giovedì 18 gennaio 2018

21 Gennaio 2018 – III Domenica del Tempo Ordinario


«Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1,14-20).

Anche oggi il vangelo ci parla di “chiamata”, di vocazione. Gesù camminando sulla riva del “mare” di Galilea, vede due pescatori, Simone e Andrea, intenti a gettare le loro reti. Per noi nulla di straordinario: ma cosa avrà mai visto Gesù di tanto speciale in quei due, da indurlo a fermarsi, rivolgere loro la parola e sceglierli entrambi come suoi discepoli? In fondo stavano facendo soltanto il loro lavoro, un lavoro umile e ordinario, che nulla aveva in comune con la missione che Lui intendeva affidare loro.
Gesù però capisce immediatamente chi è disponibile a seguirlo: da come si comporta nelle piccole cose, da come vive la normalità, da come si esprime, da come si relaziona col prossimo: cose semplici, piccoli particolari che rivelano comunque la personalità di un uomo.
Gesù dunque, osservando questi uomini nella loro quotidianità, scorge immediatamente tutto il loro potenziale, la loro grandezza.
Non è mai ciò che facciamo, ma è il metodo, la cura, l’amore che ci mettiamo nel farlo, che rende grandi e importanti sia noi che quanto facciamo. Gesù non ha bisogno di chiedere a quelli che incontra per la strada il loro curriculum vitae o degli attestati di frequenza alle scuole rabbiniche del tempo. Nulla di questo. A Gesù basta vedere queste persone nella loro normalità per capire subito e a fondo chi erano nel profondo del loro cuore, nei pensieri, nell’anima.
“Se mi seguirete, Vi farò diventare pescatori di uomini”, dice loro a bruciapelo. È una proposta sconvolgente, un programma di cambiamento radicale che avrebbe rivoluzionato totalmente la loro esistenza. Ma loro accettano. Piantano tutto e lo seguono.
Anche se in seguito li troviamo a fare lo stesso lavoro con le reti, (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), anche se continuano a fare le stesse cose di prima, anche se intrattengono gli stessi rapporti con i loro familiari, i loro amici, anche se talvolta dimostrano di aver conservato il loro solito carattere, tuttavia non sono più gli stessi di prima: perché è la vecchia mentalità che essi hanno abbandonato; è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: è cambiato completamente il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca (il lavoro) e la casa (la famiglia) erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella vita la cosa più importante, l’unica, è l’Amore; e l’amore lo puoi ricevere solo dalle persone, non dal lavoro, non dalla casa!
Una barca non ci può amare. Una villa non ci può amare: può essere grande o piccola, in ordine o in disordine, in centro città o in campagna, ma non ci può amare. Ci può ospitare, accogliere, ma non amare. Così il lavoro non ci può amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi per campare, ci garantisce una certa stabilità, un qualche prestigio sociale. Ma non ci può amare. E perché allora continuiamo a sognare case e ville sontuose, perché continuiamo a subordinare la felicità al possesso di ricchezze, di beni incalcolabili? Perché continuiamo a lavorare come dissennati, ponendo il lavoro, la carriera, la produzione, al di sopra di tutto e di tutti? La casa, le vetture, i beni, il lavoro, le ricchezze, non ci possono amare, e senza amore, non c’è alcuna felicità!
Ecco, in questo sta il nostro cambiamento; in questo sta la grande “conversione” della nostra vita. Se siamo convinti che la felicità risieda in quello che facciamo, in quello che abbiamo, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone. È vero: la società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli, ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è tutto, è l’assoluto; ci investe continuamente di paroloni, sempre gli stessi, che si rincorrono con frequenza e precisione maniacale: lavorare, produrre, con orari sempre più lunghi, tutti i giorni della settimana, domeniche e feste comprese, una carriera da consolidare, soldi, tanti soldi, concorrenza sfrenata, libero mercato, globalizzazione. Ma sono chimere, solo e stupide chimere! La vita passa inesorabile, e alla fine capiremo che tutto ciò, tranne l’amore, è solo spazzatura.
Se scorriamo le pagine del vangelo, troviamo forse scritto che Gesù ha lavorato senza sosta, che è stato ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le scadenze? Che ha perso la calma per non aver raggiunto qualche “target”? Assolutamente no; lo troviamo invece continuamente a dare e ricevere amore e amicizia, ad usare carità, tenerezza, comprensione, sicurezza. Gesù non era ricco: ma come uomo era sicuramente molto amato e molto felice, perché era “libero” da preoccupazioni temporali.
Non potremo mai essere autentici discepoli di Cristo, non potremo mai essere la sua Chiesa, se non diventeremo anche noi “liberi”. Il termine stesso “Ecclesia” vuol dire letteralmente “i chiamati fuori”, i “diversi”: uomini, cioè, che non agiscono per far piacere agli altri, per avere la loro approvazione; uomini, al contrario, che sono “liberi”, completamente “affrancati” da qualunque tipo di pressione interiore, uomini che non hanno altro interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello per cui sono chiamati, con amore e generosità, spinti non dalla sete di consensi, ma dalla sicurezza di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
I primi discepoli accolgono dunque l’invito di Gesù. Il tempo di scegliere, di lasciare le barche, di lasciare la loro casa, di convertirsi, in una parola di cambiare vita, è arrivato, è il loro “adesso”. Impossibile rimandare, far finta di nulla: e loro accettano senza indugi, senza tentennamenti: lasciano tutto e seguono Gesù per costruire il regno di Dio.
Quando si parla del regno di Dio, le persone sono disorientate: “Cosa vuol dire? In che consiste?”. Molti pensano al Paradiso, all’altra vita; altri a chissà cosa. Niente di tutto questo: il Regno di Dio è la Vita Vera, quella reale, quella che dobbiamo vivere oggi seguendo fedelmente le orme, gli insegnamenti di Gesù. Ogni scelta, ogni sforzo, ogni azione che noi facciamo per vivere questa Vita autentica, concorre a realizzare in noi il regno di Dio. Ecco perché è importante scegliere adesso, ecco perché non possiamo rimandare: perché è la scelta che cambia decisamente la nostra quotidianità, la scelta che realizza, che concretizza, che trasforma in vita vissuta oggi, ciò che un domani esploderà nella visione beatifica del nostro Dio. Il Regno di Dio è quindi agire adesso, subito: perché è adesso, subito, che dobbiamo mettere ordine al nostro disordine interiore.
I discepoli ricevono una proposta: ardita, rischiosa, provocante, controcorrente, fuori dai loro schemi. Ma le parole di Gesù riempiono la loro anima. Sentono i loro cuori incendiarsi di amore per Lui. Sicuramente si saranno chiesto: “Ma perché proprio noi? Cos’abbiamo noi di speciale?”. Nulla, non avevano nulla! Assolutamente nulla. E noi come loro.
Dio non ha mai scelto uomini con doti particolari, speciali, super-intelligenti o super-dotati. Ha scelto sempre persone umili, disponibili, persone pronte a farsi coinvolgere, a mettersi in gioco. Gesù non ha mai chiesto ai suoi discepoli di essere assolutamente perfetti, ma di essere disponibili, aperti: Pietro dubitò e lo rinnegò più volte, anche se per gli altri era una “roccia”; Giacomo e Giovanni erano presuntuosi, soprannominati “figli del tuono”, proprio per il loro carattere irascibile e permaloso, arrivisti al punto da pretendere per loro due i posti d’onore nel futuro “Regno” di Dio; Tommaso era sospettoso, malfidato, diffidente: se non toccava con mano, se non controllava personalmente, non credeva a nulla; Giuda era talmente attaccato ai soldi da arrivare a tradire lo stesso Gesù per trenta denari.
Ecco: una carrellata di miserie umane che ci confermano come Dio lavori con quel poco che ha a disposizione, uomini peccatori, pieni di difetti, pieni di limiti, immaturi; uomini, però, che alla sua chiamata non hanno esitazioni e si mettono completamente in gioco. Il vangelo dice che “subito lasciarono le reti”: lasciarono cioè “immediatamente” tutto quanto li teneva legati: le loro idee, i loro affetti, i loro pregiudizi, le loro “fissità”, le loro piccole manie, e lo seguirono.
Gesù passa e ci chiama. Anche a noi chiede sempre e solo la stessa cosa: di lasciare le nostre sicurezze maniacali, i nostri affetti malati, le nostre ricchezze fuorvianti, di fidarci di lui e seguirlo verso qualcosa di completamente nuovo, di sconosciuto, di incerto, ma di estremamente promettente e consolante.
La nostra vita, purtroppo, è un continuo aggrapparci a tutto, lavoro, famiglia, parenti, amici, soldi, idee, pur di non allontanarci dalle nostre posizioni. Il nostro più grande assillo è quello di cercare ovunque garanzie, certezze, rassicurazioni; vorremmo che il mondo girasse sempre secondo i nostri piani, ma questo è semplicemente assurdo. Se ci fermiamo anche solo a pensare a ciò che potrebbe succederci, è la fine; perché potrebbe veramente succederci di tutto. Se ci fissiamo a pensare al domani, al futuro, a cosa accadrà o non accadrà, se avremo o no la forza di affrontare l’imprevisto, beh, allora è davvero la fine!
Il segreto della Vita che Gesù ci offre, è invece di abbandonarci a Lui, di fidarci, di smettere di voler programmare ad ogni costo il nostro domani. Smettiamola di preoccuparci; comportiamoci come i discepoli del vangelo: si sono fidati di Gesù e Gesù li ha portati dove mai si sarebbero sognati di andare da soli. Gesù ha compiuto con loro un’opera meravigliosa, proprio perché essi hanno rinunciato di pianificare personalmente la loro vita, l’hanno donata a Lui: hanno smesso cioè di decidere autonomamente, lasciando che fosse Lui a decidere per loro. In altre parole non si appartenevano più: erano sempre loro, all’esterno nulla era cambiato, ma dentro di loro tutto era cambiato.
Ecco: questo significa “donarsi” a Dio; questo significa “seguirlo”, lasciare che sia Lui a portarci là dove vuole portarci. Donarsi a Dio, seguirlo, non comporta sicuramente alcuna affermazione personale, non significa diventare qualcuno, ottenere cariche, onori, riconoscimenti; molto più semplicemente significa “abbandonarsi”, lasciarsi guidare, lasciarsi modificare, trasformare, ricostruire, riplasmare da Lui.
Quel “vieni e seguimi” detto da Gesù, equivale ad una reale proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, un’offerta di incalcolabile valore: non è un invito a fare un giro turistico, una vacanza, a festeggiare; ma è l'invito ad impegnarci in qualcosa di molto serio, alla Sua “sequela”, alla Sua imitazione. Preghiamo allora per avere il coraggio di “andare”, di non rinunciare mai a vivere la Sua vita, ad essere come Lui ci chiede; preghiamo di non resistergli mai, ma di essere sempre pronti, come i discepoli, di lasciare tutto e diventare come loro pescatori di uomini. Amen.


venerdì 12 gennaio 2018

14 Gennaio 2018 – II Domenica del Tempo Ordinario


In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!» (Gv 1,35-42).

Il Vangelo di oggi ci descrive la vocazione dei primi due discepoli di Gesù. Di uno conosciamo il nome: è Andrea; l’altro dovrebbe essere proprio colui che descrive i particolari dell’incontro, Giovanni l’evangelista. Entrambi sono discepoli del Battista: ed è sufficiente che quest’ultimo, vedendo passare Gesù, dica: “Ecco l’agnello di Dio”, che i due, senza dire una parola, quasi attratti magneticamente dalla sua personalità, abbandonano il loro maestro e si mettono silenziosamente al seguito di Gesù. E in cuor loro sono felici, sono entusiasti di poter vivere questa inaspettata avventura.
Andrea corre poi dal fratello Simone e cerca di coinvolgerlo nel suo entusiasmo: “Abbiamo trovato il Messia!”, ma deve fare i conti con la sua diffidenza: Simone infatti non mostra né contentezza, né felicità, né interesse, né curiosità. Non per nulla Gesù, vistolo arrivare gli cambia subito il nome in “Cefa”, ossia in “Testa dura, testa di pietra”; uno insomma che al primo impatto era piuttosto “corazzato”, impenetrabile, sospettoso; ma una volta superata questa barriera, era in grado di raggiungere vette di pensiero, di amore e di intuizioni, assolutamente irraggiungibili dagli altri discepoli.
Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù bisogna lasciarsi entusiasmare, bisogna lasciarsi prendere, bisogna appassionarsi. La sua chiamata riguarda il cuore non la mente. Rispondere alla sua chiamata, significa seguirlo senza compromessi, senza fare calcoli, spinti solo dalla forza del cuore, dai sentimenti, dalle emozioni.
È successo e succede così anche per noi? Siamo veramente gente appassionata? Gente entusiasta? Siamo felici di essere Chiesa? Viviamo con trasporto e partecipazione le liturgie di lode? Ci emozioniamo? Beh, dobbiamo riconoscere che a volte è piuttosto difficile vedere nei nostri volti energia, interesse, emozione, vitalità, entusiasmo: è più facile vedere persone che ogni tanto sbirciano l’orologio…
Dobbiamo invece capire l’importanza del farci coinvolgere emotivamente da Gesù: solo se noi dimostriamo il nostro entusiasmo, il nostro essere convinti, la nostra gioia, potremo compiere quello stesso ruolo di intermediari, descritto per i primi discepoli nel vangelo di oggi.
La vera evangelizzazione, la vera missione, avviene infatti per contagio: “Oh, sapessi chi ho incontrato!? Vieni anche tu!”. E noi lo seguiamo non per chissà quale motivo, ma perché sentiamo tutto il suo entusiasmo, la sua gioia, la sua energia: sentiamo cioè che quella esperienza gli ha fatto un gran bene. E siamo colpiti dalla sua “testimonianza”.
Perché allora non fidarci? Perché non provare? Perché non sperimentare anche noi? A volte invece preferiamo rispondere: “No, no, grazie, non fa per me!”. Ma se non abbiamo neppure provato! Non è vero che non fa per noi: è che abbiamo paura, è che temiamo di metterci in gioco, è che siamo già morti dentro!
Col battesimo, con i sacramenti della iniziazione cristiana, abbiamo espresso la nostra volontà di seguire la chiamata di Gesù. Poi, diventati adulti, Egli ci ha rivolto la grande domanda: “Che cosa cercate?” Attenzione, perché alla fine ognuno otterrà solo ciò che ha ardentemente cercato; ognuno cioè non avrà niente di più di ciò che ha desiderato. Se il nostro desiderio è la ricchezza, una volta raggiunta non avremo nient’altro; se il nostro desiderio e di mangiare e bere, una volta sazi, ci fermeremo lì. Il desiderio praticamente se da un lato è la nostra spinta iniziale, dall’altro è anche il nostro limite massimo raggiungibile. In genere l’uomo desidera soprattutto “cose” materiali: l'auto nuova, l’ultimo modello di telefono, un grosso conto in banca, un buon lavoro, una casa signorile. Ma queste cose non arrivano mai a soddisfarlo pienamente: raggiunto quell’obiettivo, egli continuerà ad essere insoddisfatto, continuerà a cercare ancora “cose” nuove.
Il vero desiderio, quello della Vita piena, è invece qualcosa di grande, un qualcosa di natura celestiale, che raggiunge l’uomo sulla terra per essere realizzato: il termine de-siderio, letteralmente infatti vuol dire: “disceso dal cielo”, “de-sidera”: un progetto di cui l’uomo si appassiona, un sogno che egli sente di dover realizzare, una vocazione speciale, una chiamata divina, un qualcosa insomma di vitale importanza, cui il suo cuore si innamora.
I due discepoli chiedono a Gesù: “Maestro, dove abiti?”. In greco: pù mèneis? significa meglio: “dove rimani?”. Sembra la stessa cosa, ma il significato è diverso. I discepoli chiedono: “Dove stai? Dove abiti?”, semplicemente perché sono ancora ad un livello di comprensione superficiale; pensano cioè ad un posto fisico, ad un luogo. Ma quel verbo (mèno: trovarsi, rimanere, essere) indica più che un luogo, una realtà incorporea ben più profonda: Giovanni infatti lo mette più volte in bocca a Gesù quando vuol esprimere un particolare legame spirituale: come per esempio quando parla del “rimanere in lui, del rimanere nel suo amore ecc…”(Gv 15,5-9). Un verbo dunque che allude ad un rimanere sostanzialmente diverso: che non si riferisce cioè ad un luogo ma ad un modo di vivere, un modo di essere.
Per cui quando i discepoli vogliono conoscere il luogo in cui Gesù “abita”, dimostrano di non aver capito che Egli abita, meglio che Egli “rimane”, dentro di loro, ed è lì che lo devono trovare.
Ecco allora che questo deve essere il nostro grande impegno nella vita: smettere di cercare fuori quello che invece va cercato dentro. Perché le persone che cercano solo fuori, pensano di trovare la felicità nelle cose esteriori: ma non funziona così. La felicità non sta nell’avere, nell’ottenere cose, nel possedere, ma nell’essere Qualcuno. La felicità cioè è quello stato d’animo che noi raggiungiamo quando viviamo in simbiosi con il Qualcuno che è dentro di noi. Un traguardo che dipende solo ed esclusivamente da noi! Per questo ai due che si aspettavano da Gesù una risposta circostanziata, un luogo materiale e riconoscibile in cui seguirlo, Egli dice: “Venite e vedrete”. Non dà cioè alcuna indicazione precisa: “Volete sapere dove abito? Venite e vedrete! Volete conoscermi meglio? Venite e capirete. Dipende solo da voi. Non ci sono altre possibilità.
“Venire”, “seguire” sono infatti verbi di movimento, sono verbi dinamici: Gesù cioè non invita nessuno a starsene seduti, a vivacchiare oziosamente, aspettando che il tempo passi: il suo è un invito perentorio a muoversi, ad uscire dalle nostre posizioni egoistiche, dalle nostre idee egocentriche, dalle nostre convinzioni bislacche; il suo è un ordine: “muoviti, guarda in alto, datti da fare!”.
Quante volte sarà capitato anche a noi di voler cambiare, di scuoterci dal nostro letargo, di cambiare, per poi non concludere assolutamente nulla. Purtroppo la nostra sequela è un “vorrei, ma non posso! Anzi “non voglio, sto bene così!”. Ci dimentichiamo troppo in fretta che seguire Gesù, significa muoversi, cambiare, evolvere, migliorare. Chi non vuol camminare, chi è pigro, chi preferisce starsene tranquillo, non arriverà mai a “vedere” a “conoscere” veramente Dio. “Vieni e vedi!”. Dio insomma ci chiama a fare il nostro percorso di vita.
Per questo abbiamo paura di Lui: perché ci coinvolge, ci butta nella mischia. È un fuoco che ci brucia dentro; uno che non accetta compromessi, che non tollera i nostri “distinguo”, le nostre astuzie mentali; a Lui non piacciono le mezze misure, non fa sconti a nessuno: o tutto, o niente!
Con lui dobbiamo mirare sempre al massimo, perché se ci accontentiamo del poco, non arriveremo neppure a quello. Dobbiamo insomma “vedere”, incontrarlo dove si trova, dobbiamo fare piena esperienza di Lui, dobbiamo calcare esattamente le sue orme, dobbiamo renderci conto di cosa Egli voglia da noi: non è ammesso fermarsi ai “mi pare” ai “si dice”. Ciascuno deve “verificare”, deve controllare personalmente. Ricordate l’esclamazione di Giobbe? “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio; ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Ecco: fare esperienza di Dio, vederlo, verificarlo, constatarlo, viverlo: è questo che fa la vera differenza in chi vuole essere discepolo.
Sapere tutto sull'amore è sicuramente una cosa buona; ma provare l’amore, vivere l'amore è tutt'altra cosa. Solo quando siamo stati innamorati, solo quando abbiamo vissuto gioie e dolori, sappiamo esattamente cosa vuol dire amare. Essere laureati in medicina o in psicologia, non ci rende automaticamente medici o psicologi. È l'esperienza, l'incarnarsi nel ruolo, il continuo provare, che ci fa capire cosa vuol dire essere medici o psicologi. È come aver studiato a memoria tutto il manuale della patente: ma se non guidiamo, se non proviamo, se non ci esercitiamo, non sapremo mai cosa voglia dire guidare un'auto.
Esperienza vuol dire letteralmente “uscire da sé (dal latino ex-per-ire) per viaggiare, andare, conoscere (ire) le cose della vita da tutti i lati (perì)”. Quello che in genere vediamo, quello che sappiamo, rappresenta soltanto un raggio di luce, non è mai il sole pieno! Un punto di vista, è la vista da un punto. Per questo dobbiamo muoverci, dobbiamo continuamente progredire, altrimenti non arriveremo mai a conoscere la grandezza, l’importanza della vita.
Ecco perché seguire il vangelo è difficile; ecco perché ci vuole coraggio.
Il vangelo non è rassicurante da questo punto di vista; non ci dirà mai che tutto andrà bene, che tutto sarà semplice”. Non è così. Dio è rassicurante non perché ci garantisce l’assenza di qualunque problema, ma perché ci assicura la sua presenza costante: “Non temere, non sei solo, Io sono con te qualunque cosa accada!”.
Certo, chi non vorrebbe una vita senza bufere, un viaggio senza pericoli, senza rischi. È per questo che cerchiamo di evitare il più possibile nuove esperienze, nuovi impegni, nuovi coinvolgimenti. Ma Dio, come ho detto, non promette questo, ma la possibilità di vivere con Lui una vita intensa, alla grande, una vita in cui dobbiamo esporci, in cui dobbiamo metterci in gioco, lottare senza sosta; una vita in cui sicuramente otterremo delle sconfitte, ma anche delle entusiasmanti vittorie. Gesù insomma non ci illude. Seguirlo comporta molti rischi.
Con lui è possibile che le cose non vadano come vorremmo: dovremo fare i conti anche con il male, con la sofferenza; tutto è possibile; ma è sempre e comunque una grande esperienza che merita di essere vissuta.
La vita è il dono più grande che Dio fa agli uomini: viverla intensamente, entusiasticamente, nel suo Amore, significa dimostrargli la nostra riconoscenza, riconsegnandola nelle sue mani, ricca di esperienze d’Amore: al contrario viverla nella dissolutezza, nella disonestà, sperperandola stupidamente, in maniera insulsa, è il più grave oltraggio nei suoi confronti. Amen.


giovedì 4 gennaio 2018

7 Gennaio 2018 – Battesimo del Signore


«In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo» (Mc 1,7-11).

Marco inizia il suo vangelo presentandoci Giovanni Battista che, nel territorio posto in prossimità del Giordano, va predicando a tutti la necessità di sottomettersi al battesimo. Un battesimo piuttosto impegnativo il suo, un battesimo fondato sulla metànoia, sulla “conversione”, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di valori. Un battesimo insomma che costituisce il segno, il simbolo, dell’avvenuta conversione. In pratica il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita, cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che voi veniate da me per un semplice lavaggio esteriore che senso ha? non serve assolutamente a nulla”. Il punto focale è infatti proprio questo: il battesimo di Giovanni poggia tutto sulla ferma volontà di non peccare oltre, di astenersi in futuro da ogni altra colpa.
Il Battista tuttavia conosce perfettamente i propri limiti e rilancia il suo messaggio in una prospettiva nuova: egli sta con le spalle volte al passato, ma con il dito puntato in avanti, indica l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore, della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e definitivo perdono.
È a questo punto che succede qualcosa di impensabile, di imbarazzante. Confuso tra la folla accorsa da Giovanni, gli compare improvvisamente lo stesso Gesù; e anche lui, come tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i peccati. Un fatto che mette in difficoltà i presenti e più tardi i primi discepoli della giovane Chiesa: “che bisogno aveva Gesù di “lavare le colpe”, di farsi togliere i peccati? Che voleva dimostrare con questo gesto? Che forse anche Lui aveva peccato? Impossibile! E allora perché ricorrere al battesimo di Giovanni?”.
Marco non si pone queste domande. È lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazaret”. In quel verbo “accade” egli fonda tutta la spiegazione dei fatti. Egli intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell'antica alleanza: non a caso Gesù ha lo stesso nome di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù, come Giosuè, conduce infatti tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla terra promessa dell’amore e della libertà.
Marco dunque dice che Gesù si fa battezzare. All’inizio del suo ministero, cioè, Egli si presenta, in tutto solidale con gli uomini, in fila come tutti gli altri peccatori. Ma egli non confessa i suoi peccati, come tutti gli altri: Lui si fa battezzare soltanto per trasformare il battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo nuovo, simbolo di vita.
Giovanni fa immergere le persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, un passaggio dalla morte del peccato, alla vita della conversione: tutto ciò che c'è stato prima deve morire, deve venir estirpato, cancellato, eliminato. Ma Gesù non vive questo battesimo di morte. Lui vive un battesimo di resurrezione. Marco infatti fa notare questa differenza ricorrendo ad un verbo particolare: per dire che Gesù “esce” dalle acque del Giordano, usa anabàinon, che vuol dire “salire”, lo stesso verbo usato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Gesù “sale” finalmente in cielo. Stesso verbo, stesso significato.
Lo scopo del Battesimo di Gesù, quindi, non è tanto quello di affrancarsi dal peccato originale, di purificarsi dai peccati (che lui non aveva), quanto piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere sulla sua persona, e con Lui su ogni uomo, il dono dell’amore del Padre.
Marco infatti continua: “E subito salendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli “skizomènus”, squarciati, lacerati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni varco. Dio non si concedeva più, non si comunicava più, al suo popolo. Non c'era più comunicazione fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia diceva: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!”. Era la speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l'uomo, a rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza l'interposizione di altre chiusure.
Ebbene: questa speranza si concretizza con il battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale” dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, in Gesù, attraverso Gesù, polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l'uomo, torna a donarsi all'uomo, e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva. Marco non dice “i cieli si aprono”: perché come si sono aperti, potrebbero anche chiudersi nuovamente; egli usa un termine che richiama il senso di una deflagrazione. La differenza tra apertura e squarcio sta tutta qui: lo squarcio è un’apertura definitiva, violenta; da quel momento qualunque tentativo di chiusura sarà impossibile, il passaggio creato da uno squarcio è destinato a rimanere aperto per sempre. Ricordate? Marco usa questo stesso verbo “squarciare” quando descrive i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò in due dall'alto in basso”: il velo enorme che nascondeva alla vista del popolo la presenza e la gloria di Dio, improvvisamente, si squarcia irreparabilmente, definitivamente. Il Dio velato, il Dio nascosto, si rivela definitivamente in Gesù, in Gesù crocifisso. È lui l'immagine visibile di Dio. È il Crocifisso, il segno dell'amore di Dio reso ormai visibile a tutti e per sempre; un segno che non potrà più nascondersi alla nostra vista, anche se lo rifiutiamo, anche se non lo vogliamo più, anche se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo. Dio, dopo Gesù, non potrà mai più ritirare il suo amore per l’umanità.
La spiegazione? È la discesa dello “Spirito”. Marco qui usa l’articolo: “to pneuma”: non uno spirito qualunque, ma “Lo Spirito”. L'articolo determinativo indica la totalità della forza e della vita di Dio: ed ora tutto questo è in Gesù. Cioè tutto lo Spirito è su Gesù.
Non una parte, tutto. Gesù è il possessore dell’intero “Spirito”. In Gesù si manifesta, non una parte di divinità, ma la pienezza della divinità: l’essenza della divinità.
Ecco perché analizzando il Battesimo di Gesù, è impossibile non rilevare lo stretto contatto che esiste con il racconto della sua morte: quando Gesù “muore” (Mc 15,37) si dice infatti che “spirò” (ek-pneuo). Gesù, nei vangeli, in realtà non muore mai: non si dice mai che Gesù muore, ma che emette lo spirito. È chiaro che Gesù è morto, ma usando questo termine gli evangelisti vogliono contemporaneamente dire che il suo Spirito non muore, non può morire; egli rimane vivo, è già risorto, lui vive già da allora e vivrà per sempre: lui non è mai morto. Sulla croce Gesù ha "reso", ha restituito lo Spirito al Padre. Cosa vuol dire? Vuol dire che lo Spirito che Gesù riceve qui durante il Battesimo, è quello stesso Spirito (pneuma) che egli emette alla sua “morte”, è quello Spirito che continuerà a vivere su tutti coloro che vivranno come Lui; quello stesso Spirito d’Amore che Egli donerà a tutti nella Pentecoste, lasciandolo in eredità alla sua Chiesa.
Poi Marco dice: “E ci fu una voce (phoné) dal cielo”. Anche prima di “emettere lo Spirito” sulla croce, Gesù dà un forte grido (phoné): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?(Mc 15,34). È la voce dell'amore di Dio. Tutta la vita di Gesù è immersa nell'amore del Padre che lo sostiene, lo protegge e lo spinge a realizzare, a compiere, il suo progetto di salvezza.
Ed è quest'amore, questa voce di Dio, che fa sentire anche noi al sicuro, protetti, amati, sorretti. Noi abbiamo bisogno di un amore che ci ami al di là di tutto, un amore che ci sia sempre e in ogni caso; un amore che non venga mai meno per nessun motivo; un amore che sia impossibile perdere. Solo così, forti di questo amore, possiamo fare tutto.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma io non lo sento questo Dio che parla!”. Certo, ma se non lo sentiamo, non è perché Lui non parla, ma perché noi siamo sordi. Non lo sentiamo, perché siamo distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dai tantissimi rumori che coprono la sua voce.
Poi, dobbiamo “volerlo” sentire. Cosa che non è automatica. Perché spesso abbiamo paura di sentire quello che potrebbe dirci; preferiamo non sentirlo, preferiamo fare i sordi, preferiamo calarci in tutti i rumori di questo mondo. E invece no. Dobbiamo al contrario creare intorno a noi il silenzio dell’ascolto! Dobbiamo cioè mettere a tacere tutte le altre voci. Vi ricordate Elia? “Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza leggera” (1Re 19,11-12). Dio non ama il frastuono da discoteca: Dio ama il silenzio, il raccoglimento, la calma interiore.
E concludo con due verità, entrambe consolanti: Dio ci ama di un amore incondizionato. E quando noi ci sentiamo amati, troviamo la forza per affrontare qualunque cosa. Quando ci sentiamo nell'amore di Dio, diventiamo assolutamente irresistibili.
L'amore umano, anche il più grande, il più bello, pone sempre delle condizioni: abbiamo imparato che per essere amati, dobbiamo sempre dare qualcosa in cambio. Ma Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, perché sappiamo contraccambiare. Dio ci ama perché siamo “noi”. Quando in collegio, dovevamo andare a colloquio col Padre spirituale, avevamo imparato che bastava non raccontargli certe cose, e lo facevamo contento, evitando così di ricevere interminabili ramanzine e severe “penitenze”. Ma con Dio non è così.
A Lui possiamo raccontare veramente tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo di più, anche ciò che ci fa più male, che ci ripugna di più, che ci fa veramente schifo. Lui ci ama sempre e comunque. Lui ci ama sempre e nonostante tutto: ci ama di un amore vero, sincero, gratuito: un amore che sgorga dal suo cuore e che si chiama “grazia”. Noi dobbiamo soltanto dirgli: “grazie, Padre nostro!”. Amen.



venerdì 29 dicembre 2017

31 Dicembre 2017 – La Santa Famiglia


«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore…» (Lc 2,22-40).

La Famiglia che festeggiamo oggi è una famiglia unica, irripetibile; “sacra”, perché composta da un figlio, Gesù Cristo, Figlio di Dio; da una madre, Maria, la tutta pura, santa ed immacolata; da un padre, Giuseppe, sposo castissimo e padre “putativo-adottivo” di Gesù. Tre persone sante, a vario grado, che compongono appunto questa famiglia esemplare, a cui devono guardare e ispirarsi tutte le famiglie del mondo.
Il Vangelo di Luca, che la liturgia ci propone oggi, è piuttosto scarno di particolari sul ménage familiare di queste persone. In particolare non fa alcun cenno sui loro sentimenti reciproci; anzi ignora completamente la figura di Giuseppe; non spende una parola sulla loro vita di coppia; né tantomeno sul loro stato d’animo, sulle loro inevitabili reazioni emotive in seguito a tutte le recenti vicende che li avevano visti protagonisti.
L’unica cosa che a Luca interessa evidenziare è la loro scrupolosa fedeltà alle tradizioni, alle prescrizioni legali della loro religione; in altre parole a Luca interessa dimostrare soprattutto il rapporto imprescindibile che questi due sposi intrattengono con Dio, unico ispiratore della loro vita, centro assoluto della loro famiglia.
Il testo infatti ci racconta i particolari della presentazione al tempio di Gesù, un rito della legge mosaica, che completava tutti gli obblighi religiosi previsti per la nascita di un primogenito maschio.
A Luca dunque, i sentimenti personali di Maria e Giuseppe, non interessano: leggendo infatti il testo, si ha l’impressione che i fatti straordinari della nascita del loro figlio, in situazioni estremamente precarie, la stalla, il coro degli angeli, i pastori che accorrono, tutto quello insomma che era successo soltanto pochi giorni prima, fosse già completamente dimenticato. Che tutto fosse rientrato nella normalità: cose passate, inutile parlarne.
Ma possibile che non si siano ancora resi conto della vera identità di quel loro Figlio? Possibile che Maria non abbia ancora capito, o abbia dimenticato, le parole dell’angelo? Sembra proprio di si! Infatti cosa fanno? Assolutamente nulla di straordinario: siccome erano stati educati ad obbedire alla Legge, siccome era tradizione che tutti facessero così, anch’essi continuano a fare così. Portano cioè Gesù, Colui che è venuto a rompere con la tradizione e con il passato, a sottomettersi alla tradizione antica, a diventare figlio di Abramo secondo la legge di Mosè! Otto giorni dopo la nascita e la prevista circoncisione, Lo portano cioè nel tempio, per “presentarlo” al Signore. Un atto che consisteva nel riconoscimento formale della sua appartenenza a Dio, e nel suo riscatto mediante l’offerta di una coppia di tortore o di due giovani colombe. Punto.
Maria e Giuseppe eseguono a puntino tutto quanto previsto dalla loro legge religiosa. E Luca sottolinea questo particolare, nominando per ben cinque volte proprio la parola “Legge” (2,22.23.24.27.39). Quasi a sottolineare l’impossibilità di sottrarsi alle usanze, ai costumi, alle tradizioni. È infatti estremamente difficile buttarsi tutto alle spalle per seguire una nuova strada suggerita dal cuore. È difficile dar voce al nuovo che si agita dentro; è difficile prendersi le responsabilità delle proprie scelte; è difficile staccarsi da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che si è sempre fatto, da ciò che tutti fanno. Questo è un dato di fatto.
Anche Giuseppe e Maria, nonostante le recenti traumatiche esperienze, si sono adeguati, sottoponendo il loro primogenito ad un rito oltretutto immotivato e inutile: perché non c’era bisogno di offrire a Dio “quel” primogenito: era già di Dio, lui stesso era Dio. Né Maria, Madre immacolata, aveva alcunché di cui purificarsi.
Perché allora Luca descrive proprio questi adempimenti nel tempio? Forse non tanto per la loro effettiva importanza, quanto perché gli offrivano l’opportunità di introdurre qui l’incontro con due personaggi singolari: “un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele” e una donna molto anziana, Anna, la quale, da quando era rimasta vedova, “non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere”. Un incontro straordinario, perché entrambi questi personaggi sanciscono pubblicamente la vera identità del bambino: identificano cioè in Gesù il Cristo, il Messia annunciato dai profeti come il riscattatore, il liberatore, il redentore, il salvatore del popolo. Anzi, specificherà Simeone, quel bimbo sarà la salvezza non solo del popolo di Israele, ma di tutti i popoli, del mondo intero, superando così una volta per tutte l’ottica nazionalistica di quanti pensavano Dio come proprietà esclusiva di Israele. Un grande futuro dunque: ma che comporterà anche seri problemi e dolori, poiché la sua persona sarà inevitabilmente “segno di contraddizione”. Che voleva dire? Il senso è chiaro alla luce delle successive vicende a noi ben note: già dalla persecuzione di Erode, con la conseguente fuga in Egitto, e poi via via durante tutta la sua vita pubblica, sino alla conclusione tragica e gloriosa sul Golgota, Gesù ha portato ogni singolo uomo a prendere nei suoi confronti una posizione netta: stare con Lui o contro di Lui. Una situazione difficile che avrebbe procurato alla madre, costantemente al suo fianco, inevitabili strazianti dolori: “a te una spada trafiggerà l’anima”.
Seguire Gesù non è mai indolore. Non è come camminare su un bel sentiero pianeggiante, all’ombra, con fontanelle d’acqua e panchine su cui riposarsi, uccellini, sole: un semplice “vogliamoci bene e amiamoci” e tutto va avanti da solo, alla meraviglia. Nossignori: Gesù ci pone di fronte a scelte difficili, a dei bivi inevitabili, a delle rotture spesso dolorosissime; ci mette di fronte a noi stessi, davanti a verità dure e radicali, che non ammettono vie di fuga. Seguire Gesù è un cammino progressivo di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento di noi stessi. Egli non ci lascia sonnecchiare tranquilli: è un aut-aut: il suo vangelo è vita per alcuni, morte per altri.
Maria, la madre di questa famigliola santa, ascolta anche se non ha neppure la più pallida idea di cosa vogliano dire le parole di Simeone. Maria non è una profetessa, non è una donna onnisciente, a conoscenza di quanto doveva dire e fare, in diretto collegamento col padreterno. Anzi, Maria e Giuseppe non capivano assolutamente nulla di quanto veniva detto nei confronti del loro figlio: “si stupivano profondamente”. Maria, è vero, aveva accolto il messaggio di Dio (“Avvenga di me secondo la tua parola”), ma non immaginava certo cosa sarebbe poi successo, quanto le sarebbe costato, e soprattutto dove tutto questo avrebbe portato lei e Giuseppe. Maria non capì quel che le stava accadendo. Maria non capì neppure suo figlio Gesù: semplicemente lo seguì. Questo è stato il suo grande merito: da madre, diventare umile discepola di suo figlio. Si è cioè fidata ciecamente di lui.
La pagina evangelica si conclude infine offrendoci poche pennellate di vita di questa straordinaria famigliola: poche parole che giustificano la scelta di questo testo di Luca proprio nella festa dedicata alla sacra Famiglia: “Fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”.
Vorremmo certamente saperne di più; ma questo è sufficiente per delinearne una chiara fisionomia: anche se per ovvi motivi è definita straordinaria, dobbiamo tuttavia immaginare quella di Gesù, Maria e Giuseppe, una famiglia tutto sommato come tutte, con le sue gioie, i suoi dolori, i suoi segreti: una famiglia che ha vissuto di fede, che ha provato la gioia della nascita di un figlio, di vederlo crescere sano e forte, costretta a fare i conti con le problematiche di un futuro difficile.
In tutte le famiglie infatti non sempre gli anni scorrono tranquilli: prima o poi si affacciano problemi, sofferenze, preoccupazioni; tanto più dolorosi se provocati dalla mancanza di amore.
Ebbene: la famiglia di Nazaret ci prospetta l’unica strada da seguire, quella giusta, quella cioè di fare ogni cosa “secondo la legge del Signore”.
Certo imitare il ménage familiare di Gesù, Giuseppe e Maria, non è sicuramente impresa facile, ma uno sforzo si impone a tutti noi che ci professiamo “cristiani”.
In proposito gli altri testi della Parola di Dio, scelti dalla liturgia odierna, ci porgono una mano, offrendo alla nostra attenzione uno stile comportamentale che deve essere la base solida su cui costruire una sana convivenza. Dice infatti il Siracide: “Il Signore vuole che il padre sia onorato dai figli. Chi onora il padre espia i peccati; chi onora la madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata, ti sarà computata a sconto dei peccati”. Ma anche e soprattutto le parole di Paolo mettono in risalto l’esperienza positiva di una vita famigliare fondata sui valori dell’amore e della comprensione: “Fratelli, rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! Voi mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino” (Col 3,12-21).
Sono parole che meritano tutta la nostra attenzione e la nostra riflessione. Sì, perché di fronte alla crisi irreversibile della famiglia dei nostri giorni, di fronte allo sforzo satanico della nostra società che pretende di distruggere definitivamente il concetto stesso di “famiglia”, noi dobbiamo guardare in maniera seria e sistematica alla Famiglia di Nazareth, vera sorgente spirituale di ogni famiglia cristiana. Una famiglia che con il suo esempio ci permette un positivo recupero in termini di slancio, fiducia, dialogo, amore, perdono e tolleranza. Inoltre la presenza di Cristo in essa, è certezza e garanzia della sua stessa presenza in tutte le nostre famiglie, a condizione ovviamente che ciascun componente gli apra le porte del suo cuore; perché se vogliamo continuare sulla strada di una vera, irrinunciabile felicità familiare, abbiamo bisogno di un costante colloquio interiore con il Signore. Amen.


giovedì 21 dicembre 2017

25 Dicembre 2017 – Natale del Signore


Giuseppe doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio (Lc 2,1-14).

Per gran parte del mondo oggi è “Natale”: auguri, baci, abbracci, saluti, pranzi, panettoni, regali, sorrisi. Bene! Ottima cosa se il Natale ci aiuta a far festa, a sentirci più uniti, a volerci un po’ più di bene. Ma attenzione: noi cattolici non dobbiamo perdere di vista il centro di questa festa. Che non ci succeda di scambiare il Natale di Gesù con le luminarie cittadine, gli alberi infiocchettati, le tavole imbandite, i regali, e via dicendo. Tutto questo è contorno: è l’involucro esterno, il pacchettino, il nastro, il fiocco, il biglietto d’auguri. Ma il “regalo” vero, il Natale, è un'altra cosa. Allora scartiamolo, apriamolo questo regalo, guardiamo dentro, e facciamo in modo che oggi, 25 di dicembre, sia il Natale di Gesù. Un evento formidabile.
Dio si è fatto uomo! L'Infinito, l'Eterno, l'Onnipotente continua a preoccuparsi di noi, continua ad avere cura di noi, ad avere misericordia di noi.
Dio l'infinto ci ama: è questa la vera, grande notizia del Natale. Ci ama al punto da mandare suo Figlio in questo mondo così duro, così ingrato, così sterile. Dio non ha avuto paura: ha gettato il Figlio in mezzo a noi che non eravamo più figli; e continua a farlo ogni anno, perché ci ama perdutamente; perché vuole darci a tutti i costi un cuore nuovo, innamorato, un cuore di figli autentici.
Gesù è la più grande dimostrazione d'amore che il Padre abbia mai donato al mondo. Per questo il Natale è la festa dell'amore puro, profondo, dell’amore sincero e gratuito. 
Il Natale è la più bella notizia che possiamo ancora raccontare a tutti gli uomini tristi e frastornati di questo mondo.
Ce ne rendiamo conto? Un’idea simile dovrebbe commuoverci, intenerirci, farci sentire inondati di gioia! Dio, l'infinito, l’onnipotente, si è fatto uomo come noi, si è legato in maniera irreversibile a noi per puro amore, per una sua irresistibile esplosione di bontà: questo già da solo dovrebbe farci esplodere di gioia, farci amare la vita, ricolmarci di ottimismo.
Nella notte santa è impossibile non avvertire che qualcosa di immenso è accaduto nel mondo. Un sole meraviglioso è penetrato nel nostro buio e l'ha illuminato e riscaldato per sempre. Accorgiamoci di Gesù: accogliamolo nella nostra vita e lasciamo continuare in noi quella novità e quella santità che con Lui è sbocciata a Betlemme.
Quanta pena c’è ancora nei cuori degli uomini! Quanta ricerca di felicità, quante amarezze e quante sofferenze! Ebbene: noi tutti oggi sappiamo che la felicità esiste, ed ha un suo punto di riferimento: Gesù di Betlemme, l'Emanuele.
Occorre allora uscire dalla prigione del nostro egoismo, dalla freddezza dell'indifferenza. Facciamoci piccoli e umili: andiamo a Betlemme, accogliamo Cristo l’Amore assoluto, apriamogli il nostro cuore, riempiamoci d’amore per donarlo ai nostri fratelli, per tendere la mano a chi ci sta accanto; rendiamo ospitale la nostra casa, il nostro ambiente, il nostro lavoro, il nostro paese, la nostra città, il nostro mondo. È soltanto attraverso l'amore concreto che potremo fare esperienza di Dio. È soltanto in Lui che troveremo la pace che ci manca.
Sono quattro le parole che puntualmente la liturgia ci propone nelle messe di Natale e del periodo natalizio: luce, gioia, bontà, pace. Esse riassumono le caratteristiche di Gesù, il dono di Dio unico e irripetibile. Esse sintetizzano ciò che noi tutti, uomini e donne, desideriamo.
Si dice che il Natale è bello come un sogno. È vero. Ognuno di noi infatti sogna luce, gioia, bontà, pace. Un clima “da sogno” che questa festa riesce ogni anno a creare in noi con la riscoperta e la vicinanza della famiglia, degli amici, dei lontani, di quanti si trovano in situazioni di angoscia e di dolore...
Lasciamoci prendere, fratelli, da questo sogno! È Dio che in Gesù vuole farci sognare una vita simile; una vita come lui l'ha pensata e come noi la desideriamo. Lasciamoci penetrare da questo sogno sempre più in profondità, in modo che diventi desiderio, progetto, impegno concreto, realtà viva.
In che modo? Lo dice Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Avete ricevuto da Dio luce, gioia, bontà, pace? Donate a tutti, il più possibile, luce, gioia, bontà, pace.
Non viviamo nella insoddisfazione, non lamentiamoci continuamente: il nostro compito non è il lamento, ma la testimonianza di una vita carica di questi doni.
Sentiamo dire spesso: “Non ci sono più i valori di una volta! Non c'è più cristianesimo”. Ebbene, che aspettiamo? Mettiamoceli noi questi valori! Mettiamocelo noi il cristianesimo vero! Questo è il nostro compito! Questa è la nostra festa di Natale: riconoscere Gesù negli altri e donar loro quell’amore che Lui si aspetta da noi.
Una storiellina al riguardo.
In una gelida notte d’inverno, durante una tormenta di neve, un poveretto bussò alla porta di una chiesa, chiedendo di poter entrare per ripararsi. Il prete all’inizio non voleva farlo entrare, ma visto che quel poveraccio era proprio congelato, lo fece entrare nel tempio: “Solo per questa notte!”, disse; e si ritirò nel caldo della sua camera.
Nel cuore della notte il sacerdote fu svegliato da un forte scoppiettio: scese dal letto e corse a vedere. Rimase costernato: il poveraccio, per riscaldarsi, stava bruciando la grande statua in legno del Cristo. Il sacerdote andò su tutte le furie: “Ma cos'hai fatto? Quella era la statua di Gesù!”. Ormai, purtroppo, il danno era fatto... Comunque prese l'uomo e lo cacciò fuori al freddo polare. Tornò a letto con una rabbia tremenda in corpo: “Guarda te, uno fa il bene e poi ottiene questo!”. Finché dormiva gli apparve Gesù. Era molto arrabbiato. “Hai ragione Gesù ad essere arrabbiato per quanto è successo!” disse il sacerdote; “non l’avrei mai pensato!”. E Gesù: “Non sono arrabbiato per questo; sono arrabbiato perché hai dato più valore ad un pezzo di legno piuttosto che a me. Quell’uomo ero io!”.
Ai nostri giorni, purtroppo, nonostante la buona volontà, è difficile cogliere il vero senso del Natale: troppi sono i problemi che affliggono le nostre famiglie e l'intera società: miseria, malattie, guerre, odio, terrorismo; i poveri che diventano sempre più poveri, i ricchi che diventano sempre più ricchi...
Una grande realtà, in ogni caso, si impone oggi alla nostra attenzione: che se Dio rinnova anche quest’anno il suo Natale per noi, vuol dire che non si è ancora stancato di amarci, di darci fiducia, di offrirci il suo perdono e la sua pace, di farci dono della sua misericordiosa salvezza!
Vuol dire che ai nostri giorni Dio non si è ancora stancato di bussare alla porta del nostro cuore e di attendere la nostra adesione, la nostra accoglienza sincera e definitiva. Egli vuole ancora incarnarsi nei nostri cuori e nella nostra società, dove i suoi valori sembrano irrimediabilmente cancellati, i sentimenti più nobili irrisi e calpestati, dove l'uomo uccide spavaldamente il fratello, dove la vendetta abbruttisce i cuori, dove abusi di ogni genere vengono perpetrati sui deboli, sulle donne, sui minori, dove la droga continua a diffondere i paradisi artificiali della morte...
Oggi però, come ci dice Paolo, in tutto il mondo “è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini” (Tt 2,11). Ebbene: il mistero dell'Amore di Dio è in quel Bambino che vediamo nel presepe! Sia questo l'augurio che vicendevolmente ci scambiamo in questo giorno di luce, un augurio colmo di speranza e di gioia per una vita nuova, in cui ogni rancore e odio vengano spenti dalla pace del Bambino di Betlemme!
Buon Natale! Amen.


giovedì 14 dicembre 2017

17 Dicembre 2017 – III Domenica di Avvento


«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui». (Gv 1,6-8.19-28).

Siamo alla terza domenica di Avvento, la cosiddetta domenica “Gaudete”: rallegriamoci, perché il Natale, la venuta di Gesù nei nostri cuori, è vicino.
Il vangelo ci ripropone anche oggi la figura del Battista. Ma questa volta è l’evangelista Giovanni che ce ne parla: non è, come negli altri vangeli, l’asceta o il profeta intransigente che annuncia la distruzione se gli uomini non si convertono. Qui è il testimone.
Il Battista in Giovanni è semplicemente una indicazione, uno strumento che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me, guardate ciò che sta dentro me”. Non dice chi verrà o come verrà. Dice solo “Preparate la via... verrà uno che non conoscete... io di fronte a lui sono niente”.
Ebbene: questa è l’essenza dell’avvento. Il Battista sente che qualcosa deve avvenire, attende, aspetta. Sente che sta arrivando qualcosa, ma non sa cosa.
Rimanere in attesa, implica sempre, nel nostro immaginario, il sopraggiungere di un qualcosa di nuovo, un qualcosa di imprevedibile, di diverso, di insolito. È una sorpresa. Del resto, se conoscessimo già tutto ciò che ci riguarda, se tutto fosse già scritto, che “novità” sarebbe per noi il prossimo Natale? Che “Avvento” sarebbe il nostro?
Allora, prepararsi al Natale vuol dire: “Acconsentiamo che ci succeda qualcosa che supera le nostre previsioni, un qualcosa che non possiamo pianificare, che non possiamo controllare, che non possiamo gestire. Permettiamo cioè che la Vita ci faccia delle sorprese”.
Noi invece vogliamo controllare tutto. Noi pianifichiamo tutto. Vogliamo gestire tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il più in là. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia, svegliandoci dal nostro torpore, rendendoci consapevoli della necessità di abbandonare le nostre umane certezze, non è Dio.
Nel vangelo c’è una grande domanda rivolta al Battista: “Chi sei tu?”. E Giovanni inizia col dire chi effettivamente non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”.
È importante rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci attribuiscono, tutte le etichette che ci incollano addosso; è importante dire loro: “No, non sono come voi pensate, come voi pretendete”.
Ma noi, come siamo noi in realtà? Siamo uomini, è vero; siamo “buoni”, ok. Ma è troppo poco; ci sono milioni di uomini buoni. Siamo dei papà, delle mamme: sì, va bene, ma anche di papà e di mamme ce ne sono milioni. Siamo un marito, una moglie, dei bravi cristiani, dei lavoratori; siamo operai, professionisti, artigiani, commercianti. Sì è tutto vero, ma è sempre troppo poco. Perché questi sono semplicemente i ruoli che svolgiamo. Il ruolo è come un vestito. È buono per andare a lavorare, per andare a scuola, a teatro, al cinema, alle feste. Ma poi quando siamo soli con noi stessi, quando andiamo a letto, quando vogliamo stare in libertà, quando ci va di fare qualcosa al di fuori del nostro ruolo, il vestito ce lo togliamo, perché rappresenta il nostro contenitore, il nostro apparire all’esterno, quella parte della nostra vita che è a contatto con gli altri. Ma “dentro” di noi, chi siamo?
Purtroppo molti di noi si sono vestiti di un ruolo e vivono sempre e solo quello. Certo, recitare sempre il solito ruolo ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile: ma ci limita inevitabilmente la vita, ci fa vivere a metà.
Se lo viviamo così, infatti, il ruolo ci ingabbia, ne diventiamo schiavi, e invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. In casi del genere, scompare quello che siamo, l’essere “persona”, e rimane solo il ruolo: se infatti ci togliessimo di dosso, se ci levassimo questo vestito-prigione, di noi, del nostro “essere”, non troveremmo nulla, il vuoto assoluto.
Per cui la grande domanda che dobbiamo porci è: “Al di là di tutti i ruoli, oltre le nostre coperture, chi siamo noi in realtà? Chi siamo noi “dentro”, in profondità, nell’intimo della nostra coscienza, della nostra anima?” Questo è il grande interrogativo.
In altre parole: “C’è in noi qualcosa che ci rende unici, irripetibili, diversi, da tutti gli altri? C’è qualcosa che ci rende insostituibili?”. Perché se non troviamo nulla, vuol dire che noi, o un altro, siamo la stessa cosa; vuol dire che di gente come noi ce n’è quanta ne vogliamo; vuol dire che non siamo importanti, che siamo persone senza spessore, che “tirano avanti” senza alcun sussulto, che sopravvivono, che tra di loro sono soltanto dei doppioni, delle squallide fotocopie: come se la vita facesse fotocopie!
Allora la prima cosa da fare è quella di liberarci da tutto ciò che non siamo. La nostra grande decisione deve essere quella di rifiutare, come il Battista, qualunque identità con “altri”: “no, non sono questo! Non sono io; io sono diverso; non sono Elia, né il Cristo, né un Profeta, io sono io!”.
Riconoscere che non siamo quelli che gli altri credono, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative che gli altri ci hanno incollato addosso, è sempre molto faticoso e doloroso. Ma solo se iniziamo a spogliarci di ciò che non è nostro, se ci scrolliamo di dosso le incrostazioni che ci ricoprono, solo allora la nostra vera immagine potrà rivelarsi in tutta la sua originalità. E ne varrà la pena!
Giovanni Battista nel deserto ha trovato il motivo per cui vivere, ciò per cui è stato creato, ciò che dà senso alla sua vita; lui deve infatti richiamare tutti all’essenziale: “Abbandonate il superfluo, preparate la via al Signore, state attenti, non dormite, non sonnecchiate, il Signore vi passa vicino, non lasciatevelo scappare. Dio c’è, ma se dormite, se avete gli occhi chiusi non lo potrete vedere”. Egli è voce di qualcun altro, è strumento, è mezzo.
Questo dunque deve essere anche il nostro compito primario: dar voce all’infinito, a Dio, all’oltre, alla forza che ci inabita, ma che non ci appartiene. “Dai voce a Colui che sta dentro di te!”: noi non sappiamo parlare, ma dobbiamo comunque dare voce alla Parola: non siamo luce, ma dobbiamo riflettere sugli altri la Luce; non siamo il sole, ma dobbiamo riversare sugli altri il calore dell’Amore.
Siamo insomma chiamati tutti a testimoniare il “di più” che ci portiamo dentro. Questo è il primo servizio che dobbiamo a Dio. “Essere strumenti di Dio” vuol dire proprio questo: permettere che sia Lui a sceglierci, ad utilizzarci per suonare la sua musica, la sua sinfonia. Non siamo noi che suoniamo. È Lui che “suona” noi: non siamo noi il Musicista, ci limitiamo soltanto ad amplificare la Sua musica. È un ruolo che non ci può appartenere. Siamo solo degli strumenti. Noi siamo l’onda, Lui è il mare. Noi siamo i raggi, Lui è il sole.
In questo sta la grande chiamata di ciascuno di noi: viviamo, ma la vita non è nostra; siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra, non la possediamo; siamo veri, ma la verità non viene da noi; diventiamo liberi, ma non siamo la libertà; danziamo, ma non siamo la danza; facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, ma non siamo Dio; abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Noi insomma viviamo e operiamo, ma non siamo il soggetto operante. Il soggetto è sempre e solo Dio. Il grande male dell’uomo è mettersi al Suo livello, sentirsi esclusivo proprietario delle cose e delle persone. Le sente sue, ma non lo sono. Siamo gli amministratori delle cose, non i proprietari.
Nel vangelo c’è infine una frase forte: “In mezzo a voi c’è uno che non conoscete”. Meglio: “uno che voi non volete conoscere”. I Giudei, i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, Colui che viene. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui farà o dirà non potrà in nessun modo cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista urla, scuote, grida, strattona: ma non serve. Se noi abbiamo deciso dentro di noi che non ci interessa, niente ci può convertire. Se abbiamo deciso dentro di noi che Natale è il 25 dicembre, il pranzo e la messa (una volta all’anno ci può stare!), niente può cambiare. Se abbiamo deciso che Dio è un corollario della nostra vita, una proprietà periferica, nessuna predica ci può scalfire. Se abbiamo deciso che non vogliamo metterci in gioco, la vita non avrà mai più nulla da insegnarci.
C’è ancora chi rimane stupito delle chiese piene la notte o il giorno di Natale. Non facciamoci illusioni: ci saranno anche molte persone, ma dentro di loro, nel segreto del loro cuore continueranno purtroppo a dire: “Dio, non ci interessi, non sappiamo che farcene di te”.
Non cadiamo anche noi in tale deserto dell’anima, ascoltiamo la “Voce”, spianiamo quella strada che dal nostro cuore porta direttamente al cuore di Dio. Prepariamo in noi la venuta della “Parola” che è Cristo, perché sia Lui a dare senso alla nostra “voce”. Perché solo in Cristo, Parola eterna di Dio, possiamo trovare il nostro vero senso, il significato autentico della nostra vita. Amen.


venerdì 8 dicembre 2017

10 Dicembre 2017 – II Domenica di Avvento


«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» (Mc 1,1-8).

Dove troviamo Giovanni il Battista? Lo troviamo nel tempio? No. Eppure, in quanto “sacerdote”, figlio di un sacerdote, questo posto gli sarebbe spettato di diritto. Ma non lo troviamo nel tempio. Giovanni, ci dice Marco, è soprattutto “Voce” di uno che grida, è annunciatore, messaggero: quindi non il chiuso di un tempio, ma gli spazi aperti e selvaggi del deserto si addicono per la sua predicazione: “Convertitevi dai vostri peccati”.
Lontano dalle comodità, dagli agi dell’ambiente cittadino, nel deserto non esiste l’“ovvio”: se non si fa qualcosa per sopravvivere, si muore. Lì conta solo l'essenziale. Nel deserto non ci sono fronzoli o finezze: il deserto toglie tutte le sicurezze, le convinzioni, i riferimenti: nella solitudine uno si trova solo davanti a sé stesso, a quello che ha dentro. E arriva a vedere quella parte di sé che non vorrebbe mai conoscere.
Nel tempio tutto è bello, leggiadro: abbiamo le belle liturgie, il bel canto, la bella gente, la sicurezza: stiamo bene e rilassati. Anche se ci parlano di Dio, anche se ci chiedono di convertirci in nome di Dio, tutto è ovattato, tutto è soffuso, di maniera, come la nostra conversione.
Nel tempio non serve convertirsi sul serio; è sufficiente cambiare l’aspetto esteriore, ammantarci di un velo di contrizione, molto apprezzabile a vedersi: una conversione che non tocca il nostro cuore, che non convince l’anima: dentro rimaniamo tranquillamente sempre gli stessi; l’importante è riuscire a camuffare, a dare alle nostre iniquità, magari con “religiosi” distinguo, un aspetto moralmente positivo.
Questo nel deserto non è possibile: nel deserto non si può barare. Il deserto è categorico: “No, amico mio, così non va; devi convertirti, devi cambiare. Qui non puoi illuderti, non puoi nasconderti. Dove vai? Qui non puoi fuggire, non puoi evitare la verità: qui si vede subito se ami Dio, se il tuo cuore è veramente sincero”.
È quanto ci fa capire oggi il vangelo: per credere in Gesù Cristo, dobbiamo necessariamente abbandonare quella nostra patina di copertura che contrabbandiamo per religione. Non sono ammesse soluzioni di comodo.
È una verità dura, ma è così. La “religione”, quella che conosciamo noi, per definizione, ci dà regole, ci dice cosa dobbiamo fare e non fare, ci rassicura, ci dice che se faremo in un certo modo andremo in paradiso e se invece faremo il contrario andremo all'inferno; ci dice chi sono i buoni, quelli che per diritto saranno ammessi al premio finale, e chi i cattivi, gli esclusi. Ma di tutte queste belle “regole”, non c'è nulla negli insegnamenti di Gesù. Perché la religione di Gesù, quella vera, quella profonda, ha un solo obiettivo: l’amore. L’amore è la cartina di tornasole che ci dice quanto siamo sinceri nelle nostre dichiarazioni di fede. Perché per essere degni dell’amore del Padre, per poterlo pienamente godere nell’eternità, dobbiamo a nostra volta amare ogni creatura, aver cura dei nostri fratelli, dobbiamo usare loro rispetto, compassione, tenerezza, carità.
Se la regola della religione è: “Quanto preghi? Quanto sei puro? Quanto se incontaminato? Quanto sei fedele alle regole?”, la regola di Gesù è: “Quanto ami? Quanta fiducia dai alle persone? Quanto le fai crescere? Quanto le stimi? Quanto credi in loro? Quanto le rispetti?”. Ecco: adottare questo comportamento basato sull’amore, guidato dall’amore, vuol dire “convertirsi”; vuol dire “credere al vangelo”. Questo è quanto predica il Battista.
Un annuncio, il suo, estremamente severo ma concreto e onesto. Talmente autentico nella sua essenzialità, che la gente accorre in massa per farsi battezzare da lui. La sua fama, la sua popolarità, il suo successo crescono di giorno in giorno, tanto da allarmare seriamente le autorità religiose. Anche se nella sua predicazione non ha mai rivendicato per sé il titolo di Messia, anche se ha sempre dichiarato di non essere tale, che non è quello il suo ruolo, tuttavia per le autorità del tempio rimane sempre un autentico pericolo, una mina vagante.
Per questo corrono ai ripari: faranno cioè di tutto per isolarlo, screditarlo, diffamarlo, ostacolarlo, carcerarlo, ucciderlo: e alla fine ci riusciranno.
È il solito normalissimo percorso: quando non è possibile eliminare un avversario è sufficiente distruggere la sua reputazione, denigrarlo pubblicamente. Non importa se ha una condotta ineccepibile, se è una persona retta e onesta: l’importante è parlarne male, diffondere maldicenze e calunnie sulla sua moralità, sulla sua rettitudine professionale, per arrivare velocemente a distruggerlo del tutto.
Ma perché adottare questo metodo odioso con il Battista? Perché è un personaggio carismatico, monolitico, esigentissimo con sé stesso e con gli altri, uno che non guarda in faccia a nessuno, che non le manda a dire, insomma un duro e un puro, e questo non piace per niente alle autorità religiose che, al contrario, hanno molto, ma molto, da nascondere.
La conversione che egli predica, infatti, non è facile da accettare: il suo battesimo, pur essendo d’acqua, non implica una semplice trasformazione di facciata: impone piuttosto a tutti di tornare alla primitiva integrità, quella originale, quella di tornare ad essere immagine di Dio, “nuove creature”.
Oggi moltissima gente non esita a definirsi cristiana; certo, il battesimo ci ha reso tutti “cristiani”, figli di Dio: purtroppo però gran parte di questi cristiani si è fermata alla registrazione del nome sul libro dei battesimi di qualche parrocchia; e vivono beatamente, in tutta tranquillità, nel dolce far niente, nascondendosi dietro una facciata di comodo, una patina di perbenismo. Questo non è essere cristiani: il battesimo ricevuto alla nascita si ferma all’acqua; ma, si sa, l’acqua scivola via: un altro battesimo si impone: quello vero, reale, autentico, quello di “fuoco”, quello dello Spirito; quello che Cristo stesso ha affrontato: un battesimo che “marchia” la vita, che brucia dentro, che scava nel profondo, l’unico che ci autentica alla radice come cristiani, come “uomini nuovi”. È il battesimo che ci trasforma in “altri”, che ci supporta nella realizzazione di quel progetto iniziale per il quale Dio all’origine ci ha segnati con il soffio dello Spirito. Questo in pratica è il nostro vero traguardo, quello che possiamo e dobbiamo raggiungere attraverso il battesimo di fuoco: ridiventare meritatamente quelli che eravamo già, i figli di Dio, creati a immagine e somiglianza del Padre. È la nostra trasformazione. È un “partorirci” nuovamente tra fatiche, pianti, lotte e dolore; ma solo così potremo arrivare ad essere “cristiani” autentici, i “benedetti” e prediletti del Padre.
Quindi, tradotto in pillole: tocca a noi, soltanto a noi, dimostrare con la vita questa discendenza da Dio; tocca a noi, nella essenzialità del “deserto”, spogliarci dagli orpelli dell’apparenza, e rivestire i panni dell’autenticità cristiana, passando attraverso il fuoco della fedeltà, della convinzione, della coerenza, il fuoco della rinuncia, del sacrificio, della battaglia contro il male: perché è questa l’unica via che può riportarci all’essenziale, alla Verità di Dio, all’Amore Infinito.
Battesimo, in ebraico, vuol dire “immergersi”: ecco allora che non una volta, ma ogni giorno, è necessario che ci immergiamo dentro di noi, ogni giorno dobbiamo scendere nel buio della nostra fragilità interiore, “nella mortalità” di questa vita, in ciò che ci rende spiritualmente sfiniti, senza senso, disperati, per far emergere, dalla finzione invalidante dell’apparire, la Luce ardente dello Spirito, la forza e la decisione dell’“essere”, che dà colore e calore alla nostra vita.
Insomma, è solo dopo aver percorso il nostro cammino di purificazione, di liberazione, di amore, dopo aver vissuto il nostro Golgota, dopo aver superato la nostra autenticazione del fuoco, che torneremo finalmente a far risplendere la nostra originale figura di figli, creati dal Padre a sua immagine e somiglianza. Un percorso sicuramente impegnativo, ma non impossibile: un percorso, soprattutto, che non va semplicemente “pensato”: ma fatto e basta! Non abbiamo altre alternative! Amen.