giovedì 11 maggio 2017

14 Maggio 2017 – V Domenica di Pasqua

«Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?

Giovanni, col Vangelo di oggi, ci riporta indietro all’ultima cena, nel momento in cui, dopo aver lavato i piedi ai suoi, Gesù affida loro le sue ultime raccomandazioni, il suo testamento spirituale. Il tempo a sua disposizione è ormai molto poco: Giuda lo ha già tradito, e da un momento all’altro arriveranno le guardie per arrestarlo: Gesù deve dunque cogliere quest’ultima occasione per parlare privatamente con i suoi discepoli, con quelli che l’hanno seguito nel suo lungo trasferimento a Gerusalemme. Essi sono disorientati, non sanno quello che sta per accadere, ma sentono che sarà qualcosa di molto grave. Le domande che pongono al Maestro esigono risposte rassicuranti: non hanno ancora ben chiaro il significato delle sue catechesi, ma in qualche modo si preoccupano del domani; impauriti, hanno il presentimento che ormai l’avventura con Gesù è giunta alla fine, e temono per la propria vita: “Che ne sarà di noi? Cosa ci accadrà? Dove andremo a finire? Non è che ci siamo sbagliati a credere in Te?”.
Pietro, come leggiamo nei versetti immediatamente precedenti, non ha dubbi: lui, qualunque cosa succeda, sarà sempre al suo fianco: “Darò la mia vita per te”. E Gesù, pazientemente, lo mette di fronte al suo imminente tradimento: “In verità ti dico: non canterà il gallo prima che tu non mi abbia rinnegato tre volte” (Gv 13,36-38): paura e debolezza lo renderanno protagonista di questa disavventura che Pietro piangerà amaramente per il resto della sua vita. Tommaso dal canto suo vuol sapere: “Signore non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la strada?” (Gv 14,5). Filippo, invece, sembra avere le idee più chiare: “Signore mostraci il Padre e questo ci basta” (Gv 14, 8).
Vorrebbero certezze, i poveri discepoli, il loro cuore inquieto le esige. Il verbo greco “atarasso” (turbare), indica appunto una profonda agitazione, sono decisamente preoccupati: “Gesù tu eri tutto per noi, ci avevi appassionato il cuore... avevamo puntato tutto su di te, e adesso?”.
E Gesù li rassicura: “Non abbiate paura. Abbiate fiducia in me e in Dio. Vado a prepararvi un posto!”. Che significa: “Tranquilli, ci rivedremo. Non abbiate timore! Vi ho mai traditi? Vi ho mai lasciati?”.
Possiamo capire lo stato d’animo degli apostoli: anche per noi, di fronte a certe vicende, è decisamente arduo sottrarci alla paura. Non possiamo evitare il dolore. Possiamo però affrontarlo confidando in Gesù, perché ogni amarezza, nel suo profondo, nasconde una sua verità, ogni dolore ha in sé il germe di una grande gioia. Ecco perché in ogni momento difficile della nostra vita, dobbiamo ricordarci sempre chi siamo, chi è nostro Padre.
Quando non siamo capiti e veniamo attaccati da ogni parte, rassicuriamoci, tranquillizziamo il nostro cuore, la nostra anima, affidandoci a Lui: “Anche se gli altri non mi capiscono, il mio Dio mi capisce e mi ama”. E questo ci tranquillizzerà.
Quando ci guardiamo allo specchio e ci vergogniamo di quello che siamo, di quello che facciamo, e ci consideriamo irrecuperabili, diciamoci: “Non aver paura, abbi fiducia, sei figlio di Dio!”. E sentiremo in cuor nostro che la nostra dignità non verrà né rovinata né offuscata; avremo la certezza di poter comunque ripartire, di poter ricominciare, di poterci dare un’altra possibilità, un’altra chance.
Quando dentro di noi infuria la tempesta e ci sentiamo soli in balia delle onde, sbattuti qua e là, e non sappiamo dove andare o cosa fare; quando dobbiamo sostenere una prova impegnativa, un incontro particolarmente difficile, e ci sentiamo inadeguati; quando nella nostra vita dobbiamo affrontare un cambiamento che taglierà tutti i ponti col nostro passato, diciamoci: “Non aver paura, abbi fiducia in Dio, abbandonati alla sua provvidenza; Egli ti aiuterà; non ti lascerà mai solo, è sempre stato tuo amico”. Sono parole semplici che comunque ci infonderanno energia, pace, serenità.
In certi momenti della vita, sentiamo un assoluto bisogno di pregare: facciamolo con queste semplici espressioni: confermiamo a Dio la nostra fedeltà, esprimiamogli la nostra totale fiducia, assicuriamogli il nostro amore. Forse non risolveremo granché, i nostri problemi rimarranno insoluti, perché la preghiera non risolve i problemi: in cambio però, sentiremo il nostro cuore invaso da una grande pace; una nuova forza ci conforterà: e sentiremo dentro di noi la certezza che se anche dovessimo sbagliare tutto, se anche tutto dovesse finire, se tutto dovesse crollare, Lui è sempre con noi: in Lui e con Lui non dobbiamo mai nulla da temere. Diamogli solo voce, diamogli spazio, perché Lui solo può rassicurarci, calmarci, consolarci, rafforzarci.
“Nella casa del Padre mio ci sono molti posti” (Gv 14,2). Un “molti posti” che vale “c’è un posto per tutti”. Allora perché temere? Perché aver paura? In Dio c’è spazio per tutti. Non alla rinfusa, non a nostra scelta, a nostro comodo, ma ognuno al “suo” posto. Ognuno deve raggiungere quel posto che Dio gli ha assegnato fin dall’eternità.
Noi in genere ci sentiamo in regola, ci sentiamo “a posto”, se ci comportiamo come tutti gli altri, se ci adeguiamo alla massa. E invece no: pensare una cosa del genere significa non aver capito una verità fondamentale: che Dio non crea, e quindi non gradisce, nessun doppione, nessun duplicato, nessuna fotocopia. Ognuno di noi è “singolo”, è l’originale, unico nella sua realtà. Ogni “imitazione” è una vita sbagliata, non realizzata, non osata. Volendo fare la “controfigura” sbagliamo indirizzo, non arriveremo mai al nostro impareggiabile “posto”. Di più: noi dobbiamo impegnarci a diventare non “come” Gesù, ma “altri” Gesù; non dobbiamo copiarlo, dobbiamo diventare altrettanti “Lui”. In altre parole dobbiamo reincarnarci in Cristo, diventare Cristo, per realizzare con la nostra vita quel progetto che Dio ha da sempre pensato esclusivamente per noi, per realizzare l’unico motivo valido per cui ciascuno di noi esiste: quello di “instaurare omnia in Christo”, di riportare, cioè, di ricostruire, di restituire la dignità iniziale, con Cristo e per mezzo di Cristo, a tutte le creature. Le nostre vite quaggiù non sono infatti “frutto del caso”, ma corrispondono allo specifico disegno di amore profondo, generato dalla mente eterna di Dio. Egli, operando in ciascuno di noi, in modo personalissimo, ci permette di ridiventare nuovi, unici, autentici, creativi, innamorati di Lui come all’origine.
Ecco perché sbagliamo grossolanamente quando guardiamo gli altri “più fortunati” con invidia, con rivalità, con malanimo; sbagliamo quando vorremmo “immedesimarci” in loro, perché il modo con cui Dio vuol crescere in noi, con cui vuole manifestarsi in noi, è “altro” dal loro, è diverso da quello di tutti gli altri. Per molte persone una pluralità di cammini vocazionali significa “divisione”, disgregazione, separazione, quando invece è solo “diversità” di percorrenza del medesimo percorso. Per esse, uniformità, unanimità, identità, uguaglianza, significa “comunione”, invece no: è solo “omologazione”.
Lo slogan di Dio è pertanto: “Ciascuno deve percorrere la sua strada per raggiungere il posto che Io gli ho assegnato”. Vero. Perché ciascuno ha il suo posto, ciascuno ha la sua strada.
Per tanto tempo invece ci siamo sentiti ripetere con insistenza: “Per andare a Dio c’è una strada sola: o percorri questa o non ci arriverai mai... ”, e giù tutta una serie di indicazioni puntigliose, di leggi, di regole, di precetti minuziosi. Ma con ciò significa affermare che tutti siamo uguali, identici, tutti abbiamo le stesse esigenze, le stesse caratteristiche: per cui tutti dobbiamo percorrere la stessa identica strada, tutti dobbiamo avere lo stesso identico modo di vivere e di credere. Ma ripeto: nulla di più sbagliato; basta osservare la natura, guardarsi intorno: non c’è una foglia, un fiore, una pianta che sia uguale ad un’altra. Non c’è un volto, una persona, una storia, che sia identica ad un’altra: tutto è assolutamente unico, originale, diverso.
Tanti posti, quindi, quanti sono i ruoli che ciascuno deve svolgere nel grande progetto divino, e tante le strade per attuarli. C’è chi arriva a Dio attraverso la totale dedizione a Lui e chi arriva attraverso la propria famiglia; c’è chi arriva con una vita contemplativa e monastica e c’è chi arriva passando per una vita mondana; c’è chi arriva a Dio attraverso molti colloqui, molti discorsi, molte parole, attraverso la confusione, e chi invece ci arriva nel silenzio, nella solitudine, nella meditazione. C’è chi arriva ascoltando la “voce” che sente dentro di sé, e chi arriva ascoltando la voce, i suggerimenti di altri. L’importante è passare attraverso Cristo, perché “Io sono la via... la verità... la vita” (14,6).
Parole che Gesù non pronuncia in ordine casuale: Gesù è infatti la Via che conduce alla Verità; e solo nella Verità, la Vita sarà piena, sensata, realizzata. Vediamo meglio.
Gesù non dice: “Io ho la strada”. Ma: “Io sono la strada”. Gesù non “ha” regole, non ha norme, leggi, indicazioni, da seguire e basta. Gesù “è” un cammino che ci coinvolge continuamente. A quanti gli chiedevano cosa fare per avere la vita eterna, cosa fare per essere felici, cosa fare per andare al Padre, a tutti rispondeva: “Seguimi”. Punto! La fede non è un possesso, un punto di arrivo, una conquista, un qualcosa di “statico” e basta: “Sono battezzato, sono a posto!”. La fede è un cammino senza soste, una progressione dinamica, una conquista in continua espansione.
Gesù non dice: “Io ho la verità”. Ma: “Io sono la verità”. Ci sono molte chiese, molte organizzazioni, molte religioni che si arrogano questo diritto e dicono: “Noi abbiamo la verità”. Ma la verità non è un oggetto che possiamo possedere, possiamo solo “viverla”. Non possiamo “avere” la verità, possiamo solo “essere” veri. Per molte persone la verità è la concordanza di una serie di dati certi. Per Gesù invece “verità” (in greco “aleteia”, togliere il velo) è scoprire la realtà così com’è; in pratica è scoprire ciò che noi siamo realmente.
Gesù non dice: “Io ho la vita”. Dice: “Io sono la vita”. Non dice “vi assicuro” una vita felice, tranquilla, senza sorprese o problemi. Gesù è la vita: “Vuoi vivere veramente? Vuoi realizzarti? Vivi!”. Non ci sono altre possibilità, per provare la ricchezza della vita, che buttarci dentro, dobbiamo vivere la Vita, dobbiamo vivere Cristo. Nessuno lo può fare per noi. O lo facciamo noi o non vivremo mai. Vogliamo conoscere il mare? Dobbiamo immergerci dentro; vogliamo conoscere l’amore? Non basta un libro e neppure centomila trattati: dobbiamo amare ed essere amati; solo così lo conosceremo.
Molte persone confondono “vivere la vita”, con il cercare freneticamente le novità, con il fare qualunque esperienza, con il viaggiare continuamente, con l’interessarsi di tutto e provare qualunque cosa. Ma “vivere”, per il vangelo, significa solo sentire, percepire, sperimentare, apprezzare, la Vita che è in noi. Perché la Vita è già presente in noi, vive già dentro di noi, ci appartiene, ci anima fin dal primo istante del nostro concepimento. “Vivere” allora non è nient’altro che esprimere, concretizzare, dare voce, dare corpo a quella Vita, a quel soffio vitale che vive in noi, che ci fa vivere, e che noi dobbiamo “umanizzare”.
Il Vangelo si conclude infine con alcune parole di Gesù, pronunciate in tono solenne e decisamente profetico: “Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre”. Parole piuttosto oscure, enigmatiche, difficili. Parole irrealizzabili, perché nessuno di noi può pensare di essere tanto potente, tanto importante, tanto carismatico nelle sue opere, da emulare Gesù. Non ci crediamo perché, se ci guardiamo dentro, quello che ne emerge sono soprattutto le nostre miserie, le nostre debolezze, i nostri tradimenti, il nostro egoismo, il nostro niente.
Ma Gesù non ci guarda come noi; ciò che Lui vede è molto diverso da quello che vediamo noi: lui vede soprattutto quanto possiamo essere forti, quanto possiamo essere fedeli, quanto possiamo amare, quanto possiamo essere altruisti: diventare Lui, dipende allora da noi, dal nostro volerlo con tutte le forze, dal nostro credere in Lui, alle sue parole, dal nostro credere in noi, nel nostro potenziale.
Diceva un saggio: “L’uomo si trasforma in ciò che crede”: se crediamo veramente in Dio, noi possiamo tutto: possiamo sconvolgere, rivoluzionare, trasformare la nostra vita; possiamo non solo fare quanto Gesù ha fatto, ma compiere addirittura opere più eclatanti, più sensazionali. Perché possiamo diventare effettivamente altrettanti Cristo: quel Cristo che una volta incontrato nella nostra vita, non ci permetterà più di essere quelli di prima. Amen.



venerdì 5 maggio 2017

7 Maggio 2017 – IV Domenica di Pasqua

«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore» (Gv 10,1-10).

Gesù quando insegna, usa parole facili, comprensibili da tutti, si serve di immagini molto semplici, tratte dalla vita di ogni giorno.
Le immagini del pastore, dell’ovile, del gregge, a noi oggi dicono molto poco, ma ai tempi di Gesù, in Palestina, tutti le capivano perfettamente, poiché la pastorizia era praticata dalla maggioranza della popolazione; per la lingua parlata degli orientali era pertanto normale ricorrere a tale occupazione per proporre similitudini e allusioni: così con il termine “pastori” si alludeva ai re di Israele; il loro “gregge” era il popolo; il “bastone” del pastore rappresentava invece lo scettro regale, e via dicendo.
Per questo motivo, per rendere immediatamente comprensibile il suo messaggio, Gesù nel vangelo odierno si serve di immagini agresti estremamente realistiche: i pastori ogni sera portavano le loro pecore nel “recinto”, un grande spazio protetto da un muro, alla cui custodia notturna era sufficiente un solo guardiano. Al mattino, i pastori entravano in questo ricovero notturno passando regolarmente per la porta (a differenza dei ladri che di notte scavalcavano di nascosto la protezione per impadronirsi degli animali), e ciascuno chiamava per nome “una ad una” le proprie pecore, le quali, riconoscendo “la sua voce” si radunavano intorno a lui: era una cerimonia consolidata, succedeva sempre così. Le pecore sentivano la voce del loro pastore, lo riconoscevano, perché tutto il giorno stavano con lui: avevano in lui la massima fiducia, perché lui le proteggeva, le difendeva, le curava, le portava al pascolo. Tra di loro si era creato un autentico rapporto di conoscenza e di relazione.
Ed ecco il messaggio: noi siamo le pecore, il nostro pastore è colui che ci conduce verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; il nostro pastore è colui che ci difende, che ci protegge dagli attacchi esterni, che ci aiuta nei momenti di difficoltà; egli è il nostro sicuro riferimento, che ci indica dove andare, quale strada percorrere.
Dobbiamo però stare molto attenti, perché sulla nostra strada ci sono anche tanti “briganti e ladri”: gente che ci avvicina in nome di Dio, in nome dell’amore, e mirano soltanto a derubarci l’anima. Dicono tutti di venire per il “nostro bene”, ma in realtà il bene cui mirano è solo il loro.
Purtroppo sono “pastori” che invece di difenderci dai lupi, sono lupi loro stessi e della razza peggiore. Perché di fronte ai lupi veri, noi sappiamo come difenderci; non altrettanto con quei falsi lupi travestiti da pastori, che vengono da noi “in nome di Dio”, comportandosi peggio di lupi voraci, insensibili alle sofferenze che causano, perché ad essi noi siamo portati a concedere massima fiducia, rischiando di perderci, travolti dalle loro ambizioni, dalla loro sete di potere.
Da ciò ne deriva una regola fondamentale per la nostra vita: “Chi ruba l’anima è un ladro. Chi ruba ciò che abbiamo nel nostro intimo è un brigante. Chi ci imprigiona con le chiacchiere è un impostore. Non facciamolo entrare! Opponiamoci: se poi non siamo in grado di difenderci, scappiamo, fuggiamo. Il pastore vero entra in noi per darci vita, per farci crescere, fiorire, evolverci, divenire. Il ladro (talvolta il prete, il genitore, il coniuge, l’amico più stretto) viene per rubare, per sottrarci la vita, per legarci a sé. Il pastore amorevole ci invita, non ci impone mai nulla, non usa la forza, è sempre presente e disponibile; il ladro vorace impone, usa violenza, colpevolizza, ci sottomette, ci ruba quanto di meglio custodiamo nel nostro cuore. Il pastore ci conduce a quella che è la “nostra” verità; il ladro ci incatena alla sua.
Occhio allora: perché se una persona, ancorché la più cara, ci colpevolizza, ci irride, ci deprime, ci fa sentire “sbagliati”, quella persona è un brigante; se uno ci fa sentire falliti, cattivi, sporchi, è un brigante; se uno ci fa sentire idioti, cretini, stupidi, è un brigante; se uno ci usa per il suo piacere fisico, per i suoi interessi, è un brigante; se uno ci si appiccica addosso dicendo che non può vivere senza di noi, è sicuramente un brigante. Se lo stare con una certa persona ci toglie la gioia di vivere, distrugge la nostra personalità, ci ruba la vitalità, quella è un ladro. Se lo stare con una persona uccide la nostra creatività, la nostra fantasia, la nostra espansività, la bellezza della nostra anima, quella è un ladro. Se insomma lo stare con una persona ci spegne invece di accenderci, ci soffoca invece di farci respirare, vuol dire che quella persona è un autentico ladro.
La vita deve vivere. La vita deve espandersi. La vita deve dilatarsi. Noi siamo fatti per crescere sempre di più, per realizzarci sempre di più, per diventare quelli che dobbiamo essere, identici a come Lui ci ha pensati. La vita ci riempie, la morte ci svuota.
Il buon pastore vuole sempre e in ogni caso che noi fioriamo, viviamo, diveniamo: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. È questa la regola fondante della nostra vita.
Il vangelo dunque, in questa sua prima parte, ci pone di fronte ad una nostra precisa responsabilità: se cioè ci accorgiamo che i ladri ci hanno rubato la vita, l’entusiasmo, la fantasia, la creatività, la voglia di vivere, di combattere, di essere nuovi e diversi (quanta gente è rassegnata, smorta, spenta!) chiediamoci: perché non abbiamo reagito, perché non abbiamo fatto nulla? Perché non siamo stati pastori vigili di noi stessi? È innegabile che nel mondo ci siano dei ladri che si prefiggono di impadronirsi di noi, della nostra interiorità; ma è altrettanto innegabile che questi ladri entrano nella nostra anima solo se siamo noi a permetterglielo. È vero che c’è gente che ci attacca, ma perché noi non ci difendiamo? Perché ci comportiamo come se la cosa non ci riguardasse? Stiamo bene attenti: perché non difendersi significa non amarsi. Non proteggersi significa non riconoscere alla nostra vita il dovuto valore.
Difendiamoci allora, amiamoci, lottiamo per noi stessi, combattiamo per la nostra vita, per il riconoscimento della nostra dignità. Amarsi, allora, è farsi pastori di noi stessi, contro le incursioni di ladri e briganti. Amarsi, allora, significa difendersi da qualunque incursione del male. Amarsi significa avere il coraggio di gridare a qualcuno: “Fuori di qui, tu non puoi entrare!”. In certe situazioni dobbiamo essere pronti ad urlare: “Vattene! Stai lontano da me!”. Sono troppe invece le persone che permettono a chiunque di rubar loro l’anima, la vita che hanno dentro, la vitalità, la gioia, la simpatia!
Il vangelo di oggi ci offre inoltre un’altra immagine molto suggestiva, quella della “porta”: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà ed uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9).
Cosa significa? Che non è Gesù a schiavizzarci, non è lui che ci rinchiude nostro malgrado nelle situazioni della nostra esistenza: Lui ci garantisce sempre la nostra piena libertà. Noi possiamo entrare ed uscire, credere o non credere, accettarlo o rifiutarlo; in ogni caso Lui non s’arrabbia, non se la prende, semplicemente aspetta. Dio ci lascia liberi: Lui è la porta. Ogni volta che vogliamo entrare, Lui è sempre “aperto” ad accoglierci. Entrare nel nostro quotidiano passando attraverso di Lui è una garanzia, perché in Lui noi troveremo sempre il nostro pascolo, cioè l’amore, la libertà di figli, la forza soprannaturale che ci nutre e che ci alimenta.
Nella vita però esistono anche delle porte chiuse a chiave, ermeticamente, serrate con tutti i lucchetti possibili: porte che noi non vorremmo aprire mai. Ma prima o poi arriva il momento in cui non possiamo esimerci, in cui è necessario aprire e varcare quelle porte, anche se il pensiero di ciò che incontreremo, ci paralizza, ci terrorizza, e noi faremmo di tutto pur di non aprirle. Ci sono purtroppo dei passaggi nella vita che dobbiamo necessariamente superare, costi quel che costi; sono “porte” che appartengono alla vita: se vogliamo vivere dobbiamo oltrepassarle. Noi vorremmo evitarle, entrare da un’altra parte, trovare una soluzione alternativa, ma non è possibile. Se vogliamo progredire dobbiamo passare di lì. Altrimenti ci fermiamo. Certe porte, certi passaggi, sono come le “forche caudine”: non c’è alternativa, vanno affrontate. Sono chiusure, impedimenti, momenti tragici della vita, estremamente impegnativi, a volte laceranti: dai quali non possiamo sottrarci; faremmo qualunque cosa pur di evitare le sofferenze, le fatiche, le delusioni, inevitabili se decidiamo di superarli; ci piacerebbe passare per altre vie, prendere scorciatoie, saltare questi ostacoli, aggirare queste difese: ma sono i briganti che fanno così. È inutile in certe occasioni razionalizzare, giustificare, dimenticare o sminuire la sofferenza; va solo affrontata, passando per la Porta, chiudendo gli occhi e affidandoci a Lui.
Anche se ci terrorizzano, certe “strettoie” della vita vanno superate: non abbiamo alternative; se vogliamo esorcizzare le nostre paure, dobbiamo affrontarle! Anche se è difficile, anche se ci fa piangere, anche se ci angoscia, anche se ci ferisce, anche se ci sconvolge, ciò che va fatto va fatto. Perché ne va della nostra vita. La porta che si erge davanti, dobbiamo aprirla, oltrepassarla.
Ci consola il fatto che la porta conduce sempre verso qualcosa di nuovo, di diverso: è un passaggio.
Allora: andiamo oltre, non fermiamoci, usciamo dal nostro impasse, cambiamo, progrediamo. Apriamo la porta verso il nuovo; troviamolo una buona volta il coraggio di passare oltre, di cambiare, di fare nuove esperienze. La ripetitività, l’immobilismo, a volte ci annoiano, è vero, ma sono rassicuranti, sono una garanzia: conosciamo già ogni cosa, nulla ci mette in difficoltà, nulla ci imbarazza. Ma questa non è la vita: questo non è vivere, perché la vita è sempre nuova, diversa, altra, in evoluzione. Per questo Dio è Porta. Nel senso che se incontriamo Dio, Egli ci accoglie nel suo amore, ma per portarlo “fuori”; ci fa cioè diversi, ci trasforma, ci cambia, e ci manda là dove neppure immaginavamo; apre le nostre porte sconosciute, spalanca tutte le stanze della nostra anima, ci apre orizzonti mai immaginati prima, ci rinforza, ci forgia nel nuovo. Si fa presto a vedere se uno ha incontrato veramente Dio. Se rimane sempre lo stesso, sicuramente non l’ha incontrato. Più un uomo è ottuso, chiuso, pieno di pregiudizi, sulla difensiva, meno conosce Dio. Gesù è la Porta che ci introduce nel nuovo: entriamo, apriamoci, impariamo, indossiamo il suo amore, usciamo, camminiamo nella vita, non fermiamoci, non temiamo, combattiamo, portiamolo ai fratelli, andiamo avanti, sempre! Vangelo vuol dire “buona nuova”. È “buona” proprio perché è sempre “nuova”; non è mai la stessa. Gesù fu ucciso non perché portò un messaggio “buono”, ma perché portò un messaggio “nuovo”. È così: anche se il nuovo ci terrorizza, anche se ci fa paura, anche se ci toglie ogni certezza, noi dobbiamo diventare “nuovi”; se non ci rinnoviamo passando attraverso Gesù/Porta, siamo già vecchi in partenza, abbiamo già smesso di vivere. Dice il Qohelet: “Il tempo consuma le cose, tutto invecchia”. Quindi, o ci rinnoviamo o moriamo. La gioventù non è una stagione della vita, ma una prerogativa dell’animo. Non si invecchia per aver vissuto un certo numero di anni, ma solo quando abbandoniamo i nostri ideali, quando pretendiamo da ladri di scavalcare Dio, di far meno di Lui. Ci sono giovani che sono già vecchi decrepiti, e ci sono vecchi che sono al contrario giovani, aitanti. Domandiamocene il perché, e capiremo l’importanza di passare per la Porta! Amen.



venerdì 28 aprile 2017

30 Aprile 2017 – III Domenica di Pasqua

«Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» (Lc 24,13-35).

Un vangelo, quello di oggi, che per noi affaticati pellegrini sulle strade della vita, è fonte di grande consolazione e fiducia, un condensato di emozioni, di indicazioni, di suggerimenti estremamente utili per poter dare il vero senso al nostro cammino.
È la vicenda di due discepoli che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea, affascinati dalle sue promesse di restaurazione e di sfolgorante vita futura; li aveva “presi”, entusiasmati, contagiati. Ma adesso tutto era finito e il loro sconforto era grande, enorme, senza fine. Dopo la sua crocifissione e morte, impauriti e profondamente delusi, scappano quindi da Gerusalemme: ma durante la loro triste fuga, incontrano il Risorto: Egli si unisce a loro, con la sua Parola li illumina, con lo “spezzare il pane” in comune, li fortifica. A questo punto, avendo riconosciuto Gesù, essi si sentono ricaricati, consolati, fortificati, e fanno ritorno a Gerusalemme, pronti a ripartire nuovamente verso la loro missione, pieni di gioia, di fiducia, di nuovo entusiasmo.
Un’esperienza di grande respiro, quella di Cleopa e dell’altro discepolo suo compagno di viaggio, che si presta a molte riflessioni, da cui possiamo trarre utili indicazioni per la nostra vita pratica.
Una constatazione in particolare: durante il nostro cammino nella vita, Dio ci sta sempre accanto: anche quando non lo vediamo, anche quando camminiamo nella direzione opposta. Spesso noi andiamo avanti al buio, senza Luce, senza Dio; facciamo di proposito ciò che non dovremmo fare, brancoliamo nell’ansia, procediamo a casaccio, in preda alla paura: ma anche se non ce ne rendiamo conto, Egli continua a parlarci, a guidarci, sempre, con grande amore, con grande pazienza.
Quando riusciamo a percepire qualche emozione che ci “riscalda il cuore”, che “ci prende” l’anima, la dobbiamo a Lui: perché Dio è passione, è energia che brucia e arde nel nostro cuore; Dio è un fuoco che infiamma tutto il nostro intimo. E proprio quando noi ci allontaniamo da Lui, Lui si fa ancora più vicino. Più lo rifiutiamo, più cerchiamo di evitarlo, più Lui fa di tutto per stare con noi. Dio è l’unico nostro compagno di viaggio, sempre fedele e presente, anche quando ci sentiamo soli, anche quando ci sentiamo abbandonati da tutti: che poi, in realtà, non siamo mai soli: siamo convinti di esserlo, perché non lo sentiamo, non lo vediamo, ma ciò dipende da noi; non significa affatto che Egli non ci sia. Dobbiamo esserne certi, dobbiamo crederlo fermamente.
Purtroppo sappiamo bene che nessun discorso, nessuna esperienza, nessuna liturgia, nessun esercizio spirituale, possono costringerci a credere, soprattutto se abbiamo deciso di non far entrare Dio nella nostra vita. Ma sappiamo anche che ci è impossibile vedere Dio, se non attraverso la nostra anima: perché tutto rimane oscuro, nascosto, invisibile, se non guardiamo dal di dentro. Non farlo, significa non accettare di incontrare Dio nella nostra vita, significa correre il grande rischio di non capire nulla di noi, di Dio, di tutto quello che ci succede e ci circonda.
Con Lui, tutto ha un senso: tutto ha un significato proprio; tutto accade per un motivo ben preciso: se al contrario manca Lui, se manca la Luce, se manca l’Amore che può spiegarci la vita, allora è inutile che ci agitiamo, tutto continua a rimanere nel buio, tutto continua ad essere senza senso. È il nostro fallimento. Attenzione però: perché ciò che chiamiamo fallimento, spesso è invece una speciale “chiamata” di Dio. Ciò che rifiutiamo con maggior decisione, è proprio ciò di cui abbiamo più bisogno; ciò che cerchiamo volutamente di evitare è invece ciò con cui necessariamente dobbiamo fare i conti. Possiamo dire che Dio è molto più presente nelle nostre sconfitte che nelle nostre vittorie. La nostra mente questo non lo capisce, ma il cuore sì; la mente esige spiegazioni, ma è il cuore che sente, che percepisce, che comprende.
Ecco: il vangelo di oggi ci racconta, ci spiega, appunto, come, dove e in che modo noi possiamo incontrare il Signore. Perché Dio, se lo vogliamo, è un’esperienza che tutti possiamo fare, tutti possiamo vivere.
Se c’era una cosa che i due discepoli diretti a Emmaus non si aspettavano, era proprio di incontrare Gesù sul loro cammino. Succede esattamente la stessa cosa anche a noi. Chi di noi infatti pensa di poter fare un incontro diretto con Dio? Nessuno. Quando Gesù si avvicina a noi, noi non ce ne accorgiamo neppure! Quante volte Dio viene nella nostra vita, nelle nostre strade, nelle nostre giornate: ma noi non ce ne accorgiamo, non lo vediamo: siamo troppo prevenuti; perché vogliamo essere noi a decidere come Lui deve presentarsi, come deve muoversi, quale comportamento adottare con noi. Noi tentiamo di imprigionare Dio, vogliamo essere noi a decidere per Lui; capovolgiamo i ruoli: vogliamo cioè essere noi Dio, e decidere noi quando e come Lui deve muoversi.
Allora quando non lo vediamo, quando la nostra vita è arida, quando Dio non passa sulle nostre strade non è Lui che non viene, ma siamo noi che, imprigionati nei nostri schemi, non riusciamo a vederlo. Dio ripasserà ancora, è certo: e questo ci infonde una grande speranza; ma se ci ostineremo a guardare sempre con gli stessi occhi materializzati, continueremo a non vederlo.
Dio noi non lo possiamo “conoscere”: lo possiamo soltanto “riconoscere”; non lo possiamo conoscere perché ci è impossibile guardarlo faccia a faccia; per cui quando ci è vicino, quando ci passa accanto, possiamo solo “sentirlo”, vederne i segni, le tracce e dire: “Lui è qui; Lui è stato qui”. Esattamente come è successo ai discepoli di Emmaus che incontrano Dio proprio nel bel mezzo del loro fallimento.
Quante volte anche noi siamo amareggiati da come va la nostra vita! Avevamo delle speranze, delle rosee aspettative sui nostri figli, sulla famiglia, sulle amicizie, sul nostro futuro, sulla nostra carriera: e invece le cose non sono andate come noi ce le aspettavamo, come noi le avevamo pensate, come noi le avevamo programmate, sognate. E finiamo in una profonda depressione! Quando ci capita qualche contrarietà apparentemente insormontabile, tragica, ci sembra di vivere la fine del mondo; in realtà è la fine di un mondo, non del mondo. Quando ci sembra di aver fallito tutto, dobbiamo capire che si tratta solo del fallimento di un nostro modo di percepire, di pensare, di vivere; non siamo noi i falliti.
Nessuno vuole essere un perdente; nessuno vuole ammettere di aver sbagliato; nessuno vuole accettare una sconfitta. Ma questo fa parte della vita. A volte le persone continuano a ripetere sempre gli stessi sbagli perché negano sdegnosamente qualunque possibilità di incorrere in errore, rifiutano qualunque possibilità di fallimento.
E non capiscono che nella vita talvolta sono i fallimenti, le sconfitte, che ci salvano, perché in essi è molto più facile incontrare Dio. È solo quando sono caduti i muri del nostro orgoglio, delle nostre rigidità, delle nostre sicurezze, che Lui può agevolmente entrare in noi. È così: le nostre esperienze di Dio, più vere e profonde, le possiamo vivere soprattutto nei nostri fallimenti, quando cioè siamo completamente indifesi, spogli di ogni motivo di orgoglio: è allora che sentiamo più vicino il suo amore: e non per i traguardi raggiunti, per la nostra fama, per i nostri meriti, ma semplicemente perché siamo sue creature, perché di noi egli ama la nostra umiltà, il nostro essere nulla.
Allora, ogni volta che ci accorgiamo di aver fallito, chiediamoci: “Cosa mi sta dicendo Dio? Cosa devo imparare? Quale nuova esperienza di vita debbo trarre?”.
C’è un momento particolare nel nostro cammino di fede in cui Gesù ci affianca e ci invita a parlare, a esporgli le nostre problematiche, i nostri pensieri. È un momento di grande intimità in cui Egli vuol conoscere da noi tutti i nostri progetti: è nell’Eucaristia domenicale.
È qui infatti che noi possiamo parlare con Dio, a tu per tu, di ciò che viviamo, delle nostre difficoltà, delle nostre paure, dei nostri timori, dei nostri pianti, delle nostre aspettative, delle nostre gioie, dei nostri sogni. In quel momento Dio, prima di risponderci qualcosa, ci ascolta a lungo, senza fretta. Per tutto il tempo che serve. È lì, nell’Eucaristia, che noi possiamo dar voce alle nostre piccole e grandi necessità. È lì che possiamo piangere, lì che possiamo gioire, è lì che possiamo “vederci” in tutta la nostra misera realtà.
In tante altre occasioni Gesù si avvicina, si affianca a noi: ma noi non lo riconosciamo; siamo troppo presi dai nostri problemi, dal nostro io, dal nostro mondo esteriore. È qui invece, è nell’Eucaristia, che “allo spezzar del pane” noi lo riconosciamo; è qui che possiamo realmente incontrarlo, toccarlo, sentirlo, vederlo; è qui che possiamo dialogare con lui; è qui che possiamo spalancargli le porte del nostro cuore, rivelargli tutti i nostri anfratti bui. È qui che possiamo capire il vero senso della vita, il senso vero e profondo del nostro “seguirlo”.
È qui, che noi possiamo guardare la realtà con gli occhi di Gesù, con gli occhi della fede. È qui che possiamo diventare responsabili della nostra vita e di quella degli altri; è qui che iniziamo a porci la grande domanda: “Perché nella vita mi succedono queste cose? Perché mi comporto in questo modo?”. È qui che finalmente ci appare chiaro che se vogliamo trovare la Luce, l’Amore, dobbiamo cercare, cercare sempre, cercare ovunque, senza stancarci mai. Perché la fede è tutta qui: vedere Dio in ogni cosa, perché ogni cosa ci parla di Lui. Basta saper guardare. Amen.



martedì 18 aprile 2017

23 Aprile 2017 – II Domenica di Pasqua

«Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20,19-31).

I discepoli, dopo la morte di Gesù, praticamente si sbarrano all’interno del cenacolo. Sono in preda al terrore, al panico più totale: quelle “porte chiuse” del vangelo, testimoniano molto bene la loro decisione di isolarsi dal mondo. Hanno paura di tutto e di tutti, perfino di Gesù; sembra quasi che non ne vogliano più sentir parlare, vogliono allontanare qualunque possibilità di finire anch’essi condannati come suoi sostenitori. Hanno insomma deciso di dimenticare tutto, di fare ritorno quanto prima in Galilea, alla normalità di tutti i giorni. Certo, con Gesù in vita, le cose erano ben diverse, lui era un trascinatore, un leader, con lui non c’era problema senza una pronta la soluzione: era un piacere seguirlo, ma ora che lui non c’è più, meglio tornare a casa!
Sono demotivati, non hanno più il coraggio, la volontà, l’entusiasmo di buttarsi nella mischia, di lottare per i loro ideali. Sono come tanta gente di oggi che, piuttosto di impegnarsi, preferisce abbandonare la fede.
Non sono persone particolarmente contrarie all’idea di Dio, in fondo sarebbero anche disponibili a conoscerlo, a farlo entrare nel loro intimo; intuiscono che Dio non può essere un nemico, uno che viene per uccidere, per condannare, per fare del male. Ma sanno anche cosa significhi accettarlo, aprirgli le porte: “Se lo facciamo entrare - pensano – dobbiamo rinunciare a troppe comodità, ci mette di fronte alle nostre responsabilità, a come siamo realmente, ci toglie tutte le nostre belle maschere, le nostre incrostazioni, tutte le false illusioni che ci siamo costruite. Molto meglio seguire una religione più tranquilla, una che non crei problemi; è preferibile stare lontani da un Dio così esigente”. È il classico pensiero del codardo, di colui che evita qualunque coinvolgimento, che detesta ogni impegno oneroso. Non hanno capito che incontrare Dio è invece la cosa più bella della vita: perché Lui stesso è la Vita, Lui è l’unica Via da percorrere, Lui l’amore che ci nutre; ma Lui è anche la Verità unica e intera: e questo sicuramente crea dei problemi, presuppone una vita senza inganni, senza scorciatoie. In pratica non rifiutano Dio, ma rifiutano l’incontro con la Verità.
Quante volte noi stessi chiudiamo la porta del nostro cuore, fingiamo che tutto vada per il meglio, quando sappiamo che non è vero, che dietro la porta che abbiamo chiuso c’è tanto dolore, tanta amarezza, tanta inquietudine; sappiamo di essere sempre più spesso arrabbiati, bui, acidi, nervosi; di non riuscire più a lasciarci andare, a gioire, ad emozionarci; siamo consapevoli, insomma, che in noi c’è qualcosa di vitale che non funziona. Diamo la colpa allo stress, al troppo lavoro, al nostro partner, ai figli che ci stanno sempre “addosso”; ogni scusa è buona, ma noi, nel profondo, conosciamo la verità: sappiamo bene che il vero problema è un altro; sappiamo bene che per individuarlo, dovremmo far luce in noi; sappiamo bene che dovremmo avere l’umiltà di fermarci, di ascoltarci, di aprire quella porta che teniamo gelosamente sbarrata; sappiamo bene che dobbiamo entrare dentro di noi e fare un’accurata pulizia della mente e del cuore. Lo sappiamo: ma abbiamo il terrore di aprirla, perché sappiamo fin troppo bene cosa rinchiude; e questo ci provoca tanta confusione e vergogna di noi stessi!
Del resto chi non avrebbe paura in una situazione del genere? Chi oserebbe spalancare la propria porta per far esplodere quella Luce che, illuminando impietosamente ogni angolo nascosto, ci metterebbe di fronte alle nostre miserie, costringendoci a dover riprogrammare la nostra vita partendo dalle fondamenta? Chi non proverebbe timore e vergogna se Dio entrasse improvvisamente in noi e ci sbugiardasse davanti a tutti rinfacciandoci la nostra squallida realtà? Sicuramente nessuno; nessuno darebbe il benvenuto ad un Dio così: meglio tenerlo lontano il più possibile. Toccare certi tasti, scendere in certi particolari, ammettere certe libertà che ci siamo prese, è sempre imbarazzante.
Ma non lo è per Dio. Egli non è come ce lo immaginiamo noi: Egli vuol venire, vuole incontrarci, vuole mettere fine alle nostre paure. Ci invita a spalancare ciò che abbiamo chiuso, sbarrato, messo sotto chiave; ci invita a togliere la grossa pietra che blocca l’ingresso alla nostra coscienza, alle nostre stanze buie; ci invita ad uscire dal nostro isolamento, a smettere di nasconderci, di ripiegarci in noi stessi nell’assurdo tentativo di proteggerci, non per metterci in difficoltà, non per umiliarci, ma per darci fiducia nella sua misericordia: “Pace a voi!”, esclama entrando. “Pace a te, proprio a te che hai tanta paura! Sii tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare; sono io, l’Amore, non temere, non aver paura”. Che aspettiamo allora? Perché rimandare ancora un nostro incontro con Lui?
“Gesù mostrò loro le mani e il costato”. Sono i segni delle sofferenze subite per l’altro che testimoniano l’autenticità di un rapporto: e Gesù con noi è autentico. Ma proprio da qui la nostra paura; perché il primo passo del nostro incontro con Dio è mostrargli le nostre ferite, aprirgli il nostro cuore su tutto ciò che ci fa male, su tutto ciò che volutamente abbiamo scelto per vivere lontani da Lui, e che puntualmente si è rivelato un impedimento per la nostra crescita. Nella nostra “mondanità”, temiamo ancora la ritorsione, il castigo, il rimprovero.
Ancora per questo molte persone continuano a tenersi dentro le loro ferite: preferiscono soffrire pur di non aprirsi con qualcuno, pur di non far trasparire nulla all’esterno. Ma così facendo le piaghe marciscono, diventano cancrena e portano alla morte. Se una ferita non viene curata, medicata, inevitabilmente infetta tutto l’organismo. Molti uomini sono fiumi di sofferenza, pieni di dolore, di rabbia, di lacrime, di rimorsi, di umiliazioni: ma rifiutano caparbiamente di incontrare l’unico Medico, il dispensatore di misericordia, che può guarire qualunque malattia. Invano Egli cerca continuamente di essere persuasivo: “Lo so che hai tanta paura di incontrarmi; lo so che è per questo che ti ostini a chiudere tutte le tue porte. Ma fidati, fammi entrare, non aver paura”. E con tutto il suo amore egli insiste ad abbracciarci, sussurrandoci: “Pace! Sono io!”.
Tommaso, in occasione della prima apparizione di Gesù ai discepoli, è assente: non c’è. Come se non volesse incontrarlo, come se gli resistesse: come se non fosse ancora pronto a farlo entrare nella sua vita.
Tommaso: colui che dubita, colui che non si fida, colui che crede solo all’esperienza personale. Nella nostra vita siamo tutti un po’ il Tommaso della situazione. Anche nella nostra fede: abbiamo bisogno di prove, di riscontri, di verifiche personali; abbiamo le nostre idee, le nostre convinzioni; per noi non è importante ciò che altri provano o sentono in proposito, ma solo ciò che sperimentiamo noi, di persona. Ecco perché è determinante che avvenga un nostro incontro con il Signore: non tanto una teofania solenne, clamorosa, pubblica: è sufficiente un incontro privatissimo, nel silenzio della nostra coscienza, della nostra anima: perché è proprio lì che avvengono gli incontri brucianti e liberanti di Dio; è lì che noi lo riconosciamo, è lì che riusciamo a vederlo, è li che possiamo esprimergli tutta la nostra fede, il nostro amore.
Come per Tommaso anche per noi è essenziale incontrare il Risorto: come per Tommaso anche per noi è fondamentale toccarlo, sperimentarlo, “sentirlo”. L’esperienza dei testimoni, dei santi, della fede altrui, non ci bastano, non ci soddisfano: quello che è decisivo è l’incontro tra noi e Lui. È solo grazie a questo evento privato, a questo momento personalissimo, irripetibile, che riusciamo ad alimentare, a scuotere la nostra fede. Ogni incontro è unico: nessuno in assoluto può averne uno identico. È un’esperienza nostra, un’esperienza che solo noi possiamo fare: non esistono sostituti in questo! Nessuno può gestire la nostra fede, poiché è frutto di un incontro/scontro personale; è una movimentata relazione di amore, di conoscenza, di crescita; maturata nel tempo, mediante incontri, gesti d’amore, cambiamenti, persone, vita. In questo sta la fede: nasce così, si alimenta così.
Quando andiamo a messa, noi andiamo per incontrare Dio, per alimentare la nostra relazione d’amore con Lui. Andiamo cioè per un motivo ben preciso. Molte persone invece dicono: “Io vado quando mi capita, quando non ho nient’altro da fare, quando ne ho voglia”. È strano sentir parlare così, perché se noi amassimo veramente qualcuno, sentiremmo il desiderio irrefrenabile di incontrarlo continuamente: se non sentiamo questa necessità, vuol dire che non amiamo.
Ci sono persone che vanno puntualmente in chiesa, ma non sanno bene neppure loro per quale motivo: il loro cuore, la loro anima, sono assenti; non condividono la preghiera comune, il canto, la lode: non partecipano, non vogliono esporsi, non vogliono lasciarsi coinvolgere. Ma in questo modo non c'è alcuna intimità tra loro e Dio, non lo incontrano, non avviene alcun contatto con Lui. È come se uno andasse dall’amata e non le riservasse alcuna attenzione. Che rapporto sarebbe? Un non rapporto: come quello di certa gente che va in chiesa, ma non ascolta la Parola di Dio, non la sente, la lascia scivolare via, è impermeabile, impenetrabile, corazzata; non sa fare silenzio, ha la testa altrove, in lei non c’è intimità, non c’è profondità, non c’è rispetto, non c’è amore. Si distrae con tutto e tutto la distrae.
Ogni volta invece che andiamo a messa, noi abbiamo bisogno come Tommaso di toccare il Signore, di sentirlo, di sperimentarlo. Abbiamo bisogno di rendere più forte la nostra relazione, abbiamo bisogno che qualcosa di Lui entri in noi, colpisca il nostro cuore, lo disseti, lo appaghi. Come succede in tante persone umili che quando escono dalla chiesa non sanno dire cosa esattamente abbiano vissuto lì dentro, ma dicono: “Sono stato bene! Mi sono sentito a casa mia! Mi sono sentito libero, consolato, incoraggiato, accolto. Sì, l’ho incontrato. Mi sono commosso!”. Sono espressioni semplici, che ci fanno però capire che qualcosa di soprannaturale è realmente accaduto in loro. L’incontro è avvenuto!
Ogni volta che andiamo a messa, dobbiamo mostrare al Signore le nostre mani ferite: sono la parte del corpo che ogni giorno usiamo di più: per scrivere, per lavorare, per pulire, per accarezzare, per guidare, per fare qualunque cosa, noi usiamo le mani. Mostriamo dunque a Dio le nostre ferite quotidiane, i pensieri che ci turbano, le idee ossessive, le paure, i litigi, le incomprensioni, le relazioni stanche, il panico che ci assale, i giudizi della gente; e nel silenzio del nostro cuore ascoltiamo le sue parole: “Pace! Non aver paura; io sono con te; sta’ tranquillo”.
È di questo che noi abbiamo bisogno; ci servono parole come queste; parole che ridiano pace e fiducia al nostro cuore ferito. Abbiamo bisogno di disintossicarci dal male, dall’odio, dal dolore; abbiamo bisogno di riempirci di fiducia, di amore, per poter ogni volta rialzarci e ripartire. Abbiamo bisogno di sentirci dire che ce la possiamo fare, che possiamo vivere, che la nostra dignità, nonostante noi, non è distrutta. Ogni otto giorni, ogni domenica, andiamo dunque in chiesa, a fare esperienza del Signore Risorto. Andiamo ad incontrarlo. Perché una vita senza di Lui non è vita! Amen.



venerdì 14 aprile 2017

16 Aprile 2017 – Pasqua: Risurrezione del Signore

«Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (Gv 20,1-9).

Oggi celebriamo la Pasqua, il giorno della Risurrezione del Signore: “haec est dies quam fecit Dominus, exultemus et laetemur in ea”: questo è il giorno fatto dal Signore, esultiamo e rallegriamoci; rallegriamoci perché in questo giorno Dio ha “ricreato” il mondo e l’umanità.
Dio, nella fedeltà al Suo Amore per noi, non si è mai rassegnato al crollo del suo capolavoro, non è rimasto indifferente alla distruzione da parte dell’uomo di quel rapporto che lui aveva creato con tanto amore. Oggi Dio fa “tabula rasa” del passato, riparte da zero, ripristina ex novo il creato. Questa volta non in prima persona, direttamente, ma tramite il suo Figlio Gesù, quello stesso Verbo presente con Lui fin dal “principio”, che si è “incarnato”, è diventato “creatura”, per consentire appunto alle creature di tornare ad essere l’originale immagine del Padre. È la vita nuova in Cristo. È la sua nuova creazione. Grazie a Lui, alla Pasqua del risorto, il mondo, le creature, l’intera creazione, si sono finalmente riconciliati col Padre. L'uomo, ha potuto riprendere il dialogo interrotto con il suo Dio, ha potuto finalmente ritrovare il vero, autentico senso della vita, della sua esistenza.
Ma Cristo non si è fermato al passato: non si è limitato a risorgere allora, continua ogni giorno, ogni ora, a risorgere in noi, è il “Risorgente”, è colui che con la sua vittoria sulla morte, continua a far cadere quei massi che ostruiscono ancora l'imboccatura del nostro cuore. La Pasqua del Cristo è per noi energia che ascende, embrione di vita nuova, risveglio dal nostro dormire, ascesa in alto.
Pasqua insomma è la festa dei macigni che rotolano via dal nostro cuore, aprendoci ad una primavera di rapporti e di vita nuova.
Ma andando nello specifico, nel concreto, cosa significa questa “risurrezione” per la nostra vita di tutti i giorni? È un’esperienza che potremo fare solo dopo la morte? Quando e come possiamo viverla? Quali le istruzioni, i messaggi, i consigli che possiamo trarre dal vangelo di oggi?”.
Leggiamolo con attenzione. Ciò che attira subito la nostra attenzione sono i tre protagonisti in azione: Pietro, Giovanni, il discepolo che “Gesù amava” e Maria Maddalena. Tutti e tre, la domenica di buon mattino, vanno al sepolcro: Maddalena per prima, da sola, gli altri, subito dopo il ritorno trafelato della donna: la riaccompagnano per appurare se la sparizione del corpo di Gesù sia realmente avvenuta.
E qui abbiamo il primo messaggio: per verificare la nostra risurrezione è necessario prima di tutto “andare”, entrare nel sepolcro, dobbiamo cioè scendere materialmente in noi, raggiungere la nostra “tomba”. Dobbiamo vincere quell’innato sgomento che proviamo nel confrontarci con i grandi misteri della vita: con la morte, la fine di ogni cosa, la rottura di ogni nostro equilibrio, il buio totale che ci avvolge: dobbiamo esorcizzare queste umane realtà, entrare di forza in, e solo allora potremo cogliere la luce della nostra “risurrezione”. Ma dobbiamo fare i conti, con quella “pietra” enorme, con quel pesante macigno, che ci ostruisce l’entrata: è la nostra arroganza, è l’orgoglio atavico che ci frena, che blocca in noi i ripetuti tentativi di rinnovamento, di rinascita interiore, di risurrezione: “Adesso cosa faccio? Quella pietra è per me troppo pesante, ingombrante, inamovibile: non ce la farò mai!”. Quante volte ci arrendiamo di fronte alle prime difficoltà, quante volte ci rassegniamo a cadere miseramente, senza opporre alcuna resistenza, senza neppure tentare qualche manovra di riscatto. È vero: siamo dei rinunciatari, siamo dei perdenti. Amiamo cullarci beatamente nella nostra apatia. Ma se vogliamo liberare, dare un seguito alla nostra risurrezione, dobbiamo prima di tutto rimuovere l’ostacolo che vanifica ogni nostra aspirazione: quell’orgoglio, quella paura di rivelare a noi stessi e agli altri le nostre deficienze, la nostra misera entità; dobbiamo cioè spogliarci del nostro falso perbenismo, della nostra ipocrisia, ed avere il coraggio di rendere pubbliche le nostre fragilità, le nostre debolezze, le sofferenze che ci tormentano l’anima, le prepotenze, le violenze, le cattiverie, le umiliazioni, che abbiamo fatto o subito nella solitudine, nel silenzio, nel pianto. Dobbiamo insomma rimuovere la “pietra” dei nostri segreti, spesso inconfessabili; la “pietra” del non riuscire mai a lasciarci andare, a godere, ad essere felici, ad abbandonarci nelle mani di Dio; la “pietra” del sentirci vuoti, del non-riuscire a dare un senso alla nostra vita; la “pietra” del terrore della morte, della solitudine, delle sofferenze.
Penso che tutti abbiamo una “pietra” così: una pietra che deve “rotolare via” per consentirci la nostra risurrezione. Per questo è necessario andare al sepolcro, perché è lì soltanto che potremo liberarci del nostro “sudario” e risplendere di luce nuova, di immedesimarci nella risurrezione di Cristo. Dobbiamo avere il coraggio e la volontà di andare nel luogo della morte: perché solo così potremo trovare la Vita.
Ma proseguiamo nella nostra lettura. Appena La Maddalena annuncia ai discepoli la scomparsa del corpo di Gesù, Pietro e Giovanni corrono immediatamente al sepolcro: Giovanni, più giovane, corre più veloce ed arriva per primo: ma, una volta giunto, aspetta che sopraggiunga anche Pietro, più anziano e quindi più lento. E qui Giovanni evidenzia nel loro comportamento alcune sottili diversità, che meritano la nostra attenzione: entrambi dunque corrono al sepolcro: ma solo Giovanni, prima di entrare, si china verso l’interno, guarda, e intuisce qualcosa; Pietro al contrario entra deciso all’interno, e osserva distrattamente solo gli oggetti: “i teli posati là e il sudario”. Ora, inchinarsi, indica l’atteggiamento di umiltà di chi è disposto a mettere da parte, ad abbandonare le proprie idee, i propri ragionamenti, i propri schemi; Giovanni, di fronte a ciò che vede, è disponibile a lasciarsi plasmare, a mettersi in gioco, a cambiare mentalità. Anche Giovanni inizialmente si era detto: “È finito tutto!”. Ma di fronte a ciò che vede, si ricrede: “Non è vero, non tutto è finito!”. Al contrario Pietro, testa dura, non si china: e per questa sua mancanza di umile disponibilità, non percepisce alcunché di speciale.
Ecco perché nella vita è necessario “inchinarsi”; dobbiamo cioè inginocchiarci, dobbiamo accettare di cambiare, dobbiamo ammettere di aver sbagliato. Perché se siamo noi a decidere di non cambiare, nulla mai cambierà: se siamo ostinati come Pietro, non percepiremo mai nulla, rimarremo sempre chiusi nelle nostre convinzioni!
Entrambi si fanno una bella corsa: ecco, questo è un particolare fondamentale, decisivo. Se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se ci paralizziamo nella convinzione che non c’è più niente da fare, che la vita non ha più senso, allora nulla è più possibile. Se non ci muoviamo dalle nostre fissazioni, se rifiutiamo di provare, di metterci in gioco, allora abbiamo già fallito in partenza!
Pietro e Giovanni rappresentano due modi diversi di accostarci alla Vita e alla fede: quello della razionalità e quello del sentimento. Li possiamo individuare dai loro stessi nomi: Pietro, “Cefa”, significa infatti duro, ostinato, “una testa di pietra”; nel vangelo è colui che è solo ragionamento, calcolo, raziocinio; uno che vuol fare sempre di testa sua, con la forza dei suoi principi. Giovanni, che nel suo vangelo si identifica come “colui che Gesù amava”, è invece mosso sempre dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento; è la parte emotiva, l’interiorità, è colui che segue sempre le vibrazioni del suo cuore. Ma se da un lato la mente, il raziocinio, ci servono per capire, per spiegare, per interpretare il centro della vita, dall’altro, l’organo propulsore è il cuore, è l’anima; l’amore, la vitalità, lo stupore, la fede, la conoscenza di Dio, infatti, si percepiscono, si “sentono” cioè dall’intuizione, dalla spiritualità, non dalla razionalità, dalla materialità. Per “vivere” abbiamo bisogno del cuore, dell’anima; la mente, la ragione, si limitano a spiegarne il perché. Dio, resurrezione, fede, Vita, sono tutte realtà di cui inebriarsi, appassionarsi, innamorarsi.
Chi guarda alla vita con la ragione, con l’intransigenza e il raziocinio di Pietro, non ne percepirà l’intera potenzialità, non vedrà in essa nulla di speciale. Scoprirà tante cose interessanti, è vero, che però non riusciranno mai a provocare in lui emozioni intime. Chi invece la guarda con il sentimento, con il cuore, con l’anima di Giovanni, ne avvertirà immediatamente tutto l’amore, l’interiorità, la dolcezza.
Quando parliamo con chi ci sta a cuore, con una persona che amiamo, impariamo allora a guardarla bene negli occhi, entriamole dentro: prestiamo attenzione non tanto a quel che dice ma alle vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua gioia, il suo amore, il suo slancio, la sua meraviglia, la sua tristezza. Quando abbracciamo una persona che amiamo, “sentiamola”, percepiamola: chiudiamo gli occhi, e riconosciamola attraverso i sensi, dall’odore della sua pelle, dal profumo del suo corpo, dal tono della sua voce. Così pure quando siamo felici e cantiamo, ascoltiamo la nostra voce, lasciamo che dentro di noi si sprigionino le emozioni più profonde, quelle che fanno vibrare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte le nostre preoccupazioni materiali, ascoltiamo il battito del nostro cuore: è così che percepiremo forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi, di Qualcuno con cui parlare, con cui confrontarci, con cui aprirci, a cui affidarci. Facciamolo ogni tanto: fermiamoci e ascoltiamoci dentro. Magari all’inizio sentiremo nella nostra anima solo lo strepitare di demoni e mostri: momenti brutti della vita, situazioni tragiche, scelte errate, cadute dolorose, che emergeranno prepotentemente dal passato. Ma se avremo pazienza, con calma, con umiltà, con abbandono fiducioso, scopriremo dentro di noi lo Spirito, la sorgente inesauribile della Vita, lo splendore abbagliante della Luce, il calore avvolgente dell’Amore; scopriremo allora che sì, uscire dal gelo della morte, dalla tirannia del male, è possibile; e scopriremo felici che quella è la nostra Pasqua, che quella è la nostra risurrezione.
Infine, anche il personaggio di Maria Maddalena, ci offre spunti di meditazione; suggerimenti che meritano tutta la nostra attenzione.
Maria, come ce la presenta Giovanni, è una donna che ha amato follemente Gesù: lo ha amato in maniera forte, passionale, viscerale. Gesù le aveva ridato la vita, liberandola da sette demoni, e lei in cambio gli aveva donato tutta se stessa. Quella mattina, andando al sepolcro, si rende conto che “il suo amore” non c’è più, è morto, se n’è andato. Sente in maniera straziante la sua assenza, le mancano le sue parole, il suo sguardo, lo stare insieme, il suo punto di riferimento. Maria piange, esprime tutto il suo strazio ai due discepoli: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. È un urlo disperato, lancinante, il suo: è sconvolta, le hanno rubato anche il corpo della persona più cara che aveva.
C’è da capirla: anche noi, quando la morte ci strappa un nostro famigliare, un nostro figlio, qualcuno che amiamo profondamente, sentiamo dentro il cuore uno strappo violento, una lacerazione, una frattura tremenda; la vita si è fermata, non è più come prima. C’è però in lei un grosso handicap: che considerava Gesù come sua proprietà esclusiva: Gesù era “suo”, era il “suo” Signore, punto. Dipendeva da Lui in tutto; continuare a vivere senza di Lui, non avrebbe avuto più alcun senso.
È un handicap molto comune quello di considerare i nostri cari come se ci appartenessero, come se la loro vita fosse una nostra “esclusiva”. Ma nessuno è “nostro”, nessuno ci appartiene. Si tratta di una valutazione errata, cui dobbiamo porre rimedio. È giusto e doveroso amare i nostri cari: ammiriamoli, siamone orgogliosi, ma non soffochiamoli con le nostre gelosie, con le nostre eccessive attenzioni. Guardiamoli, viviamo con loro, ma non possediamoli. Guardiamoli, riserviamo loro tutto il nostro amore, senza pretendere in cambio nulla “di magico”. Guardiamoli e condividiamo tutto con loro, ma non fagocitiamo la loro vita. Guardiamoli e uniamoci profondamente a loro, ma senza succhiare la loro identità. Guardiamoli, cantiamo con loro, facciamo festa, esultiamo per i loro successi: ma non dimentichiamo mai che nella vita ognuno ha la sua strada: e quella che dobbiamo percorrere noi è decisamente diversa dalla loro.
Giovanni oggi ci fa capire che rimanere troppo legati alle persone, al passato, a ciò che è stato, equivale morire, significa “morte”, significa “immobilismo”, significa rinunciare ad andare avanti. Se ci fermiamo a guardare indietro, è chiaro che non andremo mai avanti. E allora, non attacchiamoci a nulla: non alle persone, non alle cose, non ai nostri problemi, non ai nostri crucci: anche se siamo arrabbiati per la perdita di una persona cara, per aver perso il lavoro; se ci brucia l’essere stati offesi in pubblico, se ci sentiamo umiliati per essere stati definiti degli incapaci dai nostri superiori, se ci sentiamo dimenticati perché le nostre richieste vengono accantonate, non tratteniamo nulla: perdoniamo, lasciamo andare, non rimaniamo schiavi del passato, di ciò che non c’è più, di ciò che non possiamo cambiare: perché ciò che è stato, è stato; ciò che è successo, è successo! Viviamo da uomini liberi, non facciamoci imprigionare dai legami mortali, passeggeri; viviamo e lasciamoci sedurre solo da ciò che è eterno: siamo figli della Vita, stiamo con la Vita, viviamo la Vita.
Così pure: la morte ci strappa una persona cara? Non disperiamoci, lasciamo correre: che non vuol dire rimanere apatici, dimostrare disinteresse, indifferenza: è certamente giusto piangere il nostro lutto, ma mettiamoci con umiltà nelle mani di Dio, accettiamo la sua volontà, lasciamo che il dolore, l’angoscia, la sofferenza, la disperazione facciano il loro corso, impariamo giorno dopo giorno a vivere nello Spirito, il Consolatore per eccellenza: e avvertiremo chiaramente la presenza dentro di noi di chi ci ha lasciati. Perché la morte in Cristo diventa vita!
Ci accorgiamo di essere interiormente vuoti, insoddisfatti, delusi? I nostri ideali, le nostre scelte di vita, fatte una volta con tanto entusiasmo, si sono rivelate fallimentari? Ci sentiamo soffocare dall’incalzare degli eventi? Non abbiamo saputo mettere nelle mani di Dio la perdita di quello che avevamo di più caro? Apriamo la finestra della nostra anima, liberiamoci di tutto ciò che materialmente ancora ci turba, ci crea malessere: se vogliamo “vivere” dobbiamo affrontare la morte, il distacco da tutto quanto in noi è temporaneo, transitorio, effimero. La vita non è sufficientemente vita, se non siamo disponibili a queste perdite, a questi tagli, a queste separazioni. È la grande verità della Pasqua: per risorgere, dobbiamo prima accettare di morire a noi stessi, al nostro egoismo, al nostro orgoglio, al nostro mondo. È sradicando il nostro cuore “malato” che torneremo a vivere. All’inizio sarà dura; ma poi torneremo a sentire nuovamente la bellezza e il sapore della vera Vita. È questa la nostra risurrezione. Amen.



giovedì 6 aprile 2017

9 Aprile 2017 – Domenica delle Palme e della Passione di Gesù

«Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso» (Mt 26,14-27,66.

La Passione di Gesù è la storia di un uomo perdutamente innamorato di Dio e degli uomini. Talmente innamorato, da accettare la morte come estrema conseguenza. Gesù era innamorato dell’uomo, perché vi trovava lui l’espressione più profonda dell’amore di Dio.
Un amore, una compassione, che ritroviamo nel suo animo quando proclama le Beatitudini: è in esse che egli rivela lo stupore di fronte agli uccelli del cielo e ai gigli del campo; è qui che emerge la sua pietà verso i malati, la sua tenerezza nei confronti delle madri e dei padri che hanno perso i loro figli, il suo ardore contro i farisei e gli scribi ipocriti, la violenza con cui scaccia i venditori dal tempio di Gerusalemme.
Nel racconto della Passione questo amore e questa passione sono la forza, la scelta di percorrere fino in fondo il suo cammino nella fedeltà al suo cuore, alla sua anima e al suo Dio. Tutta la sua vita è stata vissuta con passione, con intensità, amando, piangendo, commovendosi, non passando indifferente vicino a niente, infuocato ora dall’amore e ora dallo sdegno. Una vita vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare guardando fiducioso al suo Dio. Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo e per tutto ciò che vive, e soprattutto alla sua unica e vera passione: Dio.
È in lui, nel racconto della sua passione, che possiamo anche noi ottenere la forza per compiere il nostro viaggio, fino in fondo, per vivere con impegno la nostra vita. In tutti i personaggi che incontreremo, possiamo specchiarci per capire come noi in concreto viviamo la vita di ogni giorno, con quali atteggiamenti interiori, con quale fiducia o paura. In essi possiamo rivederci e ritrovarci, possiamo capire meglio, più in profondità, la nostra vita, perché altro non sono che delle icone profonde che vivono in ogni uomo, in ciascuno di noi.
Seguiamo il racconto di Matteo, così come ci viene proposto oggi dalla liturgia:
“Tennero consiglio per arrestare Gesù” (26,4).
È la premessa: sacerdoti e scribi decidono di ucciderlo: il loro è un piano segreto, nessuno deve conoscerlo; è un progetto che deve essere attuato nel più stretto riserbo. Il male infatti ama nascondersi, ama mimetizzarsi, ama l’inganno, la finzione. Il male si insinua pericolosamente nella nostra vita e nel mondo, e noi non ce ne accorgiamo. Il male manipola le notizie, gestisce le informazioni, falsifica la realtà e nessuno più ci fa caso, nessuno se ne accorge; è un fenomeno che non interessa più a nessuno. Il Figlio di Dio è stato condannato e ucciso come un truffatore, tutto su di lui è stato pianificato, costruito con menzogne e falsità. È successo tanti secoli fa, ma continua a succedere. E oggi siamo noi, gli eruditi, i colti, i grandi affabulatori, che travolti dalla nostra bieca ignoranza, non ci rendiamo conto che la piaga malefica della infedeltà, della miscredenza, della falsità, dell’egoismo, che ormai ha già infettato clero e fedeli, ha dichiarato una guerra senza quartiere contro l’intera comunità cristiana, intossicando, soffocando subdolamente, ma mortalmente, la fede vera e cristallina della Chiesa.
“Uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento” (Mt 26,14).
Come è possibile che uno di quelli che seguono Gesù, che lo amano, arrivi a tradirlo? Come è possibile che uno di quelli che per Lui hanno lasciato tutto, lo consegni in mano ai nemici? Rimane un mistero. Eppure, cosa si arriva a fare per denaro! Quanto pochi sono quelli che non si vendono! Per denaro arriviamo a svendere ciò che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante, il nostro cuore, la nostra anima, il nostro tempo, l’affetto dei nostri cari. E quando abbiamo perso tutto per quattro soldi, cosa ci rimane? Finire come Giuda, che disperato s’impicca. Il denaro è un’illusione affascinante che quando ci accorgiamo che, pensando di aver tutto, di poter tutto, in realtà, non abbiamo nulla, ci conduce alla disperazione: non abbiamo amato, non abbiamo vissuto, abbiamo solo inseguito un’illusione, un’apparenza, un sogno. È la nostra morte.
“Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua? (Mt 26,17)
Gesù, come ogni buon ebreo, ogni anno celebra la Pasqua. Tutto si svolge secondo lo schema solito, rituale. Da tanti anni, fin da quando erano bambini i Dodici avevano celebrato così la “Pasqua”, il passaggio del Mar Rosso, la liberazione dalla schiavitù. Ma adesso Gesù aggiunge alla preghiera due frasi: “Prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue, il sangue versato per molti per il perdono dei peccati”. Gesù si chiede il senso della sua vita, di ciò che ha detto e di ciò che ha fatto. Tutto sembra crollare, svanire, dissuadersi. Cosa rimane? Che senso ha la sua vita? Gesù si identifica nel popolo ebreo: lui è solo, reietto e perseguitato come il popolo ebreo in Egitto. Lui è pieno di angoscia per quel passaggio. Gli sembra che tutto sia finito, che il mare della morte sia invalicabile, come il Mar Rosso per gli ebrei. Lui è quell’uomo che vaga nel deserto, tra pericoli, serpenti, nemici, e che crede in una terra promessa che Lui chiama “regno di Dio”. Lui è quel Mosè che celebra la Pasqua. Lui è quel Mosè che invita gli uomini a credere in un regno davvero diverso, nuovo, inaspettato, e che per questo si prende tutto l’odio e la rabbia degli uomini. Ma adesso con l’immagine del pane e del vino, Gesù fa della sua vita un dono. Gesù dice: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato. Sono io quel vino che viene versato. La mia fedeltà mi sta portando verso questa estrema conseguenza della mia vita. Ma se deve succedere così, perché non può compiersi come il morire del grano del campo, come il morire dell’uva sui colli, che nella morte ringiovaniscono e nel morire risorgono? Desidero che la mia vita sia come il grano, che si dona e diventa alimento, vita, per molte persone. Desidero che dal mio morire, che dal mio andare fino in fondo, altri gustino la vita. Desidero che la passione della mia vita, il vibrare del mio cuore, il fluire del mio sangue, siano ebbrezza, gusto, fuoco per altre persone. Vorrei essere per tutti voi un po’ di pane e un po’ di vino. Vorrei che la mia vita, che sta per finire, diventasse per voi e per il mondo alimento, vita, sapore, gusto, senso e felicità”.
Cosa poteva donarci di più Gesù? Gesù non ci ha donato solo delle belle parole, dei bei miracoli, dei bei discorsi. Gesù si è donato lui stesso a noi. Questo è il vertice della vita. L’amore è donarsi. L’amore vuole darsi e darsi del tutto, fino alla fine, completamente. La vita che c’è in noi vuole darsi fino a viversi tutta. In ogni eucaristia noi celebriamo questo: l’eucaristia è un amore donato. E in ogni amore donato noi celebriamo un’eucarestia.
“Pietro gli disse: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai. Gli disse Gesù: In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte” (Mt 26,33-34).
A Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo poteva cantare perché era proibito dai rabbini tenerli. Forse, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il punto! Pietro è Cèfa, la roccia; è l’uomo che ostenta sicurezza; è l’uomo istintivo, d’azione, un uomo che, dice lui, non ha paura. Ma non è che Pietro non abbia paura; Pietro non la sente, la reprime, la ignora. Pietro rappresenta la nostra rettitudine morale, religiosa, il nostro credere di essere fedeli, la nostra esuberanza che ci fa dire: “Queste cose non potranno mai capitare a me!”. Pietro rappresenta la banalità con cui la gente si conosce, un idealismo e una superficialità che si dissolve di fronte alla vita. Gesù perdona Pietro prima ancora che lo tradisca. Come a dire: “Pietro non presumere troppo da te. Sii cosciente di ciò che sei. Sii cosciente che i tuoi alti ideali non sono radicati nella tua anima”. Dio non ci chiede di essere perfetti; ci chiede solo di essere umani, consapevoli di ciò che abbiamo dentro, dei nostri sentimenti, delle nostre paure e delle nostre fragilità. Perché ogni volta che presumiamo di noi allora, anche noi, spinti dalle nostre paure inconsce lo tradiremo. E non ci accorgeremo dei nostri tradimenti!
Pietro di fronte al pericolo si defila. Egli, come primo papa, rappresenta la chiesa, noi cristiani. Finché le cose vanno bene, tutto è facile, seguire Gesù è un piacere. Finché predicava, finché guariva, erano in tanti a seguirlo. Qualche giorno prima era entrato a Gerusalemme tra canti, palme e ulivi. Ma adesso? Quando c’è da mettersi in gioco, da mettere in gioco quello che siamo, da cambiare, da convertirci, da trasformarci, quando c’è il pericolo delle proprie scelte, allora la chiesa rischia di agire come Pietro: rinnegare la verità, far finta di niente, tradire la strada giusta. Quante volte imprechiamo, spergiuriamo, quante volte ci difendiamo con tutte le forze e ci ribelliamo, quando seguire Gesù è pericoloso, è compromettente, è doloroso, è controcorrente! Quando Gesù ci chiama a testimoniare di persona, con la nostra vita, allora è troppo facile tirarsi indietro! È troppo facile nascondersi dietro le parole, campare delle scuse! E il gallo? Il gallo è la voce della coscienza che richiama Pietro: una, due, tre volte. È la voce della coscienza che ci urla: “Come fai a nasconderti, a tirarti indietro, a rinnegarlo per paura? Che uomo sei? Sei un vigliacco! E ancora: “Sii fedele a te stesso, al tuo cuore, alla tua vita!”.
“Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Mt 26,39).
Con queste parole Gesù affronta la sua sofferenza. Non gli sarà tolta: niente esternamente cambierà. Ma tutto sarà diverso, perché adesso c’è una preghiera, un senso su ciò che sta per accadere. Gesù avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Gesù non viene descritto come lontano da Dio, senza la fiducia in suo Padre. Anzi, Gesù lo prega. C’è molta comunicazione tra lui e suo Padre. Matteo descrive la paura di Gesù, che è terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere. È l’angoscia di finire nel nulla. È l’angoscia della lotta per la vita. È l’angoscia per un supplizio che gli si prospetta terribile, l’angoscia per sentirsi tradito, la paura del fallimento. Gesù continua ad essere in comunicazione con Dio, ma dall’altra parte tutte le paure, tutti i mostri interiori si materializzano.
Da questo momento, per vivere come Gesù, ci dovremo confrontare con la paura della morte, della fine, del fallimento. Chi ha paura di morire ha paura di vivere. Per vivere bisogna aver guardato in faccia la paura della morte, esserci entrati dentro, averla affrontata e aver trovato ancoraggi più profondi.
“Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati” (Mt 26,40).
In queste parole c’è tutta la solitudine di Gesù. Nessuno dei suoi amici, neppure i più intimi, riescono a stargli vicino. Dormono. Cioè, non capiscono, non colgono l’importanza, il dramma, lo sgomento di quanto Gesù prova nel suo intimo più profondo. Vivono in superficie, non si accorgono di ciò che sta accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, sono così presi dalle loro cose, che non “vedono” la tragedia che sta per compiersi. Come si fa a dormire, ad essere tranquilli in momenti simili? Bisogna proprio essere completamente assenti! Gesù, quasi umilmente, chiede loro: “State con me; ho paura, so che non potete far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono. Gesù si accorge che non può contare su nessuno. È solo. Tutti lo hanno abbandonato o dormono. Nessuno gli è vicino; nessuno lo capisce; nessuno lo consola. Eppure un giorno Gesù si “manifesterà” a questi suoi amici che lo stanno tradendo; si consegnerà a loro, non smetterà mai di credere nella loro bontà, nella possibilità di fare il bene, di vivere la verità, la libertà. Gesù ha fiducia in questi suoi amici. L’uomo, nel profondo, è buono; l’uomo nel profondo ama la verità, la libertà, la vita. E se può vincere le sue paure e la sua angoscia, vivrà senza tradire la sua vita. Gesù “vede” tutto questo: adesso lo tradiscono, ma lui vede “oltre”, più in profondità.
“Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo” (Mt 26,47)
Osserviamo semplicemente come si scagliano contro Gesù. Va da lui “una folla con bastoni e spade”. Giuda, uno degli apostoli, lo bacia e lo tradisce, chiamandolo “Rabbì, maestro”. Gli mettono “le mani addosso e lo arrestano”. Tutti i suoi lo abbandonano, fuggono.
È l’infamia, è il giudizio della folla, della gente; del detto per sentito dire; di chi attacca per cose riportate da altri; del “perché sembra”, del “perché qualcuno ha detto”. È l’infamia di chi ferisce e bastona senza motivo. È la falsità di chi ci sembra amico. Di chi ci bacia (certi baci sono proprio come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa, e poi ci pugnala alle spalle. È la meschinità di quanti nel pericolo si defila, se ne va: “Si arrangi, non sono affari miei”.
“I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la trovarono… (Mt 26,59-60).
I capi del sinedrio e i sacerdoti cercano, e non li trovano, motivi per metterlo a morte. Molti riportano testimonianze contro di lui, ma sono così false e distorte dalla verità, che non concordano. Alla fine trovano qualcosa, un futile motivo, un “si dice”, per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio, la rabbia, scoppia, esplode in una aggressività che giudica, che vuole colpire, ferire, punire. Non importa chi abbiamo di fronte; non importa cosa abbia detto o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia allora dobbiamo trovare qualcuno da infangare con il nostro male. Allora non esiste più l’altro nella sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo l’odio che esplode, che giudica, che uccide. Quante persone insultano, schiaffeggiano, sputano addosso agli altri tutto il loro male profondo. Non si accorgono che quel male non appartiene agli altri, non sono gli altri gli artefici, ma soltanto loro stessi: è il loro male, il loro negativo, il loro marcio. Combattono e condannano negli altri quello che è il loro male. E così facendo, continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa verità.
“Gesù intanto comparve davanti al governatore [Pilato]” (Mt 27,11)
Gesù è stato giustiziato dai Romani. Ma quale ruolo hanno avuto nella morte di Gesù? Difficile dire quanto Pilato abbia realmente influito. Egli comprende molto bene la forza, la rettitudine, la profondità dell’Uomo che ha davanti, come pure l’inganno odioso che sinedrio e sacerdoti del tempio stanno per tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui gliel’hanno consegnato. Potrebbe lasciarlo andare. Lui potrebbe farlo. È lui che può decidere per la vita o per la morte di Gesù. Fa pure un debole tentativo: “Volete che vi rilasci il re dei Giudei?”. Ma conosce già la risposta: altrimenti perché glielo avrebbero consegnato?
A questo punto cerca di placare la sua coscienza: “Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!. Ho fatto tutto quello che potevo, di più non posso fare!”. Prendere le difese di Gesù per lui non è una decisione politicamente sensata. Equivarrebbe mettersi contro le autorità e la gente, e questa non è una soluzione saggia. Unica alternativa è accontentarli. E lo fa. Del resto, la cosa che più gli sta a cuore è il potere, aver meno problemi possibili, e soprattutto non compromettere i rapporti politici già difficili. Pilato sembra comandare, essere il potente, e invece è intrappolato nel gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del rimanere al potere. Sembra comandare, sembra essere il re, e invece Matteo ce lo rappresenta come un incapace, uno che non può agire autonomamente. Al contrario il vero re è Gesù: è Lui l’uomo libero dalla paura della morte, del giudizio, dell’apparire. Pilato, invece, non può deludere Roma; non può manifestare il suo dissenso; non ha il coraggio di prendere una posizione chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo che si omologa immediatamente assecondando tutti, andando dove vanno tutti. E si crede il re. Si crede il governatore, crede di avere il potere. Ma quale potere?
“Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra…” (Mt 27,28-29).
Gesù non solo è condannato, torturato, flagellato, ma è anche umiliato, deriso e svergognato. Cosa si poteva fargli ancora? Lo rivestono di porpora, gli mettono una corona di spine per dirgli: “Oh, guarda il re d’Israele; non sei il figlio di Dio? Dì a tuo Padre che venga ad aiutarti”. Lo percuotono, gli sputano addosso, si inchinano e lo prendono in giro. Poi lo conducono sulla via della croce. Ma cosa è davvero più orribile: stare là nudi, esposti, essere sputati, frustati come un cane, picchiati, esposti al ludibrio di tutti come uno zimbello, oppure è più terribile comportarsi da torturatori, vivere una vita falsa, una vita di illusioni, sotto la spinta dell’angoscia, della dipendenza, della paura? È più terribile soffrire ingiustamente o vivere e continuare a “sputare” giudizi crudeli, rovinare tutto il nostro male addosso agli altri? È più terribile vivere una vita autentica anche se conquistata nel dolore e nella sofferenza o lasciarsi vivere, vivere una vita senza senso, nella difensiva, nella paura? È più terribile osare, rischiare di perdere la vita, ma vivere, oppure non vivere mai per paura di perderla?
“Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito” (Mt 27,50).
Guardiamo la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno anche noi, di stare lì vicino per entrare nel suo mistero. Qual’e il senso della croce, della crocefissione e della morte di Gesù?
Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte le speranze di chi aveva lottato con lui, di chi aveva coltivato il desiderio e l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero, per se stesso e per questo mondo. Cos’avranno vissuto le persone che Gesù aveva guarito? Cos’avrà vissuto la Maddalena, Zaccheo, i sordi che tornavo a sentire, i muti che tornavano a parlare, i ciechi che tornavano a vedere, i morti che tornavano a vivere? Cos’avranno vissuto, cos’avranno provato nel vedere colui che aveva loro dato la vita, è ora appeso, attaccato, come il peggiore dei farabutti, ad una croce? Sapere che quell’uomo è veramente Dio, che quell’uomo è venuto in nome della verità, che quell’uomo parla perché ispirato da Dio, e vederlo in croce: cosa si prova? Dove finiscono tutte le nostre sicurezze? Cosa si può provare nel vedere chi si ama appeso ad una croce?
Di chi è la colpa della morte di Gesù? Di nessuno, è chiaro! Tutti avevano buoni motivi: Caifa, la necessità storica; Pilato la ragion politica; Pietro, la sua sopravvivenza; i sadducei, la legge; i farisei, la religione; le persone rispettabili, la morale; i soldati, l’obbedienza. Ognuno aveva i suoi validi motivi, ma erano sufficienti? O non era un tentativo di tranquillizzare la propria coscienza? Di lavarsene la mani?
La croce è l’abbandono totale di Gesù nelle mani del Padre e della vita. Quando, cioè, viviamo l’esperienza dell’impotenza, del non poter fare più nulla per noi, dell’affidarci a Qualcosa o a Qualcuno. Viene un momento in cui più niente, né noi, né altri, possiamo agire. Allora dobbiamo solo lasciarci andare, fidarci, rimetterci. È quando più niente è sicuro ma tutto vacilla: la vita, la fede, l’esistenza stessa di Dio. Smettiamo di voler capire, di voler sapere, di trovare ragioni o giustificazioni, e semplicemente ci abbandoniamo.
La croce è lo scontro fra due religioni: quella di Gesù è quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la religione della forma, della maschera, in cui contano i grandi numeri, l’istituzione, l’ordinamento, l’obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone, se le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto ossequioso alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita; dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso, prostituta o pagano che fosse, perché tutti per lui erano figli dell’unico Padre. Gesù non faceva molti sacrifici, non digiunava, non si comportava scrupolosamente rispetto alle regole. Era molto libero, mangiava e banchettava spesso, faceva festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva che il vero sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era “fare qualcosa”, ma fare della propria vita “qualcosa di vero”, di importante e di significativo. Non reprimeva l’amore, il contatto con le donne, gesti equivoci come le donne che lo accarezzavano, che lo baciavano. Gesù piangeva. Gesù si arrabbiava. Come era dentro, così era fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva. Talvolta era così felice da toccare il cielo e da trasfigurarsi. Altre volte piangeva per l’incomprensione o perché non sentiva i suoi amici appoggiarlo o capirlo. Gesù non voleva che nessun uomo si reprimesse o vivesse la sua vita al di sotto delle sue possibilità. Gesù voleva e diceva a tutti che molti mali possono essere guariti, che tante infermità del cuore e dell’anima possono essere risanate, perché noi viviamo e siamo fatti per la felicità profonda e vera. Gesù voleva che fossimo umani; che non c’è niente di ciò che viviamo che sia indegno agli occhi di Dio, da nascondersi; che davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere.
Questa è la religione di Gesù. È questa religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, mai distrutta. Infatti, non solo Gesù è risorto, ma con lui anche la sua religione. E quando il venerdì santo andremo a baciare la croce, andremo a baciare questa religione, cioè, la religione di Gesù, la religione della vita, dell’amore, della verità. Andremo a baciare la croce perché, nonostante tutto, la religione di Gesù non è stata sconfitta: Dio, risorgendo suo Figlio, ha dimostrato che questa è l’unica e vera religione. Ciò che viene da Dio non può morire. Può essere perseguitato, ucciso, deriso, umiliato, annientato, ma non può morire. Dio è l’unica realtà. Chi si affida a Lui, non muore mai.
“Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo”. (Mt 27,55)
Sotto la croce ci sono anche delle donne che guardano da lontano: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Come mai ci sono solo queste poche donne a stare con Gesù? Gli uomini dove sono? Dove sono gli apostoli, i suoi amici più fedeli? È un caso che le prime testimoni della resurrezione, in tutti i vangeli, siano delle donne? Non è forse un messaggio molto forte per noi uomini? È la donna, la parte femminile di ogni persona, che può cogliere, che può comprendere a fondo la resurrezione. Chi non conosce la tenerezza, l’amore, l’affetto, lo stupore, il pianto, i sentimenti, la disperazione, il dolore, l’impotenza, la paura, non può “vedere” nessun Gesù. Solo chi conosce la vita, chi la vive, chi la sente, come una madre; solo chi conosce quanto sia doloroso partorire, far nascere la vita; solo chi conosce l’amore viscerale, profondo, gratuito, chi lo sa provare nel suo cuore, solo costui potrà “vedere” il risorto; solo costui potrà capire che la vita non ha fine, e che l’amore è più forte di tutto.
“Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù” (Mt 27,57).
È un uomo membro autorevole del sinedrio, quindi, complice della morte di Gesù. D’altra parte, però, è un simpatizzante di Gesù, è uno che sogna, che ha desideri grandi, uno che sa che in quell’uomo è stata compiuta un’ingiustizia, uno che amava e intuiva la verità della sua pretesa, tanto che va a prenderne il corpo. È l’uomo che non ha saputo schierarsi quand’era il momento. L’uomo che ha preferito rimanere membro autorevole del sinedrio. Non si è compromesso. Ed ora, ora che non può fare più nulla, va coraggiosamente da Pilato a chiedere il corpo. Ora si rende conto di tutto, e offre la sua tomba. Ora vive il peso del rimorso per non aver osato, forse, a far di più. Ora abbandona ogni compromesso, ogni equilibrio e si schiera apertamente. Ora si mette apertamente dalla parte di Gesù. Perché ogni volta che non ci schieriamo, ogni volta che non prendiamo una posizione per paura di comprometterci, come Giuseppe d’Arimatea, ci rendiamo colpevoli di ciò che accade, ci riempiamo di sensi di colpa e di rimorsi per ciò che avremmo dovuto fare e che non abbiamo fatto. Dobbiamo prendere sempre una posizione. Dobbiamo schierarci, non possiamo essere neutrali, con un piede su due staffe. Dobbiamo fare la nostra scelta.
“Lì, sedute di fronte alla tomba, c’erano Maria di Magdala e l’altra Maria” (Mt 27,61).
L’amore non si arrende, l’amore non può credere alla fine, alla morte. Chi vive nell’amore conosce l’eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l’amore conosce l’eternità. L’amore vuole il “per sempre”. 
Queste donne non si arrendono all’evidenza dei fatti perché conoscono l’evidenza del cuore, dell’anima, della vita e di Dio. E proprio per questo sperare al di là di ogni speranza, per questo credere al di là di ogni ragionevole credenza, per questo amare al di là della fine, proprio loro, saranno le prime testimoni della resurrezione. 
Avevano visto bene: l’amore è il più forte. Amen.