro i dettami della Scrittura, della Tradizione, della Storia del suo popolo: e questo Zaccaria non lo accetta. E diventa muto (Lc 1,22). Uomo giusto, sempre coerente con la fede dei Padri, dentro di lui tutto era già stabilito, tutto era chiaro e programmato: in lui non c’era spazio per il nuovo: era irrimediabilmente morto nell’anima.
Elisabetta comunque rimane incinta, e partorisce: ed è qui che si aggancia il vangelo di oggi, che ci descrive non tanto la nascita del Battista ma la sua circoncisione (Lc 1,59).
Infatti all’ottavo giorno la Legge prescriveva di circoncidere il neonato. Con questo rito il bambino maschio veniva ammesso alla comunità di Israele e alla Legge. Il rito veniva normalmente compiuto dal capofamiglia, assistito dai parenti e dalla gente del vicinato; ed è in questa occasione che il capofamiglia impone il nome al figlio. Le donne non avevano autorità su tutto questo. Tutti si aspettano che Zaccaria dia a suo figlio il suo nome: è la prassi comune, il segno di una tradizione che continua. Ma interviene Elisabetta: “No, non si chiamerà come suo padre. Si chiamerà Giovanni”.
Ebbene: ogni rottura di rito, di tradizione, di uso, di consuetudine, comporta sconcerto e rifiuto. Diceva Schopenhauer: “La verità, come la novità, passa per tre gradini: dapprima viene ridicolizzata; poi viene violentemente contrastata; infine viene accettata come ovvia”.
Nel frattempo, finché è rimasto muto, qualcosa in Zaccaria è cambiato. Egli cioè ha permesso a quanto gli stava accadendo di cambiarlo, di farlo diverso, di trasformarlo.
E quando gli chiedono come vuole chiamare il figlio, visto che non può parlare, prende una tavoletta e scrive: “Giovanni è il suo nome!”. Zaccaria ha finalmente capito. E proprio perché ha accettato il “novum” di Dio, permettendogli di cambiarlo, di farlo diverso, torna a parlare; e non solo parlerà ma addirittura canterà pieno di Spirito Santo il sublime “Benedictus” (Lc 1,67-79).
Bene: questo è il Vangelo. Il suo messaggio per noi? “È il nuovo che ci rende vivi!”
Qual è infatti la cosa che più ci fa sentire vivi, eccitati, pieni di vita? Sicuramente la novità, l’attesa di una nuova e concreta prospettiva di vita. Quando ci nasce un figlio (il “nuovo” che arriva), ci sentiamo felicissimi; così quando dobbiamo iniziare una nuova attività, ci sentiamo “alle stelle”. Ogni giorno noi mangiamo nuovo cibo perché il corpo rinvigorisca, rimanga in vita. In ogni istante noi respiriamo nuova aria e tutto il nostro corpo si rinnova costantemente: in due mesi tutte le cellule del nostro corpo sono nuove. Noi siamo continuamente immersi nel nuovo anche se non lo sappiamo. Nella vita materiale, insomma, noi abbiamo assoluto bisogno del nuovo. Come pure nella vita spirituale: tant’è che il termine stesso “Vangelo” vuol dire “buona nuova”: e Gesù fu rifiutato e giustiziato non perché il suo messaggio era improponibile, ma perché era nuovo.
Se nella vita sociale ci comportiamo sempre allo stesso modo (bellicoso o accondiscendente), è chiaro che i risultati che otteniamo saranno basati su intolleranza o accoglienza. Ma se cerchiamo di proporci con altri atteggiamenti, nuovi e diversi, avremo sicuramente maggiori possibilità di relazionarci positivamente: se adottiamo infatti dieci nuove strategie, sicuramente avremo dieci possibilità di successo in più.
Così, se basiamo la nostra fede solo su quel poco che abbiamo imparato da bambini al catechismo, non è male, ma è decisamente poco. Se però cerchiamo di imparare sempre qualcosa di nuovo, se ogni giorno cerchiamo di leggere, di studiare, di meditare, sicuramente la nostra fede ne trarrà beneficio, si amplierà, si irrobustirà, permettendoci di capire meglio chi è Dio, chi è Gesù, cosa dice e insegna il suo Vangelo. E personalmente ne trarremo un aiuto più consapevole e meritorio.
L’uomo, insomma, se non c’è il nuovo che lo impegna di continuo, lentamente ma inesorabilmente scivolerà in una monotona staticità psichica, fino al punto da rimanere con il cuore e l’anima completamente aridi, vuoti, morti. Amen.