giovedì 27 luglio 2017

30 Luglio 2017 – XVII Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,44-52).

Il vangelo di oggi ci presenta tre piccole parabole: il tesoro nascosto, la perla preziosa e la rete gettata in mare. La prima e la seconda sono molto simili. Hanno lo stesso tema: quello di imbattersi in qualcosa di grande valore. E su queste due vorrei fissare l’attenzione.
L’uomo della prima parabola è un contadino che un giorno, mentre ara un campo, trova un tesoro prezioso, una grande fortuna: vende tutto quello che ha e compra quel campo. La seconda parabola racconta invece di un commerciante alla ricerca di perle preziose: trovatane una particolarmente splendida, anche lui vende tutto quello che ha pur di comprarla.
Il primo uomo trova il tesoro casualmente; il secondo, lo trova dopo una lunga e accurata ricerca. Entrambi dunque trovano qualcosa di inestimabile valore; un qualcosa di fronte al quale tutto il resto svilisce; un tesoro che pur di farlo proprio, non esitano a rinunciare a tutto, a privarsi di tutti i loro beni. Non c’è prezzo adeguato per ciò che trovano, non c’è niente che valga come quel tesoro che hanno scoperto: non esiste nulla che possa reggerne il confronto.
Ciò a cui alludono entrambe le parabole è facilmente intuibile: ci dicono in sostanza che Dio, il regno dei cieli, in qualunque modo venga da noi scoperto, sia casualmente tra le pieghe della vita, oppure a seguito di una minuziosa ricerca dedicata, rappresenta in ogni caso per noi il massimo dei beni: è un tesoro che, una volta scoperto, ci sarà impossibile non farlo nostro, non trattenerlo, anche a costo di rinunciare a quanto di meglio possediamo. Insomma Dio è una realtà talmente affascinante, una realtà talmente impegnativa e coinvolgente, da giustificare il nostro massimo impegno sia nel trovarlo che per farlo nostro. Perché Lui è il motore della nostra vita: ci stima, ci ama, ci spinge ad osare, a diventare noi stessi, a realizzarci, a cercare sempre il meglio. Ci fa sentire vivi, vibranti, autonomi, liberi, autentici, coraggiosi: in una parola, dentro di noi, ci sentiamo alimentati dal fuoco della Vita e dell’Amore divino.
È impossibile dimenticare questa esperienza: perché Dio imprime un segno indelebile nella nostra anima, nel nostro cuore, nel nostro carattere.
Quando ci parlano di Lui, su come trovarlo e conservarlo, i predicatori del momento insistono tutti sulla necessità di andare in chiesa a pregare, di partecipare puntualmente a tutte le celebrazioni liturgiche appropriate: ma Dio non è un qualcosa di statico, di amorfo; uno che aspetta immobile sull’altare le nostre incensazioni. Dio è dinamismo, Dio è vita nuova, Dio è un “incontro” travolgente, che trascina. Un incontro a volte del tutto casuale, inatteso, ma a volte voluto, cercato ostinatamente, disperatamente.
Una volta incontratolo, poi, non è vero, come ci dicono, che è difficile seguirlo, che stare al suo passo è estremamente impegnativo; non è vero che seguirlo richieda enormi sacrifici, privazioni eroiche: in realtà sentirlo in noi ci dà forza, la sua presenza ci riempie il cuore, ci inebria la vita, ci fa innamorare, ci offre in ogni istante tutto ciò che nessun altro può offrirci. Lui è Amore assoluto, è passione che travolge: l’unica cosa che ci chiede è di essere coerenti nella nostra vita.
Ci siamo mai chiesto come mai gli apostoli, nonostante la loro piccineria mentale, lo seguissero tanto volentieri per le strade della Palestina? Perché Lui era l’aria che respiravano, era Vita, era l’intero mondo, il loro “tesoro prezioso”, tutto ciò di cui avevano bisogno. Oggi invece un numero sempre più crescente di suoi ministri, di moderni discepoli, dopo tante promesse iniziali, dopo anni di servizio, decidono di tradirlo, di allontanarsi da Lui; abbandonano la grazia della Sua chiamata, rinunciano a seguirlo, appellandosi a sopraggiunte impensabili difficoltà, a inumane privazioni imposte da tale vocazione. Si sentono inadatti, impossibilitati a proseguire. Microcefali che affermano il falso: la causa della loro defezione non è un Dio, padrone autoritario, inflessibile fustigatore delle umane esigenze della carne: non è questo; è la loro fede, la loro generosità, la loro coerenza, il loro entusiasmo, il loro amore iniziale che gradualmente sono venuti meno: imbevuti della più squallida mentalità mondana, avidi di benessere, di ricchezze, di piacere, rinnegano qualunque nobile promessa, preferendo assecondare il loro orgoglio, il loro egoismo, la loro fame di disordine interiore: un moderno stile di vita, oggi purtroppo molto diffuso anche nella Chiesa!
Se dunque Dio è quel “tesoro nascosto” che tutti vorrebbero possedere, noi, con la nostra vita, dimostriamo di volerlo veramente trovare? Quanto interesse mettiamo nel cercarlo? Lui è là che ci aspetta: ma a noi di raggiungerlo, quanto importa? Certo, se siamo impegnati a cercare soprattutto soldi, sicurezza economica, piaceri, benessere, divertimenti, non avremo mai tempo per Lui: il tesoro magari ci è vicino, ma noi non lo vedremo, non lo troveremo mai, perché siamo attratti da tante altre cose più appariscenti, più godibili. Siamo cioè proiettati all’esterno, “fuori” di noi, quando invece ciò che cerchiamo è dentro di noi. Il tesoro prezioso è nascosto in noi; anzi, siamo noi stessi il tesoro: siamo cioè quell’immagine, quella somiglianza divina, che Dio ha impresso nella nostra anima fin dal nostro concepimento; quella “somiglianza” che noi, con la nostra vita, dobbiamo scoprire e fare nostra ad ogni costo. La perla preziosa siamo noi, è il Dio in noi. Ecco perché dobbiamo cambiare metodo di ricerca; ecco perché la nostra vita deve necessariamente cambiare direzione: dobbiamo ad ogni costo, fare “conversione” di marcia. Anche se per questo gli altri ci derideranno, anche se ci prenderanno per dei fuori di testa.
Anche i due uomini del vangelo si sono comportati da folli, da pazzi, pur di entrare in possesso del “tesoro”: hanno lasciato il certo per l’incerto, hanno venduto tutto quello che avevano, si sono privati di tutto, pur di arrivare a quel tesoro di cui, oltretutto, non conoscevano il valore. Cose da pazzi. Ma Dio è per i pazzi, è per i folli, perché Lui non chiede qualcosa, ma pretende tutto, ci chiede noi stessi. Dio non si accontenta di un nostro coinvolgimento parziale, lo vuole totale, assolutamente completo.
Tutte le cose che possiamo conquistare nel corso della vita, hanno certamente un valore, ma è un valore legato alla provvisorietà: sono cose che ci coinvolgono sul momento, per poi dimostrarsi effimere e cadere nell’indifferenza, nella dimenticanza, nella caducità del tempo; perdono insomma la loro attrattiva, la loro seduzione, il loro valore iniziale. Ci sono anche, è vero, degli eventi molto importanti che ci segnano per tutta vita; fatti che ci cambiano intimamente, in profondità: come l’amore sincero del partner, un matrimonio felice, la nascita dei figli; ma anche queste realtà così importanti sono destinate, prima o poi, a finire, a concludersi: i figli stessi, pur così vitali e coinvolgenti, non sono “per sempre”: un giorno anch’essi ci lasceranno per intraprendere la loro strada. 
Ebbene, Dio è molto di più di tutte queste cose “transitorie”: più coinvolgente di un figlio, più importante di un partner, più impegnativo di un matrimonio. Egli non ci esclude nulla di tutto questo, ci lascia godere di queste e di tante altre cose belle, essenziali per la nostra vita: ma ciò che il vangelo di oggi ci insegna, è che al di sopra di tutto, la “cosa” più bella in assoluto è Lui: è Lui l’Essere più importante di tutti e di tutto, perché è Lui che, trascendendo i nostri limiti temporali, ha dato origine ad ogni creatura vivente: per Lui non esiste un “inizio” e neppure un “termine”; non ha una “scadenza”, non sparirà mai, lasciandoci soli. Una volta che l’avremo trovato Egli rimarrà per sempre nostro: “nostro” in assoluto; continuerà ad essere sempre, per ciascuno di noi, il nostro “tesoro prezioso”, il nostro premio oltre il tempo, oltre la fine di questa nostra vita transitoria.
Ripeto: Dio non è qualcosa di esterno, non è qualcosa di “altro” da noi. Dio non è una preghiera o una professione di fede; non è un Credo o una celebrazione liturgica. Dio è Uno che ci prende totalmente, che ci coinvolge, che ci vuole trasformare, che ci vuole cambiare. Non è Uno che si accontenta del nostro apparire; al contrario Egli pretende la nostra radicale trasformazione: del nostro modo di pensare, di sentire, di vivere, di amare. Dio non sa che farsene di un’ora di preghiera al giorno; Dio non si accontenta di “una parte” della nostra vita: lui la vuole tutta; vuol “fare alleanza” con noi, vuole stabilire un patto di esclusiva con noi; vuole rapirci, prenderci, assorbirci completamente. Per questo dobbiamo "vendere tutti i nostri beni", e diventare con Lui “cor unum et anima una”.
Ovviamente, e concludo, per trovare questo Tutto, noi dobbiamo essere disposti a giocarci il tutto. Si narra in proposito che un giovane monaco facesse ogni giorno la stessa domanda al suo maestro: “Come posso trovare Dio, il “tesoro” del vangelo?”. E ogni giorno riceveva la stessa risposta: “Devi desiderarlo”. “Ma io lo desidero con tutto il mio cuore, eppure non lo trovo!” insisteva il discepolo. Un giorno, mentre entrambi si stavano lavando nel fiume, il maestro prese la testa del giovane tra le mani, la spinse sott’acqua, e ve la tenne con forza mentre il poveretto si dibatteva disperatamente per liberarsi. Il giorno dopo fu il maestro a domandare: “Perché ti dibattevi in quel modo quando ti tenevo la testa sott’acqua?”. “Perché cercavo disperatamente l’aria!”, rispose. 
“Ebbene: quando ti sarà data la grazia di cercare disperatamente Dio come cercavi l’aria, allora l’avrai trovato!”. Amen.



giovedì 20 luglio 2017

23 Luglio 2017 – XVI Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò.» (Mt 13,24-43).

È la celebre parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non siano in grado di capirla, ma perché non vogliono capirla così com’è, non sono cioè d’accordo con quanto Gesù vuole qui insegnare con le sue parole. Si tratta, infatti, di una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta una realtà difficilmente accettabile, una situazione in contrasto con la loro idea di “discepolato”.
Cerchiamo di capirne il motivo: c’è un uomo che, con fatica e sudore, ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico, sempre pronto a colpire, durante la notte, vi semina sopra la “zizzania”: una graminacea molto simile al frumento, e quindi impossibile da distinguere finché non arriva anch’essa a maturazione: ha grani nerastri molto tossici che producono effetti allucinanti. Il riferimento alla coesistenza del bene e del male nel mondo è evidente. È naturale quindi che la prospettiva di vedere ostacolata, o addirittura vanificata, la loro missione evangelica dagli interventi velenosi del maligno, non venga presa molto bene dagli apostoli: perché accettare passivamente tale evenienza? Perché aspettare che il male metta radici e si sviluppi? Non sarebbe preferibile metterlo subito fuori causa? Certo: ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) a priori, sul nascere, si corre il grosso rischio di estirpare anche il bene, il grano, poiché le radici di entrambi sono già sul nascere strettamente intrecciate. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; dobbiamo cioè convivere con questa realtà; anche perché “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va estirpato e cosa no; in altre parole non spetta a noi stabilire in partenza chi è buono e chi no.
In pratica, con questa parabola, Gesù intende mettere in guardia l’umanità dalla tentazione, molto diffusa anche oggi tra i seguaci delle maggiori religioni, di considerarsi gli autentici rappresentanti della volontà di Dio, i soli interpreti della sua Parola; di essere cioè a pieno titolo gli unici giusti e quindi gli unici eletti. Dio però, come rimarca Gesù, non fa di queste scelte, non ha mai discriminato i buoni dai cattivi; per Lui tutti hanno avuto ed hanno una pari dignità: quella di essere suoi figli. Punto.
Egli infatti “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”.
Gesù, in tutta la sua vita terrena, si è sempre espresso contro la “presunzione” dei migliori, degli arroganti, di quanti cioè si ritenevano impeccabili, giusti, osservanti, e che consideravano tutti gli altri, dei peccatori, gente persa da condannare, gente sbagliata da convertire. Esempi di questo tipo sovrabbondavano: Farisei, Scribi, Maestri della Legge, erano davvero maestri nel disprezzare il prossimo. Evidentemente però, egli doveva aver notato che la stessa tentazione si stava insinuando anche tra i suoi discepoli, tra coloro cioè che, seguendolo da vicino ed ritenendosi i suoi confidenti, pensavano erroneamente di essere superiori agli altri.
Un errore, una ideologia, che purtroppo anche nella sua Chiesa, ha avuto nei secoli una grande diffusione con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, infatti, quanti “difensori” della fede e di Dio, hanno condannato innocenti, hanno ucciso, fatto guerre per estirpare gli “eretici”, per debellare il male dal mondo? La fanatica volontà di fare il bene ad ogni costo eliminando dal mondo ogni parvenza di male, ha fomentato guerre sante, rivoluzioni, inquisizioni, epurazioni, stermini razziali, arrivando a legittimare anche le più ripugnanti crudeltà. Una religione che si ritenga strumentalmente superiore alle altre è una religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità imposta crea necessariamente inferiorità, crea pregiudizi, condanne e divisioni: di qua i buoni e di là i cattivi, da un lato gente salvata per diritto divino e dall’altro gente condannata senza appello. Ma il Dio di Cristo, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha predicato un Dio come questo. Anzi Lui è il Padre di tutti, e ha mandato suo Figlio per tutti, per salvare tutti, ma proprio tutti.
Applicata alla nostra vita concreta, cosa ci suggerisce allora questa parabola? Che il campo su cui avviene la semina, è la nostra anima, siamo noi; e che in questo campo, nella nostra vita, crescono insieme grano e zizzania. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di essere talmente bravi da produrre esclusivamente grano di prima scelta. Dobbiamo purtroppo fare i conti anche con la nostra zizzania, che a volte è delle peggiori. È un dato di fatto e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci e amarci anche per i nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo predisporre la nostra mietitura finale.
“Sei grano e zizzania”, ci conferma dunque Gesù. “Fai attenzione, perché se vuoi essere solo grano scelto estirpando la zizzania presente nel tuo campo, non ti rimarrà in mano niente di niente. Accettati dunque umilmente così come sei: con le tue potenzialità, con i doni che ti ho dato, con le tue risorse; ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in assoluto”, al di sopra delle nostre possibilità.
Cerchiamo invece di capire bene a quale grado di perfezione il Signore ci ha chiamati. È importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la nostra vocazione; un altro è mirare ad una perfezione assoluta, eroica, da “perfezionista”, che non ci appartiene: perché in questo caso otterremmo soltanto la soddisfazione del nostro “ego”, attraverso una continua e affannosa ricerca del riconoscimento e dell’ammirazione altrui. Un perfezionista di questo genere è, oltretutto, intransigente: per lui il mondo si divide unicamente in buoni e cattivi: non esistono altre possibilità. La sua vita è pertanto continuamente sotto stress, in totale ansia; spinto dalle sue vertiginose ed esclusive aspirazioni al bene, egli sarà sempre insoddisfatto di qualunque suo progresso, poiché la sua è una ricerca volta esclusivamente alla caduca bontà del finito, non a quella eterna dell’infinito, di Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato tutto all’esterno: è uno che non ha dubbi, uno che non ascolta mai i suggerimenti della sua coscienza, che non dà alcuna importanza a quanto gli suggerisce il cuore e, soprattutto, a quanto gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
La nostra perfezione cristiana consiste dunque nell’attuare, nel dare vita, in semplicità e umiltà, a quel progetto che Dio ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma adeguato alle nostre possibilità, che tiene conto dei nostri difetti, delle nostre miserie, delle nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio da persone nient’affatto perfette: da peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli non teme i nostri errori; Egli teme piuttosto la nostra insofferenza, la nostra megalomania, il nostro voler indossare abiti non nostri, decisamente fuori misura, stravolgendo in questo modo il vero senso della nostra vita.
È vero: l’uomo totalmente “perfetto” non esiste, perché tutti, chi meno e chi più, siamo esposti alle prove della vita: in alcune ne usciamo vittoriosi, in altre dimostriamo tutta la nostra debolezza. Ebbene, in questo sta la nostra perfezione: trasformare vittorie e sconfitte in atti d’amore a Dio e per i fratelli.
Dopo la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli sorrise, e con un velo di tristezza gli disse: “È vero, figlio mio; ma le tue mani sono anche vuote”.
Allora non perdiamo tempo, non intestardiamoci a voler scalare a tutti i costi le alte vette di una immaginaria “perfezione”. Stiamo con i piedi per terra, accettiamo umilmente dal Signore i nostri limiti, le nostre debolezze. Concentriamoci invece sul nostro pianeggiante e più agibile campetto, coltiviamo e facciamo crescere il nostro “grano” migliore, anche se frammisto all’inevitabile zizzania. Perché questo di importante ci dice il vangelo di oggi: che possiamo tranquillamente coltivare il nostro campo e portare a maturazione dell’ottimo grano, pur se frammisto alla zizzania. In altre parole, il nostro impegno costante di dedicarci alle opere di Dio e al bene del prossimo, sarà sufficiente a farci compiere grandi passi sulla via della perfezione, anche se nella nostra vita, c’è tanta, ma tanta “zizzania”! 
Amen.



giovedì 13 luglio 2017

16 Luglio 2017 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…» (Mt 13,1-23).

 Per ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo: dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a regolare in esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene: la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge sul terreno la sua semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo è la strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire. Il secondo è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente una protezione per quella parte di seme che cade tra le fessure; in realtà sono i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria; rappresentano le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere, ma ancora debole, viene soffocato da tutta una serie di elementi esteriori. Infine c’è il quarto terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto in tutta la sua potenzialità.
Bene: noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che, nonostante tutte le mie fatiche, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato, ma non abbiamo ottenuto assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è altrettanto vero che c’è sempre una piccola parte che nasce, che cresce, e col tempo matura. Quindi di fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè essere certi che il nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un risultato consolante.
Possiamo poi metterci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno sono stato messo? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi, sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora: “che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In cosa devo crescere, cosa devo far vivere, cosa sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella particolarità che è solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? In una parola: qual è il mio carisma?” È molto importante conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo identico a tutti in tutto, un uomo che non si distingue dagli altri è soltanto una fotocopia, la copia perfetta, la riproduzione di un qualcosa che già c’è: è quindi inutile.
Del resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo infatti dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare, presente solo in alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un seme per nascere deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una risposta, che solo entrando in noi stessi possiamo dare!
C’è infine una terza possibilità in questa parabola: quella cioè di metterci dalla parte del terreno. E allora le domande da porci sono: “Che terreno sono io?”. Che tipo di terreno penso di essere?” Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme), ciascuno di noi (il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo per esempio questo principio a quanti si accingono a leggere queste righe di “commento”: è impossibile che esse producano per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati, alleggeriti in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno come prima: vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene fatta alle persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale?”. Sono il terreno “sassoso”.
Altri ancora saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero tanto poterle adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, è troppo forte e invadente: “Ma credi ancora a queste panzane? Sono di uno che parla, parla, e non si accorge che la vita è un’altra cosa”. E così il mini germoglio appena nato, morirà. È il terreno “con le spine”.
Ma può anche darsi, infine, che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo Spirito di Dio, escano da questa pagina in qualche modo “rinnovati”; in futuro non saranno mai più come sono entrati. Come mai? Perché hanno riconosciuto in queste parole, apparentemente banali, la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo stesso testo del vangelo e lo stesso suo “commento”, hanno ottenuto risultati diversi: perché sono le persone a non essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma non la fede, le aperture e le chiusure mentali, i blocchi, i pregiudizi delle persone. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno. Il seme di Dio, uguale per tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del terreno che lo accoglie. Ciò che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se noi fossimo insieme tutti e quattro i terreni di questa parabola? Essa ci aiuterebbe comunque ad accettare oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti). Guardando ai frutti negativi prodotti dalla nostra vita, non dobbiamo quindi pensare di essere dei falliti in tutto; perché bastano anche pochi risultati positivi per dare un senso alla nostra vita.
E concludo: Gesù ci accoglie e ci ama anche se non riusciamo a portare frutto in ogni nostro tentativo. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente dei terreni aridi. Dobbiamo certo insistere continuamente nel voler migliorare, nell’essere più accoglienti, ma senza pretendere da noi stessi l’eroismo, senza pensare di ottenere immediatamente il massimo della perfezione: la scala della santità è lunga ed irta di difficoltà: un piccolo passo in avanti, una nostra piccola parte di terreno fertile e fruttifero nella nostra anima, deve bastare per infonderci coraggio, per farci guardare al traguardo con fiducia e umiltà: non deprimiamoci, non rinunciamo a combattere, non desistiamo dal voler salire: perché la nostra vita ha comunque un senso, ha comunque uno scopo, porta a maturazione qualche buon frutto, nonostante i nostri quotidiani fallimenti, i nostri insuccessi, le nostre aridità. Amen.



giovedì 6 luglio 2017

9 Luglio 2017 – XIV Domenica del Tempo Ordinario

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli… Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro… imparate da me, che sono mite e umile di cuore…» (Mt 11,25-30).

In queste parole possiamo cogliere l’esplosione di giubilo di Gesù, in un momento di commozione, di illuminazione, di consapevolezza, di stupore.
Succede così quando nel dubbio, nel buio, all’improvviso tutto diventa chiaro, tutto diventa comprensibile. Fino ad un attimo prima non si riusciva a capire nulla, poi all’improvviso tutto appare semplice, alla nostra portata.
Il contesto ci dice dunque che Gesù è triste, che si trova in un momento di profonda delusione causata in particolare dalla diffidenza, dalla ottusità di chi gli sta vicino: è il lato sensibile di Gesù, che, come tutti noi, non capisce e non si spiega certi comportamenti umani.
Egli fa sempre e comunque il bene: ovunque vada, ovunque si trovi, accoglie tutti, insegna a tutti ad amare, a non giudicare; tratta con dignità soprattutto chi la dignità non l’ha mai sperimentata; guarisce, aiuta chiunque, in particolare quelli che l’hanno perduta, a ritrovare la nobiltà del proprio essere, deturpato dalle ferite della vita; li aiuta a ritrovare il senso di una strada forse perduta o mai trovata; a ritrovare la gioia, l’emozione del vivere. Ebbene: come risposta, questa gente lo rifiuta, gli gira le spalle, lo accusa, lo attacca, gli si scaglia contro come se fosse il peggiore dei nemici.
Del resto è una situazione molto comune, una situazione in cui viene naturale anche a noi chiederci: “Ma cosa ho fatto mai di male?”. In realtà, di male probabilmente non abbiamo proprio fatto nulla. Ed è qui che dobbiamo lavorare, è in queste situazioni che dobbiamo fare un primo salto di qualità: dobbiamo cioè passare dal fare ciò che facciamo, aspettandoci il riconoscimento degli altri, al farlo gratuitamente, come risposta alla specifica chiamata di Dio, il cui campo di azione richiede sempre riservatezza e l’umile nascondimento del proprio io.
Dobbiamo essere sempre consapevoli di operare per la sola gloria di Dio, come in proposito diceva Madre Teresa: “Quando fai il bene, gli altri diranno che lo fai per motivi egoistici, per secondi fini, ma tu continua a farlo. Quando hai successo nel bene, ti fai dei falsi amici e dei veri nemici, ma tu continua per la tua strada. La sincerità e la franchezza ti rendono vulnerabile, ma tu continua ad essere sincero e franco. Quel che hai costruito in anni di lavoro può andare distrutto in una notte, ma tu continua a costruire. Del tuo aiuto c’è realmente bisogno, anche se la gente ti attacca proprio quando l’aiuti; tu però, aiutala ugualmente. Da’ al mondo il meglio di te; ti tratteranno a pesci in faccia, ma tu continua a dare il meglio di te”.
Purtroppo, succede invece che quando nei nostri tentativi di fare il bene la gente ci mette da parte, ci fa sentire inutili, ci ostacola, noi immediatamente cadiamo in depressione, non abbiamo il coraggio di reagire e di continuare sulla nostra buona strada; da deboli, da pusillanimi, da egocentrici, preferiamo dedicarci ad attività sociali caritative e buoniste che però ci esaltano a livello umano: e grazie proprio a questi numerosi riconoscimenti umani, ci convinciamo di condurre una vita religiosamente meritoria, una vita nobile, retta e santa, senza accorgerci che col nostro comportamento, gratifichiamo soltanto il nostro amor proprio.
In questo passo del vangelo, ciò che ci colpisce, e che ci deve servire di esempio, è la reazione di Gesù: in una situazione di profonda delusione, di scoraggiamento, di insuccesso, una situazione molto simile a tante nostre, Lui – invece di recriminare, di inveire - innalza un inno alla vita, dimostrando tutto il suo stupore e la sua ammirazione per quello che il Padre permette che accada nella sua vita. Egli non si lascia prendere dalla trappola del pessimismo: vede il male, vede la cattiveria, l’ignoranza della gente, ma prima di tutto vede e apprezza il bene, riesce a stupirsi per la bellezza del creato, per la perfezione delle cose, e per la luce di bontà, a volte purtroppo molto fioca, che riesce comunque ad illuminare il profondo dell’anima umana.
E noi come siamo messi? Ai nostri giorni c’è ancora il male nel mondo? Certo, e più ci guardiamo intorno, più ne troviamo. C’è ancora il bene nel mondo? Sicuro: più osserviamo l’uomo in profondità, più ne troviamo. C’è ancora ignoranza crassa, volgarità, ottusità nel mondo? Oh sì in  grande quantità, e più alziamo lo sguardo, più ne troviamo. C’è ancora l’entusiasmo, la gioia, l’ottimismo nel mondo? Oh sì, tantissimo, e più lo cerchiamo, più ne troviamo.
Ora, trovare o non trovare le cose dipende da noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, da come guardiamo; perché alla fine noi vedremo e troveremo soltanto ciò che effettivamente “vogliamo” vedere e trovare. Nient’altro. Se ci interessa il bene, il bene; se il male, il male.
Ogni cosa può essere notata da noi in positivo o in negativo, dipende da noi: così, ad esempio, quando ci guardiamo allo specchio, se abbiamo un bel sorriso con i denti allineati e perfetti, una pelle luminosa e tonica, magari non lo notiamo, non ci colpisce; al contrario notiamo immediatamente e con disappunto i segni negativi dell’età, le rughe, i capelli bianchi: siamo più inclini a trascurare le cose positive, mentre quelle che possono sembrare negative le troviamo subito, e tutte. Lo stesso succede quando guardiamo nostro figlio: cosa ci colpisce, cosa vediamo in lui? Se vediamo che non si è laureato, che non si è affermato professionalmente come noi volevamo, ci sentiamo profondamente delusi e ci diciamo che, come genitori, abbiamo fallito. Se guardiamo invece che sta crescendo con sani principi, che affronta apertamente e con grande forza interiore le contrarietà della vita, che fa con entusiasmo e in piena libertà le sue scelte, allora non possiamo che gioire ed essere orgogliosi di quel nostro figlio. È così: perché noi vedremo sempre negli altri i difetti o le virtù che vogliamo vedere.
Questo vale anche per la nostra vita: una crisi, una malattia, può essere considerata un dramma, una tragedia, ma anche una grande occasione di riscatto morale. Perché nella vita nulla è totalmente negativo o positivo; tutto dipende dai nostri occhi, dalla nostra sensibilità: non è determinante ciò che ci succede intorno, all’esterno, ma ciò che noi percepiamo dentro.
Umanamente parlando ciò che in questo contesto Gesù sta vivendo per colpa della gente, non è certo bello né tantomeno gratificante. Eppure ciò non gli impedisce di avere un cuore pronto a stupirsi, a meravigliarsi, a cantare, a gioire, a sorridere e ad amare. In realtà, con l’aria che “tirava” intorno a lui, non c’era molto da stare allegri: eppure Lui era capace di sorridere, di provare e trasmettere tenerezza, di abbracciare, di cantare, di stupirsi, di benedire.
Ecco: lasciamoci stupire anche noi, allora, da quello che ci circonda! La vita è talmente bella, interessante, ricca di soddisfazioni, di entusiasmi, di gioia, che anche se a volte è tragica, anche se ha momenti strazianti, merita comunque di essere vissuta in pieno, con grande riconoscenza a Dio che ce la concede in dono.
E se proprio tutto ci crollasse addosso, se ci sentissimo soffocati dagli eventi, se  non ce la facessimo proprio più, se vedessimo tutto nero, ricorriamo a Lui fiduciosi. Lui stesso ce lo chiede: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Qualunque sia la nostra tragedia, abbiamo forse una prospettiva migliore? Lui è l’unica nostra consolazione, la nostra unica garanzia di sopravvivenza. Amen.



giovedì 29 giugno 2017

2 Luglio 2017 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 10,37-42).

Il testo del Vangelo di oggi chiude il “discorso missionario” del capitolo 10 di Matteo.
Un testo duro, difficile da condividere, per certi versi assurdo! “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me”. Siamo agli antipodi della nostra logica, del nostro buon senso. Sono parole per noi “umani” decisamente incomprensibili.
Per questo dobbiamo cercare di capirle bene.
Cosa voleva dire Gesù? Cosa voleva che i suoi discepoli avessero bene impresso nella loro memoria? Non dobbiamo dimenticare che Egli parlava a persone semplici, persone non certo istruite; era però gente pratica, realista, poveri lavoratori impegnati ad assicurare giorno per giorno la sopravvivenza alle loro famiglie. Quindi a gente “concreta”, nozioni concrete: “Voi che avete accettato di seguirmi, dovete capire che Io valgo più di qualunque altra cosa voi possediate, anche la più preziosa; sono più importante dei vostri affetti, della vostra famiglia, della vostra stessa vita: sono insomma il vostro valore assoluto! Genitori, moglie, figli, vengono tutti dopo di me. Pertanto niente e nessuno può interporsi tra me e voi, nessuno può ostacolarvi nel servizio che voi mi prestate nel seguire la mia chiamata. La vostra scelta di discepoli, è una sola, essenziale e obbligata: Io, il vostro Dio”.
Certo, tradotta anche in termini semplici, la prospettiva per chiunque decida di seguire Gesù, non è affatto semplice. Diciamo anzi che quel cammino è affrontabile soltanto da poche persone, dagli eroi della fede, dai santi: da quanti cioè hanno messo in bilancio anche la morte violenta, il martirio, pur di vivere nella piena obbedienza al volere di Dio.
In realtà si tratta di un percorso insolito, molto difficoltoso, molto selettivo, soprattutto per noi che ci professiamo cristiani nel mondo d’oggi: ma queste sono le parole che Gesù ha rivolto a tutti, e quindi anche a noi, perché animassero la nostra vita spirituale, troppo spesso così asfittica e denutrita.
Nella vita prima o poi tutti si trovano a dover affrontare un bivio: da un lato c’è la volontà di Dio, il sevizio di Dio, che però prevede quella croce che il Signore ci invita a prendere per seguirlo; dall’altro c’è una soluzione alternativa, più appetibile per noi, più logica, più facile in quanto più adatta alla nostra mediocrità. Ebbene: è esattamente in questi casi che la schiettezza del vangelo ci disorienta, ci spaventa. Il Gesù che ci proponiamo di seguire non è un Dio che si accontenta di poco, che accetta compromessi, mezze misure: Egli vuole tutto, chiede tutto.
Ma dall’altro lato ci dà anche tutto: esattamente come una volta ci ha dato tutto se stesso sulla croce, così in ogni istante continua a darsi ai suoi fedeli, a coloro che lo seguono, che lo amano: e lo fa in termini di conforto, di pace, di gioia, di amore.
Ecco: il punto nodale del nostro programma è proprio questo: ricambiare questo suo amore con un amore che si trasformi in passione, che diventi un fuoco travolgente per Lui, un fuoco interiore che ci spinga a fare le scelte più difficili.
Questa è la logica dell’amore che Dio ci chiede. Non possiamo rispondere: “sì, Signore, io ti amo, ma fino ad un certo punto; più in là, non posso andare, non ce la faccio”. Questo non è più amore. La vera misura, l’unica raggiungibile, è amare Dio “sopra ogni cosa”, perché solo così potremo raggiungere da subito la vera felicità.
Ecco perché Gesù dice: “Chi perde la sua vita la ritrova e chi guadagna la sua vita la perde”. In pratica Egli vuol puntualizzare una cosa: che se facciamo la volontà di Dio, ossia se lo amiamo al di sopra di ogni nostro amore, noi non ci perderemo mai. Al contrario è quando andiamo contro la volontà di Dio, quando cioè lo amiamo svogliatamente o per niente, che sicuramente ci perderemo, sempre! Magari lì per lì non ce ne accorgiamo neppure, ma, a distanza di anni, potremo toccare con mano che questa verità è sacrosanta.
Vivere il vangelo come vuole Gesù, in tutto il suo radicalismo, non è come andare a passeggio, non è uno stile di vita da prendere alla leggera, non è un passatempo piacevole: richiede invece un impegno totale, un autocontrollo permanente; non sono ammesse scorciatoie; la strada è una sola: è quella tracciata da Gesù, quella che anche per noi passa attraverso il Golgota.
Per questo molti considerano l’autenticità cristiana una pura utopia; un progetto inavvicinabile, inattuabile; per questo, anche noi, che ci diciamo seguaci di Cristo, arriviamo a viverne le briciole, ci accontentiamo del più semplice “apparire”, ci fermiamo alle pratiche esteriori, alle pie aspirazioni, alle visibili commozioni, ai tanti “mea culpa”; ci accontentiamo cioè di quel minimo indispensabile che ci salva la faccia, che ci fa considerare dagli altri “persone per bene”, osservanti, timorate e innamorate di Dio.
Ma una vita come questa non arriverà mai a conoscere l’intensità dell’amore, della gioia, delle soddisfazioni gratificanti. Tutte cose che potremmo provare, se veramente ci comportassimo da “innamorati” di Cristo.
Per seguire veramente Gesù, per essere cristiani sul serio, non basta l’entusiasmo di un momento, non bastano solo delle buone intenzioni. Il vangelo di oggi è estremamente chiaro a questo proposito. La “conversione” che Gesù si aspetta da noi deve essere profonda, totale, continua: dobbiamo cioè mettere Dio sempre al primo posto e, soltanto dopo, tutto il resto.
Purtroppo, in noi ci sono troppe cose che il Signore non approva, siamo sempre troppo lontani dal modello ideale che è Gesù e il suo vangelo.
Per questo, scendiamo una buona volta nel profondo del nostro cuore, poniamoci di fronte alla nostra anima, e chiediamoci: “Quanto conta Dio nella mia vita? Ho mai sperimentato concretamente la passione per il Signore, per il suo Regno? Ho mai desiderato sul serio di appartenere completamente a Dio? Gli ho mai chiesto di farmi diventare santo?”.
Proprio così: perché il radicalismo evangelico porta ad un’unica conclusione: tutti siamo chiamati alla santità, cioè a vivere di Dio, ad essere innamorati di Dio. Uno stile di vita che vale per tutti, non solo per i preti, i frati, le suore.
Ogni cristiano che vuol seguire la chiamata di Cristo, proprio perché “umano”, è debole, pieno di difetti, di tentazioni, di cadute. Seguire fedelmente Gesù è difficile per tutti, ci vuole tanta buona volontà, tanta umiltà, tanta perseveranza: virtù che non tutti posseggono. I momenti bui, i mari in burrasca, le chine troppo erte da risalire, sono per tutti all’ordine del giorno, nessuno ne è esente. Anche i santi? Anche i santi: essi non sono uomini speciali, non sono uomini ineccepibili, che non peccano mai, che non cedono mai; sono persone normalissime, che però vogliono a tutti i costi amare Dio, e per questo riescono a superare qualunque ostacolo: pronti a rialzarsi dopo ogni caduta, pronti a ricominciare ogni giorno il difficile viaggio in salita che è l’imitazione di Cristo, che passa sì attraverso la croce, ma che porta sicuramente anche alla gioia della Risurrezione finale.
I santi dunque sono coloro che si affidano a Dio, che rinnovano continuamente i loro propositi di fedeltà, che vivono nell’amore verso Dio e verso il prossimo. Sono l’esempio da seguire.
Perché solo così anche noi “indecisi” ritroveremo” la nostra vera strada; solo così cioè anche noi realizzeremo in pieno la nostra vita: una conquista che non avviene con la carriera, non con le ricchezze, non coi divertimenti, ma soltanto “perdendo la vita”, soltanto cioè se la impiegheremo per la causa di Cristo, per il bene concreto dei fratelli.
Un percorso ovviamente che ci esclude da ogni falsa affermazione personale, da ogni forma di egoismo, da ogni tipo di sopraffazione finalizzata al proprio tornaconto; in compenso ci assicura un quantità tale di amore, di gioia, da rendere stupenda, meravigliosa, straordinaria la nostra vita e quella degli altri.
“Cristo non toglie nulla, Cristo dà tutto!”, amava dire papa Benedetto. Che richiama la sintesi dell’insegnamento di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. È dunque questo, condensato in pillole, il messaggio “nuovo”, il messaggio “bello” del Vangelo. È la grande novità di Gesù. Amen.



giovedì 22 giugno 2017

25 Giugno 2017 – XII Domenica del Tempo Ordinario

«Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,26-33). 
Siamo nel capitolo 10 di Matteo che contiene il famoso discorso “missionario” di Gesù: una serie di “istruzioni” che dovevano accompagnare gli “inviati”, gli annunciatori del vangelo.
Nei primi anni e nei primi secoli non è stato certo facile essere cristiani! L’esserlo comportava una scelta esigente, una scelta coraggiosa per le inevitabili conseguenze pericolose. Non era una scelta fra le tante, ma una scelta che determinava la vita.
Oggi per molte persone essere cristiani o non esserlo non fa alcuna differenza. Andare in chiesa o non andarci è un po’ la stessa cosa. Che Gesù ci sia stato o meno non influisce minimamente sulle loro esistenze. Per cui scegliere o non scegliere Cristo, è la stessa cosa come scegliere in quale supermercato fare la spesa, in quale negozio acquistare un vestito o quale spiaggia scegliere per le vacanze: l’una o l’altra decisione è sullo stesso piano, è ininfluente.
Non così, per quanti invece decidono di seguire Cristo.
Il testo ci propone infatti quattro contrapposizioni (nascosto-svelato, segreto- manifesto, tenebre-luce, orecchio-tetti) che ci fanno luce su come i primi cristiani vivessero: la loro era una vita di fede nel nascondimento, nel segreto, nelle catacombe; manifestare il proprio credo in pubblico era pericoloso, molto pericoloso. E ci voleva molto coraggio!
Per noi ora non è più così. Testimoniare la nostra fede non comporta più alcun pericolo, tantomeno quello della morte: semmai l’unico rischio cui potremmo andare incontro è quello di venire isolati, di rimanere soli, messi alla berlina, non essere capiti, accettati. Un rischio però che ingenera in noi una frustrazione per l’assenza di riconoscimenti, di consensi, di stima da parte degli altri; una situazione che ci porta ad assumere un comportamento a dir poco paradossale: essere cristiani a singhiozzo, in base alle circostanze: crediamo cioè quando ci fa comodo, quando ci conviene, quando abbiamo di ritorno riconoscimenti e ammirazione. Quando invece non conviene più, ci nascondiamo, cambiamo faccia, cambiamo bandiera con grande disinvoltura!
Ebbene, il vangelo di oggi più che invitarci di fare sfoggio della nostra fede, ci raccomanda piuttosto di essere sempre coerenti con noi stessi, con la nostra autentica interiorità, facendo piena luce proprio là dove in noi convivono paura e coraggio, amore di Dio e calcolo egoistico, amicizia con Gesù e orgoglio personale, invidie, risentimenti. Vogliamo far sapere chi siamo veramente? Lo riveliamo a tutti mediante la testimonianza della nostra vita: perché in quel momento non solo esprimiamo noi stessi, ma anche ci costruiamo, maturiamo come uomini e come cristiani, dando forma, costruendo praticamente la nostra identità. Se poi testimoniare Cristo non rientra nei nostri interessi primari, il fatto stesso del nostro rimandare giorno dopo giorno, non depone a nostro favore, anzi offre agli altri un’immagine decisamente negativa di noi stessi.
“Non abbiate paura”, ci rassicura Gesù: ma noi, purtroppo, abbiamo paura di tutto e di tutti. Anche delle cose più insignificanti: di un piccolo dolore, di possibili offese da parte di qualcuno, di cosa gli altri possano pensare di noi. Siamo troppo condizionati al “rispetto umano”, al giudizio della gente! Al punto che, sempre per questa forma di “rispetto”, preferiamo a volte evitare di compiere tante buone azioni: così per esempio ci vergogniamo di farci il segno della croce, di recitare a voce alta una preghiera, di esprimere un nostro parere “cristiano” sul luogo di lavoro, a scuola, nei momenti di divertimento. Dobbiamo purtroppo ammetterlo: la nostra fede è veramente troppo debole, la nostra coerenza troppo fragile, la nostra carità decisamente effimera.
Eppure le parole del Signore dovrebbero essere per noi, in ogni momento, la luce che ci illumina, la forza che ci determina, che ci rende tetragoni ad ogni pericolo:“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l'anima e il corpo”. La chiarezza di Gesù è paradigmatica, esemplare, non lascia spazio a dubbi.
Impressiona in particolare quel “Non abbiate paura” che Gesù ripete per ben tre volte in poche righe, volendo specificare bene ai suoi “inviati” di sempre, di chi e di che cosa in pratica essi devono aver paura: non è delle ossessioni personali, delle idiosincrasie, che dobbiamo aver paura; né dobbiamo temere la gente “infedele”, quelli che possono al più farci del male nel corpo, magari procurandoci anche il “martirio”; non sono questi elementi “materiali”, che possono determinare la nostra infelicità; al contrario, insiste Gesù, uno solo è da temere: è Dio, l’unico che ha il potere di giudicarvi e pronunciare su di voi la sentenza finale di salvezza o di condanna. Lui solo dovete temere, perché il suo giudizio è definitivo e irreversibile.
Come comportarci allora? Dobbiamo rimanere rintanati per paura dei nostri segreti? Nossignori: nessun segreto può accompagnare la nostra “missione”: tutto quello che siamo, tutto quello rappresentiamo, deve essere “aperto”, spalancato, alla luce del sole. Dobbiamo essere sempre cristallini, trasparenti.
Gran parte dei nostri segreti, quelli che nascondiamo dentro di noi, altro non sono che i nostri sensi di colpa: sono i nostri fallimenti, le nostre incoerenze, i nostri tradimenti: tutto ciò che nell’intimo ci perseguita, situazioni che noi conosciamo molto bene, ma che ci guardiamo bene dal rivelare. Ebbene: per sentirci liberi, noi abbiamo bisogno di “aprirci”, di manifestare a qualcuno questi nostri segreti, abbiamo bisogno che qualcuno ci dica a nome di Dio: “Perdònati, perché Dio ti perdona”.
E ancora: “Quello che io vi dico nelle tenebre, voi ditelo nella luce”: quante volte abbiamo delle intuizioni. Le sentiamo dentro di noi, le ascoltiamo come un desiderio del cuore, dell’anima, come un sussurro di Dio che ci parla all’orecchio, che ci entusiasma il cuore: sentiamo che dovremmo cambiare stile di vita; sentiamo che è impossibile andare avanti così come siamo, che è distruttivo, che la vita che conduciamo è inconcludente. Sono le intuizioni vitali, le parole che Gesù suggerisce al nostro cuore, alla nostra coscienza.
“Annunciarle dalle terrazze”, renderle pubbliche, significa portarle a compimento: far sì che non rimangano dentro, ma che diventino realtà. A volte intuiamo che dovremmo prendere una certa decisione, che dovremmo operare una certa scelta, ma temiamo le conseguenze cui andremmo incontro; temiamo di fare, di agire, di concretizzare ciò che è solo un’ispirazione divina. Predicare sui tetti vuol dire quindi trasformare in azione ciò che lo Spirito ci fa intuire. Un presupposto fondamentale per ogni “missione”.
“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo”: sappiamo per esperienza quanto gli uomini possano ferirci: possono umiliarci, possono farci paura, possono farci pressioni, possono disonorarci. Possono farci di tutto, ma non possono toglierci l’anima; a meno che noi stessi non glielo permettiamo. C’è qualcosa in noi che è solo nostro: nessuno infatti può uccidere la nostra anima senza la nostra collaborazione.
Per quanto possiamo essere oggetto di pressioni, di paure, di costrizioni, ci rimane sempre uno spazio di libertà, uno spazio in cui siamo solo noi a regnare, dove siamo solo noi a decidere la nostra vita. Nessuno può toglierci l’anima: noi la possiamo “perdere” ma nessuno può sottrarcela. Questa è la nostra più grande ricchezza.
Noi non “siamo” il nostro lavoro, la nostra professione, la nostra laurea; non “siamo” la nostra posizione sociale, il nostro ruolo, la nostra fama: “siamo” solo la nostra anima!
Allora non svendiamo noi stessi. Perché quando abbiamo perso noi stessi, la nostra coscienza, quando non sappiamo più chi o cosa siamo, che ci rimane? Purtroppo c’è tanta gente sprovveduta che svende la propria anima per niente: per i soldi, per la ricchezza, per il benessere, per la gloria, per il potere! Chiamano vita ciò che è morte; e chiamano morte ciò che invece è Vita.
Per sottolineare queste sue raccomandazioni, Gesù introduce quindi due immagini poetiche: quella dei passeri e dei capelli del capo.
In pratica vuol dire: “Nulla accade nel mondo senza che Dio lo sappia. Dio è più grande di tutto e di tutti; Dio è il più forte”: addirittura “non cade un passero senza che Lui lo sappia”. Che non vuol dire: “non vi capiterà mai di cadere”. Ma: “se vi accade di cadere, Dio lo sa”.
In sostanza Gesù ci assicura che anche nella nostra sofferenza Dio c’è, non siamo mai soli, abbandonati a noi stessi; la sua presenza è una presenza di salvezza, anche se non la percepiamo immediatamente, anche se, a livello psicologico, non le diamo grande importanza. È comunque una grande consolazione sapere che tutto quanto ci riguarda, anche le cose più “insignificanti” come la perdita dei capelli, è sempre presente al cuore di Dio. Come possiamo pensare allora che il Dio che prima ci ha creati, ci possa poi abbandonare? Che Colui che ci ha donato la vita, possa poi togliercela? Tranquilli, non è possibile: la liturgia stessa ci dice perentoriamente che “vita mutatur non tollitur, la vita un giorno ci verrà cambiata, mai tolta!”. Quindi non preoccupiamoci, viviamo serenamente, nella certezza che Dio, anche se noi non lo capiamo, lavora per noi, agisce sempre, continuamente, per il nostro bene!
Infine, due avvertimenti molto importanti concludono il vangelo di oggi; uno in positivo e l’altro in negativo: “Chi mi riconoscerà... anch’io lo riconoscerò; chi mi rinnegherà... anch’io lo rinnegherò”. Enunciano due situazioni contrapposte, di cui la seconda sembra essere addirittura l’espressione della vendetta di Dio, un’applicazione della legge del taglione: “Tu mi fai così? Mi rinneghi con la tua vita? Io ti ripago con la stessa moneta: ti rinnego”.
In realtà sono due possibilità legate tra loro dal principio di causa-effetto: posta da noi la premessa, la conseguenza è inevitabile. Oggi, però non ci preoccupiamo più di questa verità: nel tripudio dell’esaltazione della misericordia divina, ci dimentichiamo troppo spesso dei nostri doveri di cristiani, di chiamati al servizio, di “inviati” all’annuncio del vangelo con le opere e il buon esempio: si è progressivamente consolidato il principio del “fai come ti pare”, per cui addomestichiamo e relativizziamo precetti e comandamenti divini; a che pro’ preoccuparcene? Tanto poi Dio, che è “misericordia assoluta”, sicuramente ci salverà, ci premierà in ogni caso accogliendoci nel suo Regno d’Amore. Questa è l’opinione comune oggi: una lettura del vangelo distorta, deformata, incompleta, avvalorata purtroppo dagli insegnamenti di una sempre più dilagante pletora clericale che dovrebbe invece esprimersi più cautamente e in maniera più veritiera e completa. Misericordia infinita, è vero: ma anche Giustizia infinita: altrimenti Dio farebbe un torto a se stesso, alla sua essenza: cosa improponibile e inammissibile.
Cosa vuol dirci allora Gesù con queste parole così perentorie? “Fate attenzione: comportatevi per quello che siete (miei testimoni). La fedeltà al vostro ruolo sarà per voi l’unica garanzia per godere della mia amicizia eterna”. È semplicemente il presupposto anche di qualunque sano comportamento umano: “Io so e sento che fare del bene è la vera felicità di cui il cuore umano può godere” (Jean-Jacques Rousseau). Per questo non disinteressiamoci mai della nostra anima, non infanghiamo mai il volto del Gesù che vive i noi. Sembra facile ma non è: essere “cristiani” sul serio, essere discepoli di Gesù, ci costa infatti un notevole sacrificio.
Facciamoci allora, ogni tanto, questa domanda importante: “A me, quanto “costa” essere cristiano?”. Se ci accorgiamo che non ci costa nulla, allora, cari miei, è un brutto segno; vuol dire che non abbiamo centrato il problema della nostra vita cristiana: perché cià che ci qualifica come tali, ciò che ci rassicura di essere nel cuore di Dio, è la fatica di essere suoi fedeli testimoni, sono le continue difficoltà che dobbiamo superare per non deviare nel nostro cammino. Più testimonieremo coerentemente il Vangelo con i fatti, e più ci sentiremo amati da Dio, più sentiremo in noi la certezza di potere un giorno godere senza veli della sua visione beatifica. Amen.



mercoledì 14 giugno 2017

18 Giugno 2017 – Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51-58).

La festa liturgica del “Corpus Domini” è abbastanza recente. Risale al 1264 quando il Papa Urbano IV la istituì in ricordo del miracolo capitato al sacerdote boemo Pietro di Praga, molto dubbioso sulla presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del vino nell’ostia consacrata; per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro. Durante il viaggio di ritorno fece sosta a Bolsena per la celebrazione eucaristica: e qui, alla frazione del pane, l’ostia diventò miracolosamente carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue. Pietro, impaurito da tale fenomeno incredibile, avvolse tutto nel corporale di lino e nel fazzoletto purificatoio, posti sull’altare, che rimasero entrambi vistosamente intrisi di sangue, e fuggì in sacrestia. Durante il tragitto alcune gocce di sangue caddero anche sul marmo del pavimento e sui gradini dell’altare. Se andiamo ad Orvieto, nel famoso duomo, possiamo ancora oggi ammirare e venerare questi oggetti sacri macchiati di sangue, come pure le lastre di marmo sulle quali sono ancora visibili le tracce di sangue cadute per terra.
In questa festa del Corpus Domini, dunque, la Chiesa ci ricorda che nel pane e nel vino consacrati c’è veramente il Corpo e il Sangue di Cristo. Quando noi “mangiamo” il Pane consacrato, non mangiamo soltanto un pezzo di pane ma ci nutriamo di Lui, ci incontriamo a tu per tu con Lui.
Gesù insiste più volte sulla necessità di “mangiare la carne” e di “bere il sangue”: parole che hanno fatto inorridire la gente di allora. Non a caso i primi cristiani, tra l’altro, sono stati accusati di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio: del resto, il verbo “trògo”, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare.
Ma il significato di questi termini è decisamente un altro: quello che a Gesù interessa è che i suoi discepoli diventino una sola cosa con Lui, siano un tutt’uno in Lui, esattamente come avviene per il pane mangiato che, una volta metabolizzato, diventa nostra carne, si trasforma in forza, vigore, azione, produttività. Allora “mangiare” per Gesù significa “unione perfetta”, una unione ideale, altamente ambita: io in te, tu in me.
Nel “mangiare” l’Eucaristia, ciascuno di noi è chiamato quindi a lasciare il suo “uomo vecchio” per diventare “Cristo”: ad abbandonare l’io, per diventare Lui; a lasciare l’“io”, la nostra identità, per diventare “corpo di Cristo” e assumere la sua identità, l’identità del “Dio in noi”.
Ovviamente non si tratta di una cosa semplice, come può essere il “mangiare”, il prendere cibo: non per nulla Giovanni introduce qui un termine molto significativo: la necessità cioè di masticare: non si tratta quindi di una semplice “ingestione”, ma una “ruminatio”, un’assimilazione, lenta, studiata, progressiva. In altre parole questo metabolismo richiede una “conversione”, un diventare “Altro”.
Ora, sappiamo dai vangeli che tra tutti quelli che hanno “incontrato” Gesù, che si sono cioè “cibati”, immedesimati in Lui, nessuno è rimasto com’era prima: la loro è stata un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E noi? Chiediamoci seriamente: “La nostra esperienza di Dio, in cosa ha cambiato la nostra vita? Quanto, dove e come, Dio l’ha “sconvolta”? Quali paure, quali blocchi psicologici, quali “infatuazioni”, dobbiamo ancora superare per immedesimarci in Lui?”.
Se non abbiamo fatto alcuna “conversione”, vuol dire che la nostra fede non è vera, non è autentica; vuol dire che se continuiamo a rimanere “noi stessi”, se continuiamo a rimanere attaccati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, non potremo mai diventare “Lui”. Almeno un minimo di buona volontà, di coerenza, di coinvolgimento, dobbiamo pur investirlo in questo; per il resto, “sufficit tibi gratia mea”, ossia “dove tu non puoi arrivare, ti verrò Io in aiuto con la mia grazia”.
Il nostro “incontro” con Gesù, che noi riviviamo in ogni Eucaristia, deve essere un incontro di “comunione”: un incontro cioè in cui Egli, offrendosi a noi in cibo, in alimento, permette alla nostra “materialità”, al nostro essere “carnali”, di mutarci in “esseri spirituali”: assumendo il suo “cibo di vita”, noi arriveremo gradualmente a “convertirci”, a vivere cioè non più della nostra vita, ma della Sua vita, la vera Vita.
Esattamente come la vita materiale, che ci è stata donata, anche questa vita “spirituale”, questa vita divina, è un dono. Un dono che ci viene dato non per “possederlo”, non per svilirlo limitandolo a nostro uso e consumo, ma per donarlo abbondantemente ad altri: vivere degnamente e generosamente questa nostra vita è infatti l’unico modo per sdebitarci con Dio per questo suo dono: in questo sta l’essenza della felicità. 
Una domanda: come mai in questo mondo c’è tanta gente infelice? Risposta: non hanno trovato un motivo valido, profondo, per cui valga la pena di vivere. Hanno la vita (un dono) ma non sanno metterla a frutto (non la spendono per gli altri), e quindi la dissipano giorno dopo giorno. Presi dall’euforia della mediocrità, dell’apparire, pensano di essere eterni. Ma sbagliano di grosso. La nostra esistenza è come una candela: una volta accesa, inesorabilmente si consuma; è come un arco: nasce, cresce, arriva all’apice, decresce, muore. E non abbiamo altre vite di riserva, altre esistenze di scorta. Dobbiamo farcene una ragione. Siamo decisamente degli illusi quando pretendiamo di fermare su di noi i segni del tempo, ricorrendo a falsi accorgimenti, a lifting di ogni genere, ad interventi “risolutori” di chirurgia estetica: gli anni vissuti sono quelli che sono, nessuno può cancellarli. Così pure siamo degli sprovveduti quando, per soffocare l’amaro del nostro fallimento spirituale, ci affanniamo a fare incetta di titoli onorifici, di fama, di gloria, di tutto il denaro e le rendite possibili; ma tutto è inutile: il tempo è inesorabile e prima o poi la fine arriva, e dovremo fare i conti finali con il nostro vissuto. Totò diceva: la morte è la grande “livella”, rende tutti uguali, ricchi e poveri, nobili e popolani. Ed è proprio così.
Ecco perché è tanto importante avere un valido progetto di vita, una missione esclusiva da compiere, una vera ragione per vivere: prepariamoci da subito sulle risposte che dovremo dare all'esame finale; guardiamoci allo specchio, scendiamo nel profondo della nostra anima, e chiediamoci: “È così che voglio vivere la mia vita? A cosa servo? Vale proprio la pena di continuare per questa strada?”. 
Già, perché spesso la gente (noi per primi) la “buttano via” questa vita, la investono in cretinate. Non ci rendiamo conto di sciupare stupidamente un dono impareggiabile, un dono di Dio che non possiamo buttare via impunemente. Se solo pensassimo a quanto sarebbe diversa la nostra vita se la innestassimo direttamente a quella di Dio! Quanto verrebbe “rivoluzionata” la nostra esistenza, se ci accostassimo con fede sincera all’Eucaristia domenicale!
Focalizziamo per un attimo proprio questa prospettiva. Tutti i vangeli nel descrivere l’istituzione dell’Eucarestia, o la moltiplicazione dei pani, si servono immancabilmente di tre parole sempre uguali: prendere, benedire, spezzare. Parole importanti, dense di significato, che possono illuminarci sul senso autentico della vita, sul nostro percorso per diventare "Corpo di Cristo".
1) Prendere: Gesù, nella moltiplicazione dei pani, prende quel poco che c’è: sono un nulla quei pochi pani e pesci di fronte ad una folla enorme da sfamare. Ma Egli prende comunque quello che è disponibile, anche se è pochissimo, anche se è senza valore, anche se è insufficiente per quel che gli serve. Ecco, anche noi dobbiamo imparare prima di tutto a prendere in mano il poco che siamo. A lavorare con il nulla che abbiamo. Noi però il più delle volte non l’accettiamo; vorremmo sempre essere “altri”, i ricchi, quelli più dotati: e per questo accampiamo scuse, rimandiamo continuamente ogni impegno, siamo gli eterni inconcludenti: Non ci rendiamo conto che Dio, al contrario, ci ama per quel poco che siamo. Preghiamolo allora ogni mattino, quando ci alziamo, e diciamo: “Sì, Signore, accetto anche oggi la vita che tu mi hai donato: accetto di essere quel che sono, con tutti i miei limiti e i miei difetti, perché sono certo che con il tuo aiuto potrò fare grandi cose!”.
2) Benedire, ringraziare. Eucarestia vuol dire proprio ringraziare, benedire, “dire bene”. E noi dobbiamo ringraziare Dio, lo dobbiamo bene-dire, perché ci considera una cosa bella, una cosa buona: fin dalla creazione del mondo, ogni cosa che nasceva dalle sue mani, era “tov”, era cosa bella, buona.
Anche noi, in quanto creature di Dio, siamo “tov”, siamo una cosa bella, una cosa buona. Per questo dobbiamo benedire, dobbiamo ringraziare Dio; dobbiamo farlo nella sincera convinzione di essere “tov”: di essere per Lui creature veramente belle e buone. Amiamolo e ringraziamolo per come ci ha fatti; è inutile cercare e invidiare negli altri ciò che noi non abbiamo; ammiriamo e apprezziamo piuttosto quel poco che abbiamo e che siamo. Perché è il punto di partenza per costruirci sopra la nostra vita.
3) Spezzare. Io sono un dono per me e per altri. Un dono è qualcosa di atteso, di cercato, di desiderato. Essere dono vuol dire che il mondo ha bisogno di noi, ci aspetta, vuole noi. Essere dono vuol dire che noi siamo importanti per questo mondo. In che modo? Amando i fratelli, “spezzando” la nostra vita per loro. “Amare” significa proprio questo: “spezzarsi” per gli altri; non nel senso di spezzarsi in due dalla fatica o di distruggersi per gli altri, ma di fare della nostra vita un dono, un pane spezzato e donato agli altri.
Se ogni volta che andiamo a messa, noi ci “prendiamo in mano”, ci “benediciamo” e ci “spezziamo”, allora ci “trasformiamo”, diventiamo cioè anche noi “divini”, dono di Dio per i fratelli. Siamo un dono, siamo un tesoro, siamo preziosi... ma spesso non ce ne rendiamo conto, non ci interessa. Pensiamoci. Amen.