giovedì 17 agosto 2017

20 Agosto 2017 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Ed ecco una donna Cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,21-28).

Dopo l’attraversata del lago di Tiberiade, Gesù si sposta in territorio pagano: Tiro e Sidone, posizionate nel territorio dei Fenici costituiscono infatti, rispetto a Israele, una “regione pagana” per eccellenza; Gesù si porta in quei luoghi per dimostrare che anche i non circoncisi, i non ebrei, i pagani, si devono sentire invitati al Regno: la sua azione salvifica non ha confini territoriali, non ha limiti di razze, ma è universale, destinata a tutti, all’intero genere umano.
Qui incontra una donna ellenica, una Cananea: gli ellenici erano la classe al potere, e quindi si sentivano superiori ai Giudei in capacità, mezzi, ricchezza.
Forse per questo la sua è una richiesta autoritaria, secca: “Mia figlia è molto tormentata da un demonio”. Punto. Una richiesta che non è una richiesta; la donna non chiede nulla, non invoca una grazia; si limita semplicemente ad esporre un problema, lasciando comunque intendere la pretesa di una soluzione. Come a dire: “Tu che sei figlio di Davide, tu che sei riconosciuto da tutti come un potente guaritore, dimostralo, metti in pratica la tua pietà: mia figlia è molto malata!”. Ma Gesù non gradisce questo genere di approcci, finge di non sentirla, continua a camminare senza rivolgerle parola! Si mostra indifferente, quasi crudele: la sua missione è riservata ai figli di Israele! In pratica le fa capire: “Non mi interessa; non è un problema mio! Non mi seccare! Tu non sei ebrea e non intendo sprecare con te i miei poteri”. Un atteggiamento che, a prima vista, può sembrarci altamente negativo, sprezzante: non ce lo saremmo mai aspettato da Gesù, non corrisponde all’immagine che abbiamo di Lui, sempre buono, disponibile, accondiscendente con tutti. 
Ma il suo è un comportamento che va letto più in profondità: egli in pratica vuol farci capire che il nostro relazionarci col Padre, qualunque sia la nostra razza di appartenenza, deve essere improntato all’umiltà. Le parole della donna infatti non fanno trasparire questa predisposizione d’animo, quanto piuttosto una certa pretenziosità: l’indifferenza e il distacco di Gesù è dovuto non al fatto che lei è pagana, ma al suo porsi altezzoso: una volta esposto il suo problema, Gesù avrebbe “dovuto” intervenire immediatamente: pretendere attenzione e ossequio è un suo diritto.
Niente di più sbagliato: nessuno mai può vantare alcun diritto, alcun riguardo, nei confronti di Dio: quando gli rivolgiamo una preghiera, quando gli facciamo una richiesta, dobbiamo bandire dalla nostra mente qualunque forma di arrogante pretesa.
Le parole, riferite alla donna, che Gesù rivolge ai discepoli che lo sollecitano di intervenire, sono quindi propedeutiche a quanto verrà dopo: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”; come a dire: “il caso è chiuso!”. Alle insistenze della donna, Egli ha parole molto dure, quasi offensive: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”.
Parole però che hanno lo scopo di scuoterla interiormente. E ottengono lo scopo: la donna rientra in sé: capisce di aver completamente sbagliato il suo approccio, di trovarsi nella condizione di non poter pretendere nulla. E replica umilmente: “È vero Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Il muro di orgoglio è crollato: nelle sue parole ogni inflessione di presunzione è scomparsa; improvvisamente ha capito di essere, lei ricca e potente, molto più bisognosa di quei poveri Giudei che seguivano Gesù; nella loro miseria essi infatti potevano vantare almeno il possesso di un “altro” pane molto più nutriente, quel Gesù portatore di vera salvezza. Loro sono i veri ricchi, lei no: lei nella sua nuova indigenza si sente esclusa dal banchetto, è come un cagnolino che si accontenta di ricevere da Gesù almeno le “briciole”; capisce insomma che per poter aspirare alla Salvezza, deve porsi sullo stesso livello dei più derelitti, dei più affamati straccioni, dei più miseri. Ora non vede più soltanto se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio disagio: ora si accorge finalmente che anche altri, forse proprio anche a causa sua, possono soffrire e star male. E questo la salva. Attenzione: salva lei, la madre, non la figlia: il vangelo non ci dice nulla della bambina, Gesù non la tocca nemmeno, neppure la vede! Ammalata è la figlia, ma quella che Gesù guarisce è la madre: “Ti sia fatto come desideri”, cioè: “Si realizzi in te ciò che nel profondo del tuo cuore tu desideri; tu conosci la verità; tu soffri perché ti manca qualcosa; e allora si avveri in te questo qualcosa che tu ora, in tutta sincerità e umiltà, speri che avvenga”.
Gesù dunque guarisce la madre, come se fosse lei la vera “malata” e non la figlia: sarebbe stata lei, infatti, che con il suo comportamento “malato” avrebbe reso invalida anche la figlia, l’avrebbe ridotta in condizioni psichiche precarie.
Il vero problema sarebbe dunque non tanto la malattia della figlia, così come da lei dichiarato inizialmente, quanto una situazione familiare parecchio compromessa. Prima di tutto notiamo la mancanza di un padre: il testo di lui non fa alcun riferimento. Ora, uno dei compiti fondamentali di un padre è proprio quello di preservare il figlio da una simbiosi con la madre ai limiti della morbosità. Nei primi anni di vita è infatti la madre ad essere giustamente il centro vitale del figlio: lei è accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente, e meno male, il figlio si attacca a lei: tra i due si instaura un legame talmente profondo da divenire talvolta patologico. Compito del padre è appunto guidare il figlio nella crescita, favorendo il processo di un suo graduale affrancamento dalla madre, per consentirgli di programmare autonomamente la sua vita, di gettare le basi della sua indipendenza.
Ma in questo caso il padre non c’è. Dov’è? Non sappiamo. Sappiamo però che l’assenza del padre è sempre problematica per il figlio, lo pone in una situazione conflittuale a volte molto grave: da una parte egli sente il richiamo della vita ad andarsene, a lasciare la casa, a seguire i suoi sogni; dall’altra un forte legame ombelicale, in essere con la madre, lo inibisce, lo condiziona pesantemente. Se ci fosse stato il padre, avrebbe provveduto a sostenere lui la madre; ma il padre non c’è. Se ci fosse stato il padre, avrebbe potuto insegnargli l’autonomia, facilitare il suo ingresso nella società, nel mondo. Ma il padre non c’è.
Una famiglia normale è formata da due elementi entrambi essenziali: da un padre e da una madre. I loro ruoli sono esclusivi, unici: il ruolo di un padre, non può essere sostituito dalla madre; e il ruolo di una madre, non può essere sostituito dal padre. La mancanza di uno non può essere compensata dall’altro. Oggi questa verità viene tranquillamente impugnata, ma con risultati puntualmente catastrofici. La mancanza di uno dei due genitori, padre o madre che sia, crea inevitabilmente uno squilibrio, checché ne dicano oggi con tanta squallida sicumera, gli accaniti promotori di sedicenti “famiglie” composte da due madri, da due patri ecc.!
Quindi, tornando al vangelo, se in quella famiglia il padre non c’è, abbiamo molto probabilmente una donna che, da sola, ha investito tutta se stessa, tutta la sua esistenza, esclusivamente sulla figlia; una donna che ha cercato di rimpiazzare un padre assente, isolando la figlia dalla realtà; abbiamo una donna che si è completamente spersonalizzata, che ha investito la sua intelligenza, i suoi progetti, la sua anima, tutta se stessa, nella figlia, fagocitando ogni sua velleità personale, riducendola ad un essere completamente amorfo.
Allora, il “demonio” che opprime la figlia, sarebbe per assurdo la stessa madre che vive maniacalmente solo nella figlia: e sappiamo per esperienza che talvolta troppo amore è nefasto e fatale quanto, e forse più, della mancanza d’amore.
Altro particolare significativo: la donna, riferendosi alla figlia, la definisce “mia”: un termine possessivo, che esprime una proprietà esclusiva. La donna sente che “sua” figlia è il prolungamento di se stessa, è la sua vita, sente che la figlia farà ciò che lei non ha mai potuto fare o vivere, e quindi proietta in lei tutte le sue frustrazioni, quei sogni che per lei non sono mai diventati realtà. Usa in qualche modo la figlia per soddisfare se stessa, per dimostrare a tutti la sua rivincita nei confronti della società. Ma questo amore non educa, non costruisce, non matura: è un amore che distrugge, che inibisce; allora la “malattia” della figlia non è nient’altro che la sua “fame” di amore autentico di cui si sente priva. Per questo la figlia protesta: ha fame d’amore! È ammalata per carenza d’amore vero: tutto qui.
Ecco allora che per risolvere la situazione, Gesù non cura lei ma la madre. E solo quando la madre guarirà, anche la figlia riacquisterà la salute: “Da quell’istante sua figlia fu guarita”.
Ciò che è consolante in tutto questo è che la donna a contatto con Gesù riconosce la sua responsabilità. Il suo comportamento, inizialmente tracotante e pretestuoso, è ora denso di umiltà, di fede profonda; sembra infatti dire: “Sì, è vero, Signore: tutti hanno bisogno di cibarsi d’amore. Nessuno mai può rimanerne senza, neppure i cani. E io forse, senza volerlo, ho trascurato troppo mia figlia”.
A volte noi genitori abbiamo bisogno di sentirci perfetti. Un figlio è la cosa più cara che abbiamo, è il nostro mito, il nostro sosia, il nostro capolavoro e tutti noi vorremmo che dicesse: “Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno dato tutto e non hanno mai sbagliato”.
In realtà nessun genitore, nessun educatore, nessun maestro è perfetto, perché la vita è per se stessa imperfetta. Purtroppo quando ci accorgiamo che i nostri figli soffrono per causa nostra, dentro di noi neghiamo decisamente questa verità. Cioè non accettiamo di essere imperfetti. Se siamo convinti di dare un sacco d’amore ai nostri figli, di fare per loro tutto quanto possiamo, allora dovremmo anche accettare che possiamo fare degli errori. Dovremmo accettare che a volte non li nutriamo a dovere, non incontriamo i loro veri bisogni, non li trattiamo come meritano. Dovremmo accettare che a volte pensiamo più a noi stessi che a loro. Dovremmo accettare che il nostro amore non è sempre vero amore, e che pertanto deve essere elevato, purificato. Dovremmo infine convincerci che i figli, oltre che nostri, sono soprattutto figli di Dio, della Vita.
Guardiamo allora a questa donna con grande rispetto e profonda stima: perché lei ha saputo riconoscere il proprio errore: e grazie alla sua umiltà, alla sua fede, ha ottenuto la salvezza sua e di sua figlia. Dobbiamo imparare da lei. Amen.



giovedì 10 agosto 2017

13 Agosto 2017 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

«La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,22-33).

Siamo sulla ridente collinetta che dolcemente scende fino alla riva del Lago di Tiberiade: qui Gesù ha appena compiuto un altro prodigio strepitoso, sfamando la grande ressa di persone che ogni giorno lo seguiva, moltiplicando i pochi pani e pesci a sua disposizione. La folla presente, spinta da un generale entusiasmo, si lascia andare ad un crescente e tumultuoso delirio di approvazione, di aperta ammirazione: e questo preoccupa Gesù; Egli teme per l'incolumità dei suoi, consapevole che ai Romani questo genere di assembramenti non sono graditi, temendo possibili insurrezioni. 
Gesù allora congeda in tutta fretta la folla, e ordina ai suoi di salire su di una barca e di prendere il largo, raggiungendo la riva opposta: anche perché, dopo le ultime esperienze esaltanti, egli ritiene che sia giunto per loro il momento di tornare alla realtà, devono cioè sperimentare su quella barca un’esperienza meno esaltante, decisamente contraria, traumatica. Lì infatti essi dovranno combattere contro i venti di burrasca, contro la violenza delle onde; e lo dovranno fare da soli, senza la presenza rassicurante di Gesù. Lì ognuno si troverà improvvisamente solo con se stesso, e in se stesso ognuno dovrà trovare la forza e le energie per imparare a lottare, a superare qualunque contrarietà.
Una chiara indicazione per tutti noi. Durante la nostra vita, infatti, capiterà a tutti prima o poi di trovarci nella solitudine più completa, di vivere momenti di smarrimento totale, in cui sarà necessario trovare da soli la soluzione ai nostri problemi.
È la “notte fonda” cui allude il vangelo: e in quella notte una tempesta improvvisa si abbatterà su di noi: non avremo più alcuna possibilità di evitarla, saremo costretti ad affrontarla, dovremo per forza entrarci dentro: e allora toccheremo con mano tutta la fragilità della nostra “barca”: saremo, come gli apostoli, in balia del vento impetuoso, delle onde vertiginose, e saremo sbattuti senza sosta da marosi violentissimi. È impossibile far finta di nulla: sono i nostri “mostri”; solo noi possiamo affrontarli; solo noi possiamo conoscere e dominare le nostre ansie, le nostre angosce, le nostre pulsioni. Dobbiamo imparare a gestirle, a indirizzarle correttamente. Non possiamo scappare sempre, non è possibile. Non c’è sempre l’amico di turno o lo psicologo pronti per noi, e non è neppure giusto che ci siano. Non possiamo sempre “scaricare” i nostri pesi sugli altri. Non possiamo sperare di risolvere tutto con pasticche, antidepressivi, tranquillanti. Arriverà il momento in cui dobbiamo misurarci con la dura realtà. È la nostra vita! Ci troveremo in quel particolare momento in cui tutto sembrerà perduto, in cui ci sentiremo persi, senza riferimenti; non sapremo più dove andare, dove sbattere la testa, tutto sembrerà crollarci addosso: non vedremo più alcuna luce, non avremo più alcuna speranza. Come Pietro sentiremo solo l’infuriare della tempesta, e la nostra fede, il nostro cristianesimo di facciata, improvvisamente crollerà, verrà meno, sprofonderà. Ci sentiremo impotenti, paralizzati, tutto sembrerà inutile, tutto irrecuperabile. E invece no. Oggi il vangelo ci fa capire qualcosa di incredibilmente consolante, di assolutamente straordinario: “amate le vostre tempeste”. Dobbiamo cioè accettare le nostre tempeste, le piccole e grandi avversità della nostra vita, guardandole in positivo: certo, le calamità, le tragedie, non sono mai simpatiche: sono dure, difficili da accettare, spesso dolorosissime; ma sono utili, necessarie, talvolta fondamentali. Perché lo scatenarsi di uragani e tempeste sulla nostra traversata, ci obbliga necessariamente a rivedere il nostro stile di navigazione, pena il subire un totale naufragio e colare a picco. Se davanti a noi il mare fosse sempre calmo, il vento sempre favorevole, noi continueremmo tranquilli a seguire in automatico una rotta sicuramente più piacevole, più “turistica”, più comoda: una rotta però che molto spesso invece ci condurci dritti al porto finale, ci fa inutilmente perdere la “bussola”, portandoci a girovagare senza meta per spiagge festaiole, con l’unico risultato di allontanarci da Dio, dalla sua amicizia, dal suo amore,
Ecco allora come una “tempesta”, un evento critico della nostra vita, possa talvolta costituire per noi la soluzione vincente, quella cioè di cercare rifugio tra le braccia del Padre. Ben venga allora quella tempesta!
Certo, all’inizio, difficilmente capiremo che in quella prova ci aspetta Dio: invece di riconoscerlo, lo scambieremo per “un fantasma”, un mostro, un demonio, una maledizione, una disfatta. E avremo paura. Ma in realtà è proprio Dio. È Lui che sta dietro a tutto, ad ogni cosa che ci riguarda; è Lui che ci spinge, se necessario, anche nei “luoghi deserti”, nel bel mezzo di qualche “tempesta”. E lo fa non perché ci vuole male ma proprio perché ci vuole bene. Perché vuole che cambiamo, che riprendiamo personalmente in mano il timone della nostra nave. Perché vuole che torniamo ad essere autentici, sinceri, convinti, innamorati; vuole cioè che torniamo ad essere quelli per cui ci ha creati: “sua somiglianza”.
È in questo senso dunque che il vangelo ci dice di amare le “tempeste”, anche le più dure. Inutile tergiversare, inutile rimandare continuamente: non c’è cosa peggiore di vivere con la paura costante di prendere in mano la propria vita, con il terrore di confrontarci con il proprio “io”. Non ci rendiamo conto che così facendo rinunciamo a dare una nostra impronta, un tocco personale, alla vita; la subiamo soltanto, ci abbandoniamo alla corrente, ci lasciamo fagocitare dagli eventi, siamo solo dei deficienti (nel senso di “deficere”, venir meno): siamo, in una parola, dei parassiti.
Ad un certo punto dobbiamo prendere il toro per le corna. Punto. Inutile piagnucolare: “è difficile; è impossibile; non ce la posso fare”, e continuare a “pregare” Dio di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare a nostra disposizione con i miracoli in mano. Ma Dio non è lì per risolvere i problemi al nostro posto; è lì per darci comunque la forza di risolverli da soli. Quando siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase importante quel “sono io”: il verbo greco “eimì” indica sì un presente, ma anche un passato (“Io sono colui che è sempre stato”), e insieme un futuro (“Io sono colui che sarà”). In altre parole, Lui, nostro Padre, è sempre presente: lo è sempre stato, lo è e lo sarà in futuro.
È l’esperienza di Pietro: egli (come noi) non crede che “quel fantasma” sia il Signore: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. Ed ecco il miracolo della fede: Pietro riesce a camminare sulle onde in tempesta, le domina. Se abbiamo vera fede, ciò che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza di affrontarle, perché Lui è con noi. E noi crediamo a questo. Ma la nostra deve essere una fede ferma, autentica, incrollabile, altrimenti ripetiamo l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui distoglie lo sguardo da Gesù, impaurito dai pericoli che lo circondano, la sua fede viene meno, e affonda. Nel momento in cui pone l’attenzione, più che su Gesù, sulla forza del vento e del mare, egli cola a picco. È così anche nei drammi della nostra vita: se noi guardiamo al pericolo, alla prova, affondiamo; ma se guardiamo a Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver paura. Insieme possiamo affrontare qualunque cosa, fidati di me”.
E concludo. Ogni mattina quando ci alziamo, facciamo il segno della croce. Non facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non so cosa affronterò oggi ma so che tu Dio sei con me”. E allora sentiremo vibrare nel cuore la sua risposta che ci tranquillizzerà: “Qualunque cosa ti succeda, non aver paura, io sono al tuo fianco”. Un atto che non deve avere valore scaramantico, fatto per tener lontani eventuali problemi: ma una dimostrazione di assoluta fiducia in Lui, che sola ci fa affrontare serenamente la vita. Poiché, fintanto che Lui è al nostro fianco, i nostri passi non vacilleranno.
Del resto nella vita non abbiamo molte possibilità: o ci facciamo guidare dalla paura, dall’insicurezza, dall’ansia, oppure ci lasciamo guidare dalla fiducia, dalla fede in Dio. Con la paura non andiamo da nessuna parte: affondiamo immediatamente, perché ci fa vedere nemici dappertutto, pericoli in ogni dove, ci insinua dubbi sui fratelli, ci fa vedere solo nemici. Al contrario la fede è salvezza, è camminare sicuri, è guardare avanti con cuore saldo.
Diceva un vecchio saggio: «Bussarono alla porta. La paura andò ad aprire e fu divorata. Bussarono alla porta. La fede andò ad aprire: non c’era nessuno». “Si nobiscum Deus, quis contra nos? – Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rom 8,31). Ecco, questa deve essere la nostra certezza quotidiana. Amen.



giovedì 3 agosto 2017

6 Agosto 2017 – Trasfigurazione del Signore

Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte...(Mt 17,1-9).

Il vangelo di oggi ci racconta la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor, alla presenza di tre dei suoi discepoli. In particolare dice: Gesù “fu trasfigurato davanti a loro e il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”.
Un evento eccezionale, straordinario, dunque: un evento che colpisce profondamente i presenti. Un evento che ha ammutolito i tre, sopraffatti da una visione di Gesù che mai si sarebbero aspettati di vedere. Un assaggio di paradiso, riservato ai più intimi.
Ma per noi, cristiani di oggi, cosa significa “trasfigurazione”? Potremo mai vivere noi, figli dell’era tecnologica esasperata, momenti di una così esclusiva spiritualità? Certamente. Tutti i giorni noi viviamo di trasfigurazione.
“Vivere una trasfigurazione” è infatti molto più naturale di quanto possiamo immaginare; letteralmente infatti trasfigurazione significa “vedere”, materializzate nelle persone, nelle cose, nei fenomeni che ci circondano, emozioni particolarissime, emozioni normalmente visibili soltanto attraverso gli occhi del cuore. In pratica fare una esperienza di “trasfigurazione” significa vivere concretamente, toccare con mano momenti celestiali, momenti indescrivibili di esaltazione divina, momenti speciali che noi viviamo nella nostra quotidianità, quando le stesse sensazioni, le stesse emozioni che “viviamo” soltanto nell’intimità del nostro cuore, diventano riscontrabili e verificabili nella realtà: e ci sentiamo rapiti, posseduti da una felicità incontenibile, da “settimo cielo”. In quei momenti comprendiamo veramente cosa significhi amare. Solo infatti se siamo stati veramente innamorati, se abbiamo letteralmente perso la testa e fatto cose pazze per chi amiamo, arriveremo a capire cosa significhi trasfigurazione.
Gesù in quel particolare momento, con la sua trasfigurazione, ha voluto far sperimentare ai suoi una breve anticipazione della sua divinità: l’uomo “buono”, il maestro, la guida, che fino ad allora loro conoscevano, improvvisamente si è rivelato essere una divinità soprannaturale, Figlio di un Dio che è un Padre innamorato, lui stesso un Dio ardente di passione, un Dio che infiamma d’amore chiunque ha la fortuna di avvicinarlo.
Inutile domandarci come sia stato materialmente possibile per Gesù un così evidente e sostanziale cambiamento di aspetto. Inutile scomodare la scienza, inutile farci tutte le alchimie e le supposizioni scientifiche per spiegare come ciò sia potuto accadere nella realtà. Inutile cercare di capire lo stato d’animo, i pensieri, le emozioni dei tre. Possiamo al massimo farcene un’idea pensando a certe particolari esperienze del nostro vissuto: come per esempio la tenerezza che proviamo nel contemplare il volto di un bimbo addormentato tra le braccia della madre, oppure ammirare gli occhi di una donna quando stringe al cuore il figlio appena partorito; o ancora il senso di beatitudine che ci invade nell’ammirare un tramonto sul mare, o l’immensità del cielo riflesso negli occhi della persona che amiamo; oppure l’ascolto di un coro monastico che innalza lodi a Dio, nel silenzio tombale di un’abbazia: sono istanti unici, che irrompono nel profondo della nostra anima, istanti che ci fanno capire cosa voglia dire innamorarsi, stupirsi, commuoversi; istanti unici, carichi di intime, intense sensazioni d’amore: in una parola, sono momenti di “trasfigurazione”.
Nella nostra vita noi facciamo continue esperienze di trasfigurazione: quando ci innamoriamo, quando nel buio di una situazione rivediamo la luce, quando da perduti che eravamo ritroviamo noi stessi, quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante, ha un senso e uno scopo ben preciso per il mondo e per oltre sei miliardi di fratelli.
Ma la massima esperienza di trasfigurazione, la più esclusiva e tangibile, noi la viviamo quando ci accostiamo alla Comunione: nell’Eucaristia noi assistiamo infatti alla più solenne e importante delle trasfigurazioni: una Teofania che Dio riserva esclusivamente ai singoli. Non è accompagnata né da terremoti, né da nubi, né da lampi, né da tuoni. Ma è Dio stesso che viene in noi, nel nostro cuore, e ci trasforma, ci trasfigura. È il Dio Amore che si lascia sentire, toccare, gustare, mangiare.
Insomma, come ho detto, anche noi, come Pietro, Giacomo e Giovanni, possiamo vivere le nostre esperienze di trasfigurazione: momenti di grande introspezione, momenti che ci infondono energia, fiducia, forza, coraggio di andare avanti e di affrontare le difficoltà, le cadute, le crocifissioni della vita. Sono momenti in cui, a contatto con la grazia di Dio, ci è impossibile non commuoverci, trattenere le lacrime.
E concludo: una volta pensavo che commuoversi, piangere, fosse una prerogativa dei deboli. Oggi invece so che vuol dire essere vivi, presenti, vigili; vuol dire sentire, analizzare, vedere, capire cosa significa vivere l’amicizia di Dio; vuol dire lasciarsi toccare nell’intimo dal suo amore, lasciarsi colpire da quanto di più bello Egli ci ha messo a disposizione. E di fronte a tali esperienze di vita, così intime ed esaltanti, è veramente impossibile per un’anima sensibile non commuoversi. Amen.



giovedì 27 luglio 2017

30 Luglio 2017 – XVII Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,44-52).

Il vangelo di oggi ci presenta tre piccole parabole: il tesoro nascosto, la perla preziosa e la rete gettata in mare. La prima e la seconda sono molto simili. Hanno lo stesso tema: quello di imbattersi in qualcosa di grande valore. E su queste due vorrei fissare l’attenzione.
L’uomo della prima parabola è un contadino che un giorno, mentre ara un campo, trova un tesoro prezioso, una grande fortuna: vende tutto quello che ha e compra quel campo. La seconda parabola racconta invece di un commerciante alla ricerca di perle preziose: trovatane una particolarmente splendida, anche lui vende tutto quello che ha pur di comprarla.
Il primo uomo trova il tesoro casualmente; il secondo, lo trova dopo una lunga e accurata ricerca. Entrambi dunque trovano qualcosa di inestimabile valore; un qualcosa di fronte al quale tutto il resto svilisce; un tesoro che pur di farlo proprio, non esitano a rinunciare a tutto, a privarsi di tutti i loro beni. Non c’è prezzo adeguato per ciò che trovano, non c’è niente che valga come quel tesoro che hanno scoperto: non esiste nulla che possa reggerne il confronto.
Ciò a cui alludono entrambe le parabole è facilmente intuibile: ci dicono in sostanza che Dio, il regno dei cieli, in qualunque modo venga da noi scoperto, sia casualmente tra le pieghe della vita, oppure a seguito di una minuziosa ricerca dedicata, rappresenta in ogni caso per noi il massimo dei beni: è un tesoro che, una volta scoperto, ci sarà impossibile non farlo nostro, non trattenerlo, anche a costo di rinunciare a quanto di meglio possediamo. Insomma Dio è una realtà talmente affascinante, una realtà talmente impegnativa e coinvolgente, da giustificare il nostro massimo impegno sia nel trovarlo che per farlo nostro. Perché Lui è il motore della nostra vita: ci stima, ci ama, ci spinge ad osare, a diventare noi stessi, a realizzarci, a cercare sempre il meglio. Ci fa sentire vivi, vibranti, autonomi, liberi, autentici, coraggiosi: in una parola, dentro di noi, ci sentiamo alimentati dal fuoco della Vita e dell’Amore divino.
È impossibile dimenticare questa esperienza: perché Dio imprime un segno indelebile nella nostra anima, nel nostro cuore, nel nostro carattere.
Quando ci parlano di Lui, su come trovarlo e conservarlo, i predicatori del momento insistono tutti sulla necessità di andare in chiesa a pregare, di partecipare puntualmente a tutte le celebrazioni liturgiche appropriate: ma Dio non è un qualcosa di statico, di amorfo; uno che aspetta immobile sull’altare le nostre incensazioni. Dio è dinamismo, Dio è vita nuova, Dio è un “incontro” travolgente, che trascina. Un incontro a volte del tutto casuale, inatteso, ma a volte voluto, cercato ostinatamente, disperatamente.
Una volta incontratolo, poi, non è vero, come ci dicono, che è difficile seguirlo, che stare al suo passo è estremamente impegnativo; non è vero che seguirlo richieda enormi sacrifici, privazioni eroiche: in realtà sentirlo in noi ci dà forza, la sua presenza ci riempie il cuore, ci inebria la vita, ci fa innamorare, ci offre in ogni istante tutto ciò che nessun altro può offrirci. Lui è Amore assoluto, è passione che travolge: l’unica cosa che ci chiede è di essere coerenti nella nostra vita.
Ci siamo mai chiesto come mai gli apostoli, nonostante la loro piccineria mentale, lo seguissero tanto volentieri per le strade della Palestina? Perché Lui era l’aria che respiravano, era Vita, era l’intero mondo, il loro “tesoro prezioso”, tutto ciò di cui avevano bisogno. Oggi invece un numero sempre più crescente di suoi ministri, di moderni discepoli, dopo tante promesse iniziali, dopo anni di servizio, decidono di tradirlo, di allontanarsi da Lui; abbandonano la grazia della Sua chiamata, rinunciano a seguirlo, appellandosi a sopraggiunte impensabili difficoltà, a inumane privazioni imposte da tale vocazione. Si sentono inadatti, impossibilitati a proseguire. Microcefali che affermano il falso: la causa della loro defezione non è un Dio, padrone autoritario, inflessibile fustigatore delle umane esigenze della carne: non è questo; è la loro fede, la loro generosità, la loro coerenza, il loro entusiasmo, il loro amore iniziale che gradualmente sono venuti meno: imbevuti della più squallida mentalità mondana, avidi di benessere, di ricchezze, di piacere, rinnegano qualunque nobile promessa, preferendo assecondare il loro orgoglio, il loro egoismo, la loro fame di disordine interiore: un moderno stile di vita, oggi purtroppo molto diffuso anche nella Chiesa!
Se dunque Dio è quel “tesoro nascosto” che tutti vorrebbero possedere, noi, con la nostra vita, dimostriamo di volerlo veramente trovare? Quanto interesse mettiamo nel cercarlo? Lui è là che ci aspetta: ma a noi di raggiungerlo, quanto importa? Certo, se siamo impegnati a cercare soprattutto soldi, sicurezza economica, piaceri, benessere, divertimenti, non avremo mai tempo per Lui: il tesoro magari ci è vicino, ma noi non lo vedremo, non lo troveremo mai, perché siamo attratti da tante altre cose più appariscenti, più godibili. Siamo cioè proiettati all’esterno, “fuori” di noi, quando invece ciò che cerchiamo è dentro di noi. Il tesoro prezioso è nascosto in noi; anzi, siamo noi stessi il tesoro: siamo cioè quell’immagine, quella somiglianza divina, che Dio ha impresso nella nostra anima fin dal nostro concepimento; quella “somiglianza” che noi, con la nostra vita, dobbiamo scoprire e fare nostra ad ogni costo. La perla preziosa siamo noi, è il Dio in noi. Ecco perché dobbiamo cambiare metodo di ricerca; ecco perché la nostra vita deve necessariamente cambiare direzione: dobbiamo ad ogni costo, fare “conversione” di marcia. Anche se per questo gli altri ci derideranno, anche se ci prenderanno per dei fuori di testa.
Anche i due uomini del vangelo si sono comportati da folli, da pazzi, pur di entrare in possesso del “tesoro”: hanno lasciato il certo per l’incerto, hanno venduto tutto quello che avevano, si sono privati di tutto, pur di arrivare a quel tesoro di cui, oltretutto, non conoscevano il valore. Cose da pazzi. Ma Dio è per i pazzi, è per i folli, perché Lui non chiede qualcosa, ma pretende tutto, ci chiede noi stessi. Dio non si accontenta di un nostro coinvolgimento parziale, lo vuole totale, assolutamente completo.
Tutte le cose che possiamo conquistare nel corso della vita, hanno certamente un valore, ma è un valore legato alla provvisorietà: sono cose che ci coinvolgono sul momento, per poi dimostrarsi effimere e cadere nell’indifferenza, nella dimenticanza, nella caducità del tempo; perdono insomma la loro attrattiva, la loro seduzione, il loro valore iniziale. Ci sono anche, è vero, degli eventi molto importanti che ci segnano per tutta vita; fatti che ci cambiano intimamente, in profondità: come l’amore sincero del partner, un matrimonio felice, la nascita dei figli; ma anche queste realtà così importanti sono destinate, prima o poi, a finire, a concludersi: i figli stessi, pur così vitali e coinvolgenti, non sono “per sempre”: un giorno anch’essi ci lasceranno per intraprendere la loro strada. 
Ebbene, Dio è molto di più di tutte queste cose “transitorie”: più coinvolgente di un figlio, più importante di un partner, più impegnativo di un matrimonio. Egli non ci esclude nulla di tutto questo, ci lascia godere di queste e di tante altre cose belle, essenziali per la nostra vita: ma ciò che il vangelo di oggi ci insegna, è che al di sopra di tutto, la “cosa” più bella in assoluto è Lui: è Lui l’Essere più importante di tutti e di tutto, perché è Lui che, trascendendo i nostri limiti temporali, ha dato origine ad ogni creatura vivente: per Lui non esiste un “inizio” e neppure un “termine”; non ha una “scadenza”, non sparirà mai, lasciandoci soli. Una volta che l’avremo trovato Egli rimarrà per sempre nostro: “nostro” in assoluto; continuerà ad essere sempre, per ciascuno di noi, il nostro “tesoro prezioso”, il nostro premio oltre il tempo, oltre la fine di questa nostra vita transitoria.
Ripeto: Dio non è qualcosa di esterno, non è qualcosa di “altro” da noi. Dio non è una preghiera o una professione di fede; non è un Credo o una celebrazione liturgica. Dio è Uno che ci prende totalmente, che ci coinvolge, che ci vuole trasformare, che ci vuole cambiare. Non è Uno che si accontenta del nostro apparire; al contrario Egli pretende la nostra radicale trasformazione: del nostro modo di pensare, di sentire, di vivere, di amare. Dio non sa che farsene di un’ora di preghiera al giorno; Dio non si accontenta di “una parte” della nostra vita: lui la vuole tutta; vuol “fare alleanza” con noi, vuole stabilire un patto di esclusiva con noi; vuole rapirci, prenderci, assorbirci completamente. Per questo dobbiamo "vendere tutti i nostri beni", e diventare con Lui “cor unum et anima una”.
Ovviamente, e concludo, per trovare questo Tutto, noi dobbiamo essere disposti a giocarci il tutto. Si narra in proposito che un giovane monaco facesse ogni giorno la stessa domanda al suo maestro: “Come posso trovare Dio, il “tesoro” del vangelo?”. E ogni giorno riceveva la stessa risposta: “Devi desiderarlo”. “Ma io lo desidero con tutto il mio cuore, eppure non lo trovo!” insisteva il discepolo. Un giorno, mentre entrambi si stavano lavando nel fiume, il maestro prese la testa del giovane tra le mani, la spinse sott’acqua, e ve la tenne con forza mentre il poveretto si dibatteva disperatamente per liberarsi. Il giorno dopo fu il maestro a domandare: “Perché ti dibattevi in quel modo quando ti tenevo la testa sott’acqua?”. “Perché cercavo disperatamente l’aria!”, rispose. 
“Ebbene: quando ti sarà data la grazia di cercare disperatamente Dio come cercavi l’aria, allora l’avrai trovato!”. Amen.



giovedì 20 luglio 2017

23 Luglio 2017 – XVI Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò.» (Mt 13,24-43).

È la celebre parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non siano in grado di capirla, ma perché non vogliono capirla così com’è, non sono cioè d’accordo con quanto Gesù vuole qui insegnare con le sue parole. Si tratta, infatti, di una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta una realtà difficilmente accettabile, una situazione in contrasto con la loro idea di “discepolato”.
Cerchiamo di capirne il motivo: c’è un uomo che, con fatica e sudore, ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico, sempre pronto a colpire, durante la notte, vi semina sopra la “zizzania”: una graminacea molto simile al frumento, e quindi impossibile da distinguere finché non arriva anch’essa a maturazione: ha grani nerastri molto tossici che producono effetti allucinanti. Il riferimento alla coesistenza del bene e del male nel mondo è evidente. È naturale quindi che la prospettiva di vedere ostacolata, o addirittura vanificata, la loro missione evangelica dagli interventi velenosi del maligno, non venga presa molto bene dagli apostoli: perché accettare passivamente tale evenienza? Perché aspettare che il male metta radici e si sviluppi? Non sarebbe preferibile metterlo subito fuori causa? Certo: ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) a priori, sul nascere, si corre il grosso rischio di estirpare anche il bene, il grano, poiché le radici di entrambi sono già sul nascere strettamente intrecciate. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; dobbiamo cioè convivere con questa realtà; anche perché “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va estirpato e cosa no; in altre parole non spetta a noi stabilire in partenza chi è buono e chi no.
In pratica, con questa parabola, Gesù intende mettere in guardia l’umanità dalla tentazione, molto diffusa anche oggi tra i seguaci delle maggiori religioni, di considerarsi gli autentici rappresentanti della volontà di Dio, i soli interpreti della sua Parola; di essere cioè a pieno titolo gli unici giusti e quindi gli unici eletti. Dio però, come rimarca Gesù, non fa di queste scelte, non ha mai discriminato i buoni dai cattivi; per Lui tutti hanno avuto ed hanno una pari dignità: quella di essere suoi figli. Punto.
Egli infatti “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”.
Gesù, in tutta la sua vita terrena, si è sempre espresso contro la “presunzione” dei migliori, degli arroganti, di quanti cioè si ritenevano impeccabili, giusti, osservanti, e che consideravano tutti gli altri, dei peccatori, gente persa da condannare, gente sbagliata da convertire. Esempi di questo tipo sovrabbondavano: Farisei, Scribi, Maestri della Legge, erano davvero maestri nel disprezzare il prossimo. Evidentemente però, egli doveva aver notato che la stessa tentazione si stava insinuando anche tra i suoi discepoli, tra coloro cioè che, seguendolo da vicino ed ritenendosi i suoi confidenti, pensavano erroneamente di essere superiori agli altri.
Un errore, una ideologia, che purtroppo anche nella sua Chiesa, ha avuto nei secoli una grande diffusione con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, infatti, quanti “difensori” della fede e di Dio, hanno condannato innocenti, hanno ucciso, fatto guerre per estirpare gli “eretici”, per debellare il male dal mondo? La fanatica volontà di fare il bene ad ogni costo eliminando dal mondo ogni parvenza di male, ha fomentato guerre sante, rivoluzioni, inquisizioni, epurazioni, stermini razziali, arrivando a legittimare anche le più ripugnanti crudeltà. Una religione che si ritenga strumentalmente superiore alle altre è una religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità imposta crea necessariamente inferiorità, crea pregiudizi, condanne e divisioni: di qua i buoni e di là i cattivi, da un lato gente salvata per diritto divino e dall’altro gente condannata senza appello. Ma il Dio di Cristo, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha predicato un Dio come questo. Anzi Lui è il Padre di tutti, e ha mandato suo Figlio per tutti, per salvare tutti, ma proprio tutti.
Applicata alla nostra vita concreta, cosa ci suggerisce allora questa parabola? Che il campo su cui avviene la semina, è la nostra anima, siamo noi; e che in questo campo, nella nostra vita, crescono insieme grano e zizzania. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di essere talmente bravi da produrre esclusivamente grano di prima scelta. Dobbiamo purtroppo fare i conti anche con la nostra zizzania, che a volte è delle peggiori. È un dato di fatto e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci e amarci anche per i nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo predisporre la nostra mietitura finale.
“Sei grano e zizzania”, ci conferma dunque Gesù. “Fai attenzione, perché se vuoi essere solo grano scelto estirpando la zizzania presente nel tuo campo, non ti rimarrà in mano niente di niente. Accettati dunque umilmente così come sei: con le tue potenzialità, con i doni che ti ho dato, con le tue risorse; ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in assoluto”, al di sopra delle nostre possibilità.
Cerchiamo invece di capire bene a quale grado di perfezione il Signore ci ha chiamati. È importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la nostra vocazione; un altro è mirare ad una perfezione assoluta, eroica, da “perfezionista”, che non ci appartiene: perché in questo caso otterremmo soltanto la soddisfazione del nostro “ego”, attraverso una continua e affannosa ricerca del riconoscimento e dell’ammirazione altrui. Un perfezionista di questo genere è, oltretutto, intransigente: per lui il mondo si divide unicamente in buoni e cattivi: non esistono altre possibilità. La sua vita è pertanto continuamente sotto stress, in totale ansia; spinto dalle sue vertiginose ed esclusive aspirazioni al bene, egli sarà sempre insoddisfatto di qualunque suo progresso, poiché la sua è una ricerca volta esclusivamente alla caduca bontà del finito, non a quella eterna dell’infinito, di Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato tutto all’esterno: è uno che non ha dubbi, uno che non ascolta mai i suggerimenti della sua coscienza, che non dà alcuna importanza a quanto gli suggerisce il cuore e, soprattutto, a quanto gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
La nostra perfezione cristiana consiste dunque nell’attuare, nel dare vita, in semplicità e umiltà, a quel progetto che Dio ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma adeguato alle nostre possibilità, che tiene conto dei nostri difetti, delle nostre miserie, delle nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio da persone nient’affatto perfette: da peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli non teme i nostri errori; Egli teme piuttosto la nostra insofferenza, la nostra megalomania, il nostro voler indossare abiti non nostri, decisamente fuori misura, stravolgendo in questo modo il vero senso della nostra vita.
È vero: l’uomo totalmente “perfetto” non esiste, perché tutti, chi meno e chi più, siamo esposti alle prove della vita: in alcune ne usciamo vittoriosi, in altre dimostriamo tutta la nostra debolezza. Ebbene, in questo sta la nostra perfezione: trasformare vittorie e sconfitte in atti d’amore a Dio e per i fratelli.
Dopo la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli sorrise, e con un velo di tristezza gli disse: “È vero, figlio mio; ma le tue mani sono anche vuote”.
Allora non perdiamo tempo, non intestardiamoci a voler scalare a tutti i costi le alte vette di una immaginaria “perfezione”. Stiamo con i piedi per terra, accettiamo umilmente dal Signore i nostri limiti, le nostre debolezze. Concentriamoci invece sul nostro pianeggiante e più agibile campetto, coltiviamo e facciamo crescere il nostro “grano” migliore, anche se frammisto all’inevitabile zizzania. Perché questo di importante ci dice il vangelo di oggi: che possiamo tranquillamente coltivare il nostro campo e portare a maturazione dell’ottimo grano, pur se frammisto alla zizzania. In altre parole, il nostro impegno costante di dedicarci alle opere di Dio e al bene del prossimo, sarà sufficiente a farci compiere grandi passi sulla via della perfezione, anche se nella nostra vita, c’è tanta, ma tanta “zizzania”! 
Amen.



giovedì 13 luglio 2017

16 Luglio 2017 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…» (Mt 13,1-23).

 Per ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo: dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a regolare in esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene: la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge sul terreno la sua semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo è la strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire. Il secondo è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente una protezione per quella parte di seme che cade tra le fessure; in realtà sono i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria; rappresentano le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere, ma ancora debole, viene soffocato da tutta una serie di elementi esteriori. Infine c’è il quarto terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto in tutta la sua potenzialità.
Bene: noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che, nonostante tutte le mie fatiche, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato, ma non abbiamo ottenuto assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è altrettanto vero che c’è sempre una piccola parte che nasce, che cresce, e col tempo matura. Quindi di fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè essere certi che il nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un risultato consolante.
Possiamo poi metterci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno sono stato messo? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi, sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora: “che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In cosa devo crescere, cosa devo far vivere, cosa sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella particolarità che è solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? In una parola: qual è il mio carisma?” È molto importante conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo identico a tutti in tutto, un uomo che non si distingue dagli altri è soltanto una fotocopia, la copia perfetta, la riproduzione di un qualcosa che già c’è: è quindi inutile.
Del resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo infatti dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare, presente solo in alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un seme per nascere deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una risposta, che solo entrando in noi stessi possiamo dare!
C’è infine una terza possibilità in questa parabola: quella cioè di metterci dalla parte del terreno. E allora le domande da porci sono: “Che terreno sono io?”. Che tipo di terreno penso di essere?” Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme), ciascuno di noi (il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo per esempio questo principio a quanti si accingono a leggere queste righe di “commento”: è impossibile che esse producano per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati, alleggeriti in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno come prima: vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene fatta alle persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale?”. Sono il terreno “sassoso”.
Altri ancora saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero tanto poterle adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, è troppo forte e invadente: “Ma credi ancora a queste panzane? Sono di uno che parla, parla, e non si accorge che la vita è un’altra cosa”. E così il mini germoglio appena nato, morirà. È il terreno “con le spine”.
Ma può anche darsi, infine, che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo Spirito di Dio, escano da questa pagina in qualche modo “rinnovati”; in futuro non saranno mai più come sono entrati. Come mai? Perché hanno riconosciuto in queste parole, apparentemente banali, la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo stesso testo del vangelo e lo stesso suo “commento”, hanno ottenuto risultati diversi: perché sono le persone a non essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma non la fede, le aperture e le chiusure mentali, i blocchi, i pregiudizi delle persone. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno. Il seme di Dio, uguale per tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del terreno che lo accoglie. Ciò che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se noi fossimo insieme tutti e quattro i terreni di questa parabola? Essa ci aiuterebbe comunque ad accettare oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti). Guardando ai frutti negativi prodotti dalla nostra vita, non dobbiamo quindi pensare di essere dei falliti in tutto; perché bastano anche pochi risultati positivi per dare un senso alla nostra vita.
E concludo: Gesù ci accoglie e ci ama anche se non riusciamo a portare frutto in ogni nostro tentativo. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente dei terreni aridi. Dobbiamo certo insistere continuamente nel voler migliorare, nell’essere più accoglienti, ma senza pretendere da noi stessi l’eroismo, senza pensare di ottenere immediatamente il massimo della perfezione: la scala della santità è lunga ed irta di difficoltà: un piccolo passo in avanti, una nostra piccola parte di terreno fertile e fruttifero nella nostra anima, deve bastare per infonderci coraggio, per farci guardare al traguardo con fiducia e umiltà: non deprimiamoci, non rinunciamo a combattere, non desistiamo dal voler salire: perché la nostra vita ha comunque un senso, ha comunque uno scopo, porta a maturazione qualche buon frutto, nonostante i nostri quotidiani fallimenti, i nostri insuccessi, le nostre aridità. Amen.



giovedì 6 luglio 2017

9 Luglio 2017 – XIV Domenica del Tempo Ordinario

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli… Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro… imparate da me, che sono mite e umile di cuore…» (Mt 11,25-30).

In queste parole possiamo cogliere l’esplosione di giubilo di Gesù, in un momento di commozione, di illuminazione, di consapevolezza, di stupore.
Succede così quando nel dubbio, nel buio, all’improvviso tutto diventa chiaro, tutto diventa comprensibile. Fino ad un attimo prima non si riusciva a capire nulla, poi all’improvviso tutto appare semplice, alla nostra portata.
Il contesto ci dice dunque che Gesù è triste, che si trova in un momento di profonda delusione causata in particolare dalla diffidenza, dalla ottusità di chi gli sta vicino: è il lato sensibile di Gesù, che, come tutti noi, non capisce e non si spiega certi comportamenti umani.
Egli fa sempre e comunque il bene: ovunque vada, ovunque si trovi, accoglie tutti, insegna a tutti ad amare, a non giudicare; tratta con dignità soprattutto chi la dignità non l’ha mai sperimentata; guarisce, aiuta chiunque, in particolare quelli che l’hanno perduta, a ritrovare la nobiltà del proprio essere, deturpato dalle ferite della vita; li aiuta a ritrovare il senso di una strada forse perduta o mai trovata; a ritrovare la gioia, l’emozione del vivere. Ebbene: come risposta, questa gente lo rifiuta, gli gira le spalle, lo accusa, lo attacca, gli si scaglia contro come se fosse il peggiore dei nemici.
Del resto è una situazione molto comune, una situazione in cui viene naturale anche a noi chiederci: “Ma cosa ho fatto mai di male?”. In realtà, di male probabilmente non abbiamo proprio fatto nulla. Ed è qui che dobbiamo lavorare, è in queste situazioni che dobbiamo fare un primo salto di qualità: dobbiamo cioè passare dal fare ciò che facciamo, aspettandoci il riconoscimento degli altri, al farlo gratuitamente, come risposta alla specifica chiamata di Dio, il cui campo di azione richiede sempre riservatezza e l’umile nascondimento del proprio io.
Dobbiamo essere sempre consapevoli di operare per la sola gloria di Dio, come in proposito diceva Madre Teresa: “Quando fai il bene, gli altri diranno che lo fai per motivi egoistici, per secondi fini, ma tu continua a farlo. Quando hai successo nel bene, ti fai dei falsi amici e dei veri nemici, ma tu continua per la tua strada. La sincerità e la franchezza ti rendono vulnerabile, ma tu continua ad essere sincero e franco. Quel che hai costruito in anni di lavoro può andare distrutto in una notte, ma tu continua a costruire. Del tuo aiuto c’è realmente bisogno, anche se la gente ti attacca proprio quando l’aiuti; tu però, aiutala ugualmente. Da’ al mondo il meglio di te; ti tratteranno a pesci in faccia, ma tu continua a dare il meglio di te”.
Purtroppo, succede invece che quando nei nostri tentativi di fare il bene la gente ci mette da parte, ci fa sentire inutili, ci ostacola, noi immediatamente cadiamo in depressione, non abbiamo il coraggio di reagire e di continuare sulla nostra buona strada; da deboli, da pusillanimi, da egocentrici, preferiamo dedicarci ad attività sociali caritative e buoniste che però ci esaltano a livello umano: e grazie proprio a questi numerosi riconoscimenti umani, ci convinciamo di condurre una vita religiosamente meritoria, una vita nobile, retta e santa, senza accorgerci che col nostro comportamento, gratifichiamo soltanto il nostro amor proprio.
In questo passo del vangelo, ciò che ci colpisce, e che ci deve servire di esempio, è la reazione di Gesù: in una situazione di profonda delusione, di scoraggiamento, di insuccesso, una situazione molto simile a tante nostre, Lui – invece di recriminare, di inveire - innalza un inno alla vita, dimostrando tutto il suo stupore e la sua ammirazione per quello che il Padre permette che accada nella sua vita. Egli non si lascia prendere dalla trappola del pessimismo: vede il male, vede la cattiveria, l’ignoranza della gente, ma prima di tutto vede e apprezza il bene, riesce a stupirsi per la bellezza del creato, per la perfezione delle cose, e per la luce di bontà, a volte purtroppo molto fioca, che riesce comunque ad illuminare il profondo dell’anima umana.
E noi come siamo messi? Ai nostri giorni c’è ancora il male nel mondo? Certo, e più ci guardiamo intorno, più ne troviamo. C’è ancora il bene nel mondo? Sicuro: più osserviamo l’uomo in profondità, più ne troviamo. C’è ancora ignoranza crassa, volgarità, ottusità nel mondo? Oh sì in  grande quantità, e più alziamo lo sguardo, più ne troviamo. C’è ancora l’entusiasmo, la gioia, l’ottimismo nel mondo? Oh sì, tantissimo, e più lo cerchiamo, più ne troviamo.
Ora, trovare o non trovare le cose dipende da noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, da come guardiamo; perché alla fine noi vedremo e troveremo soltanto ciò che effettivamente “vogliamo” vedere e trovare. Nient’altro. Se ci interessa il bene, il bene; se il male, il male.
Ogni cosa può essere notata da noi in positivo o in negativo, dipende da noi: così, ad esempio, quando ci guardiamo allo specchio, se abbiamo un bel sorriso con i denti allineati e perfetti, una pelle luminosa e tonica, magari non lo notiamo, non ci colpisce; al contrario notiamo immediatamente e con disappunto i segni negativi dell’età, le rughe, i capelli bianchi: siamo più inclini a trascurare le cose positive, mentre quelle che possono sembrare negative le troviamo subito, e tutte. Lo stesso succede quando guardiamo nostro figlio: cosa ci colpisce, cosa vediamo in lui? Se vediamo che non si è laureato, che non si è affermato professionalmente come noi volevamo, ci sentiamo profondamente delusi e ci diciamo che, come genitori, abbiamo fallito. Se guardiamo invece che sta crescendo con sani principi, che affronta apertamente e con grande forza interiore le contrarietà della vita, che fa con entusiasmo e in piena libertà le sue scelte, allora non possiamo che gioire ed essere orgogliosi di quel nostro figlio. È così: perché noi vedremo sempre negli altri i difetti o le virtù che vogliamo vedere.
Questo vale anche per la nostra vita: una crisi, una malattia, può essere considerata un dramma, una tragedia, ma anche una grande occasione di riscatto morale. Perché nella vita nulla è totalmente negativo o positivo; tutto dipende dai nostri occhi, dalla nostra sensibilità: non è determinante ciò che ci succede intorno, all’esterno, ma ciò che noi percepiamo dentro.
Umanamente parlando ciò che in questo contesto Gesù sta vivendo per colpa della gente, non è certo bello né tantomeno gratificante. Eppure ciò non gli impedisce di avere un cuore pronto a stupirsi, a meravigliarsi, a cantare, a gioire, a sorridere e ad amare. In realtà, con l’aria che “tirava” intorno a lui, non c’era molto da stare allegri: eppure Lui era capace di sorridere, di provare e trasmettere tenerezza, di abbracciare, di cantare, di stupirsi, di benedire.
Ecco: lasciamoci stupire anche noi, allora, da quello che ci circonda! La vita è talmente bella, interessante, ricca di soddisfazioni, di entusiasmi, di gioia, che anche se a volte è tragica, anche se ha momenti strazianti, merita comunque di essere vissuta in pieno, con grande riconoscenza a Dio che ce la concede in dono.
E se proprio tutto ci crollasse addosso, se ci sentissimo soffocati dagli eventi, se  non ce la facessimo proprio più, se vedessimo tutto nero, ricorriamo a Lui fiduciosi. Lui stesso ce lo chiede: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Qualunque sia la nostra tragedia, abbiamo forse una prospettiva migliore? Lui è l’unica nostra consolazione, la nostra unica garanzia di sopravvivenza. Amen.