giovedì 26 aprile 2018

29 Aprile 2018 – V Domenica di Pasqua


«Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano». (Gv 15,1-8)

Il brano del vangelo di oggi è tratto dal lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, e manifesta loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: parla di sé, di loro, di ciò che lo preoccupa, di ciò che li aspetterà in futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. E per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vite e dei tralci: Lui è la vite, loro i tralci: il tralcio, rispetto alla vite, è indipendente, è un'altra cosa. Non è la vite. Ma se il tralcio rimane unito alla vite porta frutto; staccato da essa, tagliato via, dissecca e non porterà mai frutto. La vite è per il tralcio la forza, il nutrimento, la vita, il suo tutto. E il tralcio, pur essendo tralcio, diverso dalla vite, forma un tutt'uno con la vite.
L’immagine, molto chiara e accattivante sul rapporto vitale che ci “lega” a Gesù, rende anche perfettamente ciò che dovrebbe essere la comunità cristiana: tutti uniti (un’unica vite) ma ciascuno nella sua grande diversità (tralci diversi con una resa diversa). Infatti, pur essendo un tutt’uno con la vite, siamo comunque assolutamente “diversi”, siamo cioè tutti “entità uniche e autonome tra loro”. Guardiamoci attorno: c’è chi ama l’arte, chi il disegno, chi la musica, chi la pittura, chi lo studio, chi la letteratura, chi lo sport, chi viaggiare. Ma se non siamo per niente studiosi, o artisti, o musicisti, o sportivi, non per questo siamo inferiori agli altri: siamo tutti tralci, è vero, ma “dissimili” tra noi. Ogni tralcio è se stesso, siamo noi, sono io: nome e cognome.
Spesso succede, invece, di pensarci tutti uguali: e pretendiamo di uniformare gli altri a noi (non noi agli altri!); se non corrispondono al nostro modello, non ci soddisfano, li critichiamo, li giudichiamo, li condanniamo. Non sappiamo accettare la diversità, l’unicità altrui. Ognuno invece ha una sua identità, una sua dignità, una sua potenzialità; ognuno è un tralcio singolo, sviluppato per portare la sua quantità di frutto.
Ciò che unisce una famiglia, una comunità, non è fare tutti insieme le stesse cose, ma è l’amore, il dialogo, la condivisione.
Molte famiglie si credono unite perché, magari, si ritrovano insieme tutte le domeniche a pranzo. Ma questa non è unione. Unione significa essere un’anima sola, un cuore solo; significa condividere reciprocamente i propri pensieri, le proprie emozioni, le proprie preoccupazioni, la propria vita: esattamente come avviene tra la vite e i suoi tralci.
L’allusione alla vite era molto comune ai tempi di Gesù. Il vino, frutto della vite, per gli antichi era il simbolo della felicità, dell’ebbrezza, dell’intensità del piacere, della vita vera. Quando a Cana, alle nozze, manca il vino la festa sembra compromessa, sembra finire; ma poi ci pensa Gesù e la festa e le danze ricominciano con maggior entusiasmo perché il vino, quello migliore, improvvisamente è riapparso in abbondanza. Così l’immagine dei tralci uniti alla vite, proposta dal vangelo di oggi, ci dice gioia, felicità, frutto abbondante, vendemmia assicurata: e ciò grazie alla vita, alla linfa che scorre continuamente al loro interno.
Il riferimento a noi è immediato: se perdiamo contatto con le nostre radici, con la vite, con la Vita, nessuna gioia è più possibile. Noi infatti siamo come tanti tralci: per cui non separiamoci dalla vite, dalla nostra unica fonte di Vita; non isoliamoci mai, non separiamo mai il nostro cuore dalla nostra anima, non distruggiamo la comunione profonda che li lega, non tagliamoci fuori da questa intimità, da ciò che abbiamo e proviamo dentro di noi, perché, in quel preciso istante, noi ci perderemo; non avremo più linfa, seccheremo, moriremo, diventeremo inutili sarmenti destinati a bruciare. È la legge fondamentale della vita.
Gesù si propone come la Vite/Vita vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto della vita, io sono l’ebbrezza della vita, io sono l’elisir della vita, io sono il vero piacere della vita”.
Ogni volta che il sacerdote nell’eucaristia pronuncia sul vino: “Questo è il calice del mio sangue, versato per voi”, ci suggerisce due cose importanti: che il sangue rappresenta la sofferenza, l’aspetto difficile della vita, l’aspetto duro, ostico, doloroso (del resto nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma ci dice anche che il vino di quel calice è Gesù stesso, quel vino è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere; è ciò che ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, amore, essenza di vita perenne.
La vita è un piacere; vivere è bello, entusiasmante, appassionante. Nella misura in cui sperimentiamo, assaporiamo, viviamo l’Amore.
Molti straparlano di amore, di amore di Dio: sono convinti di essere gli unici “illuminati”, gli unici destinatari, gli esclusivi custodi dell'amore divino; e per essere degni di questa loro “elezione”, conducono una vita triste, sconsolata, passiva, con scelte volutamente cariche di sacrifici, di sofferenze, di privazioni. Ma non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi. Dio ha creato il mondo, le persone, le cose, il buon cibo, il sole, il vento, le stelle, i fiori e i colori, solo ed esclusivamente per noi; perché noi li potessimo ammirare, prendere, assaporare; perché potessimo gioire della loro bontà, riempiendoci il cuore e l’anima.
Dio è buono. Egli ci ama e ci vuole soddisfatti. Non dobbiamo aver paura di essere felici. Il Talmud dice in proposito: “Saremo giudicati per tutte le bellezze e i piaceri che Dio ci ha messo a disposizione e che noi abbiamo sdegnosamente ignorato”. Ovviamente non dobbiamo mai assolutizzare questo piacere, non dobbiamo finalizzarlo per non diventarne succubi. Tutto ciò che esiste, il mondo intero, esiste per noi; ma esiste non perché lo possediamo egoisticamente, non perché lo rapiniamo, lo dominiamo, lo distruggiamo, ma perché lo godiamo, condividendone serenamente la bellezza e la bontà con i nostri fratelli.
Noi invece vorremmo possederlo questo mondo: vorremmo che esistesse solo per noi, che fossimo noi i soli a goderne la bellezza: ciò succede inconsciamente, per esempio, anche quando, di fronte ad un paesaggio incantevole, oltre che a fermarci ad ammirarlo, a goderne in silenzio la sua maestosità, ci preoccupiamo soprattutto di fotografarlo in ogni suo particolare, in ogni sua sfumatura; vogliamo cioè in qualche modo catturarlo, possederlo, custodirlo sempre con noi, a nostro esclusivo uso e piacere. Il peggio purtroppo è che ci comportiamo così anche con le persone: spesso non le godiamo, non gustiamo la gioia della loro presenza, della loro compagnia, della loro amicizia; ci preoccupiamo soprattutto di trovare un modo per servirci di loro, siamo preoccupati soltanto di possederle, di sottometterle a nostro uso e consumo.
Godere è lasciare invece che le persone esistano, che vivano la loro vita. Godere è condividere la loro anima dentro di noi, assaporarne la bontà, la generosità, la disponibilità, ma lasciarle libere dove sono, non volerle possedere, circuire, perché non sono nostre. L’amore vero è gioia pura che dà continuamente vita; il possesso invece, anche se al momento è attraente, se stuzzica i nostri sensi, se ci offre soddisfazione immediata, ben presto svilisce, perde la sua attrazione, intristisce e soffoca l’anima.
L’immagine del tralcio unito alla vite ci ricorda il presupposto della sopravvivenza: se il tralcio si stacca dalla linfa che lo nutre, muore. Ecco perché il vangelo dice: “Rimanete in me”. Ce lo ripete insistentemente. Perché in questo “rimanere” c’è il segreto di ogni cosa. Se ci stacchiamo dal nostro Spirito interiore per noi è la fine. Se crediamo che la felicità consista nell’esteriorità, nel possedere, nel gozzovigliare, nel divertirci e basta, ci illudiamo: continueremo per tutta la vita a rincorrerla invano, senza alcun risultato, perché ciò che ci rende veramente felici non si trova all’esterno, ma dentro di noi. Le parole di Gesù sembrano lontane, astratte, riservate ai grandi mistici: “Rimanete in me; io in voi; voi in me”. Sembrano astruse, ermetiche, ma al contrario dicono una cosa semplice, elementare: l’intimità con Dio, linfa vitale, è data non da quanto facciamo, ma da quanto in profondità noi andiamo. Solo nel nostro profondo possiamo incontrarlo e rimanere in contatto diretto con Lui.
Tutti noi andiamo in chiesa per incontrarlo: ma non basta. Non basta andare in chiesa e riempire Dio di paroloni, di promesse, di inchini e genuflessioni a mezz’asta! Molti purtroppo parlano a Dio ma non con Dio. Molti cristiani, come pure molti preti e persone consacrate, quando sono in chiesa, quando pregano, dimostrano inequivocabilmente di non provare alcuna vibrazione interiore, alcuna vitalità spirituale, nessuno slancio: solo superficialità. Sembra proprio che le parole del Vangelo che proclamano non li riguardi; che non si lascino toccare da ciò che fanno e sentono; che non provino in alcun modo l’ebbrezza del canto o la commozione del silenzio. Insomma, dimostrano di essere persone che non parlano con Dio; semmai persone che lo riempiono semplicemente di fumo, di chiacchiere, di dovuto, di noia.
Nella vita, ovunque siamo, qualunque cosa facciamo, possiamo trovare la felicità autentica, assoluta, solo dentro di noi, nell’anima, punto di contatto con Dio, santuario in cui il suo Cuore palpita col nostro, sorgente da cui sgorgano le nostre emozioni più vitali: il pianto, la gioia, il dolore, il conforto, la riconoscenza, l’amore. “Introire secum” vuol dire allora percepire questa linfa divina che scorre dentro di noi, esserne riempiti, saturati, sommersi; vuol dire “rifugiarsi dentro”, nella nostra anima, e lasciarci sommergere interamente da Dio. Se rimaniamo lì, in Lui, allora finalmente capiremo “chi” siamo in realtà; allora finalmente capiremo quanto fortunati siamo ad averlo sempre con noi; allora finalmente conosceremo tutte le sfumature della Sua chiamata, tutte le implicazioni per la nostra vita, anche quelle più impegnative e forse a noi meno gradite. Ma soprattutto allora potremo finalmente perderci nella Sua grandezza, nella Sua bellezza, nella Sua immensità, nel suo Amore infinito. Amen.




mercoledì 18 aprile 2018

22 Aprile 2018 – IV Domenica di Pasqua


«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11-18).

Il vangelo di oggi indugia nel tratteggiare quelle che sono le qualità di un pastore “buono”.
Pastore buono è colui che segue le pecore, colui che si prende cura di loro: le conosce per nome, una per una, le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino a quando non le trova; egli ama talmente le sue pecore, da dare perfino la propria vita per loro. È l’opposto del pastore mercenario: questi fa il “pastore” per lavoro, per soldi, per interesse, in cambio di un tornaconto; a lui non interessano le pecore, ma l’utile che può ricavare da esse. Non le ama, le sfrutta: esattamente come succede spesso anche a noi. Invece di prodigarci per i fratelli, invece di aiutarli, noi spesso li usiamo per noi stessi; approfittiamo di loro per controbilanciare le nostre carenze. Abbiamo esempi continui di gente che abusa del prossimo: datori di lavoro, politici, amici, colleghi: “pastori” che dimostrano un certo interesse nei confronti delle loro “pecore”, soltanto se la pensano come loro, solo se sono sottomesse, se eseguono passivamente gli ordini, se non creano problemi, se sono produttive. E poi? Poi il nulla. Sono dei tiranni, degli egocentrici, degli imbroglioni, mossi soltanto dalla fame di denaro.
Tutti noi invece abbiamo bisogno di pastori “buoni”, di pastori autentici: persone che ci siano sempre, che ci diano la certezza di venire sempre accolti, accettati, voluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone delle quali poter dire: “Sono tranquillo perché so che se anche tutto andrà male tu ci sarai sempre, non mi abbandonerai mai, sarai sempre con me”. Persone che ci rassicurano, che hanno un cuore che trabocca d’amore.
Sono questi i pastori che dobbiamo imitare: perché nella vita tutti siamo chiamati a rivestire un ruolo importante di “pastori”, di guide responsabili.
Prima di tutto siamo i pastori di noi stessi: il recinto è la nostra vita e dentro ci sono le nostre pecore: ci sono cioè le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre aspirazioni, le nostre necessità. E come il buon pastore dobbiamo amarle, queste nostre pecore, dobbiamo conoscerle, sentirle nostre. Belle o brutte che siano, sono le nostre pecore e per esse dobbiamo affrontare qualunque contrarietà.
Essere allora dei “buoni pastori” di noi stessi significa non essere troppo intransigenti, troppo sicuri di quanto facciamo, troppo orgogliosi; significa aver pazienza quando sbagliamo, cercarci e ritrovarci quando ci perdiamo, saper aspettare quando qualcosa di noi zoppica, non va. Il nostro crescere, il nostro diventare migliori, ha bisogno di molto tempo, di umiltà, di seria applicazione, di costanza. Al contrario noi vorremmo risolvere tutto velocemente, il più in fretta possibile. Il che, in pratica, equivale a non affrontare per niente il problema, o quantomeno cercare una soluzione, un rimedio, una risposta, che non coinvolga più di tanto.
In secondo luogo, siamo i pastori anche dei nostri fratelli. E dobbiamo essere anche qui dei pastori veramente “buoni”.
Dobbiamo cioè stare attenti a quelle pecore che appartengono al nostro gregge, che ci sono più vicine; a quelle, in pratica, che abbiamo davanti tutti i giorni, con le quali dobbiamo relazionarci più frequentemente: non dobbiamo umiliarle, non dobbiamo usarle, perché come pastori, come guide, come maestri, come genitori, come leader, dobbiamo averne il massimo rispetto, la massima cura: sono le “pecore” nostre compagne di percorso, sono il nostro capitale umano.
Allora, essere “buon pastore” vuol dire credere nelle proprie pecore. Vuol dire credere che in ogni persona c’è un fondamento buono. Significa avere e trasmettere stima. Se vogliamo essere ascoltati, dobbiamo ascoltare per primi. Credere nelle proprie pecore, conoscerle, vuol dire valorizzarle. Nessuna è uguale all’altra. Dirigere, guidare delle persone, significa stimolarle, incoraggiarle, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse, quello che hanno dentro, spronandole all’entusiasmo, alla creatività; vuol dire soprattutto amare le proprie pecore. E amare significa servire: mettersi cioè al servizio delle loro potenzialità, di ciò che esse sono, di ciò che possono fare, del loro bene; non significa uniformare gli altri a noi stessi, ma chiederci cosa è meglio per loro, per la loro persona. Vuol dire ascoltare, mettersi a servizio del loro mondo, di ciò che desiderano, mettendo in secondo piano ciò che invece vorremmo noi.
Attenzione però: questa importante “apertura”, questa sensibilità, non va assolutizzata: non deve cioè “condizionare”, sempre e comunque, il pastore: non deve influenzare il discernimento, le sue valutazioni. Egli deve in ogni caso conservare sempre intatta la sua libertà: chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni eventuale richiesta velleitaria, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una pecora finita fuori strada, va fatto, con carità, ma senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono dei genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno mantenere una posizione. Così il padre o la madre, per assecondare i figli, finiscono per litigare tra di loro: con il risultato che il debole, quello dei due più disponibile, passa per buono, l’altro per cattivo, intransigente. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla sempre vinta, di comportarsi da tiranno, da despota, convinto di poter fare sempre nella vita ciò che vuole. È fondamentale sapere inoltre che il troppo buono, colui che non sa dire un “no” quando serve, non verrà mai apprezzato quanto merita.
Molti pastori non si oppongono mai nelle loro decisioni per paura di offendere, di ferire, di oltraggiare gli altri; pensano di essere considerati delle persone crudeli, in balia di pregiudizi. Ma non è così: il dispiacere, la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono decisamente positivi, costruttivi, obbligano a fare delle esperienze altamente educative, fanno capire cioè che nella vita non tutto è permesso, non tutto e lecito; che sulla strada da percorrere ci sono dei limiti, dei paletti, imposti dalla convivenza, dalla morale, dalla coscienza.
Altra prerogativa del buon pastore è quella di stare sempre davanti al gregge: la guida deve sempre precedere il gruppo: deve indicargli la strada percorrendola per prima, dando il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi le scorciatoie più agevoli e sicure.
Infatti, le regole che valgono per le “pecore”, valgono anche per i “pastori”, per le guide, per i formatori. Se vogliamo che gli altri ci ascoltino, dobbiamo noi per primi ascoltare gli altri.
Se vogliamo che le regole del convivere siano rispettate da tutti, noi per primi dobbiamo rispettarle. Chi pretende dagli altri ciò che lui per primo non fa, perde ogni autorevolezza, si scredita irrimediabilmente di fronte a tutti.
Purtroppo ci sono molti falsi pastori (dirigenti, capi, preti, genitori, politici) che non sono coerenti, non sono obiettivi, abusano volentieri del loro potere. Non sentono ragioni, comandano e basta. Spesso con disprezzo e cattiveria. Trattano i loro fratelli come se fossero degli ingranaggi utili soltanto per fare soldi, per creare il loro benessere; li considerano oggetti privi di valore, di dignità. Al contrario un pastore “buono”, una buona “guida”, stimola, incoraggia, aiuta sempre gli altri: perché è convinto che questo è il suo compito, questa è la sua missione; che questo è l’amore; che questo è servire gli altri. Che questo, in particolare, è quanto ci ha insegnato Gesù. Amen.



giovedì 12 aprile 2018

15 Aprile 2018 – III Domenica di Pasqua


«Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi»: (Lc 24,35-48).

I due di Emmaus tornano a Gerusalemme e raccontano agli altri discepoli la loro incredibile esperienza, di come cioè avessero visto e riconosciuto Gesù; anche Pietro racconta il suo incontro con il Signore, e tutti sono a conoscenza dell’incontro che con Lui ha fatto la Maddalena, la mattina di Pasqua. Nonostante ciò, quando Gesù appare all’intero gruppo riunito, essi rimangono senza parole; rimangono di stucco, sorpresi, sconcertati, come se non sapessero nulla delle precedenti apparizioni, come se nulla fosse mai accaduto. Un comportamento piuttosto strano questo dei discepoli. Forse Luca vuol dirci in proposito qualcosa di particolare? La cosa è piuttosto semplice da spiegare: aderire all’esperienza del Signore Risorto, credere, sentire che lui è presente vivo e palpitante, è un’esperienza personale, un’esperienza che ciascuno deve fare individualmente. Quello che gli altri vedono o provano non basta, non è determinante. Ognuno deve “toccare” Gesù di persona, esattamente come egli stesso chiede di fare nel vangelo di oggi: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”. È l’esperienza che ognuno di noi deve fare, per capire, per vedere con la mente e con il cuore, per renderci conto che davvero Gesù è vivo, che Lui c’è, che è sempre al nostro fianco, pronto ad intervenire. Un’esperienza diretta, indelegabile. Non ci basta che altri “raccontino”; non ci basta sapere che quanti lo hanno incontrato, si sono convertiti, hanno “rivoluzionato” la loro vita. Non basta “vederlo” attraverso gli occhi di chi già crede, non basta “sentirlo” attraverso la passione di chi già lo porta nel cuore e nell’anima. Non bastano né miracoli né guarigioni, né mille vangeli. Niente ci basta, se non abbiamo noi stessi il coraggio di toccare, di provare, di capire, di amare. Noi abbiamo il bisogno di essere completamente sicuri di Lui, di poter contare su di Lui, di credergli senza ombra di dubbio. Dubitare di Lui, significa relegarlo tra le “possibilità”, equipararlo a qualunque “surrogato”: con il risultato di rimanere perennemente insoddisfatti, sfiduciati, repressi.
La fede non è un concetto astratto: è l’effetto, la conseguenza di un incontro privato, personale, diretto, reale. Diversamente la nostra fede è teoria, ipotesi, possibilità; è soprattutto “dubbio”; un dubbio radicato nelle nostre paure ancestrali, nella nostra diffidenza. Credere è un po’ come trovarsi per la prima volta di fronte al mare. Per capire cosa sia quella enorme distesa d’acqua che si apre davanti a noi, dobbiamo buttarci dentro, dobbiamo immergerci, sentirci “coperti”, avvolti totalmente da quell’elemento. Soltanto così lo potremo “sentire”, potremo sentire l’effetto che produce in noi, e scoprire la sua bellezza, i suoi pericoli, il suo fascino, le sue potenzialità; scoprire insomma che sì, ci piace.
Credere in Dio è un po’così: dobbiamo toccarlo, sperimentarlo, viverlo. Altrimenti continueremo ad avere sempre e solo delle meravigliose idee su Dio: delle semplici idee, che non potranno mai bastarci; esattamente come non riusciremo mai a saziare la nostra fame con l’idea del cibo, di una bella tavola imbandita: se non mangiamo sul serio, avremo sempre fame!
Il dubbio infatti non è mai positivo, non entusiasma, non trascina, non coinvolge. Il dubbio è pigrizia, è paura, è accidia. Vivere, sperimentare, credere fermamente, richiede invece coraggio, volontà, fatica. Per questo preferiamo dubitare. Perché fino a quando dubitiamo, fino a quando sprechiamo il nostro tempo con le più affascinanti “teorie” di questo mondo, rimaniamo immobili, non ci muoviamo, non ci compromettiamo. E questo in parole povere significa non voler toccare Gesù, né permettere che sia Lui a farlo; significa esprimere il nostro rifiuto ad aprirci alla fede. Abbondiamo di teorie religiose, senza nessuna conseguenza pratica. Decisamente comodo e indolore.
“Gesù in persona stette in mezzo a loro”: un particolare, questo, che merita alcune considerazioni. Tutte le apparizioni di Gesù risorto, infatti, tranne quelle a Maria Maddalena e a Pietro, avvengono sempre in un contesto comunitario, alla presenza cioè di più persone.
Cosa vuol dire? che l’esperienza personale di “toccare” Gesù, pur essendo individuale, deve avvenire in un contesto comunitario. È importantissimo: la nostra esperienza personale con Dio ha motivo di essere, di crescere, di svilupparsi, soltanto in un contesto ecclesiale, vale a dire nelle nostre comunità religiose, nelle nostre parrocchie, nelle nostre famiglie.
In altre parole significa che pretendere di incontrare Gesù per nostro uso e consumo esclusivo non ha senso; considerarlo un privilegio esclusivamente personale, non farne parte con i fratelli, significa escludersi dalla comunità, tagliarsi fuori dalla “Ecclesia”, unico organismo in cui Cristo ha assicurato la sua presenza in Spirito fino alla fine dei tempi. È qui che deve succedere, è qui che deve avvenire il nostro incontro personale, è qui che possiamo realmente incontrarLo.
E le pagine del vangelo ci suggeriscono anche alcune vie preferenziali.
La prima via, come ho detto domenica scorsa, è incontrarlo mostrandogli le “nostre” ferite: come ha fatto Gesù con gli apostoli, dobbiamo anche noi mostrargli le ferite delle nostre mani, dei nostri piedi, del nostro cuore.
Le mani rappresentano il nostro fare, il nostro agire, il costruire, il realizzare: sono mani ferite, quando nelle crisi della vita, pensiamo di non poter costruire più nulla, di aver inevitabilmente compromesso tutto. Ma è un errore! Perché davanti a noi si apre sempre una nuova strada, una nuova situazione, un nuovo progetto da prendere in considerazione. A condizione però che le nostre mani malate, si trasformino, diventino le “sue” mani; soltanto se diventiamo le mani di Dio potremo nuovamente lavorare per il suo Regno; siamo noi che dobbiamo agire, ma esclusivamente con le sue mani.
Con i piedi feriti, ci troviamo nell’impossibilità di camminare autonomamente, di andare avanti, di percorrere il tortuoso cammino del diventare noi stessi, del progredire nella via dello spirito. Per questo dobbiamo “risorgere” con Cristo: “risorgendo con Lui”, infatti, tutto cambia, tutto diventa più facile, anche noi “paralitici” possiamo farcela, possiamo rivivere, possiamo riplasmare con gioia la nostra vita, darle nuovi impulsi, nuovi ideali.
La ferita del cuore, infine, è la più dolorosa, perché è l’amore che viene colpito. Il nostro cuore sanguinante inaridisce, diventa sordo alle chiamate di Dio, indifferente all’offerta del Suo amore. È talmente deluso, da rifiutare qualunque tentativo di aiuto; talmente arido, da non reagire più a nulla. Si sente travolto, imprigionato, investito tragicamente dai fatti dolorosi della vita. Ma nulla è irreversibile: il primitivo seme dell’amore divino in noi, vuol tornare a nuova vita, vuol risorgere, vuole amare ancora: toccare il cuore ferito di Gesù, significa guarire, riacquistare forza, entusiasmo, vita vera, intensa, luminosa.
La seconda via è l’amicizia, la donazione. È creando legami di amicizia, di confidenza, di intimità fra le persone, che noi possiamo sentire Cristo vivo e chiaro, percepirlo in maniera forte. Solo se riusciremo ad aprirci al prossimo, amandolo, ci sentiremo anche noi accolti e amati. In altre parole dobbiamo sentirci comunità: allora partecipare alla Messa domenicale, unendoci ai fratelli nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento, è l’occasione ideale per incontrare Gesù: è lì che avremo la percezione chiara della sua presenza, di essere figli amati nella “comunità” del Risorto.
La terza via per incontrare il Risorto è l’ascolto e la comprensione delle Scritture. Come ci dice il vangelo, Gesù spiega agli apostoli le sue vicende, cos’è successo nei giorni immediatamente precedenti e perché è successo. Essi devono capire che tutto “doveva” succedere. Ebbene, anche noi abbiamo bisogno di capire la “nostra” storia, di capire il perché della nostra vita, di conoscere quel filo rosso che lega le nostre giornate a Lui; perché c’è questo filo, e noi dobbiamo assolutamente trovarne il significato, il senso, il collegamento.
Anche noi, come gli Apostoli, abbiamo bisogno di capire il messaggio profondo del vangelo e della Bibbia. Siamo ancora molto ignoranti al riguardo. S. Girolamo diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Ignorare le Scritture, significa non aver capito nulla di Cristo, del suo messaggio, della sua vita.
Purtroppo c’è ancora chi crede che il Vangelo sia un semplice documentario della vita di Gesù: una specie di film o il resoconto di qualche giornalista inviato speciale in Palestina. Siamo ancora troppo lontani da quello che realmente rappresenta la Parola per noi. Abbiamo ancora bisogno di conoscere, di capire, di cercare la verità. Tornare al Vangelo e a Gesù, significa appunto fare esperienza del Risorto, sentirci infiammare il cuore come ai due di Emmaus: perché il Vangelo di Gesù non è un libro da leggere: è una Persona, viva, vera, autentica, da incontrare, da amare, da accogliere nel nostro cuore. Amen.


giovedì 5 aprile 2018

8 Aprile 2018 – II Domenica di Pasqua


«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco» (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli. La prima ci spiega cosa significa per la nostra vita “vedere” il Signore; la seconda che “vederlo” è una questione puramente personale: nessuno infatti può toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo, al posto nostro; è un’esperienza che ognuno deve fare personalmente.
I discepoli, dopo la morte di Gesù, si erano rinchiusi ben bene nel cenacolo per paura di ritorsioni: sgomento e terrore scandivano le loro giornate. Le “porte chiuse” stanno ad indicare che non ne volevano più sapere del Signore, meglio dimenticare tutto e tornare, a tempesta sedata, alla loro quotidianità, alla vita di prima. Certo i giorni trascorsi con Gesù erano indimenticabili; avevano creduto in lui, lo avevano seguito con entusiasmo, ma poi improvvisamente l’evento tragico della sua morte ha infranto tutti i loro sogni: l’unica scelta possibile era quella appunto di rinunciare a tutto e di tornare a casa.
È per paura che anche noi molte volte rifiutiamo la fede: non ce l'abbiamo con Dio, anzi lo vorremmo conoscere a fondo, vorremmo che rimanesse nel nostro cuore; sappiamo che Dio non è un nemico, che non viene da noi per condannarci o per farci del male. Ma abbiamo comunque paura: paura di “aprirgli le porte”, paura di quanto potrebbe trovare dentro di noi, paura che ci metta di fronte alle nostre responsabilità, paura che scopra le nostre maschere, le nostre immagini di facciata, le nostre illusioni costruite sul nulla.
Ma Dio non ama il terrore. Non vuole mettere nessuno con le spalle al muro. Per cui incontrarlo significa per noi scuoterci dal nostro immobilismo, dal nostro nasconderci; significa rinunciare al nostro caparbio ed eccessivo isolamento, dal voler risolvere i problemi da soli, di testa nostra. Far entrare il Signore nella nostra vita è qualcosa di concreto, di sicuro, di vitale: sicuramente è molto impegnativo, talvolta anche doloroso: significa togliere tutti i “paletti”, aprire ogni serratura, spalancare le nostre porte, pregandolo di accomodarsi; significa mettersi completamente nelle sue mani, accettare ogni sua iniziativa; significa farlo entrare proprio là dove regna ancora il potere del buio, della paura, dell'ignoranza, della notte.
Tommaso stesso non è presente a questa prima apparizione del Risorto: come a dire che non è ancora pronto ad incontrarlo: resiste, è ancora dominato dalla paura, non vuole aprirsi a nessuno.
Ma quando la seconda volta Gesù entra nel cenacolo, presente Tommaso, e ripete “Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che non ha motivo di aver paura; Gesù non inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno; augura la pace a tutti e a ciascuno: un saluto che significa: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non aver paura”. E per dimostrare che è proprio Lui, chiede all’incredulo Tommaso di toccare con la mano le sue ferite. Perché ai primi due incontri con i discepoli Gesù insiste nel mettere in evidenza le sue ferite? Perché non la sua potenza, la sua gloria, il suo essere vittorioso sulla morte? Per dimostrarci che anche Lui ha sofferto e sperimentato il dolore: ha voluto mettersi allo stesso livello dell’umanità sofferente, ha voluto incontrare il nostro io sofferente, per dimostrarci la volontà di eliminare tutto ciò che ci fa male, che ci impedisce di vivere, che blocca la nostra crescita, la nostra vita interiore, che ci impedisce di camminare spediti e liberi al suo seguito.
Purtroppo tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta, preferiscono mantenere le loro ferite. Soffrono ma non vogliono farsi curare. In questo modo però la ferita un po’ alla volta marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Una ferita non curata, non medicata, infetta tutto l'organismo. La vita di moltissimi uomini è un fiume di sofferenza, è piena di dolore, di rabbia, di lacrime e di umiliazioni: ma continuano a non fidarsi di Gesù.
Eppure è lui che ha messo a dimora nel nostro cuore il seme della fede e dell’amore: un seme però che ha bisogno di cure costanti, delle nostre continue attenzioni, della nostra totale dedizione; è un patrimonio nostro, strettamente personale. Il percorso e le prove degli altri non incidono direttamente sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli altri hanno incontrato Dio è sicuramente istruttivo, consolante, di sprone, ma non ci dispensa dall’andare avanti nel nostro percorso di avvicinamento: perché siamo noi, di persona, che dobbiamo incontrarlo; siamo noi che dobbiamo conoscerlo, siamo noi che dobbiamo finalmente sapere chi egli è. Il “sentito dire”, le grandi omelie, le dotte catechesi, ce ne possono parlare all’infinito: ma non possono sostituirsi alla nostra esperienza personale: siamo noi, solo noi, che dobbiamo raggiungerlo, siamo noi, solo noi, che un giorno potremo esclamare con Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti vedono…” (Gb 42,4).
I testimoni, i santi, la fede degli altri, non ci bastano: abbiamo bisogno di un incontro decisivo, illuminante, unico, tra noi e Lui. Tutti prima o poi dobbiamo incontrare il Risorto; ma dobbiamo farlo di persona, niente e nessuno possono sostituirci in questo.
Solo allora, come Tommaso, anche noi potremo dire: “Mio Signore e mio Dio”. Anche la Maddalena ha detto: “Mio Signore; rabbonì, mio maestro”. Gesù stesso ha parlato di “Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17). È una espressione che indica un possesso esclusivo, un’esperienza personalissima, pur essendo comune a tutti quelli che incontrano Dio.
Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, andiamo appunto per rivivere questo nostro incontro personale, per alimentare la nostra relazione d'amore, insomma per incontrare, per vedere il nostro Amore.
Molte persone dicono: “Io vado a Messa quando ne ho voglia”. Errore: chi ama non può esprimersi così; dimostra chiaramente di non amare Gesù, perché quando due si amano sul serio, non vedono l’ora di incontrarsi! Molte persone vanno in chiesa, ma non ci sono con il cuore, con l'anima, con il canto, con la preghiera: non partecipano, non si espongono, non si lasciano coinvolgere. Ma così non c'è alcuna intimità con Dio, non c’è alcun incontro, nessuna relazione. Non ascoltando la Parola di Dio, dimostrano di essere refrattari a qualunque invito, di essere sordi, disinteressati, impermeabili a tutto, chiusi nella loro corazza di indifferenza; si distraggono per qualunque cosa, per i motivi più futili; non sanno osservare il silenzio esteriore, né tantomeno quello interiore; non c'è intimità tra loro e Dio; esserci o non esserci è la stessa cosa. È come andare dall'amata e non abbracciarla, non parlarle, non darle un bacio. Che amore è?
Invece il nostro andare in chiesa per l’Eucaristia, deve rispondere al bisogno di toccare il Signore, di sentirlo, di sperimentarlo, di rivivere con lui il suo estremo sacrificio d’amore sulla croce. Ci andiamo perché sentiamo il bisogno di accrescere il nostro rapporto di intimità con lui. Sentiamo il bisogno di mostrare anche noi le nostre mani ferite dalle contrarietà di ogni giorno, dai pensieri che ci turbano, che ci ossessionano, dalle ansie che impediscono di esprimerci, di essere noi stessi, di diventare come lui ci ha pensato; sono insomma tutte le paure, i litigi, le incomprensioni, le relazioni che non vanno, il panico che ci assale, i giudizi della gente. Abbiamo bisogno di disintossicarci dal male, dall'odio, dal dolore. Mostriamogli tutte queste ferite aperte, e ascoltiamo la sua voce che ci tranquillizza: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”. Sono queste le parole che ci servono; ne abbiamo bisogno, ci ridanno pace, fiducia e amore per ripartire con vigore.
Ogni volta che andiamo a Messa mostriamo al Signore anche il nostro costato ferito: è la ferita del nostro cuore, la più profonda; è la ferita del nostro io, del non essere accettati dagli altri, dell'essere rifiutati, traditi, del non essere considerati nelle nostre necessità. È la ferita delle paure forti e onnipresenti, delle sensazioni amare che ci rincorrono implacabili giorno e notte; è la ferita del renderci conto di aver sbagliato tutto nella vita, di aver fallito gli appuntamenti più importanti, di non essere riusciti a crescere, di continuare ad essere, ancorché adulti, dei bambini sciocchi ed immaturi.
Offriamo umilmente alla misericordia divina questa nostra ferita, così grande, così profonda, così dolorosa. E aspettiamo fiduciosi le sue parole rassicuranti e consolatrici: “Ricevi la mia pace, non disperare, io sono con te; fidati, insieme a me tu potrai guarire, potrai risolvere ogni tuo problema, sanare ogni tua ferita; tutto si sistemerà; e se ciò non fosse possibile, non disperare, perché io continuerò comunque ad amarti sempre, come e più di prima!”.
A ben vedere, nella vita, noi abbiamo bisogno soltanto di questo: di sentirci capiti, apprezzati, amati da Dio. Abbiamo bisogno di sentirci dire che ce la possiamo fare, che la nostra dignità non è del tutto distrutta, che possiamo contare sempre nel suo aiuto, nella sua misericordia.
Allora, il nostro andare in Chiesa la domenica non sarà più un peso, non sarà più una tradizione noiosa, di cui faremmo volentieri a meno; sarà invece l’occasione settimanale attesa e gradita per incontrare personalmente Dio, per assicurargli il nostro amore, la nostra riconoscenza; per dirgli che senza di lui tutto è difficile in questo mondo, tutto è problematico; per chiedergli la sua benedizione: in una parola, la Messa diventerà allora il nostro appuntamento domenicale con Dio, per rinnovare con lui la nostra gioiosa esperienza di Risurrezione. Amen.


giovedì 29 marzo 2018

1 Aprile 2018 – Solennità di Pasqua: Risurrezione del Signore


«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).

Pasqua, è il centro focale della nostra fede: “Cristo è risorto, ha vinto la morte”. Tuttavia, bisogna riconoscere che la gente in genere non capisce e non ama molto questa festa. Il Natale è più semplice: un bambino che nasce lo capiscono tutti; è una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che la gente ama molto. La Pasqua invece è meno sentita, meno coinvolgente, meno appassionante, forse perché prima dell’esplosione di gioia per il trionfo della Vita sulla morte, ci costringe a misurarci con la crudeltà di una crocifissione e di una morte orribile e violenta nei confronti dell’uomo/Dio, volutamente da noi cercata e deliberata. Per gli stessi apostoli la notizia della risurrezione di Gesù, sopraggiunta in quel momento di grande disagio e prostrazione, li ha colti di sorpresa; assimilarla ha richiesto un processo laborioso e difficile.
Come già nel racconto della passione, anche di questa esperienza, peraltro ripetutamente annunciata da Gesù, troviamo nel vangelo un resoconto ricco di particolari, di sentimenti, di stati d’animo, dai quali possiamo trarre alcune considerazioni.
Giovanni apre alle donne: la prima a rendersi conto che durante la notte doveva essere successo qualcosa di straordinario è Maria di Magdala. Già attraverso l’analisi delle prime parole del racconto possiamo in qualche modo risalire a quello che doveva essere lo stato d’animo di questa donna: non a caso Giovanni scrive che si recò al sepolcro “di mattino, quando era ancora buio”: una antinomia, questa tra mattino (luce) e buio (tenebra), con cui l’evangelista forse voleva in qualche modo descrivere proprio il contrasto di emozioni che si stavano accavallando in lei: nel buio più totale, nelle tenebre in cui era sprofondata alla morte del “suo” Gesù, ora si stava insinuando il pensiero che una nuova realtà, eccezionale, impensabile, unica: la luce intensa, la luminosità accecante, lo splendore soprannaturale del “giorno del Signore” le annunciava la sua risurrezione, la vittoria gloriosa della Vita sulla morte.
Una domenica mattina inquietante anche per i discepoli: messi in allarme dalla stessa Maria sulla “sparizione” del corpo di Gesù, Pietro e Giovanni si portano di corsa al sepolcro: ovviamente Giovanni, il più giovane, giunge per primo, ma non entra: aspetta che sopraggiunga anche Pietro, attardato dietro a lui per la fatica dell’età. È lui che entra per primo nella tomba, ma non vede; chi invece vede è Giovanni: ovviamente non si tratta qui di notare la presenza o meno di un “lenzuolo” ripiegato; l’allusione ha un significato ben più profondo, perché “vedere” sta per “credere”. Pietro e Giovanni sono le icone di due approcci nei confronti della fede completamente opposti: il primo rappresenta colui che vuol capire con la sua testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Sia la mente che il cuore crederanno: ma la mente, il raziocinio, cerca di controllare il sentimento, cerca di contenerlo, perché il sentimento è come un’onda d’urto che travolge tutto. La mente serve per capire, per spiegare, per interpretare; l’amore invece proviene direttamente dal cuore, organo generatore di vita: l’anima, la vitalità, lo stupore, la fede, la conoscenza di Dio, sono percezioni, sono sentimenti che precedono la nostra esperienza: soltanto in seguito il raziocinio, la mente, spiegherà come e perché è successo. In parole povere succede la stessa cosa quando ci viene servita in tavola una bellissima torta: la mente, il raziocinio, cerca prima di tutto di individuarne i vari componenti, per stabilire se è più o meno buona: il cuore al contrario l’assaggia immediatamente, la gusta e gode subito della sua bontà.
Noi siamo Pietro, siamo il raziocinio, siamo la mente, quando non vogliamo dare spazio ai sentimenti che sono in noi, all’amore, alla Vita: vediamo tante cose, ma è come se non vedessimo nulla, perché tutto quello che vediamo non ci emoziona. Siamo invece Giovanni, l’amore, l’interiorità, il sentimento profondo, quando non solo “vediamo”, ma anche “capiamo” immediatamente. Continuiamo allora ad essere tanti Giovanni: quando ci relazioniamo con una persona cara, guardiamola negli occhi, entriamole dentro; cogliamo per prima cosa non tanto il suono delle sue parole, quanto le vibrazioni del suo cuore, la sua gioia o la sua tristezza, il suo slancio vitale, la sua meraviglia, il suo amore. Quando l’abbracciamo, “sentiamola”, riconosciamola dalla fragranza dei suoi sentimenti, dal profumo della sua anima. Quando preghiamo cantando, ascoltiamo le vibrazioni del nostro cuore: onde che scatenano infinite emozioni, che accarezzano le corde più intime della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, allontaniamo qualunque pensiero, entriamo in noi stessi, ascoltiamo il battito del nostro cuore: è così che percepiremo forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi.
Ogni tanto nel nostro quotidiano correre la vita, fermiamoci e ascoltiamoci. All’inizio magari avvertiremo solo il frastuono di mostri e demoni che si accalcano per avere visibilità e ascolto; ma se avremo pazienza, nella calma, nel silenzio, nella preghiera, scopriremo la tanto trascurata ma inconfondibile presenza del Dio Amore, sorgente in noi di inesauribile vita e luce.
Allora capiremo che ogniqualvolta pensandoci sconfitti esclamiamo: “È tutto finito”, in realtà qualcosa di nuovo sta prendendo vita in noi. Un qualcosa che ci pone su un livello superiore di vita, che esige da noi un salto evolutivo, una crescita spirituale. Sì, perché questa cosa si chiama fede. Avere fede significa infatti fidarci di Dio fino all’abbandono totale di noi stessi, perché in tutto ciò che ci succede, c’è sempre la sua mano benefica che corre in nostro aiuto, cercando di plasmarci, di forgiarci, di purificarci. Tutto quanto ci succede nella vita, è sempre un bene per noi: certo, a volte è doloroso, duro, per niente piacevole, ma è pur sempre necessario, perché tenta di farci andare nella giusta direzione.
Dal punto di vista materiale, storico, una crisi è sempre un salto nel buio, è sempre difficile, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre e comunque molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è profondamente destabilizzante; constatare, dopo tanti anni di lavoro e di sacrifici, di aver sbagliato tutto, è davvero deludente. Ma se vediamo le cose dall’altro punto di vista, se riusciamo a fare il salto di qualità della fede, allora tutto è risurrezione, tutto è vita. Ogni fatto grave, per quanto grave sia, per quanto ci costringa nel buio più totale, con la fede si trasforma in “luce”, diventa vita, diventa resurrezione.
Dobbiamo guardare le cose sempre con occhio sereno, con un’ottica positiva. Se leggiamo l’oggi alla Luce dell’Amore di Dio, ci accorgiamo infatti che tutto acquista autenticità, tutto ha un suo motivo, un suo lato buono; anche il male più assoluto, nella sua ineluttabilità, può trasformarsi in un bene concreto: tutto può diventare recuperabile, riscattabile; tutto può diventare “meritorio”. Dipende solo da noi. Ecco perché dobbiamo vivere sempre, ogni sacrosanto giorno, da veri protagonisti, entusiasti della vita, con iniziative sempre nuove, consapevoli però che il “mondo” non è nostro, che non ci appartiene, che risponde a regole che trascendono la nostra intelligenza. Dobbiamo imparare a guardarlo soltanto come nostra dimora temporanea: perché è in esso che dobbiamo lavorare, è in esso che dobbiamo cambiare, è su di esso che saremo giudicati. Prima o poi verrà quel giorno in cui la morte, bussando alla nostra porta, ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro: è il normale corso della vita: inutile abbandonarci alla disperazione, inutile opporsi, inutile dimenarsi: non esistono cavilli legali o avvocati a cui ricorrere. Allora capiremo che tutto quanto pensavamo “nostro”, ci era stato dato soltanto in “concessione”, “in uso”. Niente e nessuno ci appartiene: con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli.
Anche per gli apostoli la “morte” corporale di Gesù rappresentava una tragedia immane, la fine di tutto il loro mondo; non erano ancora in grado di pensare che la morte fosse per l’umanità preludio di vittoria e di vita, che la morte fosse in realtà una “rinascita”. Fu lì, al sepolcro, che iniziò la loro scoperta incredibile, irrazionale, indicibile: che cioè si erano sbagliati su tutto, che le cose non erano come loro pensavano, che la realtà andava ben oltre: che la loro vita materiale, insomma, era destinata a trasformarsi in una nuova Vita più radiosa, più bella, più intensa, una vita senza fine, spirituale, eterna.
Ebbene, sia questo anche il miracolo della nostra Pasqua: un miracolo che ci contagi, ci converta, ci cambi in profondità; la nostra “Risurrezione” ci permetta di cogliere l’invisibile nel visibile, di guardare sempre la vita con gli “occhi speciali” della fede, di vivere a piene mani l’Amore; ci convinca soprattutto che Dio è sempre presente qui, accanto e dentro di noi: nostro compito è soltanto quello di cercarlo, di trovarlo, di conoscerlo, di amarlo. Tutto qui. Amen.



giovedì 22 marzo 2018

25 Marzo 2018 – Domenica delle Palme


«Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire…» (Mc 14,1-15,47).

La Passione di Gesù è la storia di un uomo perdutamente innamorato di Dio e degli uomini. Questo suo amore profondo e l’assoluta fedeltà ad esso, lo portarono all’estrema conseguenza di accettare docilmente una delle morti più tremende e dolorose.
Egli ha vissuto l’intera sua vita con passione, con intensità, con amore: sensibile e attento a tutto ciò che gli capitava intorno, gioiva di fronte alla bellezza, all’amore, al positivo, commuovendosi e piangendo di fronte al dolore, alla malattia, alla morte. Ma è nel racconto della sua “Passione”, che la Liturgia ci propone questa domenica, che questo amore, questa bontà, questa generosità, questa mitezza, emergono nella loro potenza.
Riflettiamo insieme allora su questo tratto conclusivo della vita di Gesù, in questo suo cammino finale verso il sacrificio della croce, per ritrovare anche noi la forza necessaria per compiere questo nostro viaggio al suo seguito, per poter vivere con altrettanta carità la nostra missione di cristiani. Riviviamo le varie situazioni del racconto, confrontandoci con la condotta dei personaggi coinvolti, per capire come noi affrontiamo le nostre esperienze di vita, con quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura. In loro possiamo rivederci, possiamo ritrovarci, per capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono dei simboli importanti, delle icone stampate a fuoco, che in qualche modo vivono in ciascuno di noi.

1) I Sacerdoti e gli scribi cercano il modo di catturare Gesù con un inganno, per farlo morire”. Tramano nell’ombra, il loro complotto deve rimanere riservato, segreto, nulla deve trapelare in pubblico; l’iniziativa deve partire da altri.
Fin dall’inizio del mondo, il male ama l'inganno, il nascondersi, il camuffarsi; si insinua pericolosamente nella vita delle persone, e queste non se ne accorgono; manipola le notizie, gestisce le informazioni, falsifica la realtà, nessuno se ne deve accorgere.
Il Figlio di Dio è stato condannato e ucciso come un impostore; la sua condanna è stata costruita anche per lui sulle falsità, sull’imbroglio, sull’indifferenza generale. Il mondo purtroppo è succube del male, ne è dominato: ma gli artefici non sono tanto le armi, le guerre, quanto l'odio, l'angoscia, la paura, la disperazione che ogni uomo cova dentro di sé, nel suo cuore: siamo noi, in casa nostra, nel nostro animo, che fomentiamo le guerre mondiali, che alimentiamo l’odio universale. Dobbiamo rendercene conto e darci subito da fare: ovviamente non riusciremo mai da soli a cambiare il mondo, ma sicuramente riusciremo a cambiare noi stessi, il nostro piccolo mondo, poiché il vero e unico territorio su cui siamo sovrani indiscussi è il nostro cuore; solo lì potremo decidere se fare della nostra vita un campo di battaglia o un’oasi di pace.
E se in certi momenti saremo presi dallo sconforto poiché l’impresa ci sembrerà irrealizzabile, abbiamo pur sempre alla nostra portata un’unica alternativa, valida e immediata: amare, amare, semplicemente amare; stare vicini a chi sta peggio di noi, a chi più di noi ha bisogno di conforto e comprensione: in una parola possiamo sempre essere presenti e determinanti nel mondo con il nostro amore, offerto discretamente, nel silenzio, nell’umiltà. Perché è soltanto attraverso un amore vero, generoso, spassionato, sincero, fraterno, che possiamo esercitare il nostro potere: perché questo è l’unico potere autentico, totale, indiscutibile, che nessuno al mondo potrà mai toglierci o limitarci.

2) Giuda: “promisero di dargli del denaro”. Com'è stato possibile che uno di quelli che seguivano, che amavano Gesù, lo abbia tradito? Com'è stato possibile che uno di quelli che per Lui avevano lasciato tutto lo abbia consegnato ai nemici per quattro soldi? Rimane un mistero. Marco accenna esplicitamente al denaro. Cosa non si fa per denaro! Chi non si vende per denaro? Per denaro si arriva a vendere ciò che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il nostro cuore, la nostra anima, i nostri affetti, il nostro tempo. Ma quando abbiamo svenduto la nostra vita, cosa ci rimane? Nulla: perché a quanti barattano la propria vita, la propria dignità, per avidità di ricchezze, per accumulare denaro, non rimarrà altra fine che quella di impiccarsi, disperati come Giuda. Il denaro è solo un'affascinante illusione che conduce irrimediabilmente l’uomo alla disperazione: quando infatti, credendo di aver tutto, di poter tutto, si renderà conto che in realtà non ha nulla, non ha mai vissuto, mai amato, allora capirà di aver inseguito solo un'illusione, una chimera, un sogno. Ma sarà troppo tardi: vivrà nella morte più totale.

3) L’ultima cena: “Prendete! Questo è il mio corpo”. Il sinedrio ha già deciso di condannare Gesù, mentre Lui, come ogni buon ebreo, sta celebrando la Pasqua annuale. Tutto si svolge secondo il solito rito: un rito peraltro conosciuto molto bene da tutti i dodici, fin da quando erano bambini: consisteva nel fare “memoria” della liberazione del popolo dalla schiavitù e del loro passaggio attraverso il Mar Rosso. Ma questa volta alla solita preghiera Gesù aggiunge due frasi inedite, sconosciute: “Prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti”. Praticamente con l'immagine del pane spezzato e del vino versato, Gesù fa della sua vita un dono. Come a dire: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato e distribuito a tutti. Sono io quel vino che viene versato perché tutti ne bevano. Io desidero che dal mio morire altri gustino la vita. Desidero che la mia vita, il mio corpo e il mio sangue, siano ebbrezza, gusto, fuoco d’amore per altre persone. Voglio che la mia vita, che sta per finire, abbia un senso, diventi per voi e per il mondo intero, alimento, vita, sapore, gusto, senso, felicità”.
È così che Gesù affronta la sua morte redentrice. Esternamente nulla cambierà. Ma tutto sarà diverso, perché ciò che sta per accadere, ora ha un senso ben preciso. Anche perdendo la vita non morirà. La sua morte produrrà per sempre nuove vite. Cosa poteva Gesù donarci di più? Non ci ha donato solo delle belle parole, dei bei miracoli, dei bei discorsi. Ci ha donato tutto se stesso. Questo è il vertice della vita: “Non ti dono la mia intelligenza, la mia simpatia, i miei soldi, il mio fascino; ti do in regalo tutto me stesso”. L'amore è donarsi. In ogni eucaristia noi in sintesi celebriamo proprio questo: un Amore donato.

4) Il Getsemani: “Padre, a te tutto è possibile: allontana da me questo calice! Tuttavia non ciò che io voglio, ma quello che tu vuoi”. Gesù avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Si ritira per parlare con il Padre: è terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere: è l'angoscia di fallire, di sentirsi tradito, di finire la vita in un supplizio terribile, la croce! In questo momento sente tutta la sua solitudine. Nessuno dei suoi amici, neppure quelli più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, riescono a stargli vicino. Dormono. Non capiscono, non colgono il dramma, cosa ci sia in questione, la sua profondità. Vivono in superficie, non si accorgono di ciò che sta accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, così presi dalle loro piccinerie da non “vedere” la tragedia che sta per compiersi.
Gesù si accorge che non può contare su nessuno. È solo. Nessuno gli è vicino, nessuno lo comprende, nessuno lo consola. Eppure Gesù ha fiducia in loro.
L'uomo, nel suo profondo, è buono; ama la verità, la libertà, la vita. Se vincerà le sue paure, la sua angoscia, potrà vivere senza tradire la sua vita. Gesù “vede” tutto questo: ora lo tradiscono, è vero, ma in prospettiva un giorno lo testimonieranno: per questo, nonostante tutto, confida in essi!

5) Il tradimento di Pietro: “Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò”. Pietro è la “roccia”, è uno che ostenta sicurezza in ogni situazione. È un uomo istintivo, d'azione, un uomo che, dice lui, non teme nessuno. In realtà egli rappresenta l’uomo banale, superficiale, che dimostra di non conoscere se stesso, uno che facilmente si autoesalta, salvo poi alle prime difficoltà dissolversi nel nulla, dimostrando tutta la sua fragilità. Finché le cose vanno bene, finché sono semplici, seguire Gesù è un’impresa facile e piacevole. Ma quando c'è da fare sul serio, quando c’è da mettere in gioco la propria reputazione, la propria immagine, quando c’è da cambiare radicalmente lo stile di vita, in una parola quando è c’è da convertirsi, quando c’è da affrontare la gravità delle proprie scelte, tutti, noi per primi, ci comportiamo esattamente come Pietro: neghiamo l’evidenza, nascondiamo la verità, facciamo finta di niente, tradiamo i nostri ideali, i nostri propositi, la nostra vocazione; quando ci mettono con le spalle al muro, quando non abbiamo vie di scampo, siamo tutti come Pietro: ci irritiamo, imprechiamo, spergiuriamo; qualunque scusa è buona per camuffare la nostra inaffidabilità, la nostra pusillanimità. Preferiamo rifugiarci nell’anonimato, confonderci tra la folla! È triste ma è così. Pietro però, rientrato in sé, “flevit amare”, pianse amaramente.

6) La crocifissione e la morte. “Tutto è compiuto; e chinato il capo morì”.
Qual è il senso del patibolo, della crocifissione e della morte di Gesù? Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte le speranze di chi aveva lottato con lui, di chi aveva coltivato il desiderio e l'attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero, per lui e per questo mondo.
Cosa si può provare nel vedere chi si ama appeso ad una croce?
La croce è lo scontro fra due religioni: quella di Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei, degli scribi, dei grandi sacerdoti del Tempio, è la religione della forma, dell’apparire, del mascherarsi. Qui contano i grandi numeri, l'istituzione, l'ordinamento e l'obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto ossequioso alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, ama la vita, non la sofferenza. Gesù dà voce alle persone, le ascolta, dona ogni attenzione ai bambini, alle donne, agli esclusi dalla società; nessuno è impuro per Gesù: lebbroso, prostituta o pagano che sia, perché tutti per lui sono figli dell'unico Padre. Gesù non vuole che gli uomini si reprimano o vivano al di sotto delle loro possibilità. Gesù vuole e dice a tutti che molti mali possono essere guariti, che tante infermità del cuore e dell'anima possono essere risanate, perché noi viviamo e siamo fatti per la felicità profonda e vera. Gesù vuole che siamo umani: che non c'è niente di quanto viviamo che sia indegno agli occhi di Dio, da doversi nascondere; che davanti a Dio possiamo presentarci veramente per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere. Questa è la religione di Gesù; questa è la religione che le autorità del popolo ebreo hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma ciò che viene da Dio non muore, non può morire mai. Può essere perseguitato, ucciso, deriso, umiliato, annientato, ma non può morire. Dio è l'unica realtà. Ciò che viene da Lui; chi si affida a Lui, non muore.

7) Le donne continuano ad osservare: “Vicino alla croce stavano suo madre e la sorella di sua madre…”.
L'amore non si arrende, l'amore non può credere alla fine, alla morte. Chi vive nell'amore conosce l'eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l'amore conosce l'eternità. L'amore vuole il “per sempre”. Queste donne non si arrendono all'evidenza dei fatti perché conoscono l'evidenza del cuore, dell'anima, della vita e di Dio. E proprio per questo loro sperare al di là di ogni speranza, per questo credere al di là di ogni ragionevole fede, per questo amare al di là della fine, saranno loro le prime testimoni della resurrezione. Avevano visto bene: l'amore è più forte di tutto. Amen.




giovedì 15 marzo 2018

18 Marzo 2018 – V Domenica di Quaresima


“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”.  (Gv 12,20-33).

Il vangelo di oggi ci introduce nel mistero della vita. Dapprima, con l’immagine del seme che cade in terra, Gesù ci spiega le grandi leggi dell’esistenza: crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po’ come morire; per diventare “grandi”, adulti, bisogna infatti morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e maturare. Una vita ha senso solo se è donata, spesa, impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Seguire la propria vocazione costa a volte enormi sacrifici. Anche Gesù, uomo come noi, vive la fatica di essere fedele alla sua vocazione, di andare fino in fondo alla sua missione; anch’egli vive la paura della morte, ma come il seme che cade in terra, sceglie di morire per portare quel suo frutto, che è la salvezza per il mondo.
Giunto dunque a Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento cruciale della sua vita: deve decidere se fermarsi o andare fino in fondo. Finché ha predicato in Galilea ha avuto scontri e nemici, ma la Galilea era lontana da Gerusalemme, dal centro. Non gli aveva mai creato grossi problemi. Gesù sapeva che fino a quando agiva in periferia, la sua vita non era in pericolo; i suoi nemici non avrebbero avuto alcun motivo di perseguitarlo fino a quando il suo messaggio non avesse colpito in maniera esplicita e diretta i loro interessi religiosi e politici. Ora però deve decidere se continuare la sua missione anche a Gerusalemme, nella città “santa”, centro della religione, centro del potere. E sa che è una scelta senza ritorno: una volta presa, non sarà più come prima, mai più.
La vita ci pone ogni giorno davanti a delle scelte: a volte semplici, a volte un po’ più complesse. Prima o poi, però, arriverà anche per noi il momento delle scelte difficili, di quelle senza ritorno: scelte che non ci offrono alternative, che vanno fatte in quel particolare momento o mai più. Sono momenti decisivi in cui, con le nostre decisioni, diamo un senso alla vita, le diamo una forma, la nostra; la personalizziamo.
C’è un termine che appare ripetutamente nel testo, il cui significato è duplice: è “glorificare”, “gloria”, in greco doxa. Ora, quando noi lo leggiamo, pensiamo immediatamente alla fama, all’essere famosi, allo stare sulla cresta dell’onda, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo alla fama e agli onori tributati ai vip, ai divi della tv o ai campioni dello sport e della musica.
Ma Giovanni, nel suo vangelo, quando parla di “gloria” allude al fatto che Dio si rivela nella nostra vita, si rende manifesto, visibile, trasparente. È in questo senso infatti che la “gloria di Dio” è in Gesù: Dio, cioè, si è reso visibile in Gesù, e lo ha fatto come in nessun’altra persona. Con il suo vivere, il suo agire, il suo morire, Gesù ci ha fatto costantemente vedere chi è Dio: in particolare Egli fa apparire Dio, la gloria, quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando vive la trasfigurazione, quando dice le beatitudini; ma lo fa soprattutto nella croce, perché è nella croce che il Figlio di Dio, non sottraendosi alla morte e a quel tipo di morte, raggiunge il culmine della “gloria”, amandoci fino in fondo, donandoci la sua vita perché noi potessimo vivere: «Se il “bar” (chicco di grano), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto…»; “bar” in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”: Gesù, dicendo queste parole, alludeva a se stesso, sapeva perfettamente che era Lui, il “Figlio”, a dover morire per portare molto frutto. È Lui, infatti, che giorno dopo giorno, accetta questa sua missione dolorosissima, ma inevitabile. In qualche momento, è vero, viene assalito dall’angoscia, tentenna, perché Egli odia la morte: ma non arriva mai a pensare di potersi sottrarre, perché sa di dover dimostrare al mondo la “gloria” del Padre.
«E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Gesù ci anticipa la fine alla quale sta andando incontro; è uno spaccato della sua angoscia. Giovanni non racconta il Getsemani, non descrive la passione, l’angoscia di Gesù, come fanno gli altri evangelisti. Lo fa qui. Qui c’è tutto il turbamento, la passione, di Gesù. In questi pochi versetti, il vangelo concentra tutta la missione del Figlio di Dio, che è poi anche la nostra storia personale. Gesù è pronto ad annunciare agli uomini il nuovo messaggio di amore e speranza, di un Dio, Padre misericordioso; ma ora si trova ad un bivio: o fermarsi qui, tradire la sua missione evitando la croce, oppure proseguire fino in fondo e sacrificare la propria vita affrontando una morte orrenda.
Questo è il perenne aut aut di quanti vogliono seguire il suo esempio: essere fedeli alla volontà del Padre e alla propria vocazione costa più di qualunque altra cosa: perché ci sono momenti in cui tutto sembra finire, tutto sembra cadere, tutto sembra illusorio. Un solo conforto, sempre: la certezza dell’amore del Padre. Di “nostro” Padre.
Si, perché anche noi siamo “bar”, siamo “figli” dello stesso Padre di Gesù; ma soprattutto siamo come Gesù il “seme”, siamo quel “seme” che Egli ha piantato nel nostro cuore col Battesimo, il “seme” della Sua amorevole presenza: un atto d’amore il suo, che ci impegna seriamente durante tutto l’arco della vita: perché non possiamo vivere ignorando quel seme, o peggio, rendendolo inefficace, soffocandolo, uccidendolo: perché in questo modo siamo noi a crocifiggere nuovamente Gesù, siamo noi a soffocare Dio tra i rovi della nostra indifferenza, a uccidere la sua Voce.
È un seme, il nostro, che deve costituire la molla, lo slancio vitale che determina la nostra maturazione spirituale e umana: un seme quindi che dobbiamo metabolizzare, curare, che dobbiamo far crescere, che dobbiamo portare a maturazione.
È chiaro che per poterlo fare, dobbiamo “estirpare” dal nostro io, dalle nostre radici, qualunque erbaccia: il nostro narcisismo, il nostro egoismo, il nostro orgoglio; dobbiamo in una parola prendere coscienza della nostra “missione”, dobbiamo fare i conti con la nostra vita.
Purtroppo noi non amiamo misurarci troppo con la realtà, la temiamo, perché spesso ci sconvolge, distruggendo l’immagine di “persone brave e buone” di cui andiamo tanto fieri; molti di noi infatti vivono soltanto per loro stessi, sono semi” che marciscono senza portare frutto. Sprecano il loro tempo per cose inutili, senza alcuna importanza; sono esclusivamente concentrati su loro stessi: si credono bravi, impegnati, coraggiosi, ma in realtà sono narcisisti, codardi, pieni di paura. La loro vita non è di aiuto a nessuno, non si può imparare nulla da loro, non hanno maturato nulla. Non c’è in loro nessuna saggezza, nessuna profondità. Passano senza lasciare traccia, sono vite inutili, vuote, senza significato; hanno ricevuto in dono la Vita, ma non l’hanno donata al prossimo. Moriranno tristi perché potevano essere alberi carichi di frutti e di vita, ma hanno lasciato intorpidire il seme dal gelo del loro egoismo; hanno avuto paura di esporlo al sole dell’amore. Frutti acerbi è il loro raccolto. Sono dei falliti.

Il vero servizio, la vera carità, è mettere in circolo i frutti che abbiamo dentro; ma se dentro non abbiamo niente, se la nostra anima è un deserto arido, cosa possiamo donare?
Noi siamo vita, la nostra fecondità è dare vita, far nascere la Vita. Solo così ci sentiremo compiuti, solo così vedremo la nostra forza, il nostro seme, rinascere, crescere e fiorire negli altri; solo così ci sentiremo generatori di altra Vita; solo così ci sentiremo una piccola parte attiva di quel “donarsi all’infinito” che chiamiamo Dio. Amen.