mercoledì 29 novembre 2017

3 Dicembre 2017 – I Domenica di Avvento (Anno B)


«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento…» (Mc 13,33-37).

Dio vuole incontrarsi con l’uomo. È il motivo chiave di queste domeniche che precedono il Natale, e che fa da filo conduttore per tutto il periodo d’Avvento. “Avvento” deriva infatti dal latino “ad-venio” che letteralmente significa: “Ti vengo incontro”.
Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, la venuta personale, quella che Egli farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”.
Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno del Padrone, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa. Certo, per noi che viviamo sempre a pieno ritmo, che siamo immersi nella bellezza della vita, è decisamente sgradevole pensare a queste cose.
È innaturale immaginare la nostra fine: concludere di punto in bianco la nostra esistenza, troncare la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento dei nostri progetti, prospettarci nella mente quell’ultimo istante in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. Nessuno guarda con simpatia a queste realtà, tutti preferiscono ignorarle, non pensarci, non approfondirne i particolari; molto meglio preoccuparci del presente, del concreto, dell’immediato.
Eppure sono realtà che richiedono grande considerazione. Come deve essere allora questa nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile, paziente, produttiva, costante. La gente invece si stanca subito: vuole risultati, successi, traguardi facili e immediati; pretende subito raccolti abbondanti. L’attesa invece è tenace: bisogna soprattutto essere convinti che il seme di Dio è il migliore, che per nascere e crescere, oltre ad un terreno fertile, ha bisogno della luce e del calore dell’amore. E di tanta perseveranza: una virtù che oggi purtroppo è molto trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano in fretta e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, cangiante. Se Gesù con il suo Vangelo è ancora “fermo” a più di duemila anni fa, noi che possiamo farci? Si adatti anche Lui ai tempi moderni, la sua Parola si aggiorni, ci segua; si allinei con le nostre esigenze, si metta al passo coi tempi, e noi allora vedremo di seguirlo.
Illusi! Pensiamo di cambiare il mondo? È il mondo che cambia noi, questa è la verità.
Solo se continueremo a lavorare in silenzio, ad arare, a girare la terra, a concimare, a togliere pazientemente i sassi e le sterpaglie, un giorno potremo vedere la fioritura e cogliere i frutti.
Il vangelo di oggi ci insegna proprio questo: dobbiamo vegliare, dobbiamo aspettare il ritorno del padrone lavorando, ; dobbiamo rimanere sempre vigili, senza cedere mai al sonno. Perché questo è il grande pericolo della vita: addormentarsi, vegetare, sopravvivere.
“Vegliare” infatti non vuol dire smettere di lavorare, far finta di niente, tirare avanti aspettando che “qualcosa succeda”: se non facciamo niente, non succederà mai niente; “vegliare” vuol dire imparare a conoscere oggi la Voce, mettere in pratica nel presente gli insegnamenti di quel Dio che un giorno ci chiamerà. Quando Lui chiama non abbiamo scelta: dobbiamo rispondere, dobbiamo andare, costi quel che costi, anche se abbiamo paura, anche se siamo terrorizzati, anche se non capiamo il perché, anche se ci sembra impossibile che tocchi proprio a noi.
Ritagliamo allora dal nostro tempo, oggi che possiamo, spazi di meditazione, pause di riflessione su queste verità. Non lasciamoci frastornare dalle idee e dalle mode materialistiche del momento: sono cose in continua evoluzione, in costante travisamento, ci portano sempre al peggio, in realtà effimere, in altri pensieri, in altre ambizioni, in altre priorità. Soprattutto, lo ripeto, viviamo Cristo, la “Vita”. Condurre una vita da morti, non si può chiamare vita.
Non prendiamoci in giro dicendo: “Tanto, col tempo le cose cambieranno”. Succede che il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, quando avrò meno preoccupazioni, quando sarò anziano, “in pensione”, allora mi dedicherò a Dio”: sono parole idiote, senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da tutto per amare Dio; serve solo conoscerlo, volerlo incontrare, volerlo vedere, saperlo riconoscere nei fratelli, assaporarlo; insomma dobbiamo viverlo, ora che possiamo, in famiglia, nel lavoro, nella nostra professione. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di poterlo amare domani? Non cambierà nulla. Sono solo fantasie, è uno stupido alibi che ci costruiamo per giustificare la nostra apatia. E poi, chi ci garantisce di avere tempo sufficiente per poterlo fare?
Soprattutto non illudiamoci di essere già delle brave persone: non diciamoci che sì, alla fin fine, non siamo proprio così tanto male; non convinciamoci di essere, tutto sommato, come gli altri, anzi migliori degli altri; di essere insomma dei buoni cristiani, dei “quasi perfetti”, bisognosi al massimo di qualche ritocchino ogni tanto! Non dimentichiamo mai che a Gesù, i “quasi perfetti”, procurarono i problemi più grossi. Fu ucciso proprio dalle persone che pensavano di essere le più buone, le più brave, le più osservanti, le più religiose. Non creiamoci false e inutili aspettative: già il solo pensare di essere migliori degli altri, ci mette in coda a tutti, all’ultimo posto, perché questa è subdola presunzione, fine superbia.
Aspettiamo invece molto umilmente l’incontro finale con Dio, pregando, ogni nuovo giorno, al nostro risveglio: “Gesù, fammi parlare oggi come se le mie parole fossero le ultime. Fammi agire come se quelle di oggi fossero le mie ultime azioni. Fammi accettare oggi la sofferenza, come se fosse l’ultimo dono che ho la possibilità di offrirti. Fammi pregare come se la mia preghiera di oggi fosse l’ultima possibilità che ho di parlare con te qui in terra”. Amen.


giovedì 23 novembre 2017

26 Novembre 2017 – XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Gesù Cristo Re dell’Universo

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra» (Mt 25,31-46).

La parabola di oggi, conosciuta come “Il giudizio finale” viene vista sempre negativamente, in modo tragico: un Dio giudice esigente e fiscale che controlla tutto, che annota tutte le nostre azioni in un grande libro dei conti e che, alla fine della nostra vita, tira le somme: se le azioni cattive superano quelle buone, castigo eterno. Se, invece, risulta il contrario, premio eterno.
Un tempo la Chiesa metteva in risalto questa idea di Dio, giudice intransigente: “iudex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit”: quando il Giudice prenderà posto nel giorno dell’ira (“dies irae”), tutto ciò che abbiamo tenuto nascosto verrà reso pubblico…”. Non abbiamo scampo: era un’idea molto diffusa, che portava a dipingere nelle Chiese un grande occhio di Dio all’interno di un triangolo, che era la Trinità: “l’occhio di Dio ti controlla, vede e sa tutto, stai attento!”.
Ma un Dio così non è esattamente il Dio evangelico, il Dio che Gesù ci ha insegnato ad amare e a pregare. Non dobbiamo fermarci a certe interpretazioni, talvolta sono fuorvianti.
La parabola inizia dicendo: “Quando il Figlio dell’Uomo verrà”: Gesù, quando parla di sé, usa sempre questo termine: “Il Figlio dell’Uomo”. Un titolo che pochissimi autori sacri attribuiscono a Gesù: ed è strano, singolare, visto che Lui si identifica sempre in questo modo!
Cosa vuol dire “Figlio dell’Uomo”? Il Figlio dell’Uomo è l’uomo che ha realizzato in sé il progetto di Dio, è la persona che accoglie lo Spirito di Dio e lo vive nella propria vita: esattamente come ha fatto Gesù. Chiunque può essere Figlio dell’Uomo: anzi, tutti dobbiamo esserlo. Tutti dobbiamo accogliere il piano, il progetto di Dio su di noi, che è esattamente il motivo per cui siamo nati ed esistiamo.
Che Dio abbia un progetto su ciascuno di noi sta a significare che la nostra esistenza di creature insignificanti, è invece importantissima, ha un senso profondo: vuol dire che non siamo qui per caso, ma siamo qui per uno scopo, un motivo ben preciso. Ed è questo motivo che noi dobbiamo recuperare, il senso della nostra vocazione. C’è un destino, una chiamata, una missione che ci chiama. È questo motivo che ci nobilita e ci rende irresistibili. Le persone che sono tristi, depresse, senza vitalità o voglia di vivere, lo sono perché non hanno motivi validi, forti, ragionevoli per vivere. Non ci rendiamo conto che la nostra vita è una piccola tessera di un mosaico meraviglioso, grandioso, imponente: l’essere a somiglianza di Dio.
Dunque: il Figlio dell’uomo “verrà nella sua gloria” con tutti gli angeli, e siederà sul suo trono, davanti a tutti i popoli radunati.
Quando noi pensiamo agli angeli, pensiamo subito ad una creatura con le ali. Ma l’angelo (in greco “ànghelos”, annunciatore) non ha niente a che vedere con questo. Angelo è solamente tutto ciò (persone, incontri, fatti, eventi, situazioni, sogni, incidenti, sorprese, ecc.) che Dio ci manda per starci vicino, per consigliarci, per consentirci di andare avanti e seguire correttamente la Sua chiamata.
Abbiamo mai incontrato un angelo? Sicuramente no, se pensiamo all’essere angelico con le ali; sì, tantissime volte, se sappiamo riconoscerlo, se sappiamo chi e dove guardare: perché “angelo” sono tutti quelli che vogliono aiutarci a diventare migliori. Noi viviamo nella paura, nel terrore di scegliere, di osare, di metterci in gioco, di guardarci dentro, non sfruttiamo le nostre potenzialità, la nostra riserva di amore, di bontà, di doti, di generosità, di simpatia, di vitalità che abbiamo dentro. Viviamo sempre sulla difensiva, non sfruttiamo il patrimonio che Dio ci ha dato. Allora arriva un angelo che ci mostra che possiamo essere migliori: possiamo osare, scegliere, smettere di vivere così e volare in alto.
Chi ci ama non vede ciò che siamo ma ci mostra ciò che possiamo essere. L’angelo è questo. Quindi gli angeli con i quali il Figlio dell’uomo verrà, sono semplicemente tutti quelli che vivono realizzando con la vita il progetto che Dio ha su di loro.
“Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo”.
Noi, dicevo, ci siamo fatti l’idea strampalata di un Dio “guardone” che sta continuamente a spiarci, per annotare tutto ciò che ci riguarda nel suo Librone. Ma Gesù non ha bisogno di libri per separare gli uni dagli altri, i buoni dai cattivi. Gesù lo vede immediatamente! E da cosa lo vede? Dai fatti concreti: se cioè siamo riusciti a vivere la Vita, oppure no. Se cioè ci siamo immessi, ci siamo realizzati in quel progetto originale che Lui aveva su ciascuno: diventare cioè della sua stessa condizione divina, riappropriarci della sua stessa immagine, assomigliare fedelmente a lui.
In particolare cos’hanno fatto questi “benedetti” per raggiungere questo traguardo e ottenere “il regno”? Nulla di eccezionale: sono stati costanti e fedeli nel compiere alcune semplici azioni: hanno dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; hanno accolto i forestieri, gli “altri”; hanno vestito gli “ignudi”: hanno preso, cioè, le difese dei peccatori, degli indifesi, dei vulnerabili, di quanti erano esposti alla pubblica discriminazione, alla vergogna, alla derisione; hanno curato i malati, non solo quelli corporali, ma soprattutto quelli spirituali; hanno infine visitato i carcerati, portando loro conforto. In una parola “benedette” sono tutte quelle persone che in vita si sono prodigate verso i più deboli, sono state attente ai bisogni degli altri, dei propri fratelli, riconoscendo in essi la persona di Gesù.
È Gesù stesso che lo conferma: “Ogni volta che avete fatto questo ad uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Attenzione: qui Gesù non dice: “Quando ami uno, lo fai per me” ma “quando ami uno, ami me”. Punto. Molte persone invece sono ancora convinte che devono amare gli altri, il prossimo, perché lo ha comandato Gesù”. Ma se amiamo gli altri per “dovere”, senza alcuna convinzione, senza sentimento, senza trasporto, ma solo per costrizione, perché Dio ce l’ordina, questo non è “amare”. L’amore non si comanda: si sente. Non si fanno le cose “per carità cristiana”; si fanno perché nascono dal cuore. Amare uno, perché così ci è stato comandato, è svilente: “Non ti amo, ma lo faccio perché me l’hanno ordinato!”. Per Gesù è impensabile una cosa del genere. Le cose non si fanno per Dio, ma con Dio e soprattutto come Dio.
I Santi hanno fatto così: un giornalista dovendo intervistare Madre Teresa la trovò tutta intenta a curare un lebbroso. Vedendo come ripuliva le sue ferite purulente, esclamò: “Madre, io non lo farei neppure per un milione di dollari”. E lei: “Neppure io!”. E lui continuò: “Ma io non lo farei neppure se me lo comandasse Dio in persona!”. E lei: “Neppure io! E il giornalista capì: certe cose si fanno solo per “amore”... e basta.
“Via, lontano da me maledetti”: è la condanna del Figlio dell’uomo per gli “altri”, per chi non ha dispensato amore. Prima aveva detto: “Venite, benedetti dal Padre mio”. Qui, invece, non ripete: “Maledetti dal padre mio”, ma solo: “Maledetti”. Infatti, non è Dio che li maledice, ma sono loro stessi che si maledicono! Se uno non coltiva, non fa crescere l’amore che c’è in lui, se non diventa maturo e adulto, lui stesso si condanna a morire. E chi è morto non può dare vita. Non è una sentenza del re che li condanna, ma sono essi stessi che si sono autocondannati.
Un’altra cosa, altrettante importante, dobbiamo imparare da questo vangelo: che cioè dobbiamo avere un cuore attento per “vedere” per osservare, per riconoscere. Dobbiamo cioè essere sempre all’erta, vigili:
“Quando mai ti abbiamo visto nudo, affamato, malato...?”.
È così: non ce ne rendiamo conto, ma guardiamo gli altri senza vederli, siamo concentrati su di noi, sulle nostre comodità, siamo troppo distratti: soprattutto quando lo siamo di proposito, quando vogliamo esserlo “scientificamente”.
Quante volte diciamo convinti: “Io no, non faccio così; io non faccio male a nessuno!”. Sarà anche così, ma non basta! Dire una cosa del genere denota una grande superficialità, perché fa... capire che non ci rendiamo conto di quante persone ci siano accanto a noi bisognose di essere ascoltate, di essere capite e rincuorate; persone che hanno bisogno soltanto di un po' d'amore, di comprensione, di condivisione. Allora può darsi anche che “non facciamo del male”, ma sicuramente “non facciamo del bene”. Perché quando uno è troppo preso da sé stesso, dall’egoismo, dall’assillo continuo per il proprio benessere materiale, per l'affermazione della propria persona, è ovvio che non ha più né tempo né voglia di accorgersi delle necessità altrui: è triste ma è così! Solo se abbiamo un cuore libero, aperto, generoso, possiamo accorgerci dei bisognosi, possiamo interessarci dei sofferenti, degli abbandonati. Altrimenti rischiamo di fare come i “condannati” del vangelo: “Dici che non ti abbiamo visto? Ma quando mai! Impossibile! Non eri tu!”. Eppure questo è successo proprio a noi: eccome è successo! E se non cambiamo, continuerà purtroppo a succedere ancora.
Amen.


giovedì 16 novembre 2017

19 Novembre 2017 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,14-30). 

La parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve compiere un lungo viaggio, e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Cosa succede allora?
Ciascuno riceve in consegna un patrimonio che non gli appartiene, che non è suo e sa di doverlo un giorno riconsegnare a chi glielo ha affidato. C’è però in questo affidare, una diversità di trattamento: non tutti ricevono la stessa quantità. Ciascuno, dice il vangelo, riceve secondo le proprie capacità: tutti cioè hanno in consegna talenti diversi perché ognuno è diverso, ma tutti hanno comunque il massimo delle loro possibilità. Ciascuno nella vita ha il suo talento. Il talento sono le possibilità che uno ha, il patrimonio che uno può "incarnare" nella sua vita, che uno ha dentro di sé, il patrimonio che Dio ha riposto nel suo cuore. È un patrimonio enorme fatto di doti, doni, sensibilità, talenti, capacità, emozioni, ideali, amore, fiducia, libertà, voglia di vivere.
La grande domanda che ogni uomo deve pertanto porsi è: “Chi sono io?”, nel senso: “Qual è il mio patrimonio? Quali sono le mie possibilità”. La gente passa tutta la vita a voler essere questo o quello, quell’uomo o quella donna. Vorrebbe avere i soldi di quello, la bellezza di quell’altro, la conoscenza e la brillantezza di quell’altro ancora. Così invece di guardare al “chi sono”, insegue cose che non sono “Lui”, che non gli sono proprie, non sono alla sua portata, e che pertanto sono per lui irraggiungibili.
Una volta stabilita l'entità del nostro talento, del nostro “patrimonio”, della nostra essenza, della nostra peculiarità, è di quello che dobbiamo essere fieri, è con quello e su quello che dobbiamo lavorare.
Spesso invece chi ha un talento, anche prezioso, lo nasconde, lo camuffa, lo gonfia. Perché? Semplice: perché lo confronta con i talenti degli altri. Brutta cosa vivere di confronti! Se ci confrontiamo continuamente con gli altri, è chiaro che non saremo mai contenti di ciò che siamo, di come siamo, di quello che abbiamo. E troveremo sempre che gli altri hanno di più, che sono più fortunati, che sono più privilegiati di noi, che se noi fossimo al loro posto, saremmo sicuramente migliori di loro. E viviamo male. Ma è così solo perché, invece di guardare noi stessi, la nostra realtà, invece di apprezzare quel che abbiamo, invece di ringraziare Dio per quel che ci ha concesso, continuiamo a roderci dentro invidiando quello che hanno gli altri.
Cosa dà il padrone ai tre servi? Dà dei talenti. Il talento non era una moneta corrente ma una unità di misura, e denotava una cifra enorme. Sarebbe come dire una “tonnellata” di euro: non si può girare con una tonnellata di euro, semplicemente perché nessuno potrebbe portarla. Un talento, infatti, corrispondeva più o meno a 60 “mine”, a 6000 “dracme”, a 6000 “denari” (la dracma era parificata infatti ad un denaro, che era la paga giornaliera più alta di un lavoratore). Quindi con un talento, una famiglia, poteva vivere all’incirca 30 anni.
Allora: anche colui che ha ricevuto un talento, ha ricevuto tantissimo, molto più del necessario. Certo, se guardiamo a chi ne ha ricevuti due o cinque, se facciamo il confronto, se ci misuriamo con loro, troveremo sempre che ci manca qualcosa. Ma se invece guardiamo onestamente a noi stessi, alle nostre possibilità, al nostro tenore di vita, troveremo che siamo ricchi, che nuotiamo nell'abbondanza.
La gente non è povera di doti, di “talenti” o vitalità: è che vuole sempre di più, guarda sempre quello che non ha; e quindi invidia i risultati raggiunti dagli altri, quello cioè che gli altri hanno saputo sviluppare con intelligenza, applicazione e sacrificio. La gente vorrebbe avere a basso costo, senza fatica, senza impegno e subito, quello che gli altri hanno invece conquistato nel tempo, con grande applicazione, con grande coraggio, osando e mettendosi completamente in gioco.
Allora: soltanto fissando lo sguardo su noi stessi, su quello che abbiamo, potremo essere soddisfatti e felici. Anche perché nessuno di quei servi è proprietario di ciò che ha. Anche a lui tutto è stato dato in “consegna”: quindi avere più talenti comporta anche maggiori responsabilità, maggior impegno, maggiori preoccupazioni; e neppure un maggiore arricchimento personale, visto che poi dovrà riconsegnare tutto al padrone.
Ma torniamo al vangelo: cosa succede a questo punto? I primi due, quelli dei cinque e dei due talenti, investono il loro patrimonio e lo fanno crescere, lo fanno moltiplicare. Il terzo, invece, fa una buca e vi nasconde dentro il suo unico talento.
La differenza è tutta qui: i primi due vivono, osano, si buttano, rischiano. Il terzo, invece, ha paura e la paura lo blocca.
In pratica questo vangelo ci dice: “Vivete e realizzatevi, moltiplicate i doni che avete ricevuto, ciò che siete, perché i talenti avuti in consegna sono la vostra vita”. Allora, perché non metterla a frutto? Perché non viverla? Perché aspettiamo tanto a scendere in campo, a buttarci nella mischia? Alcune persone passano i loro giorni da “panchinari”: sono presenti, ma non hanno mai il coraggio di entrare in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, un sapore alla loro vita, che la trasformino, che le facciano prendere “colore”, intensità, tono. Scelgono di non scegliere mai: un partner per la vita? il primo che capita; gli amici? quelli che incontrano; gli hobby? gli stessi che praticano tutti; le idee? quelle di tutti. Non si chiedono mai: “Ma io cosa voglio? Cosa mi sta bene? Cosa mi aspetto dalla vita?”. E così sciupano la loro esistenza, guardano indifferenti i giorni scorrere veloci, inutilmente. Hanno la possibilità di viverla, questa loro vita, e invece si lasciano vivere: il carro del tempo passa, ci salgono su, e si lasciano trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo fermi, progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si illudono da soli, perché non sono loro, ma è il tempo che va avanti, che cammina, che passa: loro si lasciano trasportare, vanno semplicemente dove va lui.
Alcune persone, come fa l’uomo del vangelo, nascondono la loro esistenza sottoterra, pensano di essere invisibili, di passare inosservati alla loro vita, e muoiono senza vivere.
Solo la persona che rischia è veramente libera. La vita è il dono più prezioso che Dio ci fa: è una tela grezza, bianca; solo se noi la dipingiamo, solo se la copriremo di colore e di calore, la nostra vita si trasformerà in un dono, in un regalo “nostro” che, grati, potremo restituire, a Dio.
La vita restituisce sempre quello che diamo. Il padrone ritorna, e regola i conti: il risultato dipende da come uno si è comportato con la propria vita. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e ricevono un premio proporzionale a quanto ricavato; e non sono ricompensati perché hanno effettivamente guadagnato, ma perché hanno provato, si son dati da fare, hanno avuto fiducia in loro stessi, hanno osato, si sono lanciati. Il terzo, al contrario, ha avuto paura. La paura lo ha immobilizzato, gli ha impedito di mettersi in gioco. Non voleva essere criticato, non voleva fare errori, non voleva sbagliare, non voleva essere giudicato. Voleva avere tutto sotto controllo, voleva essere sicuro, ma facendo così ha perso ogni possibilità.
Certo, se avesse rischiato, se avesse “vissuto”, avrebbe anche potuto sbagliare e perdere il suo talento, avrebbe potuto esser giudicato o criticato per ciò che faceva o diceva; nessuno gli avrebbe potuto garantire un risultato soddisfacente. Ma se non si rischia si muore: perché è la paura che ci fa morire, non gli imprevisti della vita.
La vita è così: un patrimonio da mettere a frutto, da investire, da far fruttare. La vita, in modi diversi, in momenti diversi, offre a tutti la possibilità di cambiare, di migliorare. Tutti noi abbiamo avuto occasioni che ci hanno portato in tutt’altre direzioni. Tutti noi abbiamo incontrato persone che ci hanno consigliato, che ci hanno prospettato soluzioni valide. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di qua; provaci, ce la puoi fare!”. A tutti noi sarà capitato di vivere una situazione difficile (morte di un figlio, di un amico, di un parente; un momento preoccupante; una sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci ha messi di fronte ad un bivio: cambiare stile di vita, invertire la rotta, vivere diversamente. E noi come abbiamo reagito? Nulla, abbiamo rinviato: ma a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriverà un bel giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”. Sarà troppo tardi. E ognuno raccoglierà ciò che ha seminato. “Hai preferito vivere così? Ti sei cullato sui tuoi sogni? Questo è quanto hai guadagnato!”. Allora sarà inutile protestare, sarà inutile arrabbiarci: perché avremo esattamente ciò che abbiamo voluto. Amen.



giovedì 9 novembre 2017

12 Novembre 2017 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario


«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge…» (Mt 25,1-13).

La parabola di oggi è molto significativa, di facile interpretazione. Anche se, ad una lettura superficiale, il comportamento dei vari protagonisti potrebbe apparirci non del tutto ineccepibile; in pratica farebbero tutti indistintamente una brutta figura: la fa lo sposo perché, giunto alle nozze con un ritardo enorme, respinge quelle vergini che, poverette, a causa della lunga attesa hanno esaurito l’olio della loro lampada, e indispettito le liquida immediatamente: “Non vi conosco!”. Ma perché ricorrere ad una bugia, dal momento che lui stesso le aveva invitate, e quindi le conosceva perfettamente? Tuttavia ciò non le esime dal fare anch’esse una brutta figura, dimostrando di essere delle sprovvedute, delle stupidotte, poco intelligenti, per nulla previdenti. Ma anche le vergini sagge, quelle prudenti, quelle accorte, non sono da meno, non eccellono certo in signorilità, rifiutando sdegnosamente di condividere con le amiche un po’ del loro olio: visto che lo sposo era finalmente arrivato, perché non donarne loro qualche goccia, togliendole dall’imbarazzo? Lo fanno perché sono invidiose, cattive d’animo, oppure perché l’olio che hanno è speciale, strettamente personale, incedibile, per cui anche volendo non possono cederlo? In tal caso si tratterebbe di un olio “particolarissimo”, unico, strettamente personale, al punto che o ce l’hai di tuo, o devi rimanere senza perché nessuno può cedertene del suo. “Andate dai venditori e compratevelo”, è la loro risposta. Ma che risposta è? Perché sono così scostanti? Come possono quelle meschine trovare un venditore d’olio nel cuore della notte? Ma non è una  burla: effettivamente si comportano così perché non hanno altre possibilità, non possono cedere alle altre un “olio” che “non si può” dare, che è incedibile.
Insomma, questa è una parabola in cui nessuno sembra comportarsi in maniera corretta, un racconto che, nella sua chiarezza, suscita anche molti interrogativi.
Ovviamente, per capirla nella sua pienezza, dobbiamo prima di tutto riferirci al significato di questi simbolismi, così lontani da noi, dalla nostra cultura, essendo essi strettamente legati agli usi matrimoniali del mondo ebraico.
Attualizzando comunque il testo, appare chiaro che lo sposo è Gesù e le vergini, sia le prudenti che le stolte, siamo noi. A questo punto viene spontaneo chiederci: perché Gesù risponde in maniera così aspra e tremenda: “Non vi conosco”? Cos’è quest’olio unico, personale, così importante da condizionare l’ingresso alle nozze celesti?
Matteo, parlando delle vergini che si sono dimenticate di prendere l’olio a scorta, le chiama “morai”: un termine che letteralmente significa “matte, pazze, stolte”; oppure, in senso più blando, “sbadate, stupide, sciocche, smemorate”.
E lo fa a ragion veduta: perché giusto uno stupido, un superficiale, avrebbe dimenticato di portare con sé una quantità di olio sufficiente ad alimentare la sua “lampada” per l’intera notte, assicurandosi la luce per l’intera attesa.
Queste vergini “stolte”, queste distratte, imprevidenti, rappresentano pertanto quelle persone che accettano di incontrare lo “Sposo”, ascoltano la parola di Dio, accolgono il suo messaggio, ma poi non sono sufficientemente interessate a metterlo in pratica: lasciano cioè che l’iniziale entusiasmo si spenga nel tempo, diventi lettera morta, preferendo procedere alla cieca nell’oscurità della vita. Sono quelle persone che vivono alla giornata senza angustiarsi di nulla, senza troppi pensieri, senza porsi alcun problema. Non si preoccupano minimamente di ciò che invece è essenziale per dare una risposta illuminata cosciente e mirata alla chiamata di Dio: come per esempio saper ascoltare interiormente la sua voce, coltivare e meditare nel silenzio la sua Parola, garantire salute e pace alla propria anima, esprimere un “grazie” sincero per l’aiuto costante dello Spirito, essere sensibile alle necessità dei fratelli. Vanno avanti come se niente fosse. Salvo poi chiedersi: “Come mai mi è capitato questo? Perché proprio a me? Com’è possibile?”. Pensavano forse di non dover mai rispondere del loro ottuso comportamento? Pensavano forse che non servisse una scorta sufficiente di “olio”, una scorta cioè di opere buone?
Già, ma in cosa consistono concretamente queste “opere buone”? Il Vangelo parla chiaro: ricordate la parabola del buon samaritano? Non sono le preghiere di routine del sacerdote, non i gesti “sacri” del levita, persone che, passando accanto all’uomo ferito, tirano via entrambe ignorando le sue sofferenze e le sue necessità; opere buone sono invece i gesti d’amore del buon samaritano, di colui che oltretutto era considerato un nemico (Lc 10,29-37). Perché solo questo conta davanti a Dio: l’amore, la misericordia, la nostra dedizione per il prossimo. Perché “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46).
Praticare la carità, amare il prossimo, essere ricettivi, dinamici, attivi, aperti alla condivisione: questo significa, in pratica, approvvigionarsi di olio a scorta: in altre parole il nostro spirito di carità, il nostro amore, il nostro voler bene, deve essere concreto, reale, quotidiano, fatto di gesti, di pensieri, di azioni, di sentimenti. Perché è questo l’unico metro di valutazione usato da Dio. Preghiere, riti, meriti, studi, fama, soldi, conoscenze, non servono a nulla se non sono messe a servizio dell’Amore. Gesù lo ha dichiarato apertamente: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli…” (Mt 7,21). Che tradotto in pratica significa: non basta fare belle prediche, disporre di grandi chiese, di grandi cattedrali per andare a messa la domenica; non basta tirare continuamente in ballo il nome di “Dio”, promettergli a parole grandi cose, per essere riconosciuti da Lui. Dio, che è Amore, riconosce solo l’amore che ognuno ha e vive. Il resto non gli interessa. “Non vi conosco”, dice alle vergini sprovviste di olio, di opere buone. Soltanto chi possiede e pratica un amore autentico può disporre della luce sufficiente per “aspettare” lo Sposo, ed entrare con Lui alle nozze, nel Paradiso, nell’Aldilà.
“Non vi conosco”. Ma non è Dio che deve riconoscerci, promuoverci, premiarci. Lui non condanna mai: siamo noi a condannarci, siamo noi gli unici responsabili della nostra eternità, perché quel che otterremo sarà l’ovvia conseguenza del nostro vivere attuale; siamo noi che non ci “riconosciamo” come “invitati”, se abbiamo vissuto sempre nella superficialità, dando la priorità ai piaceri, all’egoismo, alle futili banalità: perché non sappiamo più chi siamo né cosa vogliamo o che sentimento proviamo; non abbiamo più alcun colloquio con noi stessi e con il prossimo e, conseguentemente, saremo noi ad autoescluderci dalla Vita, dalle nozze eterne.
Non è affatto difficile finire in situazioni simili; è molto più facile di quanto non si possa pensare. Anzi è un classico, succede quasi sempre così: crogiolandoci nell’indifferenza, nella superficialità, arriveremo gradualmente ad indurire talmente il nostro cuore, a renderlo così gelido e insensibile, da non essere più in grado di amare, di esprimere alcun sentimento profondo; ci sentiremo, soli, isolati, frastornati: così, quando un pianto salutare vorrebbe liberarci l’anima, sarà costretto a dirci “non ti conosco”; similmente quando la gioia vorrebbe consolarci, anch’essa dovrà dirci “non ti conosco”, perché non saremo più noi, non sapremo più gioire, abbracciare, lasciarci andare; anche l’amore, di fronte all’impossibilità di emozionarci, di innamorarci, dovrà ripeterci “non ti conosco”; e così, via via, la tenerezza, la compassione, la dolcezza: insomma tutti i sentimenti più esaltanti della vita.
Vivere così è un non vivere, perché la distanza che ci divide dall’Amore è troppo grande. Ci siamo quasi spinti oltre il punto di non ritorno: il punto in cui tutto sarà “troppo tardi”; il punto in cui non avremo più tempo a nostra disposizione, non avremo più possibilità di porvi rimedio.
Il messaggio dunque che questa parabola intende oggi trasmetterci è estremamente serio e pressante: “Non lasciare che la tua lampada languisca. Prenditi cura del tuo olio, della tua vita, delle tue opere buone; perché saranno esse la scorta che in quel momento determinerà la luce o le tenebre, la salvezza o la condanna, la beatitudine o la disperazione”.
Facciamo molta attenzione, non sottovalutiamo questo invito, perché la possibilità di cadere improvvisamente nel buio più totale è veramente concreta e reale. Perché dipende da noi. Amen.

giovedì 2 novembre 2017

5 Novembre 2017 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario


«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito...»

Oggi Matteo ci riporta un ennesimo scontro di Gesù con gli scribi e i farisei, nel quale Egli denuncia apertamente il loro comportamento incoerente e ipocrita. Ormai conosciamo molto bene il comportamento di questi personaggi: conoscevano perfettamente la legge della Bibbia, la insegnavano, ma erano anche molto esperti nel trovare scappatoie ed eccezioni che li esentassero dal mettere in pratica ciò che insegnavano. Quando invece la osservavano, lo facevano solo esteriormente, mettendosi bene in mostra, esibendosi come persone religiose, fedeli, osservanti, e disprezzando apertamente quanti non erano “giusti” come loro; non tolleravano cioè le debolezze altrui, e invece di aiutarli, li condannavano pubblicamente deridendoli. Ebbene: Gesù, gente come quella, non la sopporta. La disprezza senza mezzi termini, offrendo alla gente un giusto atteggiamento nei loro confronti: “Siate rispettosi di quello che insegnano, perché la Legge la conoscono e la sanno predicare molto bene, ma non seguite il loro esempio; non fate come loro, non meritano la vostra attenzione, perché sono incoerenti, fasulli, gente che predica bene ma razzola male”.
Parole forti: parole che Gesù non pronuncia ad esclusivo beneficio dei suoi discepoli e di quanti lo seguivano: ma parla anche noi, a noi persone evolute e razionali del nostro secolo: parla soprattutto ai catechisti impegnati, ai cattolici praticanti, religiosi e istruiti; parla a quanti sono chiamati a testimoniare il vangelo, a noi che, col battesimo, abbiamo il compito importante di portare il lieto annuncio di liberazione e di vita, ai poveri, ai peccatori, ai deboli del nostro tempo.
Gesù parla alludendo alla vita concreta di allora: ma è come se vedesse la nostra di vita, quella tanto civile dei nostri giorni.
Si, perché noi, figli di quest’epoca tanto emancipata e colta, siamo proprio ben strani! Ci dichiariamo in tutti i modi contrari, a volte anche con la violenza, a qualsiasi imposizione, a qualsiasi forma di autoritarismo, di coercizione; ci indispettiamo se qualcuno si permette di far pesare la sua carica, il suo ruolo su di noi; pretendiamo tutti, e giustamente, la massima autonomia e libertà: eppure, da autentici idioti, non sappiamo fare a meno dei “guru” di turno, dei “profeti”, dei “mistici” che, da buoni ciarlatani, pretendono di darci il rimedio infallibile per i nostri problemi, la dritta sicura su come evitare efficacemente le fragilità della nostra esistenza.
Il nostro è un tempo stracolmo di opinionisti, di sedicenti maestri, di tuttologi; più aumenta il relativismo, l’insicurezza, il dubbio, più aumentano coloro che hanno sempre qualcosa da dire, che si propongono come unici esclusivisti della giusta soluzione. E purtroppo anche noi, pur nel nostro tanto decantato scetticismo, ci lasciamo stupidamente fagocitare da una moltitudine di questi “maestri” fasulli, che si esibiscono in televisione, sui giornali, nei mezzi di comunicazione, negli ambienti di lavoro, nella scuola, in politica, in campo sociale! Maestri che straparlano, che sbraitano, che urlano, che vogliono imporsi ad ogni costo: non importa su chi e su che cosa, se in positivo o in negativo, l’importante è urlare, apparire, esserci.
Gesù invece, nella sua compostezza, è pratico, chiaro come sempre: egli ci spiega come dobbiamo vivere nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie, come dobbiamo edificarci vicendevolmente nell'amore e nella pace, come dobbiamo educare i nostri figli.

È importante quindi che ci esaminiamo continuamente sulla nostra coerenza e sincerità, per non incorrere nella facile contraddizione, nell'ipocrisia. È una cosa che in qualche modo ci tocca tutti da vicino: sia quelli che hanno un ruolo educativo, come preti, frati, suore, insegnanti, come pure tutti noi genitori; tutti dovremmo chiederci con sincerità: “sono realmente convinto di quello che insegno? Vivo coerentemente, col cuore, con amore, quello che insegno, quello che predico? Io che raccomando agli altri la preghiera, amo la preghiera? Dedico del tempo alla preghiera personale? Io, genitore, che mando i miei figli in parrocchia per il catechismo, per la messa domenicale, sono assiduo nei miei doveri di cristiano? Un semplice esame di coscienza riferito ai doveri e agli impegni della nostra vita sociale, della famiglia, della scuola, del lavoro.
Ovviamente, chi vive compiti istituzionali, sociali, politici, informativi o altro, chi in altre parole gode di maggior prestigio e visibilità, è ancor più responsabile della sua coerenza; non serve a niente fare bellissimi discorsi se poi non si vive per primi l'onestà, la correttezza, lo spirito dei valori umani e cristiani.
Oggi purtroppo pullula una grande quantità di cosiddetti “maestri”, di pseudo incantatori, che operano indisturbati all’aperto o nell’occulto; come l'opinione della gente, il “si dice”, le nostre voglie inconfessabili, il prepotente di turno, la grande star del momento, il politico di spicco, il prete mediatico e onnipresente. Quello che importa è che dobbiamo imporci di evitare questi falsi “dottori”, questi venditori di angoscia; noi cristiani abbiamo già il nostro Maestro a cui ricorrere, a cui appoggiarci, su cui contare con tutta la nostra fiducia; è quello autentico, l’unico: il Cristo.
Non ci servono surrogati, sedicenti profeti, santoni, futurologi, imbroglioni e parolai da strapazzo: abbiamo già a nostra disposizione il Migliore in assoluto. È Lui soltanto che dobbiamo seguire, è Lui soltanto che dobbiamo porre al centro della nostra vita; sono Sue le Parole e gli esempi che dobbiamo seguire; e dobbiamo farlo con riflessione adulta, con passione ferma e critica, con la verità del cuore, senza deleghe fuorvianti. Siamo tutti chiamati alla scoperta di un Dio adulto che ci tratti da adulti. In che modo? Vivendo come Lui ha fatto, facendosi servo di tutti fino alla morte: “Il più grande tra voi sia servo”: è questa per Lui la portata della vera “autorità”: una parola che in Lui acquista un senso particolare, assolutamente inusuale: non è dominio, non è potere, non è comando, ma puro servizio, umile ministero.
«Voi siete tutti fratelli…». È la conseguenza del nostro metterci a servizio come Lui: perché in questo modo dimostriamo di essere tutti fratelli in quanto tutti salvati, tutti perdonati.
Ognuno di noi ha un ruolo, un compito, un ministero appunto, tutti uniti nella comune e primissima appartenenza alla fede attraverso il Battesimo; nessun Maestro, ma solo fratelli chiamati a ruoli specifici: e più aumenta la responsabilità, più deve crescere l'amore al Regno e ai fratelli che si servono. Perché, in buona sostanza, essere fratelli significa che tutti ci prendiamo cura del buon andamento della comunità, passando da una appartenenza alla Chiesa in maniera asfittica e senza vita, ad una meravigliosa scoperta di essere tutti figli di Dio, nella fatica della sopportazione reciproca e della visione evangelica delle scelte obbligatorie. Essere fratelli significa evitare in tutti i modi che nelle comunità prevalga l'aspetto umano, le simpatie, le antipatie, introducendo il rischio descritto da Gesù, di diventare cioè professionisti del sacro, primi della classe, ma con l’anima vuota.
Una cosa è assolutamente trasversale, valida per tutti: chi vuole essere “grande”, deve “abbassarsi”. Non c’è alternativa. Perché è nell'abbassamento che sta il segreto della vita cristiana. Chi vive l'umiltà, sa dare valore a quelle cose che sembrano piccole, ma che sono grandi, importanti, essenziali. Per chi vive lo stile di Gesù non esistono posizioni trascurabili, tutto acquista nuovo valore, nuovo significato: perché ognuno vive i carismi avuti da Dio. È Lui che ci unisce; è Lui l'unico Maestro sicuro e infallibile. Amen.

 

giovedì 19 ottobre 2017

29 Ottobre 2017 – XXX Domenica del Tempo Ordinario


«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» (Mt 22,34-40).

Dopo aver fatto ripetute brutte figure con Gesù, i farisei per metterlo alla prova scelgono questa volta una persona competente, il meglio del meglio, nientemeno che un dottore della legge. E questi lo affronta subito impostando il discorso sulla “sua” materia. Da notare che il verbo “metterlo alla prova” usato qui da Matteo, è quello stesso peirazo usato per descrivere le “tentazioni” di satana: in pratica l’evangelista paragona il comportamento dei sacerdoti del tempio, degli scribi, dei farisei, sempre pronti a tentare, a mettere alla prova Gesù, come opera di satana: un particolare che dovrebbe farci riflettere!
Ma cosa gli chiede dunque questo dottore, questo esperto legale? “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”.
Da come si pone, lascia subito intendere il suo reale proposito: già l’appellativo di “maestro” con cui si rivolge a Gesù, è pronunciato in maniera chiaramente provocatoria: non solo non ha alcuna intenzione di approfondire le sue conoscenze (lui non ha nulla da imparare, sa già tutto!) ma cerca piuttosto un pretesto per metterlo in difficoltà davanti al suo pubblico; vuole cioè cogliere in fallo Gesù per offrire alle autorità l’opportunità di condannarlo: e quale argomento è più indicato se non quello di indagare su cosa Gesù pensi dei comandamenti e della legge?
La verità non gli interessa; e non è neppure curioso di conoscere realmente il pensiero di Gesù; vuole semplicemente sfruttare l’occasione per avere la conferma di cosa egli pensasse in merito ad una questione fondamentale e delicata: il valore cioè dei comandamenti della Legge, visto che nella sua predicazione non solo ne prende le distanze ma arriva pure a trasgredirli. Egli in pratica definisce “vecchi, sorpassati, incompleti” proprio quei comandamenti che tutti ritenevano validi, e che tutti si sentivano obbligati ad osservare. Una “interpretazione”, quella di Gesù, che inquietava seriamente le autorità religiose; per cui la sua risposta serviva soltanto come riprova della sua ortodossia, oppure come motivo di denuncia ufficiale.
Ma Gesù sa perfettamente cosa vorrebbero sentirsi dire le autorità tramite il suo interlocutore: “Il più grande comandamento? Ma è ovvio, è il sabato!”. Sì, perché l’osservanza del “sabato” era il comandamento più grande, più considerato dagli ebrei; Dio stesso lo aveva rispettato, consacrandolo col riposo dopo le fatiche della creazione. La sua osservanza equivaleva all’adempimento di tutta la legge, e la sua disobbedienza era punita con la morte (Es 31,14).
Sappiamo però che per Gesù questo comandamento non è per nulla importante, non è affatto prioritario, tant’è che non ne tiene conto, non gli interessa: se deve fare qualcosa di importante, come per esempio guarire un ammalato, lui lo fa tranquillamente anche di sabato, perché per lui l’amore è molto più importante della legge.
Una domanda ben congegnata, perché se Gesù avesse dato la risposta che tutti si aspettavano, (“il sabato”), il dottore della legge gli avrebbe immediatamente contestato il suo comportamento: “È giusto, maestro: ma perché tu non lo rispetti?”. Se invece avesse risposto diversamente, avrebbe fatto la figura dell’ignorante, di uno che non conosce la legge, e questo sarebbe stato altrettanto deleterio per Gesù.
Il dottore dimostra in questo modo di essere un esperto, un vero conoscitore delle dispute legali: ma Gesù dimostra di non essere da meno, e gli risponde a tono citando anche lui la Scrittura, dimostrando di conoscerla altrettanto bene: gli fa capire cioè che il testo non va interpretato sulla base di una singola citazione letterale, ma attraverso una visione d’insieme, una lettura completa dei testi: e gli cita infatti un altro comandamento – altrettanto “grande” ma sicuramente il “primo”, il più importante – riferito cioè a quella “preghiera” che gli ebrei recitano due volte al giorno, al loro “Credo” ufficiale (Dt 6,4-9): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutto il tuo essere e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti”. E fin qui tutto bene: il dottore non può che essere d’accordo. “Amare Dio”, in fin dei conti, non è difficile, è un fatto interiore che non si può misurare dall’esterno, e che quindi nessuno può conoscere né giudicare: questa volta le autorità sono salve, Gesù non le condanna! Ma il problema nasce subito dopo, con quel che segue: “E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)”. Anche questo è scritto nella Bibbia, ma è evidente a tutti che le autorità non lo tengono per nulla in conto.
A rigor di logica, Gesù non dice nulla di nuovo. Ma in realtà, per come andavano allora le cose, introduce una grande novità: condiziona cioè l’amore per Dio all’amore per il prossimo: crea un legame indissolubilmente tra i due amori. Come dire: “Amare Dio senza amare veramente le persone, non serve a nulla, non è un vero amore per Dio. Pertanto, quello che voi ripetete ogni giorno (visto che lo dite), mettetelo anche voi in pratica, come faccio io!”.
Che dire? È chiaro che a questo punto il dottore si trova spiazzato: non ha parole, non immaginava che il discorso prendesse una simile piega, è sorpreso, ammutolisce: “Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno da quel giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt 22,46).
Una bella lezione: del resto Gesù non cita chissà quale teoria, ma risponde attenendosi scrupolosamente a quanto già prescritto dalla legge ebraica. E poiché si rivolge ad un ebreo, oltretutto ottimo conoscitore delle Scritture, il succo è questo: “La legge ce l’avete e la conoscete: mettetela in pratica!”.
Ma non è tutto qui: il “novum” introdotto da Cristo nella legge antica dell’amore è a dir poco rivoluzionario. Per tre motivi: prima di tutto per il nuovo concetto di “prossimo”: per un ebreo il prossimo era un altro ebreo o al massimo uno che abitava in Palestina; per Gesù, invece, “prossimo” è l’intera umanità; inoltre, altra novità, dobbiamo amare questo prossimo “come noi stessi”: ma attenzione, perché se ci fermassimo a queste sole parole, il nostro amore non sarebbe comunque perfetto: per logica infatti se io mi amassi poco o nulla, amerei poco o nulla anche il mio prossimo. Gesù annulla questo aspetto riduttivo, e riconosce alla legge dell’amore una valenza divina, universale: in altre parole, ama il prossimo tuo “non” come tu ami te stesso, ma come Dio ama te, “come Io vi ho amati”. Una nuova e straordinaria prospettiva si apre quindi davanti a noi: il termine di riferimento dell’amore al prossimo non sarà più quello riduttivo, il “nostro”, ma quello di Dio, universale, straordinario, senza limiti.
Per Gesù amare l’uomo equivale amare Dio, e amare Dio equivale amare l’uomo. Risultato: l’amore per Dio non lo si misura da quanto uno è pio o religioso, da quante preghiere dice: ma da quanto amore nutre per i suoi fratelli. Il vero credente non è colui che esegue alla lettera le prescrizioni religiose, ma colui che vive realmente l’amore, colui che compie ogni sua azione elargendo amore.
Un’attenta lettura di questo vangelo ci offre poi altre considerazioni su cui meditare.
Prima di tutto, ci siamo mai chiesto cosa significhi la parola “amore”? Etimologicamente deriva dal latino “a-mors” (“a” privativo e “mors”, morte) che letteralmente vuol dire “togliere la morte a qualcuno”, “dare la vita”; per cui “amare” significa “rendere vivo”, vitale, colui che amiamo. Gesù vedeva intorno a sé soprattutto persone che soffrivano: persone colpite da gravi malattie, come ciechi, sordi, paralitici, lebbrosi, o addirittura persone morte. Egli le “amava”: il suo amore le guariva, le toglieva dalla morte, reale o simbolica, rimettendole in contatto con la vita. Egli dispensava amore a piene mani, e lo faceva (altro insegnamento fondamentale per noi) non per avere un “ritorno”, una ricompensa, un riconoscimento: neppure in termini di fama, perché chiedeva sempre a tutti di non divulgare la cosa, di non parlarne con nessuno; non lo faceva neppure per proselitismo: non diceva: “Ti guarisco ma tu devi credere in Dio; tu devi venire in chiesa; tu devi obbedirmi; tu mi devi...”. Lui vedeva semplicemente uno che soffriva, e con il suo “amore” lo liberava dalla sofferenza, dal disagio.
Questo è l’amore di Gesù, e questo deve essere anche il nostro amore: chi ama rende vivo l’altro; chi ama vuole il meglio per l’altro, anche se ciò ci costa fatica e sacrificio; perché ciò che è meglio per l’altro, non sempre coincide con quello che è meglio per noi.
Altra considerazione: in passato per l’ascetica cristiana amare il prossimo “come noi stessi” comportava un far passare in second’ordine l’amore per se stessi, per la propria persona; significava riconoscere all’amore per l’altro la priorità assoluta: in questo modo amare se stessi, “amarsi”, era ritenuto una “debolezza umana”, un peccato; equivaleva ad essere egoisti, narcisisti. La via maestra per la santificazione personale passava quindi attraverso il sacrificarsi, l’immolarsi completamente per gli altri; tant’è che a quanti volevano intraprendere un cammino cristiano più impegnativo, venivano continuamente ricordate le parole: “Se uno non rinnega se stesso e non prende la sua croce...”: era un cammino di vita che “doveva” essere impostato solo sul sacrificio, sulla penitenza, sulla spersonalizzazione, sulla tolleranza, sulla totale dedizione per gli altri. Oggi questa lettura del vangelo è stata profondamente rivista: nessuno si permette più di affermare che Dio accetta al suo servizio soltanto gli infelici, i frustrati, i pieni di sventure: perché in effetti non è vero!
Ma allora come dobbiamo amare noi stessi? Esattamente come amiamo gli altri. “Amarci” infatti significa volere il nostro bene, renderci vivi, vivere da vivi; significa lottare per ciò che è bene per noi, fare in modo che la nostra persona sia retta, rispettabile e rispettata. Gli altri ci evitano, ci ignorano, ci escludono? Invece di continuare ad arrabbiarci, amiamoci! “Amarci” vuol dire migliorare il nostro carattere, la nostra personalità; significa trasformarci, diventare amabili, accettabili, ricercati; significa essere più aperti con gli altri, più elastici, meno saccenti, meno giudicanti, meno pretenziosi; in una parola “amarci” significa diventare migliori.
Pretendere dagli altri ciò che noi non sappiamo o non vogliamo fare per noi stessi, è autentico parassitismo.
Infine un’ultima considerazione: il nostro amore deve essere “pieno”: dobbiamo cioè “amare in pienezza”. Il vangelo parla di amare “con tutto il cuore, l’anima e la mente”. Altrove aggiunge “con tutte le forze (Lc 10,27), cioè con la concretezza, con le azioni. L’amore, per essere vero amore, deve interessare tutte le nostre facoltà, tutte le nostre possibilità, l’intera nostra persona, a tutti i livelli: altrimenti non è amore. Infatti: amare solo con mente e forze senza cuore, è volontarismo, è azione, è amore freddo, senza passione, manca il sentimento. Amare con mente e cuore senza le forze, le opere, è sentimentalismo, non c’è azione. Amare con cuore e forze senza mente, è istintivo, irrazionale, non c’è il pensiero, non c’è consapevolezza, non c’è lucidità. Soltanto quando l’amore è mosso dall’intera nostra persona, da tutto di noi: mente, cuore e forze, solo allora è pieno, completo, perfetto. Solo in questo modo “ameremo” veramente il prossimo; lo ameremo come Gesù ci ha insegnato, esattamente come Lui stesso ci ha amati e continua ad amarci: senza condizioni, senza tornaconti, senza pretese. Amen.




22 Ottobre 2017 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario


«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
(Mt 22,15-21).

È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù: i personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, approfittano infatti della loro posizione per compiere indisturbati i loro loschi affari. Questa élite, che Gesù aveva più volte redarguita pubblicamente definendola più indegna dei pubblicani e delle prostitute, lo considera ormai come il nemico più accanito da combattere, poiché oltre a non rispettare le istituzioni religiose, le scredita continuamente e apertamente in pubblico!
I farisei pertanto si riuniscono per decidere il da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta. Riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di coronare i loro perversi progetti contro Gesù, si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Si tratta di eliminare un nemico comune, e “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!
Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con un elogio esagerato, falso, ostentato, volutamente adulatorio: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Gesù però, di fronte a questa “incensata” non si scompone: li conosce molto bene, e con calma chiede loro: “Perché mi tentate?”. Parole forti: nella Scrittura il verbo “tentare” è riservato esclusivamente all’azione malefica di satana, il “tentatore”.
Gli interlocutori non raccolgono tale significato ed entrano subito nel vivo del discorso: vogliono cioè che Gesù si esprima apertamente su un argomento molto spinoso: “Dì a noi: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente vuol dire: “Devi dirci, qui e ora, ciò che pensi degli invasori romani e delle loro tasse”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque risposta egli dia, gliela ritorceranno contro; dicendo “sì”, infatti, si dichiarerebbe favorevole al pagamento delle tasse, e quindi, riconoscendo l’invasore come “signore” del popolo, incorrerebbe nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); se invece dice “no”, si metterebbe automaticamente contro l’autorità romana, decretando personalmente la propria fine, veloce e sicura.
Gesù dunque è incastrato. Se accetta di rispondere alla provocazione, qualunque cosa dica è un perdente. Deve necessariamente capovolgere la situazione. E lo fa signorilmente, ponendo a sua volta una richiesta facile facile: “Mostratemi la moneta del tributo”. Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Era praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio dell’imperatore.
Quelli ovviamente gliela mostrano, e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.
Cosa vuol dire? Prima di tutto che le tasse vanno sicuramente pagate: le monete di Cesare vanno restituite al loro padrone. Ma c’è dell’altro: “Rendete a Dio quello che è di Dio”. I doveri in pratica sono due: uno nei confronti del potere temporale, politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio. Gesù, insomma, piuttosto irritato, coglie al volo l’ennesima provocazione maldestra dei suoi nemici per richiamarli all’ordine: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, voi che vivete all’ombra del tempio, restituite a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che solo temporaneamente ha affidato alla vostra guida; quel popolo che Voi invece cercate di soggiogare al vostro volere, inducendolo in errore con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo predicando un Dio che non è il vero Dio. In pratica subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti: e questo è un oltraggio tremendo nei suoi confronti: il popolo è suo, vostro dovere è solo quello di ricondurlo a Lui”. Parole chiare ed esplicite che, come tutto il Vangelo, ci offrono diversi spunti di meditazione, essendo sempre di grande attualità.
Prima di tutto la domanda: “Di chi è quest’immagine?”.
L’immagine riflette la persona, esprime i particolari, le caratteristiche dell’originale, del padrone: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene da lui e quindi gli appartiene.
Ma c’è un’altra “immagine” che ci deve stare particolarmente a cuore: è l’immagine nostra, del nostro “io”. Ciascuno di noi, come dice la Genesi, è stato creato da Dio a sua “immagine” e somiglianza (Gn 1,26): noi pertanto Gli apparteniamo, siamo sua proprietà, a Lui dobbiamo tornare. Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra indelebile appartenenza a Dio-Vita, significa vivere una non-vita, significa cadere in una catastrofe, in un dramma senza fine. Qualunque nostro attaccamento, qualunque nostro legame a persone, a cose, a qualunque realtà che non sia Dio, svilisce, deturpa la nostra somiglianza, sfigura la nostra immagine divina rendendoci schiavi, dipendenti, prigionieri; e lontani dalla Sua immagine, non saremo più in grado di amare, di apprezzare la bellezza e la bontà della vita che ci circonda.
Tutto il creato ci parla di Dio, e ci ricorda continuamente che siamo sue creature, plasmate a sua immagine. Ci è mai capitato, per esempio, guardando avvolti in un silenzio tombale il cielo stellato sopra di noi, di ammirare la meraviglia di tutti quei puntini luminosi, di pensare che è da lì che veniamo, ed è lì che un giorno torneremo, di avvertire un richiamo pressante di eternità, di provare una struggente nostalgia della nostra “casa”, di sentire un desiderio angosciante di grandiosità, di infinito, di soprannaturale? O siamo morti dentro? Così pure ci è mai capitato di veder riflettere il sole nel volto e negli occhi delle persone amate? Di ammirare lo sguardo ansioso dei bimbi che cercano il volto della mamma e del papà? Di sentirci pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, sono tutti momenti di vicinanza con Dio, con i suoi capolavori: momenti che ci fanno appunto percepire distintamente tutta la nostra dignità di figli, tutta la nostra nobiltà spirituale di essere “immagine” del Padre.
La più grande tragedia che ci possa capitare è salire sul palco della vita, recitare la nostra parte, e dimenticarci, quando abbiamo finito e usciamo di scena, la maschera addosso . È importante che nel nostro intimo, nel nostro cuore, nella nostra anima, ci ripetiamo continuamente: “Io sono di Dio, appartengo solo a Lui, sono suo figlio, un giorno è da Lui che dovrò tornare!”.
Secondo spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva anche all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare e dello Stato”: è nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se accumuliamo, mentre gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere. Oggi si fa tanto parlare di comunione negata ai divorziati risposati: ma nessuno, dico nessuno dei tanti “alti papaveri” della teologia, ha mai sollevato il problema ben più grave, di negarla anche a quelli che sperperano nel gioco interi patrimoni, gettando sul lastrico e nella disperazione le loro famiglie, per quelli che fanno fallire le aziende per un arricchimento personale indebito, per quelli che colludono con la mafia per ottenere ricchezza e potere, per i pubblici funzionari che si portano a casa milioni di euro in tangenti alla faccia dei contribuenti. Tutta gente che liberamente, pubblicamente e tranquillamente possono accostarsi alla comunione.
Ma la risposta di Gesù contiene un’altra verità, altrettanto essenziale, una verità più universale: oltre che a Cesare e a Dio, noi dobbiamo restituire anche alle persone, alla natura, alle cose che ci circondano, ciò che è loro, che appartiene loro: valore, importanza, dignità. Tutto il creato ha le sue qualità: sta a noi riconoscerle, apprezzarle e restituirle: il verbo greco apo-didomi, significa appunto “restituire, rendere a qualcuno ciò che gli spetta, che gli appartiene, che gli è dovuto”. Per esempio, tra i doni che Dio ci ha concesso in uso, ce n’è uno, il più prezioso in assoluto, che merita tutto il nostro rispetto e la massima cura: la nostra vita! Più gli scienziati studiano l’uomo e più dicono: “Siamo un miracolo!”. Dio ci dona ogni giorno la cosa più grande di questo mondo, il poter dire: “Sono vivo”. Purtroppo per molte persone è un dono così comune, così scontato, che non lo apprezzano, non sanno che farsene di questa vita e di questo tempo che hanno a disposizione, e continuano a lamentarsi con Dio di questo e di quello. Ma noi lo dobbiamo riconoscere, amare, onorare questo dono gratuito che è la vita; la vita non ci è “dovuta”, è solo “dono”: e verrà giorno in cui dovremo riconsegnare nelle mani di Dio questo dono. Finita questa vita non ne abbiamo un’altra di scorta, in cui poter rimediare al tempo perso; quello che non facciamo oggi non lo potremo fare mai più.
Viviamola allora sul serio questa nostra vita, viviamola in pieno, con intensità: abbiamo questa sola per amare, per provare, per sentire, per realizzare la nostra missione, per diventare ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, dell’autorità, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere. Siamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ripetiamoci: “Voglio vivere: voglio sentire l’odore dei prati, della natura in fiore, il profumo della pelle di chi amo; voglio provare il gusto del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi, correre, rotolarmi sull’erba, ridere a crepapelle, giocare, accarezzare e abbracciare; voglio piangere quando sto male, sentire e condividere il dolore della gente, commuovermi per la gioia; voglio inseguire un sogno, lottare per un mondo migliore e sentire che questo mio tempo non sta passando invano, che ha un senso meraviglioso per me e per il mondo. Sì, voglio vivere!”. Se arriveremo a tanto, potremo restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: quando moriremo, saremo ancora in vita. Dio ci ha consegnato la vita, noi gli riconsegneremo la vita, in tutta la sua bellezza: non la morte dei rinunciatari, di coloro che si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
La gente impreca e si lamenta quando le cose belle finiscono; ma non sa ringraziare Dio e viverle intensamente quando ancora ci sono. Non capisce che alla Vita si risponde con la vita, all’Amore si risponde con l’amore. Tutto ci è stato donato per amore: e noi per amore dobbiamo restituirlo. Amen.