giovedì 1 dicembre 2016

4 Dicembre 2016 – II Domenica di Avvento

«In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Mt 3,1-12).

Durante questo cammino d’avvento, i vangeli della domenica fanno riferimento a due personaggi: Giovanni Battista (nella seconda e terza domenica) e Maria (nella quarta domenica). Per raggiungere il Natale, dobbiamo pertanto confrontarci con queste due figure: dobbiamo cioè metterci davanti e specchiarci in esse. Giovanni Battista è un modello di uomo libero, autentico, non condizionato, autonomo. Maria è la donna che fa spazio, che accoglie, che si fida di sé e di Dio.
Ma fermiamoci per ora sulla figura di Giovanni Battista: uno che non aveva paura dell’opinione della gente, che lottava per ciò in cui credeva, che aveva il coraggio di esporsi e di pagare di persona per le sue scelte. Fu sicuramente un riferimento anche per Gesù.
Cerchiamo allora anche noi, nel nostro tempo, di attingere, di imparare qualcosa da lui: magari di avere anche noi un po’ del suo coraggio nel rischiare per un mondo più giusto, per la verità, per gli altri, per ottenere qualcosa di grande, qualcosa per cui valga la pena di esistere.

Nella nostra vita, volendo, abbiamo tantissimi i punti di riferimento, modelli esemplari da seguire, da imitare; in una parola dei veri e propri “miti”. Persone che, guardandole, conoscendole, ascoltandole, seguendole, ci prendono il cuore. Persone che meritano la nostra stima per la forza d’animo, la tenerezza, l’amore, il coraggio di osare, l’autenticità della vita, la radicalità delle scelte, l’esporsi al pericolo per non venir meno ai loro ideali: persone franche, vere, che non si sono mai svendute al sistema, all’opinione pubblica, al “così fan tutti”. Tuttavia, nel dilagante materialismo della nostra società, dobbiamo amaramente constatare come troppa gente preferisca mitizzare, idealizzare, innalzare a loro “idoli”, dei personaggi decisamente discutibili, personaggi “costruiti”, lanciati dalla pubblicità, da insulse trasmissioni televisive, prive di ogni dignità, decisamente “spazzatura”; sono gli “eroi” di oggi, pronti a svendere la faccia, la personalità, la dignità, pur di ottenere un fugace riflesso di notorietà, ridicolmente destinata a dissolversi già sul nascere.
Ecco allora che la Liturgia corre in nostro aiuto per offrirci concretamente la possibilità di “convertirci”, di “tornare indietro”, di mettere un punto fermo a questa nostra corsa alienante: in pratica ci dice: “Non svendere la tua dignità per gli scarti, scegli il meglio, vai all’origine, guarda al Battista”.
In effetti, scegliere un Battista come esempio da “vivere”, piuttosto che un’attricetta scosciata o un tarantolato da quattro soldi, significa porsi decisamente su un altro piano, significa distaccarci dalla mentalità corrente, avere un’altra tipologia di maturità, altri sentimenti!
Gesù stesso fu suo discepolo, lo seguì, si fece battezzare da lui: un Dio che imita una creatura; una creatura divenuta “maestro” dell’unico Maestro.
Nel vangelo di oggi, Matteo ci presenta dunque un Giovanni Battista che “predica” nel deserto: nel deserto? Chi è quel predicatore che va a cercare la “sua” folla nel deserto? Ovviamente nessuno. E allora, perché Giovanni se ne sta proprio nel deserto?
Semplice: perché il deserto è il luogo dove tutti dobbiamo “ritirarci” per riprenderci la nostra libertà, la nostra autenticità, la nostra dignità. Nel deserto siamo soli: noi con noi. Nel deserto impariamo a stare con noi stessi, a non dipendere dal giudizio della gente, a non farci contaminare dalle mode, dalle idee, dai luoghi comuni. Nel deserto incontriamo solo noi e Dio: è il luogo ideale in cui metterci davanti a Lui e a noi stessi, e guardarci seriamente: “Questo sono io. Mi accetto o mi rifiuto? Mi detesto o mi accolgo? Che faccio?”. È nel deserto che abbiamo l’appuntamento con le nostre scelte di vita inderogabili.
È nel deserto che ci rendiamo conto di non poter più delegare le nostre scelte di vita ad altri. È nel deserto che dobbiamo decidere se rischiare, se osare personalmente, se avere il coraggio di camminare da soli, oppure se, per paura, continuare a buttarci tutto alle spalle, rinunciando a gestire autonomamente la nostra esistenza.
È nel deserto che dobbiamo decidere se fidarci di noi stessi, se possiamo contare sulle nostre forze, se decidiamo di amarci o no. Nel deserto siamo soli di fronte alla vita, a noi stessi, ad un mondo che spesso ci è ostile e nemico.
È proprio nel deserto, nella solitudine, che ci sentiamo perduti: di fronte al nostro nulla veniamo assaliti dall’angoscia, ci viene da piangere: e allora piangiamo pure tutta la disperazione, la paura, il terrore, lo smarrimento che la vita comporta: perché in questo modo noi maturiamo; è in questo modo che diventiamo forti, che sentiamo nuovamente la gioia, la soddisfazione di vivere senza condizionamenti, che non dipendiamo più dagli altri. Allora ci sentiamo liberi: e una volta liberi, nessuno può fermarci.
Questo è il deserto. Per questo Giovanni Battista e Gesù, devono andare nel deserto: è una questione di “libertà”.
Giovanni Battista, a differenza di Gesù, vive stabilmente del deserto. È un uomo selvatico, uno che non guarda in faccia nessuno, uno tutto d’un pezzo: non veste riccamente come i “cittadini” di Gerusalemme, la gente bene, i “vip”, i predicatori del tempio, le personalità religiose: ha un vestito grossolano, fatto di pelli di cammello, apertamente in contrasto con le prescrizioni di purezza giudaiche. Ma a Giovanni non interessano le leggi religiose sull’aspetto esteriore. A lui interessa la vita interiore, la coscienza, la Verità. Non mangia i cibi della società ma cavallette e miele selvatico, il nutrimento degli esclusi, degli emarginati. Non ha bisogno di maschere esterne, né di lifting, né di mostrarsi giovane, né di mostrarsi “macho” o muscoloso, né di esibire la sua potenza o i suoi soldi: perché è un uomo libero, coerente con sé stesso, trasparente, che trova in sé e in Dio la sua unica ragione di vita.
A questo punto un paragone di attualità: talvolta mi capita di osservare uomini e donne di spettacolo, gente del cinema e della televisione, esteticamente “perfetti”, “rifatti” chissà quante volte, ma con uno sguardo vuoto, spento, senza vita. Guardo l’espressione dei loro occhi, del loro volto: sembrano statue impassibili, atone, senza alcuna espressione interiore. La loro è una bellezza formale, artefatta, asettica, sapientemente modellata, ma che sa di morte. E mi chiedo: “Cosa sentiranno dentro di loro? Avranno mai sperimentato il loro “deserto”? C’è qualcuno o qualcosa di vivo dentro la loro anima?”.
E mi viene in mente il ritratto di un “Battista” del nostro tempo: Santa Teresa di Calcutta, con il suo volto pieno di rughe, segno di una vita vissuta nella lotta, segno di chi si è appassionato, di chi ha vinto, e tante volte anche perso; di chi si è messo in gioco, di chi ha pianto, amato, rischiato, osato; di chi si è fidato solo di Dio. Occhi luminosi, pieni di passione, di luce divina; occhi profondi che penetrano, che scavavano nell’anima. Un volto sereno, pieno di pace: la pace di chi ha vinto, di chi ha armonizzato le forze disgregatrici della vita; di chi ha trovato la fiducia oltre ogni guerra; di chi ha trovato un giardino fiorito oltre ogni morte; di chi ha trovato un amore per cui spendersi fino alla fine: un volto che trasuda la presenza di Dio, che rivela un colloquio costante con Lui.
Bene: tra le due immagini è appunto il “deserto” che evidenzia l’abissale differenza: il nulla del deserto che riempie l’anima, e dà amore e vita, il tutto del mondo che la svuota, lasciando oscurità e morte!
Giovanni Battista è consapevole della sua missione. Lui è voce di uno che grida nel deserto. Sa che non sarà ascoltato, sa che lo derideranno, sa che rischia grosso, ma lui ha un dovere da compiere nei confronti della Verità. È uno che, senza mezzi termini, ci dice: “Amico mio, se non cambi vita, finisci male!”. Chiaro, diretto, essenziale!
A noi le persone come il Battista non piacciono; eppure ne abbiamo tanto bisogno: abbiamo un grande bisogno di persone che ci sveglino dal nostro torpore, che ci diano uno scossone, che ci facciano sussultare, che ci stampino in faccia quattro sberle, prima che sia troppo tardi. Abbiamo bisogno di “profeti”, di quelli autentici come Giovanni: di “profeti” che leggono dentro di noi, che ci scrutano l’anima, che ci dicono, in nome di Dio: “Se continui così morirai dentro. Se non perdoni, se non ami, finirai per vivere sempre nell’odio. Se non smetti di illuderti, di raccontarti “balle”, non ne uscirai più. Se non piangi, non riuscirai più ad emozionarti. Se non ti prendi cura della tua anima, ti condannerai all’infelicità. Se ti nascondi dietro alle maschere, ti perderai. Se non tiri fuori ed esprimi i tuoi sentimenti profondi, ti condannerai all’inferno del cuore”.
Il “profeta” è uno che ama in maniera “dura”. A volte la sua verità ci ferisce perché svela ciò che non vorremmo né vedere né sentire. Ci fa rabbia, stiamo male quando troviamo uno che ci rinfaccia certe cose; uno che è in grado di smascherarci, di guardarci dentro, di vedere le nostre ipocrisie, le nostre miserie, i nostri nascondigli, le nostre falsità. Ma è questo l’amore “duro”, è questo l’amore “vero”, l’amore che ci chiama a vivere nella verità.
Amore non è solo proteggere o difendere o custodire o non volere che l’altro soffra: trattare gli altri da bambini, significa abbandonarli al loro stadio infantile. Vanno invece aiutati a crescere, a diventare adulti, a camminare con le loro gambe. Solo l’amore li rende autonomi. Se noi amiamo una persona superficialmente, ci limitiamo a farle delle coccole; ma se l’amiamo per davvero, le insegniamo a volare, anche se ha paura, anche se non vuole, anche se si mette contro di noi. Se l’amiamo veramente, dobbiamo saperle dire, oltre ai “sì”, anche dei “no” decisi.
Matteo scrive che molti corrono nel deserto, dal Battista, per farsi battezzare; ma tanti altri no: come i farisei e i sadducei. Per loro il “deserto”, il battesimo, non è motivo di conversione; e Giovanni, quando li vede, li smaschera apertamente: “Razza di vipere! Forse riuscite ad ingannare la gente, nascondendovi dietro alla vostra “religiosità”: ma non ingannate me e neppure Dio. Siete dei falsi!”.
Eh sì: farisei e sadducei; uguali a tante persone che vivono nell’ambiguità, nell’esteriorità; è impossibile capire cosa pensano realmente, cosa macchinano, quali siano le loro vere intenzioni. Hanno sempre a disposizione una doppia faccia: possono ridere, essere cortesi con noi, e subito dopo pugnalarci alle spalle. Non sappiamo mai se possiamo fidarci o no. Gente che non si espone mai in prima persona, che agisce solo da dietro le quinte. La loro arroganza, come quella dei farisei e dei sadducei, è di volersi giustificare sempre, a priori: “Abbiamo Abramo per padre. Osserviamo le leggi, siamo a posto!”.
Quante persone conosciamo che sono sempre pronte a giustificare con forza qualunque loro iniziativa, anche la più sballata; non capiscono che, come diceva il vecchio adagio latino, “excusatio non petita, accusatio manifesta!”. Cioè: una giustificazione non richiesta, equivale apertamente ad un’ammissione di colpa”. Sì, perché giustificarsi vuol dire sapere di essere colpevoli, e fare di tutto per dimostrare il contrario; in pratica, è tentare di far diventare giusta una cosa che non lo è. Ebbene, questa è falsità; è lo stravolgimento della realtà.
Di fronte poi ad una colpa accertata e inoppugnabile, tanti si giustificano minimizzando la loro responsabilità: “Non è poi così grave! Lo fanno tutti: perché non dovrei farlo anch’io? Nessuno è perfetto!”. Ma così facendo, addormentano sempre più la loro coscienza; si auto convincono che, in fondo in fondo, nulla è poi così tanto grave. Con le loro giustificazioni, con le loro attenuanti, con i loro “distinguo”, mentono a loro stessi sapendo di mentire, e finiscono per anestetizzare totalmente la loro lucidità, la loro integrità morale, la loro capacità di emettere giudizi imparziali. Non sapranno più riconoscere cosa è bene e cosa è male, non sapranno distinguere cosa è luce e cosa è buio, cosa è forza e cosa è debolezza, cosa fa loro bene e cosa fa loro male, cos’è amore e cos’è violenza o possesso. Diventano larve umane: senza ideali, senza gioia, senza la luce dell’Amore.

A che vale allora ostinarsi a vivere in “città”, rifiutando categoricamente l’esperienza del “deserto”? A nulla. Amen.



giovedì 24 novembre 2016

27 Novembre 2016 – I Domenica di Avvento

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,37-44).

Con questa domenica entriamo nel tempo liturgico dell’Avvento: un periodo di quattro settimane che ci conduce al Natale. Ogni settimana, durante la liturgia eucaristica, accenderemo un nuovo cero della tradizionale “corona” d’Avvento; quattro domeniche, quattro ceri. Come a dire: “con questo avvento, preludio della venuta di Dio,il mio cammino di fede verrà progressivamente illuminato dalla Luce di Cristo”. Solo così le quattro candele avranno un senso: se rappresentano il segno dei nostri piccoli passi in avanti sulla difficile via della crescita spirituale. Altrimenti sono solo quattro candele che bruciano e basta.
L’Avvento, in pratica, ci ripropone ogni anno il suo richiamo costante: “Svegliatevi, non permettete che il sonno intorpidisca il vostri passi; andate verso la Luce: soprattutto illuminate quei giorni della vostra vita che ancora ristagnano nel buio, nell’oscurità della lontananza da Dio”.
Per questo vivere l’avvento è difficile: perché aprirsi all’Emmanuele, “al Dio-che-viene”, significa mettere in crisi proprio quelle posizioni che riteniamo fondamentali, e alle quali ci aggrappiamo in tutti i modi.
Ecco perché il periodo dell’avvento, alla maggioranza dei cristiani, non dice più nulla: è un tempo uguale agli altri, per cui non fanno assolutamente nulla. Aspettano il Natale come una qualunque altra festa: una grande abbuffata, e basta. Non si rendono conto che anch’essi sono figli di Dio, che personalmente in loro Dio ha posto carne, dimora, tenda, casa.
Con la loro indifferenza, con il dubbio, con il cinismo, con il pessimismo, con la banalizzazione della loro vita, praticamente impediscono alla “Luce-che-viene” di entrar dentro di loro; fanno di tutto per evitare qualunque loro coinvolgimento.
Ma veniamo al vangelo di oggi: con la festa di Cristo Re di domenica scorsa, abbiamo concluso l’anno liturgico, che prevedeva la lettura di Luca: oggi, e per tutto il nuovo anno, la liturgia ci propone la meditazione del vangelo di Matteo.
Un Matteo che si pone immediatamente alla nostra attenzione con un testo dall’inizio oscuro, con riferimenti piuttosto difficili da collegare. Per capirne il senso, dobbiamo quindi partire dal versetto che lo precede: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mt 24,36).
Gesù sta parlando della fine della nostra vita: ora, se riguardo alla fine di Gerusalemme, Egli aveva precisato: “Non passerà questa generazione prima che tutto questo accada” (Mt 24,34) - e infatti la distruzione di Gerusalemme avviene nel 70 d.C. - riguardo alla fine di ciascuno di noi, al suo incontro personale con Dio, Gesù si rimette al Padre. È quindi inutile pretendere di conoscere quando, come, cosa succederà: nessuno lo può sapere! Punto.
Ci indica soltanto un vago indizio, mediante un termine di paragone: “Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,37).
Ma che avrà mai voluto dire con questo? Cerchiamo di capirlo: prima di tutto Gesù paragona i fenomeni legati alla “sua” venuta salvifica, a quelli dell’intervento salvifico di Dio operato per mezzo di Noè: con Noè, infatti, non ci fu la fine del mondo (visto che il mondo continuò anche dopo Noè) ma un radicale rinnovamento del genere umano, una nuova umanità. Pertanto sia quella avvenuta ai tempi di Noè che quella di Gesù, sono due proposte di salvezza: Noè l’avrebbe concretizzata mediante l’arca, Gesù con l’apertura a tutti del Regno di Dio.
Due “eventi” che si verificano in circostanze analoghe, in presenza di uno stesso stato d’animo: l’indifferenza.
In particolare, al tempo di Noè, tutti vivevano nella superficialità: mangiavano, bevevano, si sposavano, facevano figli, e non si accorgevano di nulla. Tutti vivevano nella falsità, tutti si dicevano bugie, tutti erano interessati a non accorgersi di ciò che accadeva, a non aprire gli occhi: perché aprirli, avrebbe voluto dire “cambiare”.
La gente, ci dice Gesù, non si è accorta di nulla: il momento di incontrare Dio è giunto nel disinteresse generale. È successo allora, è successo al tempo di Gesù, succede anche oggi: l’incontro personale con Dio avverrà per tutti: ma nessuno se ne preoccupa più di tanto, nessuno vuol “vedere” la realtà. Perché se “vediamo” una cosa, se ne prendiamo seriamente atto, se pensiamo alle conseguenze di questo evento inevitabile, allora non possiamo essere più gli stessi: dobbiamo riprogrammare la nostra vita, e questo ci “scoccia”, ci “brucia”, al punto che, dicono molti, è meglio non sapere. Aprire gli occhi è doloroso. Preferiamo vivere nell’illusione, preferiamo ingannare noi stessi. E questo dice quanta falsità regni nell’uomo.
Dio viene per salvarli, ma molti non se ne curano. Preferiscono essere inghiottiti dalla vita, dal piacere, dalle cose passeggere, per poi esclamare: “Che sfortuna! Che destino terribile!”.
Nossignori: non è sfortuna, non è destino: siamo noi che dovevamo pensarci per tempo. Abbiamo preferito dormire; abbiamo preferito vegetare, trastullarci, lasciarci vivere, e poi, al dunque, ci meravigliamo, ci sorprendiamo, ci rammarichiamo: invece no! “dovevi accorgertene prima!”.
Ecco perché Gesù ci invita ad essere svegli, attenti, a non farci prendere dalla routine della vita quotidiana che rischia, oggi come sempre, di soffocare la nostra anima.
Ma possiamo fare anche un’altra considerazione, sempre sul paragone con Noè, fatto da Gesù: chi è questo Noè, e qual è il senso profondo della sua storia?
In ebraico “noah” significa “condurre”. Cosa fa Noè? “Conduce” tutti gli animali in salvo. Ma ciò che noi traduciamo “animali” (zòon), vuol dire “esseri viventi, tutto ciò che vive”. In altre parole Noè salva tutta la “vita” esistente, non la lascia morire. E il senso di salvarne due, una coppia per ogni animale, è quello di far sì che la vita progredisca, si evolva, cresca, si moltiplichi. Ed è interessante: perché dove conduce Noè gli animali? Nell’arca, cioè nella “arché”, in ciò che esiste da sempre, fin da principio.
Cosa significa tutto questo? Cosa vuol farci capire Gesù con questo paragone?
Ciascuno di noi è quell’arca in cui, fin da principio, c’è tanta vita che vuol vivere: il nostro compito è quello di salvarla, di non farla morire, di non permettere che tutta la forza che c’è in noi, giorno dopo giorno, muoia, si spenga, si esaurisca. Nostro compito è quindi di far crescere, far moltiplicare tutto ciò che abbiamo dentro, riempiendo il mondo.
Perché il grande rischio, presi dalla quotidianità, dalle preoccupazioni e soprattutto da mille distrazioni, è quello di “lasciar morire” proprio la parte più vera di noi, la nostra vitalità interiore.
“Morte”, infatti, non è solo uccidere qualcuno, ferire, denigrare o picchiare. Morte è “non essere” ciò che possiamo essere. Morte è non far uscire l’energia, la vitalità, che c’è in noi. Morte è non tirare fuori le nostre doti, le nostre capacità. Morte è vivere a bassa quota, quando invece siamo aquile. Morte è non provare più nulla, essere freddi, non sapersi né entusiasmare né indignare, essere apatici, abulici, senza emozioni. Morte è non sapersi più innamorare per paura di ciò che poi potrebbe succedere, o non credere più nell’amore. Morte è non saper più piangere, ridere o commuoversi, è non saper amare. Alcuni muoiono una volta sola, altri tutti i giorni.
Allora il compito di ciascuno di noi, piccoli Noè, è quello di dare alla luce tutto il potenziale che c’è in noi. Ripeto, siamo aquile, viviamo da aquile. Siamo dei leoni, non accontentiamoci di essere dei gattini. Siamo dei re, non viviamo da sudditi indolenti.
Dobbiamo farlo subito, perché la realizzazione della Buona Novella annunciata da Gesù, un giorno si realizzerà anche per noi: Dio verrà ad incontrarci: ma se nell’attesa continuiamo a dormire, ci coglierà impreparati! Se vogliamo “vedere Dio”, dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo vegliare, rimanere desti. Non basta produrre benessere per vedere Dio!
All’inizio della creazione, Dio ha detto: “Crescete e moltiplicatevi”, che noi abbiamo tradotto con: “Fate figli, realizzate i vostri sogni”. Ma possiamo anche porre quel mito della Genesi su di un livello molto più profondo, più intimo. Lo sviluppo, la crescita, cioè, non riguarderebbe solo l’aspetto “quantitativo”, quello esteriore, ma soprattutto quello “qualitativo ”, quello interiore. In altri termini: “Sviluppate la vita che è dentro di voi”, crescete interiormente, rinvigorite la vostra vita spirituale. “Crescere e moltiplicarsi” in tal caso vuol dire evolvere, divenire, sviluppare nuova vita.
Questo era il compito dell’umanità: ma cos’è successo poi? È successo che l’uomo fin da allora si è moltiplicato solo “esteriormente”, nel regno della quantità, giungendo progressivamente fino ai nostri giorni, completamente anestetizzato: mangiare, bere, correre, lavorare; ingolfarsi di prodotti, di esperienze, di relazioni, di scoop, di piaceri frivoli; preoccupandosi solo di moltiplicarsi fuori, senza crescere dentro; ad “avere di più”, piuttosto che ad “essere di più”: tutte cose che lo hanno portato a vivere da morto: una esistenza vissuta nelle tenebre, nella cecità più totale.
Quando poi improvvisamente si trovano a dover fare i conti con i “segni” della venuta di Dio, allora si disperano, accampano scuse, pretendono la “misericordia” divina: ma talvolta è troppo tardi. Perché Dio è sì infinita misericordia, ma è anche infinita giustizia.
Questo ci suggerisce oggi il Vangelo: questo ci propone il tempo di avvento. E se esaminandoci dentro, arriviamo a constatare amaramente: “Mi sento vuoto, non provo nulla; non mi riconosco più!”, allora è arrivato il momento di prendere in mano la nostra vita, e ricominciare tutto da capo.
E concludo: non lasciamoci sorprendere dalle situazioni, perché quando i ladri sono già entrati e ci hanno derubati di tutto, chiudere la porta è troppo tardi. Quando l’uovo è caduto, la frittata è già fatta!
Allora svegliamoci, prendiamoci cura di noi stessi, della nostra anima, non facciamo gli indifferenti, stiamo in guardia, leggiamo attentamente i “segnali” di Dio, interpretiamo correttamente i suoi suggerimenti premonitori. “Vegliare” è saper attendere, è non dormire, perché Dio è “sorpresa”, è fuori da ogni nostro schema; la sua venuta è imprevedibile, incalcolabile, non pianificabile,. Non facciamoci sorprendere, non inganniamo noi stessi, perché prima o poi arriva il momento in cui sarà troppo tardi per qualunque ripensamento, il momento in cui non potremo fare più nulla.
Impariamo da subito a riconoscere la voce della nostra coscienza, accettiamo umilmente la continua offerta di aiuto e di amore da parte del Dio che abita in noi: approfittiamo ora della sua misericordia: è un dono sempre presente, non un diritto finale!

Non perdiamo tempo. All’inizio un fiume è un semplice rigagnolo d’acqua. Fermarlo è facile. Ma fermare un fiume alla foce, è impossibile. Non corriamo il rischio, di fronte a certe situazioni, di dover purtroppo ammettere: “Troppo tardi! Dovevo pensarci prima!”. Buon Avvento! Amen.

giovedì 17 novembre 2016

20 Novembre 2016 – XXXIV Domenica del T.O. - Cristo Re

«Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male. E disse: Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. Gli rispose: In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,35-43).

Oggi è la festa di Cristo Re, la festa di Cristo, Signore glorioso del mondo e di ogni cosa, punto di arrivo della storia umana.
Ma nel vangelo non c’è proprio nulla di glorioso, nulla di trionfalistico.
Il vangelo di oggi, infatti, ci propone la scena straziante del Calvario: Gesù è in croce, agonizzante; davanti a lui una folla muta, accorsa solo per curiosità, per godersi lo spettacolo. Lo “spettacolo” di una morte cruenta attira sempre morbosamente, anche oggi, la curiosità della gente.
C’è tanta gente lassù sul Golgota. Gente che guarda, che continua a guardare, che non smetterà di guardare fino alla fine. Un popolo che non dice nulla, che non reagisce, che non si ribella, non si indigna, non chiede spiegazioni, non si muove.
Sta assistendo ad una ingiustizia evidente: ha davanti a sé il figlio di Dio, assiste ad una delle situazioni più crudeli della storia, e non dice nulla. Come se non ci fosse. Siamo nell’indifferenza più totale.
A molta gente basta un po’ di pane sotto i denti, qualche divertimento, “tirare avanti” e non essere disturbati. Non si sporca le mani su niente: “perché non si sa mai!”. Non vuole essere coinvolta; non vuole avere problemi: non si espone e non prende posizione. Ma non prendere alcuna posizione vuol dire avere già preso una posizione. Quando la gente dice: “Io mi faccio gli affari miei e non do fastidio a nessuno”, significa che questa è la posizione scelta: una posizione però che non la giustifica, che non può deresponsabilizzarla. Non solo chi ha ucciso Gesù ne è il responsabile, ma anche chi potendo fare qualcosa, anche solo alzando la sua voce, anche solo ribellandosi, anche solo opponendosi, non ha fatto nulla.
Quando rimaniamo indifferenti, quando non ci indigniamo di fronte a certe ingiustizie, vuol dire che le accettiamo. Quando non prendo posizione di fronte a ciò che sta accadendo, allora indirettamente lo favoriamo. Quando ciò che vediamo non ci fa riflettere, piangere e cambiare, allora favoriamo il male. Quando di fronte alle tragedie che accadono ogni giorno nel mondo, noi non muoviamo un dito, non ci interroghiamo, non tramutiamo il nostro sdegno in azioni, non ci mettiamo in gioco, cosa risponderemo: “Ho avuto paura”? Quando di fronte a certe ideologie, a certe linee di pensiero, di fronte alla squallida banalità di certi stili di vita, invece di ribellarci, noi ci adeguiamo, ci adattiamo supinamente, cosa risponderemo: “Beh, facevano tutti così”? Non abbiamo una nostra testa per pensare, una coscienza a cui rispondere? Non ci sono attenuanti: siamo colpevoli. Anche noi siamo colpevoli di tale andazzo.
Perché la gente non fa niente non vuol dire che non sia responsabile di ciò che succede. E’ proprio per questa indifferenza, per questo stare a guardare e non intervenire che si compiono le peggiori crudeltà, che nazioni cadono sotto despoti e tiranni, che avvengono nel silenzio carneficine di uomini. E’ proprio per questo disinteressarsi che i potenti possono fare ciò che vogliono. Loro lo fanno ma la gente, non intervenendo, ne è complice.
Poi ci sono i capi del popolo. I capi sbeffeggiano Gesù, si prendono gioco di lui e lo disprezzano. I capi sono quelli che sfruttano a loro vantaggio ogni situazione. Con abili manovre politiche, con una buona comunicazione ottengono sempre ciò che vogliono ottenere.
I potenti fanno i loro interessi e subdolamente si prendono gioco della gente. Con quelli invece che se ne accorgono (Gesù), sono feroci e li condannano alla gogna pubblica.
Quante persone si ritengono libere e fortunate perché si possono permettere “certe cose” e non si accorgono di essere invece schiave del sistema, di essere delle marionette in mano di poche lobbies che gestiscono in tutto la loro vita, facendo loro credere di essere libere e potenti.
Infine ci sono i due malfattori. Uno dei due è arrabbiato con la vita, con Dio e con tutti, come se gli altri fossero i responsabili della sua sorte, quando al contrario ciò che gli sta accadendo è la conseguenza della sua vita. E scarica addosso a Gesù tutto l’odio e la rabbia che cresce dentro di sé.
Quanta gente è arrabbiata, risentita con tutti: dentro sono insoddisfatti e gettano sugli altri tutta la loro frustrazione per una vita che non li ha resi felici, né realizzati.
Tutti dicono a Gesù: “Salva te stesso e noi”. Ma la frase è ironica, sarcastica. Sono loro che si devono salvare; sono loro che devono cambiare; sono loro che non si rendono conto di essere i condannati, gli imprigionati, i condizionati, gli schiavi. Ma non se ne accorgono.
Credono di vedere uno uomo crocifisso e invece stanno vedendo un uomo libero. Credono di essere loro i liberi e invece sono loro i crocifissi, dalle loro paure, dai loro condizionamenti. Credono di vedere e, invece, sono ciechi. Credono di vivere e non sanno che sono morti dentro.
Ma li vicino c’è anche un malfattore che capisce e accoglie Gesù. Nella sua situazione tragica e di totale impotenza, è riuscito comunque a costruire qualcosa, ha detto di sì a Gesù: lo ha accolto nel suo cuore, lo ha riconosciuto Signore della sua vita. Riconosce il suo errore e chiede perdono.
A questo punto Luca ci porta a fare una considerazione molto interessante: cioè, chi è il primo ad entrare nel Regno dei cieli? Maria, la madre di Gesù? No. Pietro, il “capo” degli apostoli? No. Giovanni, il discepolo amato? Nossignori. Il vangelo dice esplicitamente che il primo ad entrare in paradiso è un malfattore, un criminale: “Oggi con me sarai nel paradiso”. Per cui, da adesso in poi le porte del Regno dei cieli, del paradiso, saranno aperte per tutti, a condizione che riconoscano Dio come loro Signore, come loro Re, qualunque sia il loro passato, qualunque sia la storia della loro vita.
È la Buona Notizia (eÇagg™lion) di Gesù: ed è davvero una gran Buona Notizia per tutti!
Questo è il felice annuncio di Gesù, nostro Re: le porte dell’Amore di Dio sono aperte per tutti quelli che vogliono entrarvi, al di là di come abbiano amministrato la loro vita. Gesù è il Re dell’amore. Non esistono più casi impossibili, situazioni irrimediabili: l’Amore di Dio è più forte di tutto.
“Salvezza”, allora, è guardare in noi stessi, nel profondo della nostra anima; “condanna” è insistere a seguire stupidamente quello che fanno gli altri, uniformandoci alle “mode” del momento, ai capricci deleteri di una società moralmente allo sbando. “Salvezza” è riconoscere i propri errori, la propria non-luce, la propria cecità. “Condanna” è non voler ammettere la propria ottusità, le proprie scelte autolesioniste. “Salvezza”, insomma, è aprire bene gli occhi sulla propria vita, per tirare delle conclusioni concrete: “Se finora ho vissuto così, da oggi voglio cambiare. Oggi, Gesù, anch’io ti accolgo e ti faccio entrare in casa mia. Perché oggi ti dico sul serio di sì. Oggi cambio. Oggi inizio una nuova vita. Se finora ho vissuto nel disinteresse, nel menefreghismo, da oggi cambio. Se finora ho vissuto delegando gli altri ogni mia iniziativa, da oggi voglio cambiare. Se finora ho incolpato Te della mia infelicità, da oggi voglio cambiare. Se finora Ti ho imprecato e bestemmiato per ciò che di brutto accade nel mondo, da oggi voglio cambiare. Se finora ho vissuto nella paura, nel disprezzo, nel dubbio, nella diffidenza, da oggi voglio cambiare. Sì, perché voglio meritare il dono di poterti stare accanto, nel “tuo” Paradiso. Da oggi posso e voglio cambiare: sì, perché per cominciare non è mai troppo tardi. Mai!
Quel “salva te stesso e anche noi” è terribile. È come dirgli: “Tira fuori il tuo potere perché oggi mi servi!”.
Ma a cosa serve Dio per noi? Se pensiamo che Dio serva a far soldi, a dare lustro alla nostra immagine di brave persone, ad essere rispettati, a risolvere i nostri problemi di relazione, a coprire le nostre magagne, a tappare i nostri buchi, allora Dio non serve. Se pensiamo così, illudiamo noi stessi. Se pensiamo di chiamare in causa Dio per ciò che non va nella nostra vita o nel mondo, se pensiamo di chiamare in causa Dio per tutte le disgrazie e le tragedie che succedono, sbagliamo di grosso: un Dio così non ci serve.
Dobbiamo stare molto attenti a non usare Dio! Dio è la forza delle nostre gambe: ma sta a noi muoverle e camminare. Dio è l’amore del nostro cuore: ma sta a noi cercarlo, incontrarlo e abbracciarlo. Dio è la voce che dal profondo sale alle nostre labbra: ma sta a noi parlare. Dio è lo sguardo dei nostri occhi: ma sta a noi aprirli. Non chiediamo a Lui ciò che tocca fare a noi! Non deleghiamo mai a Dio i nostri compiti!
Dio è forza ma non fa azioni di forza. Dio è luce ma si limita solo a illuminare la verità: siamo noi che dobbiamo scoprirla. Dio è potente ma non violenta nessuno. Dio è la Vita ma non costringe nessuno a viverla per forza.
Il quadro dei due malfattori è una scena molto profonda. Sono due malfattori, due uomini condannati giustamente, sono due malviventi che hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, sono due peccatori, due che hanno “mancato il bersaglio” (in ebraico peccare= sbagliare il bersaglio). Sanno di aver sbagliato: uno dei due lo ammette, e riceve il perdono; l’altro no.
Non possiamo ricevere alcun perdono se non ammettiamo di aver sbagliato. Nessuno può perdonarci se noi non accettiamo la nostra ferita, il nostro errore. Giuda era morso dal senso di colpa per ciò che aveva fatto, ma non l’aveva accettato. E si è ucciso. Così chi non sa accettare il proprio errore, chi non sa perdonarsi, si uccide: non si concede nessun’altra possibilità di vita.
Come i due malfattori, anche noi sbagliamo e falliamo in tanti modi e in tante maniere. Ogni errore ci produce un senso di colpa: e noi cosa facciamo? O ci ostiniamo nel non vedere, o accettiamo questa realtà che ci fa male.
«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Già, pentirsi. A volte preferiamo fare di tutto, anche distorcere la realtà, pur di non piegarci: ma la nostra coscienza, il Dio che è in noi, conosce ogni cosa di noi. A Lui non possiamo mentire. Anche se lo nascondiamo a noi stessi, lui lo sa. Anche se ce lo dimentichiamo, lui sa e ricorda tutto. Certo, ammettere, riconoscere, pentirci del male che abbiamo fatto, ci procura sempre un certo imbarazzo, ci fa vergognare, ci infastidisce: ma è l’unica strada che abbiamo per ottenere il perdono, ritornare a vivere, sentirci salvi.
Il demonio, che ci lega al silenzio, che ci spinge alla finzione, alle menzogne, alla falsità, ci dice: “Tranquillo, non credere alle promesse, non ti capiterà nulla!”. Ma Dio ci rassicura: “Pentiti, e oggi sarai con me in paradiso”. In altre parole: “Forza, oggi sei tornato nell’Amore: rialzati e cammina nella Luce. Oggi tutto ti è stato cancellato, segui la vera Vita. Hai sbagliato molto, lo so: ma so anche che da oggi vuoi stare con Me, nonostante le tante difficoltà”.
Quindi, ogni volta che le nostre fragilità ci opprimono, ogni volta che i casi della vita ci soffocano e ci fanno soffrire, non chiediamoci: “Perché a me?”. Ma chiediamoci: “Signore, cosa devo imparare?”. Ogni volta che il dolore stritola il nostro cuore, diventando insopportabile, non rinfacciamo a Dio: “Cosa ti ho fatto per trattarmi così?”. Ma chiediamogli umilmente: “Cosa mi vuoi insegnare?”.
Seguire Gesù sulla Croce significa lasciarsi trafiggere, lasciarsi ferire, perché è così che la vita può insegnarci ciò che ci deve insegnare. La vita talvolta ci trafigge, è vero, ma lo fa per guarirci; ci ferisce, ma per salvarci.
Abbracciare la nostra croce significa allora accettare il buio della vita, immergerci nell’incertezza della nostra fragilità, ma consapevoli che è l’unica via che ci conduce alla Luce, che ci porta al riparo nel calore misericordioso del cuore di Dio.

Sì: quando tutte le nostre sicurezze umane cadono, quando tutte le nostre spiegazioni, il nostro buon senso, non ci reggono più, quando siamo convinti che perfino Dio ci abbia abbandonati, è allora, che emerge l’unica, vera certezza: Lui. Quando rimane soltanto il buio, è allora che emerge la Luce. È allora che la croce, strada del buio, diventerà la strada della Luce. È allora che la “via della morte” sarà la via della Vita. Amen.



venerdì 11 novembre 2016

13 Novembre 2016 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta.» (Lc 21,5-19).

La comprensione del vangelo di oggi è particolarmente difficile. Riferimenti e allusioni sono piuttosto complicati, lontani dalla nostra mentalità. Perciò prima di qualunque considerazione, cercherò di analizzare più in profondità il testo per capire il senso delle parole di Gesù.
Devo per questo fare una premessa: la miracolosa liberazione di Gerusalemme dall’assedio di Sennacherib, il terribile re di Assiria, avvenuta, nel 701 a.C. grazie ad un intervento diretto di Dio, aveva generato negli Ebrei la convinzione che, nei momenti di maggior pericolo per la città e per il Tempio, Dio sarebbe puntualmente intervenuto per salvarli entrambi: Gerusalemme e il suo Tempio, pensavano, non sarebbero mai potuti cadere nelle mani dei nemici, perché Dio stesso li avrebbe puntualmente difesi e protetti.
Una certezza che troviamo chiaramente espressa anche nel Salmo 46: “Dio sta in essa: non potrà vacillare; Dio la soccorrerà prima del mattino” (Sal 46,6)
Per essi, dunque, Gerusalemme era indistruttibile: così pure il suo tempio, uno dei posti sacri più belli, più ricchi e lussuosi dell’antichità; un capolavoro di cui tutti ne andavano fieri, argomento ricorrente nei loro discorsi.
“Mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano…” (Lc 21,5). 
Un “incipit” che ci aiuta a capire l’effetto insolito che le parole di Gesù avrebbero procurato negli ascoltatori. Quando infatti Gesù annuncia: “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta” (anticipando peraltro ciò che avverrà nel 70 d.C. quando i Romani distruggeranno completamente il Tempio), essi non solo non dimostrano alcuna paura, ma fanno trasparire addirittura una grande eccitazione, come se non vedessero l’ora che tale prospettiva si realizzasse: “Gli domandarono: Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?”; sono tranquilli sulla inviolabilità della città e del tempio, e quindi si sentono fortunati di poter assistere personalmente al grandioso spettacolo di Dio che entra in azione a loro difesa: un evento storico semplicemente sensazionale!
Per gli ascoltatori di Gesù, la distruzione del tempio era pensabile soltanto con la fine dei tempi, con la fine della storia. Non hanno capito che le parole di Gesù, in prima battuta, si riferiscono proprio alla “fine” di Gerusalemme e del suo tempio. La fine del mondo, con la venuta trionfale del Figlio dell’uomo che inaugurerà il nuovo Regno, verranno a suo tempo: ora, il tempo presente, è solo il tempo dell’attesa. Un tempo in cui, secondo Gesù, il Regno non solo è vicino, ma è già in mezzo a noi, ma in un modo “riservato”, personale, un modo in cui non fa notizia, non attira l’attenzione dei media. Noi dobbiamo individuarlo, questo regno, perché dobbiamo viverlo. Per questo non dobbiamo lasciarci confondere e turbare da pretese ispirazioni e da falsi profeti: “Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: “Sono io” e: “Il tempo è prossimo”; non seguiteli”.
Letteralmente più che “sono io” è “Io sono”, che è il messaggio divino di Jahweh: cioè molte persone si presenteranno come il Messia, diranno che il tempo, in cui Dio si manifesterà, è arrivato (in greco kairòs= il tempo è propizio). Ebbene, “Non seguiteli”; Gesù è chiaro: “Non credeteci”, perché non sarà allora la fine del mondo. 
“Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni”, non vuol dire che Dio stia per arrivare, che l’eskaton sia finalmente arrivato:  pensate piuttosto a proteggervi e a mettervi in salvo. “Devono infatti accadere prima queste cose [come la distruzione di Gerusalemme], ma non sarà subito la fine”. 
Quindi: “Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo” (Lc 21,10-11). Ma non sarà l’apocalisse, l’apoteosi gloriosa e tremenda che voi vi aspettate di vedere: guerre e rivoluzioni, lotte intestine, sono soltanto delle tappe che prepareranno la realizzazione finale del Regno di Dio.
Effettivamente il ricorrere a questi eventi, a questi “segni”, induce a pensare proprio alla fine del mondo: in realtà è una terminologia che risponde allo “stile letterario” dell’apocalittica, tipico dell’epoca; un genere peraltro molto usato dai profeti dell’Antico Testamento, che con queste immagini crude volevano indicare (a volte era più un desiderio che una realtà) grandi cambiamenti nella società.
Le persone vicine a Gesù, che hanno ascoltato le sue parole, sono dunque effettivamente eccitate, galvanizzate, dalla prospettiva di un intervento divino. Gesù però toglie loro ogni eccitazione. Altro che Dio interverrà! Anzi, perfino voi che ascoltate sarete presi! “Prima di tutto metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi nelle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome” (Lc 21,12)
È quanto capiterà a coloro, che nel tempo dell’attesa, vorranno seguire Gesù: è il prezzo della sequela.
Gesù mette qui in discussione i tre valori sacri di Israele, i tre centri del potere,laddove ciascuno si faceva scudo con l’altro: la patria (il re domina sulle persone); Dio (l’istituzione religiosa domina sulle menti e sui cuori degli uomini); la famiglia (in cui il maschio era il capo indiscusso di tutti). Anzi, minaccia addirittura di abolire questi tre valori! È questo il motivo per cui, coloro che seguiranno il mio messaggio, saranno perseguitati: “vi metteranno le mani addosso e vi perseguiteranno nelle sinagoghe e nelle prigioni”, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome”: sarete cioè perseguitati sia per motivi religiosi (sinagoghe) che per motivi civili (re e a governatori), “a causa del mio nome”: perché tutto questo ha come causa la visione, il messaggio e l’adesione a Gesù. 
Abbracciare il cristianesimo, infatti, era inteso come rifiuto della proprie tradizioni: da qui la possibile denuncia alle autorità, anche da parte dei familiari.
“Questo vi darà l’occasione di render testimonianza” (Lc 21,13). Tutto questo vi permetterà (ecco la testimonianza!) di mostrare che quanti difendono solo a parole questi valori “sacri”, patria-famiglia-Dio, svuotandoli del loro vero contenuto, in pratica sono nemici degli uomini. 
L’annuncio nuovo che va testimoniato è infatti questo: Gesù cioè ha sostituito la vecchia divinità, il “Dio” comune a tutte le religioni, con il Padre: se nel nome del "Dio" si poteva uccidere e togliere la vita ai propri simili, nel nome del Padre si può solamente donare la propria vita per i fratelli; alla “patria” Gesù ha sostituito il Regno di Dio: quindi non dei limiti, non dei confini, ma un amore universale; infine la “famiglia” di Gesù non sarà quella formata dal sangue (“Chi è mia madre e i miei fratelli?”) ma dagli stessi vincoli dell’anima e dagli ideali comuni.
La persecuzione vi darà pertanto modo di testimoniare, cioè di far vedere pubblicamente, che quelli che sembravano “amici”, in effetti sono i “nemici” dell’umanità.
“Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere” (Lc 21,14-15). Quando si vive in sintonia con Gesù si vive e si respira la sua stessa vita, si assorbe lo stesso linguaggio. Non serve allora prepararsi, prima, su cosa dire, o conoscere chissà cosa. Si dirà e si testimonierà nient’altro quello che convintamente si vive.
Da notare che qui Luca adopera gli stessi termini che poi utilizzerà con l’annuncio del primo martire cristiano, Stefano: proprio lì egli dirà che gli avversari non riuscivano a controbattere alla sua sapienza (At 6,10), e che Stefano sarà messo a morte proprio perché accusato di aver parlato contro la Legge e contro il Tempio: chi tocca questi valori sacri, muore (At 6,13); Stefano infatti viene assassinato (tra i suo assassini c’è anche Saulo, il futuro S. Paolo!) proprio perché mette in discussione questi valori sacri, che per tutti erano intoccabili.
“Sarete odiati dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi” (Lc 21,16).
L’adesione a Gesù annulla perfino i legami più stretti, e significherà, agli occhi della società di Israele, un terremoto così grande, da esser paragonato all’idolatria, il delitto più grave per un credente ebreo. Per questo i parenti si sentiranno autorizzati a uccidere, in quanto idolatra, anche il proprio familiare .
“Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (Lc 21,18-19). È la conseguenza dell’aver dato “testimonianza”: parole che non vogliono essere un messaggio di angoscia ma di speranza, di fronte alle inevitabili persecuzioni che, come Gesù, saranno riservate a chiunque vive davvero il suo messaggio.
“Salverete le vostre anime”: in greco psiché= la vita vera, quella capace di resistere alla morte. Cioè: anche se dovessero togliervi la vita, la vostra vita vera, quella profonda che è in voi, continuerà a vivere per sempre.
Una prospettiva che incute speranza: in pratica Gesù vuol farci capire ciò che lui vive, che poi è quello stesso che vivranno gli apostoli, e quanti lo seguiranno in ogni giorno della storia: “Tutte queste persecuzioni, questo male che vi si ritorce contro, è il segnale che voi siete con Me, a favore degli uomini”.
E concludo: cosa dice a ciascuno di noi questo vangelo? Senza dubbio ci dà una svegliata, dà uno scossone alla voglia di combattere che “dorme” in noi.
A volte infatti le persone sono entusiaste, le prediche persuadono, i propositi sono ben formulati, a parole tutto è bello, tutto è facile, tutto è semplice; ma poi nella realtà, nel mondo, nella società, tutto ci diventa difficile, impossibile: forse che per Gesù fu tutto facile? Chi ha mai detto che “seguire Gesù” sia una bella passeggiata, che sia facile, tutto sorrisi, abbracci e saluti? Chi ha mai detto che vivere il vangelo non comporti una lotta, un conflitto continuo?
Quando leggiamo il vangelo scopriamo che Gesù era perseguitato da ogni parte: gli apostoli delusi, lo speravano diverso; la gente comune era divisa tra lo scetticismo, il rifiuto e l’entusiasmo; i ricchi non lo sopportavano; i poveri neppure, anche perché non distribuiva pane e ricchezza materiale; i suoi familiari lo volevano rinchiudere perché “era pazzo” (Mc 3,21); gli scribi e i farisei cercavano in ogni occasione dei motivi credibili per farlo fuori. Gesù fu dunque odiato e perseguitato proprio dai suoi familiari e dai religiosi del suo tempo.
Nel testo parallelo di Matteo, Gesù dice: “Siate prudenti come i serpenti...” e di nuovo: “Guardatevi dagli uomini” (Mt 10,16-23). Egli sapeva bene come sono gli uomini: “Non sono così puri, limpidi e semplici come a volte pensate. A volte sono falsi, doppi, hanno le maschere, si prendono gioco di voi, vi faranno pagare qualunque vostro dissenso”.
Quando pensiamo al cristianesimo, ai fatti del Vangelo, molti di noi immaginano il “Gesù” patinato di Zeffirelli: tramonti incantevoli, cieli stellati, un mondo di pace, di bontà, di amore, una specie di paradiso terrestre, un luogo speciale in cui tutti sono buoni, tutti si vogliono bene, tutti vivono in armonia e pace.
Ma tutto questo non esiste e non esisterà mai. L’Eden, il Paradiso terrestre, l’abbiamo perduto una volta, e non lo ritroveremo mai più su questa terra. Pensare diversamente, è una pia illusione.
Diceva infatti Madre Teresa: “Quando fai qualcosa di buono, hai tutti contro di te: quelli che fanno la stessa cosa, quelli che fanno il contrario, quelli che non fanno niente. Ma tu combatti e continua a farlo lo stesso”.
Se vogliamo seguire Gesù, dobbiamo essere, come Lui, dei combattenti dell’amore: dobbiamo avere il coraggio di lottare per ciò che crediamo; mai arrenderci alla prima sconfitta, ma “insistere”, perseverare, consapevoli del valore di ciò in cui crediamo, sempre pronti a rischiare.
Rischio, lotta, coraggio, tenacia, non rappresentano le armi per le grandi occasioni, ma sono lo stile di vita di tutti i giorni: essere trasparenti e veri con gli altri; non nasconderci dietro a maschere e a ruoli; prendere iniziative che altri non prendono; esporci al pericolo di essere offesi, derisi, umiliati, feriti nel profondo dell’anima; fare cose che altri non fanno o andare controcorrente; battersi contro l’ingiustizia. Questa è l’armatura del cristiano: questa deve essere la nostra armatura quotidiana! Amen.



giovedì 3 novembre 2016

6 Novembre 2016 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo”…» (Lc 20,27-38).

La pagina del vangelo di oggi per noi, per la nostra mentalità, è difficile da capire, anacronistica, molto lontana dalla nostra cultura e dal nostro linguaggio. Vediamo di che si tratta.
C’è ancora una discussione tra Gesù e le autorità religiose: questa volta sono i Sadducei che la provocano, gente colta, che rappresenta quella parte dell’aristocrazia sacerdotale razionalista, che non crede nella risurrezione dei morti. Essi dunque si avvicinano a Gesù non per chiedere un suo parere, ma con lo scopo evidente di metterlo in difficoltà, di commiserarlo, di prenderlo in giro; come al solito però sarà sempre Gesù ad avere la meglio, mettendoli in ridicolo per la loro saccente presunzione e per la loro ottusità.
Il caso che propongono a Gesù è decisamente artificioso, ridicolo, grottesco. Partono da una prescrizione della Torah che dice: “Se una vedova è senza figli maschi, può essere sposata dal cognato per avere una discendenza” (Dt 25, 5), per prospettare una situazione decisamente impossibile, assurda, e arrivare a delle conclusioni altrettanto impossibili e assurde. Tant’è che Gesù neppure risponde alla loro provocazione: coglie al volo, però, il riferimento alla “risurrezione” dei morti, per cercare di spiegare, anche se in termini di non immediata comprensione, quello che succederà dopo la morte, nella vita futura.
Ho detto volutamente “di non immediata comprensione”, perché alcune espressioni già in passato sono state oggetto di una errata e superficiale interpretazione. Ad esempio, quando Gesù dice che: “Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della resurrezione dai morti, non prendono moglie né marito”; oppure: “Perché sono uguali agli angeli”: qualcuno ha interpretato queste parole come un velato disprezzo della sessualità, o che nell’aldilà saremo tutti asessuati. Ciò che invece Gesù vuol qui far capire, è che in cielo, nell’altro mondo, ci sarà un altro modo di stare insieme, un modo non più vincolato dalle leggi del matrimonio e della nascita terrena, che saranno ormai superate; ma tutti saranno uniti indissolubilmente da un solo Amore, che assorbirà tutti e tutto nella sua Unicità: una prospettiva la cui modalità e fattibilità concreta noi non potremo mai capire; al massimo potremo immaginarla, ma con difficoltà e solo con la fede.
Gesù dunque superando la banale questione dei Sadducei, ne approfitta per parlare del mistero della risurrezione e della vita futura, dando in proposito due risposte.
La prima di ordine formale: non è possibile servirsi dei nostri attuali criteri razionali per parlare e spiegare l’aldilà. Tutto quello che diciamo sono solo ipotesi, balbettii, allusioni, immagini, parabole. I Sadducei utilizzano invece immagini terrene, limitate e inappropriate, per parlare dell’altro mondo. In genere, ogni religione quando affronta il problema della destinazione finale dell’uomo dopo la morte, parla di luoghi incantevoli, di latte e miele, di pascoli erbosi, di luce splendente, di giardini fioriti, quando va bene; se va male, al contrario, di fuoco, di tenebre, di tormenti, di angosciose sofferenze. Ma sono solo supposizioni: è come se un bambino, ancora nel grembo della madre, volesse descrivere il cielo, il mare, un fiore, la fisionomia delle persone: ma come potrebbe descrivere il volto del papà o della mamma? Impossibile, non può.
Succede la stessa cosa anche a noi quando pensiamo l’aldilà. Abbiamo solo dei presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, che possiamo cogliere dall’osservazione della natura, che possiamo trarre dai nostri sentimenti, dalla nostra fantasia: l’alternarsi delle stagioni con fiori e piante che muoiono e rinascono; il seme piantato che “muore” per rinascere, crescere, e dare frutto; il sentimento dell’amore vero che ci estasia, che ci fa toccare il cielo, che ci unisce in maniera indissolubile; sono tutte semplici “trasposizioni” logiche che, quando oggi “balbettiamo” di aldilà, ci offrono un’idea, vaga e imprecisa, di cosa potrebbe significare “risurrezione, rapporto con Dio, paradiso, vita beata”: ma sappiamo per fede che la vita in Dio, l’Amore eterno, sarà un’esperienza completamente diversa, sarà un’altra cosa, indescrivibile, talmente sublime da farci cadere in deliquio.
Di concreto non possiamo dire nulla, non possiamo descrivere nulla, non abbiamo alcuna certezza. Anche se noi credenti una certezza ce l’abbiamo, da sempre; una certezza su cui non possiamo assolutamente dubitare: di essere cioè figli di Dio. E questo dovrebbe bastarci. Perché se arriviamo a capire sul serio che siamo figli dell’Altissimo, non avremo più alcun motivo per preoccuparci di alcunché. Siamo figli della risurrezione: la morte futura non può farci paura. Viviamo allora serenamente, con fede, con fiducia, questa verità sacrosanta.
La seconda risposta è di ordine concettuale: c’è un aldilà e Gesù lo fonda sul rapporto di amicizia che l’uomo, durante la sua vita terrena ha stabilito con Lui. Dice: “Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi” e poi ancora: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. I Patriarchi che Gesù qui ricorda, sono state persone che nella loro vita hanno amato e servito Dio: sono state creature amiche di Dio, “vive”, fedeli a Lui. Con queste persone, e con tutta la loro discendenza, con tutta l’umanità grazie a loro, Dio ha stabilito un legame indissolubile di amicizia, di amore, di speranza. E poiché Dio è fedele, noi dobbiamo credere a questa promessa, è sulla certezza di questa Sua fedeltà che dobbiamo poggiare la nostra fede nella “risurrezione”. Chi si appoggia a Lui è come un ramo su una pianta: anche se non porta frutto, anche se la linfa non scorre più in esso, anche muore, non può separarsi, non può staccarsi di sua iniziativa da quel tronco che l’ha originato. Fidiamoci. Come un amico si appoggia ad un altro amico, la sposa allo sposo, un bimbo alla mamma, così noi dobbiamo appoggiarci a Dio. Perché Dio è colui che non abbandona le sue creature.
Ogni giorno sperimentiamo questa Sua fedeltà: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo un po’ da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo ciò che ci propone, anche se a volte gli siamo infedeli e lo tradiamo (che poi non facciamo nient’altro che tradire noi stessi), Lui rimane con noi, Lui è sempre presente. Lui è roccia (in ebraico hesed=amore fedele): Lui è granito; Lui è la mano che non si stanca di sorreggerci, che non se ne va, che ci tiene forte.
Non sappiamo con esattezza cosa voglia dire “Risorto”: sappiamo però che Lui è Vita, è Amicizia, è Amore, è Colui che non ci abbandona mai, qualunque cosa succeda: e questo ci deve bastare. Dobbiamo solo affidarci a Lui, consapevoli che con Lui non cadremo nel buio, nel vuoto. Se la nostra vita poggia su di Lui, durerà per sempre, perché Dio è eterno e offre ai suoi figli solo amicizia eterna.
Se noi in questo cammino terreno abbiamo riconosciuto Dio, l’abbiamo fatto diventare centro della nostra vita, se lo abbiamo amato,nonostante le nostre fragilità, non abbiamo alcun motivo di temere: il nostro incontro con Lui, alla fine del nostro percorso, sarà l’incontro tra due che si amano.
Ma se Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, se lo abbiamo relegato tra le cose inutili, se nella nostra esistenza lo abbiamo ignorato, contrastato, oltraggiato, vilipeso, allora sì che dovremo avere paura!
Ecco perché la morte, con quello che lo aspetta nell’aldilà, costituiscono per l’uomo l’incognita più tragica e angosciante. Ma ciò non deve meravigliarci: risponde al suo bisogno naturale di voler sapere, di avere il controllo su tutto, di essere sempre lui a gestire qualunque situazione. Gesù al contrario oggi ci chiede di abbandonare queste fantasie, questa innata presunzione; ci chiede semplicemente di aver fiducia; ci chiede di fidarci di Lui. “Perché?”, chiediamo. Perche “Ti amo”, risponde Lui: “Osserva attentamente la tua vita, e vedrai quanto ti ho amato e quanto continuo ad amarti. E se ti amo così intensamente, come potrei abbandonarti? Fidati di me!”.
Giusto: solo che la fiducia, quella sincera, quella totale, esige confidenza, adesione, amore. Soprattutto amore: perché è soprattutto l’amore che ci spinge, che determina il nostro fidarci, il nostro andare avanti con sicurezza: e questo, credetemi, non perché già conosciamo dove andremo, cosa faremo, come saremo; ma solo perché conosciamo bene, perché ci fidiamo ciecamente di Colui che ci guida.
Una sera di tanti anni fa, alcuni amici mi hanno bendato e mi hanno detto di fidarmi e di lasciarmi condurre. Non era il mio compleanno, non c’erano motivi particolari per questa sceneggiata. Non mi fidavo molto; anzi, poiché non capivo il senso della cosa, avevo paura di qualche brutta sorpresa, facevo un sacco di domande, tenevo le mani avanti ed ero attento ad ogni rumore. Non avevo la più pallida idea di come sarebbe finita. Quando mi tolsero la benda, meraviglia: c’era una grande tavola imbandita con tutti i miei amici più cari seduti intorno. Volevano solo festeggiare con me i decenni trascorsi insieme in grande e sincera amicizia. È stato emozionante.
Ebbene, questo rappresenta un po’ quella che è la nostra vita attuale; quello che succederà a noi quando andremo di là: avremo tanta paura nell’andare, ma poi una visione incantevole ci apparirà. Sarà una festa decisamente diversa da come la possiamo immaginare ora: inutile pensarci; inutile cercare di farci delle idee a modo nostro; inutile voler sapere ad ogni costo i particolari. Sarà un tripudio d’amore. Punto!
Noi siamo come i bambini: sono traumatizzati dal dover nascere, non sanno che quel passaggio così difficile è la loro unica salvezza, è l’inizio di una vita stupenda, una meravigliosa avventura tra le braccia accoglienti, calde, protettive e amorevoli della madre.
Allora anche a noi tutto sarà chiaro, tutto sarà compiuto, tutto il dopo sarà in pienezza.
La nostra vita è un seme che già contiene l’albero eterno dell’Amore. Nessuno di noi, dalla nostra attuale prospettiva, può dire come realmente sarà: ci deve bastare l’idea che sarà totale fecondità, frutti dolcissimi, sviluppo armonioso, amore senza fine.
Tante persone sono convinte che il risultato finale, l’inferno o il paradiso, sia solo una questione di fortuna, un po’ come giocare al lotto: sperano soltanto che vada bene, perché può capitare questo o quello. Nossignori. L’inferno o il paradiso non capitano a caso: ce li costruiamo noi. L’inferno o il paradiso ce li scegliamo noi; la scelta è solo nelle nostre mani: quando andremo di là, Dio non farà nient’altro che confermare quella nostra scelta.
Scegliamo la vita, allora, amici! Scegliamo il paradiso! Scegliamo l’amore! Amen.


giovedì 27 ottobre 2016

30 Ottobre 2016 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là» (Lc 19,1-10).

Gesù sta continuando il suo viaggio verso Gerusalemme. Gerico, si trova infatti a circa trenta chilometri da Gerusalemme, lungo la grande via di comunicazione che costeggia il Giordano, attraversando la Samaria e la Giudea. Per questa sua posizione la città costituisce un punto strategico dell’amministrazione romana. A Gerico è quindi normale incontrare funzionari imperiali, uomini dell’esercito e “pubblicani”, ossia coloro che gestivano la riscossione delle tasse per conto dei Romani. Da tale attività essi traevano ingenti guadagni, defraudando in particolare la popolazione più debole. Per questo erano a ragion veduta i più odiati da tutti.
Qui a Gerico Gesù incontra Zaccheo, un pubblicano. Ma chi è in realtà questo Zaccheo?
Il suo nome significa “giusto, puro”, ma nessuno dei suoi concittadini, sicuramente, lo considerava tale; nessuno degli uomini, ma Gesù sì. 
Anche se fuori non lo sembriamo, anche se ci comportiamo da “figli di buona donna”, anche se sembriamo dei corrotti o quant’altro, Dio riesce sempre a vedere di noi quella piccolissima parte pura, giusta, il nostro minuscolo seme di bontà, la nostra sconosciuta verginità. Per quanto sgualciti, strappati o rovinati che siano, 50 euro rimangono sempre 50 euro. Il nostro valore e la nostra dignità di uomini non viene mai meno, per quanto ci accada di brutto nella vita.
Zaccheo dunque è un pubblicano: ora, dare del “pubblicano” ad uno, equivaleva dargli dell’immorale, del falso, del ladro, del traditore. I pubblicani erano per gli ebrei gente da odiare, da eliminare, da sterminare. Solo che non potevano. E Zaccheo non è soltanto un pubblicano, ma è addirittura il capo dei pubblicani: è il più ladro di tutti. E tutti lo sanno!
In effetti è un poco di buono, un infedele (venduto ai Romani), un peccatore. E quando la gente dice di Gesù: “È andato ad alloggiare da un peccatore”, dice la verità. Zaccheo era anche molto ricco, perché col suo lavoro aveva rubato tanto. È naturale quindi che un personaggio tanto spietato con i deboli, fosse così odiato.
Cosa potevano aspettarsi di buono da un uomo come Zaccheo? Assolutamente nulla! Eppure...
Zaccheo prima di tutto “cerca di vedere” (zetein idein). Ora, “cercare di vedere” esprime un desiderio: quando dentro di noi proviamo insoddisfazione, tormento, inquietudine, irrequietezza, vuol dire che quello che abbiamo, per quanto sia, non ci basta più. E allora cerchiamo di trovare qualcos’altro che ci soddisfi.
Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta più. Egli vuole felicità, ma la felicità che lui cerca non sta nelle cose, nelle ricchezze, nei beni materiali: sta nei valori della vita. Le cose materiali che abbiamo, ci servono solo per raggiungere quei valori, non possono diventare esse stesse “valori”.
Vogliamo una casa? È un buon desiderio, ma la casa è solo uno strumento. “Casa” vuol dire famiglia, amicizia, amore, comunicazione, intimità, protezione, serenità, ecc. Quando avremo la casa, e sentiremo che la casa da sola non ci da ciò che cerchiamo, la casa non ci basterà più.
Vogliamo sposarci? È un buon desiderio ma il matrimonio è solo uno strumento. Ciò che cerchiamo è l’amore, la tenerezza, l’intimità, la comunicazione, la paternità, ecc. Il matrimonio è solo un mezzo; il semplice fatto di essere sposati, non ci renderà mai felici. Abbiamo tra le mani un “contenitore”, ma vuoto, senza “contenuti”.
Non sono quindi le cose che ci fanno felici ma quello che sta dentro le cose, nel cuore, nell’anima; sono quei valori che nessuna moneta potrà mai comprare.
Per questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” oltre. Per questo alza l’orizzonte della sua vita: lascia il banco delle imposte per incontrare Gesù. Ed è meraviglioso, perché Zaccheo decide di fare qualcosa di diverso, di assolutamente nuovo, di impensabile. Se il nostro modo di vivere ci lascia insoddisfatti, ma continuiamo a fare sempre le stesse cose, cosa pensiamo di ottenere? Nulla! Dobbiamo necessariamente cambiare direzione. Dobbiamo guardare da un’altra prospettiva, dobbiamo salire più in alto. La gente invece vorrebbe una vita diversa continuando a fare sempre le stesse cose: ma ciò non è possibile!
Ogni azione è preceduta da un’altra azione. Vogliamo cambiare il mondo, ma non riusciamo a cambiare il comportamento degli altri? Possiamo sempre iniziare a cambiare ciò che facciamo noi. E se facciamo qualcosa di diverso, forse anche noi avremo una reazione diversa. Dobbiamo imparare a capire che il potere è nelle nostre mani: basta col prendercela con il mondo, con gli altri, con chi ci sta vicino, per quello che gli altri fanno o non fanno per noi. Non ci piace una cosa? Cambiamo il nostro modo di agire, e anche l’altro si adeguerà.
Zaccheo è piccolo. “Piccolo” non indica tanto l’altezza, ma la percezione interiore che lui ha di se stesso. Lui si sente piccolo; non sente il proprio valore, si sente da meno degli altri, si sente inferiore, si sente incapace rispetto agli altri. Il suo problema è il senso di inferiorità.
Finora cos’ha fatto? Poiché si sentiva inconsciamente “piccolo”, ha fatto di tutto per diventare il più grande, il capo dei pubblicani. È per questo che guadagna più di tutti. Pensava che diventando il più ricco, sarebbe stato anche il più stimato da tutti, il più amato: ma nella realtà non è mai così!
Tutti noi proviamo spesso la sindrome di Zaccheo, soffriamo cioè di un senso di inferiorità. In parte è normale. Quando siamo piccoli, non possiamo nulla, non abbiamo la forza per vivere da soli, per procurarci il cibo sufficiente, per difenderci, per affrontare le sfide della vita. Senza gli adulti ci sentiamo persi: siamo piccoli piccoli e loro sono grandi grandi. È chiaro che ci sentiamo inferiori a loro, più piccoli.
Crescendo, per vincere questo nostro senso di inferiorità, abbiamo bisogno di percepire il nostro valore, abbiamo bisogno che chi ci sta vicino ci aiuti a sentire che abbiamo le nostre capacità, le nostre risorse. Con il tempo, poi, ci accorgeremo che anche noi siamo in grado di comportarci come gli altri. E fin qui tutto è normale.
Ma che succede se ad un bambino gli si chiede troppo? Che succede se gli si chiedono cose che per la sua età non può fare? Ne dedurrà che egli non è in grado di farle, non perché è troppo piccolo, ma perché non ne è proprio capace. Che succede se gli si dice di continuo: “Non sei capace; lascia stare, faccio io; lo faccio io altrimenti perdiamo tempo; non vedi che sei un incapace?”. Un po’ alla volta penserà di esserlo per davvero.
Quello che noi esprimiamo di una persona, agisce su di lei. Se diciamo continuamente che uno è “un grande”, prima o poi diventerà un “grande”. Ma se ripetiamo che è “piccolo”, inadatto, rimarrà sempre “piccolo”, diventerà un disadattato.
E cosa succederà? O diventerà un pessimista cronico (“sì, è vero non valgo niente”) o un arrogante (“ti dimostro io quanto posso valere!”). In entrambi i casi l’origine e il problema sono gli stessi.
Ma guardiamo cosa fa Zaccheo, guardiamo il coraggio che ha. Mettiamoci nei suoi panni; tutti lo conoscono, tutti sanno chi è: uno degli uomini più famosi, più conosciuti, più potenti e temuti della città; e lui che fa? Si arrampica come un ragazzino su di una pianta! Ci vuole coraggio!
Egli sa che tutti lo deridono per la sua statura, e lui che fa? Sale su di un albero; sa che tutti lo vedranno e lo derideranno, ma lui ha il coraggio di farlo comunque, vincendo le facili battute e il sarcasmo della gente. Per trovare la propria strada, dobbiamo prima di tutto vincere la paura del giudizio altrui.
E Gesù, dal canto suo, che fa? Gesù non lo prende in giro, non gli fa nessuna predica: non lo vuole né convertire né cambiare. Lo chiama semplicemente per nome. Per tutti gli altri era “il capo dei pubblicani, il ricco”, ma per Gesù è soltanto “Zaccheo”. Chiamare per nome vuol dire dare dignità, dare un volto ad una persona. Gesù gli dice: “Io credo in te Zaccheo; io vedo che in te c’è qualcosa di buono. Per gli altri sei solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti. E tutti gli uomini hanno un angolino del loro cuore sensibile all’amore”. Gli pratica una medicazione salutare, veloce ed efficace: “Scendi subito”. Lo mette cioè di fronte a se stesso: “Chi ti credi di essere Zaccheo? Scendi dal tuo piedistallo, dal crederti chissà chi!”. La prima cosa da fare è ridimensionarsi, vedere se stessi con umiltà: non sentirsi né superiori né inferiori a nessuno.
Gesù nei suoi inviti è sempre diretto: “Taci, esci! (Mc 1,25); Alzati! (Mc 5,41); Mettiti nel mezzo! (Mc 3,3); Apriti! (Mc 7,34); Vieni fuori! (Gv 11,43)”. Per guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono quelle stesse che non vogliamo fare! Zaccheo si crede chissà chi, si atteggia a “sapientone” e si mette sul piedistallo con tutti: “Smettila e scendi giù; sei un uomo come tutti gli altri”. Se non farà ciò che gli viene chiesto, Zaccheo non potrà guarire. Perché ciò che va fatto, dobbiamo farlo, punto! Altrimenti non possiamo proseguire.
L’ordine di Gesù contiene anche le conseguenze del comportamento di Zaccheo: “Se tu continui a startene lassù, a ritenerti intoccabile, più degli altri, ti accadrà che non avrai mai amici, né compagni; nessuno potrà mai entrare in casa tua”.
Quando noi ci crediamo perfetti o più bravi dagli altri, noi ci distinguiamo, ci isoliamo da tutti, moriamo di solitudine. “Vuoi vivere così?” Zaccheo capisce subito: “la vita che conduco non è vita”, e per questo scende.
L’amore è condivisione. L’amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare il meglio di se stessi, che tutti possano esprimersi, possano fiorire, possano arrivare al massimo delle loro possibilità.
L’amore non è dare ma darsi. Zaccheo si dà, donando ciò che ha. Tutti possono amare, anche se non hanno nulla, anche se sono poveri. Per dare l’amore basta avere un cuore.
Ci si converte non perché ce l’ha detto Madre Teresa di Calcutta o San Francesco d’Assisi, o perché qualcuno ci dice che è bene così, che è importante farlo. Ci convertiamo perché ad un certo punto sentiamo che è necessario cambiare, che o viviamo diversamente da come siamo, oppure moriamo.
Conversione vuol dire tornare sui propri passi, fare una decisa inversione di marcia, cambiare vita per vivere meglio. Non per caso Zaccheo è “pieno di gioia”: finalmente qualcuno ha fatto breccia nel suo cuore, qualcuno ha smesso di giudicarlo per ciò che di lui si vedeva all’esterno; qualcuno finalmente lo ha visto nell’intimo del suo cuore e ha voluto incontrarsi con lui: “oggi devo fermarmi a casa tua”.
L’amore produce dignità: “tu vali per il fatto stesso di esserci, di esistere”. Per cui la decisione di Zaccheo è spontanea: egli si sente amato incondizionatamente, e gli viene naturale fare altrettanto. Gesù non pone condizioni. Gesù non dice: “Ti amo, vengo a casa tua, però tu devi...”. Zaccheo farà lo stesso. Chi gli ha chiesto di dare la metà dei suoi beni ai poveri? Nessuno! Chi gli ha imposto di restituire non il dovuto, ma quattro volte il rubato? Nessuno: questi sono gesti dettati esclusivamente dall’amore. Gesù ha amato Zaccheo gratuitamente e Zaccheo da quel momento ama gratuitamente. L’amore è gratuità, è donare disinteressatamente. È questo l’amore che salva la vita. È quando sentiamo qualcuno che ci dice, o ci fa sentire: “Non voglio nulla da te, non sono qui per questo. Sono qui soltanto perché tu sei importante per me; sono qui solo per aiutarti, se lo vorrai, a raggiungere il meglio di te”.
Zaccheo, senza Gesù, sarebbe rimasto semplicemente il capo dei pubblicani. Gesù gli mostrò che poteva essere un uomo migliore, felice e soddisfatto di sé. Zaccheo ha capito questo: ha accettato umilmente la sua condizione, l’ha riconosciuta davanti a tutti, non curandosi del loro sarcasmo. Ed ha incontrato l’amore. L’amore vero che gli ha cambiato la vita. Quell’amore che gli ha detto: “Voglio il meglio per te, ma sarai tu a decidere cos’è per te questo meglio”.
Per alcune persone l’amore è cambiare l’altro, renderlo come loro lo vogliono. Ma l’amore vero è mettersi a disposizione; non è dare, ma darsi. “Ti dono quello che sono perché tu viva meglio, al massimo di te stesso. E quando sarai diverso da me, e camminerai per la tua nuova strada, allora saprò che ti ho veramente amato”. Amen.