giovedì 20 ottobre 2016

23 Ottobre 2016 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano». (Lc 18,9-14).

La parabola di oggi è molto semplice: i protagonisti sono due, un fariseo e un pubblicano, che appartengono a due classi sociali decisamente opposte.
Il fariseo, è colui che si ritiene giusto; la parola stessa, “fariseo”, spiega questa convinzione: “fariseo” significa infatti “separato”, uno cioè che si ritiene una persona “diversa”, una persona “speciale” rispetto a tutti gli altri. I farisei erano fedelissimi ai dieci comandamenti, rispettavano rigorosamente la legge in tutti i suoi dettagli, anche i più piccoli, e proprio per questo si differenziavano dal resto della gente, più preoccupata per la sopravvivenza quotidiana che per l’osservanza della legge; si sentivano talmente “separati”, che per non contaminarsi, evitavano perfino di toccare chiunque. Erano “stimati” dal popolo per questa loro perfezione religiosa, tanto da venirne considerati i paladini, i modelli in assoluto. E qui sorge spontanea una domanda: “Ma i farisei non sono quelli che hanno perseguitato Gesù? Non sono stati loro ad ucciderlo? Non sono stati loro che hanno tentato in tutte le maniere di metterlo a tacere?”. Certo: proprio per questo loro comportamento esterno costituiscono la dimostrazione pratica di come si possa essere considerati giusti, religiosi, perfetti, pur essendo nell’intimo lontanissimi da Dio. Il fatto poi che siano stati proprio i più “fedeli” a Dio, ad uccidere il Figlio di Dio, e che lo abbiano fatto in nome di Dio, ci fa seriamente pensare! Del resto dobbiamo ammettere che anche oggi, come in ogni tempo, è proprio un certo “tipo” di religiosità esclusivista ed elitaria che arriva ad uccidere, a soffocare, la fede della Chiesa.
C’è poi l’altro personaggio, il pubblicano, che se ne sta a “distanza”: Luca in greco usa il verbo “makrothen”, un termine tecnico con il quale anche gli altri evangelisti indicano gli “esclusi” dal Signore, i lontani, i peccatori. I pubblicani erano infatti amici dei Romani, erano considerati dei collaborazionisti, dei traditori, e per questo erano cordialmente odiati dagli ebrei.
Entrambi dunque, fariseo e pubblicano, salgono al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale obbligatoria si teneva infatti nel Tempio due volte al giorno, alle nove e alle quindici.
Ora, la preghiera del fariseo è molto lunga e dettagliata; egli sta ritto in piedi, con lo sguardo fisso davanti a sé, e prega in silenzio: cosa normale per un ebreo, tant’è che ancora oggi avviene in questo modo, ma Luca lo legge qui come un segno di superbia. Non per nulla il verbo greco “prosèuketo”, significa letteralmente “pregava se stesso”: praticamente il fariseo si auto-lodava, si compiaceva di se stesso, si rivolgeva a Dio come ad un suo pari. Proprio come succede anche oggi a tante persone che “pregano” se stesse, adorano se stesse, e si servono della preghiera solo per mettersi in mostra, per atteggiarsi, per fare bella figura davanti agli uomini, pensando stupidamente, in questo modo, di risultare graditi anche a Dio.
C’è da dire che la preghiera del fariseo, dal punto di vista esteriore, è decisamente un ringraziamento a Dio: nella prima parte egli lo ringrazia per il suo essere “superiore” rispetto agli altri, portando le prove della sua impeccabilità: egli non trasgredisce la legge, non si comporta come gli altri che sono ladri, ingiusti, adulteri, pubblicani; inoltre digiuna due volte alla settimana (molto più di quello che la Legge prescrive), paga regolarmente le “decime”, ossia versa al Tempio, per i poveri, la decima parte del raccolto (frumento, olio, vino) e di quanto possiede. Tutto insomma in lui è impeccabile: lui, la sua vita, la sua preghiera; è veramente irreprensibile; dobbiamo riconoscere infatti che quanto dice è sostanzialmente vero: nessuno può permettersi di contestargli alcunché.
Anche tra noi ci sono persone delle quali non possiamo assolutamente criticare nulla. La loro vita è esemplare, priva di ogni difetto: pregano, sono ottimi padri, lavoratori, non fanno del male a nessuno, sono veramente perfetti: se non fosse che, anche per loro come per il fariseo, c’è un grave problema: nella loro vita c’è un’abissale incompatibilità tra il fare e l’essere: la loro vita, cioè, non è vita, è una vita senz’anima, una vita senza la Vita; sono dei morti viventi: la loro vita interiore non alimenta la loro vita esteriore: tra le due c’è una conflittualità insanabile. La loro anima, il loro cuore, senza la linfa vitale dell’amore, producono soltanto azioni aride, secche, insensibili, infruttuose.
L’altro, il pubblicano, si comporta invece in maniera completamente opposta: se ne sta “lontano”, piegato su se stesso, con gli occhi fissi a terra: una posizione che lascia trasparire la consapevolezza della sua profonda miseria morale, di uno cioè che si rende conto di aver imbrogliato Dio, i poveri, l’uomo: la sua vita era immersa in un giro di denaro da cui, una volta dentro, è impossibile uscirne: lui ebreo, cioè, faceva l’esattore delle tasse per conto dei romani invasori, uno dei sette mestieri maledetti e proibiti agli ebrei. Per cui quando si batte il petto, riconoscendo di essere un povero peccatore, dice la verità, è consapevole della sua condotta scorretta, è sincero, leale con se stesso e soprattutto con Dio.
Ebbene, di fronte alla preghiera dei due uomini, Gesù è lapidario; la sua sentenza è immediata: il secondo ne esce perdonato, giustificato, cambiato, reso giusto; il primo no. Perché?
Abbiamo detto che il fariseo inizia molto bene la sua preghiera: inizia con una lode a Dio; il dovere dell’uomo è infatti proprio quello di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi riuscissimo infatti a ringraziare Dio per ogni cosa che ci succede, noi faremmo della nostra vita una preghiera autentica, una solenne liturgia, un’eucarestia incessante. Subito dopo però il fariseo scade di stile: mette a confronto la sua vita con quella degli altri. Ora, con gli altri, all’esterno, noi possiamo anche giocare sull’apparire, possiamo esibire un ruolo che non è nostro, qualità e meriti che non sono nostri, possiamo indossare qualunque maschera, possiamo barare, possiamo insomma raccontare frottole, panzane, menzogne di ogni tipo: tanto, nessuno può controllare come siamo realmente nel nostro intimo, se l’esterno è azionato effettivamente dal nostro “motore” interno, se esiste coerenza tra i due. Nessuno, ma Dio sì. Di fronte a Dio non possiamo barare. Di fronte a Dio, i nostri teatrini, i nostri trucchi, cadono, svaniscono, si sciolgono come neve al sole; rimaniamo da soli, davanti alla nostra misera realtà, nudi e spogli di fronte alla Verità.
In questo sta l’inefficacia della preghiera del fariseo. La sua non è una vera preghiera: non è la preghiera che nasce dall’autenticità dei nostri sentimenti più profondi: non è la preghiera che, senza menzogne, senza false apparenze, ma nell’umiltà, nella consapevolezza dei propri limiti, ci porta giustificati al cospetto di Dio.
Questa è pertanto la preghiera del pubblicano: egli non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Lui è e si sente così. Chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per il suo malessere, per le sue zone oscure, le sue ferite, per le sue mancanze d’affetto, per il male che ha inflitto agli altri, per i suoi peccati, per i suoi errori. Riconosce umilmente la sua situazione, la sua realtà. Egli non mente a Dio, non mente a se stesso, in lui non c’è inganno.
Solo riconoscendoci vuoti davanti a Dio, possiamo uscire ricolmi della Sua ricchezza. Il pubblicano sa di aver bisogno di Dio, che la Sua mano lo accolga, lo abbracci, gli ridia dignità, lo salvi dal precipizio. Sa di essere ammalato e di aver bisogno del medico Divino: per questo torna a casa “giustificato”, cioè, amato, liberato, riconciliato, pacificato.
C’è quindi una preghiera gradita a Dio e una preghiera che Gli è decisamente insopportabile: quella cioè che non è sincera, quella fatta a beneficio di se stessi e del pubblico (“Lo sai quanti rosari recito ogni giorno? Hai sentito come leggo bene a messa, come canto bene?).
Ebbene: come pensiamo che sia la nostra preghiera? Siamo sempre convinti di essere coerenti con noi stessi, con la nostra fede, con il nostro io interiore? Purtroppo nessuno di noi può considerarsi assolutamente “immacolato”. Tutti, chi più chi meno, abbiamo bisogno di riconoscerci umilmente colpevoli: non è forse vero che nell’intimo del nostro cuore coltiviamo le nostre falsità, le nostre piccole ipocrisie? Non è forse vero che a volte siamo un po’ troppo benevoli col proibito? Non è forse vero che in certi giorni Dio ci sta talmente “antipatico” da arrivare a discutere con lui anche a male parole? Non è forse vero che in certe occasioni veniamo sopraffatti dalle nostre paure, e perdiamo la fiducia in Dio? Non è forse vero che certe nostre reazioni talvolta ci fanno paura? Non è forse vero che ogni tanto tradendo la fiducia degli altri, li feriamo volontariamente? Non è forse vero che ci piace sentirci dire che siamo bravi, che siamo più intelligenti, più belli, più simpatici degli altri? Non è forse vero che spesso, per nostra comodità, ci aggiustiamo le cose, a svantaggio del prossimo?
Chi di noi può dirsi “pulito” di tutto questo? Chi di noi può ritenersi coerente in tutto con gli insegnamenti di Gesù? Bene: se la risposta è “sì”, può scagliare per primo la pietra sugli altri. C’è però qualcuno che la scaglia comunque. C’è qualcuno, che ha così tanto buio dentro di sé, da permettersi di giudicare chiunque, ritenendosi il migliore di tutti. Molte persone sono convinte di essere a posto su tutto, di essere al di sopra di tutto e di tutti, e non si accorgono di comportarsi esattamente come il fariseo. Pregano molto: ma non sopportano che qualcuno li riprenda proprio su quelle realtà interiori che essi hanno bandito dal loro cuore, e che si rifiutano di guardare. Dicono che ciò che conta, è pregare. Dicono che questo conoscere il proprio intimo, la propria anima, sia soltanto una vana “psicologia”, un inutile “spiritualismo” che non serve a nulla. Ma sono tutte scuse: in realtà hanno paura di guardarsi dentro.
Non vogliono scontrarsi con la realtà, temono di scoprirla diversa da come loro la vedono, e questo li destabilizzerebbe, questo farebbe loro molto male, distruggerebbe la “bella immaginetta” di sé, che si sono creati.
Pertanto, il colloquio con Dio, la preghiera, non deve costituire un esercizio di scaltrezza, di diplomazia con Lui: non raccontiamogli fandonie! Pregare è aprire tutte le stanze della nostra vita e della nostra anima con sincerità e onestà, permettendogli di entrare con la sua luce e di illuminare quelle zone buie, quelle in cui nascondiamo tutto ciò che non vogliamo affrontare, tutto ciò che ci grida, che ci urla dentro, tutto ciò che noi soffochiamo, che mettiamo a tacere, perché ascoltarlo sarebbe troppo duro. Sicuramente lo è per noi: ma non per Dio; lui al contrario accetta volentieri di vedere, di ascoltare, di lenire tutto il nostro male, tutto ciò che è doloroso, ciò che noi non vogliamo accettare; Dio ama di noi anche ciò che noi non vogliamo amare, accoglie anche ciò che noi vogliamo cancellare dalla nostra vita; Egli vuol ridare vita e dignità a tutto ciò che noi lasciamo marcire nella cantina della nostra anima. Dio non teme nulla. Siamo noi ad aver paura. Lui ha vinto il mondo. Lui può amare ogni cosa. Lui può andare dove noi non possiamo e non vogliamo andare. Pregare è quindi lasciarsi condurre da Lui. Pregare è permettergli di entrare proprio là dove noi ci vergogniamo, dove ci facciamo schifo, dove ci nascondiamo, dove non vorremmo farlo entrare mai. Noi vorremmo esibire solo la nostra facciata più bella, tutta sorrisi e generosità; non ci piace che altri vedano quel che siamo realmente: ma questo è un problema nostro, non è un problema di Dio.
Anzi, quando accettiamo che Lui entri in noi, immediatamente ci rendiamo conto che Lui porta amore, accoglienza, benessere, porta olio e unguenti per le nostre ferite; ci porta pace, tranquillità. È la pace della Verità, della sincerità, la pace che segue l’abbandono delle nostre assurde velleità. È la pace della libertà dal male.
Il fariseo e il pubblicano rappresentano dunque due modi diversi su cui impostare la nostra vita. Il pubblicano conosce la sua realtà, riconosce la verità: “Io non sono quello che vorrei tanto essere; sono in realtà un meschino, pieno di limiti, colpevole di tante miserie”. C’è in lui una parte di se stesso che odia profondamente, che detesta, che rifiuta, che non vorrebbe vedere, ma con cui si confronta, da cui cerca di affrancarsi, anche se spesso la pallida luce dei suoi propositi, viene purtroppo soffocata dal buio delle sue azioni, della sua vita concreta.
Il fariseo al contrario non vive questa battaglia interiore: egli è sereno, ha rimosso completamente dalla sua coscienza ogni lato oscuro della sua vita. Lui non sente la necessità di misurarsi con la realtà, non la conosce, la tiene nascosta dentro di sé e, non vedendola, si è convinto che non esista più. Vive una falsa illusione, da cui un giorno dovrà dolorosamente emergere. Non vede il suo di male, ma al contrario lo vede molto bene nel pubblicano, in tutte le altre persone. Indulgente con se stesso, è intransigente con gli altri: proietta cioè inconsciamente su di loro, le sue deficienze, i lati oscuri della sua personalità, tutto quello di sé che lui non vuol vedere, che disconosce, ma che comunque gli appartiene. Facciamo attenzione a questo particolare, perché ciò che noi odiamo negli altri, ciò che critichiamo, ciò che ci dà fastidio, ciò che non sopportiamo in loro, altro non sono che le nostre stesse “debolezze”, quelle stesse deficienze che noi volutamente ignoriamo in noi, ma che appartengono alla nostra vita, sono parte di noi. Allora, amici, conosciamoci bene, entriamo dentro di noi, prendiamo atto di questa nostra parte sconosciuta, oscura, carente di luce; Illuminiamola con la luce di Dio, così da smettere, almeno, di mortificare continuamente i fratelli, criticandoli per dei difetti che noi stessi, anche se ci costa ammetterlo, ampiamente condividiamo. Non possiamo cambiare il mondo: possiamo però cambiare noi stessi. E se cambiamo noi stessi, anche il mondo intorno a noi cambierà. Amen.



giovedì 13 ottobre 2016

16 Ottobre 2016 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

«Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,1-8).

La parabola del vangelo di oggi ci presenta due personaggi: un giudice e una vedova. Per la Bibbia, il compito dei giudici era quello di difendere i più deboli: le vedove, appunto, i bambini e i poveri. Ma non è sempre così: in realtà, la stessa Bibbia condanna più volte le ingiustizie commesse con la complicità e l’appoggio degli stessi giudici (per esempio in 1Re 21,8-14; Am 5,10-33; Mic 3,1-2); come si vede, da che mondo è mondo, gli odierni problemi di malcostume sono sempre esistiti!
Questo giudice dunque non teme nessuno, se ne infischia altamente di quello che la gente può pensare o dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli crei sensi di colpa o che lo faccia ricredere sui suoi comportamenti. Fare il male, per lui, non è mai un problema.
Di contro c’è poi una vedova, una donna che appartiene alla categoria più debole della società, sprovvista di autonomia e di protezione. Questa vedova continua ad andare ogni giorno dal giudice: il verbo greco all’imperfetto, ci indica proprio la ripetitività di questa azione, nel senso che ci andava di continuo, quotidianamente. Insomma è quella che noi oggi definiremmo più argutamente una “rompiscatole”.
Il fatto che si rivolga ad un solo giudice, e non davanti ad una corte giudiziaria, ci fa capire che il suo problema è di carattere amministrativo: vuol dire cioè che la poveretta, chissà da quanto tempo, sta aspettando di incassare del denaro che le era dovuto: ovviamente non dispone di soldi per potersi “comprare” un magistrato che le faccia ottenere giustizia.
È il classico caso di pessima gestione della giustizia in cui un giudice opportunista, disonesto, che pretende somme illecite per compiere il suo dovere, si trova a dover emettere una sentenza a favore di una povera donna che, essendo in miseria, non gli avrebbe mai assicurato un guadagno extra. Per cui rimanda continuamente il caso, lo accantona, e infine lo blocca in attesa di tempi migliori; la donna non disponendo della somma necessaria, non può fare nulla, il suo è un caso chiuso in partenza, impossibile. 
A prima vista non le rimane altro da fare che arrendersi.
Quanta gente, di fronte a situazioni apparentemente critiche, si scoraggia ed esclama: “Impossibile, non ce la farò mai!”. Ora, se nel corso della nostra vita alcune situazioni sono effettivamente impossibili da superare, non possiamo in ogni caso essere rinunciatari a priori; dobbiamo provarci sempre e comunque, per non correre il pericolo di scambiare per “impossibile” un’impresa che magari è soltanto “difficile”.
C’è chi invece si rassegna, si adegua; preferisce fare la vittima. 
Ma la donna della parabola ci dice: “Fai come me. Provaci sul serio, non per finta; non guardare alle difficoltà, abbi fede, fidati di te, delle tue forze e soprattutto del fatto che Dio è sempre con te; devi lottare con tutto te stesso”.
E allora non fingiamo con noi stessi: proviamoci, insistiamo, con tutte le nostre forze, usando tutte le tattiche possibili: tant’è che la strategia della donna di “rompere le scatole”, anche se non del tutto ortodossa, alla fine si è dimostrata vincente.
Il verbo greco “hypopiazein” (letteralmente “colpire sotto l’occhio, fare un occhio nero) in senso figurato significa “seccare, importunare, colpire qualcuno ripetutamente”. La vedova cioè diventa per il giudice un incubo costante, un autentico fastidioso "colpo in faccia", una continua e puntuale scocciatura. Una situazione insopportabile!
Non è che noi dobbiamo essere proprio così (di rompiscatole ce ne sono già troppi in giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se per noi è importante, vitale, dobbiamo percorrere tutte le strade a nostra disposizione. Non fermiamoci al primo tentativo; non sentiamoci incapaci e soprattutto non consideriamoci delle vittime. Il messaggio della parabola è chiaro: “Insisti: sii ostinato, caparbio, assillante; non arrenderti, non mollare, tieni duro”. Dobbiamo insistere, non per il piacere di fare le teste matte, i testardi, i cocciuti come i muli, ma perché crediamo fermamente in quello che facciamo, perché siamo spinti da una fede solida, una fede incrollabile. Qualunque nostra lotta tenace, forte, importante, deve avere come presupposto essenziale il nostro credere, il nostro essere certi che Dio ci dà una mano, e che prima o poi la soluzione si risolverà a nostro favore. Dobbiamo però fare attenzione: lottare, reagire, pregare, insistere, non significa pretendere che Dio faccia ciò che vogliamo noi: sarebbe un delirio di onnipotenza! Dobbiamo semplicemente non lasciare nulla di intentato: e ciò significa affidarci alla fede, significa percorrere quella strada nuova e sconosciuta che essa ci suggerisce. Se ci accontentiamo delle solite strade che conosciamo, la fede non serve: basta ripetere i passi che abbiamo sempre fatto; ma sappiamo già che questa scelta non ci porterà a nulla.
La situazione della vedova, come abbiamo visto, è dunque critica, sembra già una causa persa in partenza. Ma lei possiede ciò che serve, ciò che è determinante, ciò che fa la differenza: lei ha fede. Questa donna è sicura di una cosa: non sa come, non sa quando, ma sa per certo che qualcosa cambierà: e agisce di conseguenza. Se noi non abbiamo fede, se non crediamo che le cose possano cambiare, nella nostra vita non cambierà mai nulla. Questo è un assioma della vita. Ma se crediamo che qualcosa cambierà e ci attiviamo per questo, stiamone certi che accadrà. E anche questo è un assioma della vita. Sembra incredibile: ma ciò succede non per logica, ma per la forza unica della fede. Virgilio esprime con parole sue questa grande verità: “Possono, perché credono di potere”. Conclusione: se non crediamo in ciò che facciamo, non arriveremo mai a nulla.
Il vangelo dunque ci stimola a combattere contro il male che ci insidia: “Tira fuori la tua voce; lotta per la tua fede; se nel farlo, infastidisci, molesti qualcuno, pazienza: non è possibile andare sempre bene a tutti; fatti sentire; non arrenderti!”. In pratica ci invita a non accettare bavagli di alcun genere, a non avallare imposizioni intollerabili.
Allora, non uccidiamoci con le nostre mani, amiamoci: diamo spazio, diamo visibilità e forza alla nostra fede, ai nostri sani principi, alla nostra morale cattolica; noi ci siamo, alziamo la voce, facciamoci sentire! Comportiamoci soprattutto avendo sempre presente la voce di Gesù che chiede a noi: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora la fede sulla terra?”.
Certo, durante il suo ministero su questa terra, Gesù di interrogativi ne ha posti tanti; ma quello di oggi, ci mette l’angoscia. Quello che trapela è un dubbio atroce per il domani, uno sguardo carico di tristezza per un futuro lontano che purtroppo è già diventato l’oggi.
Egli non si chiede: “Ci saranno ancora associazioni e movimenti cattolici, la gente andrà ancora in Chiesa, a Messa, farà ancora l’elemosina?” No, Gesù è angosciato perché vede che la sua Chiesa, quella che Lui ha fondato con tanto amore, oggi ha perduto la fede: vede che la preghiera è senza fede, vede che i Sacramenti sono vissuti senza fede, vede che l’annuncio del Vangelo è proclamato senza fede.
Di fronte al disinteresse religioso della società contemporanea, di fronte ad un mondo sempre più ingiusto, sempre più crudele, sempre più materialista, sempre più nemico di Dio, noi, suoi seguaci, ci siamo effettivamente demoralizzati, la nostra fede ha vacillato, è venuta meno, siamo caduti anche noi nell’apatia. Credere con assoluta coerenza oggi è diventata una rarità, è sempre più difficile: il cristiano è debole, frastornato, insicuro, non coglie più indicazioni certe neppure dai pastori, da quegli “Episcopoi”, ai quali Gesù ha affidato la guida e la custodia del suo gregge. Oggi il dubbio attanaglia il cuore dei fedeli: eventi come le guerre, le lotte per il potere, l’arricchimento personale truffaldino, l’egoismo imperante, il dilagare di ideologie amorali, sono diventate la “normalità”: Cristo stesso viene pubblicamente e impunemente irriso con opere di pseudo “artisti” e scrittori, peraltro osannati da una critica acefala. Tutto è messo in discussione, tutto è messo alla berlina, tutto è negato, tutto è oltraggiato.
Dio aveva consegnato all’uomo un mondo che poteva essere un capolavoro di misericordia, di fraternità, di amore. Egli, con la sua presunzione, lo ha ridotto a un covo di ladri, di malfattori, un accumulo di indifferenza, di ingiustizia, di malvagità.
Ebbene, quello che ci dice il vangelo di oggi è che non possiamo più ignorare una situazione tanto drammatica, non possiamo più avallare, in nome di un falso “buonismo”, una situazione che sta vanificando definitivamente l’autentico messaggio d’amore di Cristo.
La volontà decisa dei buoni, la loro azione personale, umile ma perseverante, la loro incessante preghiera, intrisa di fede vera, autentica, costante e fiduciosa, può fare il miracolo: “Io vi dico che [Dio] farà loro giustizia prontamente” afferma Gesù. 
Sarà Dio allora che interverrà a mettere le cose a posto. 
Fidiamoci di Lui, crediamoci. Anche se facciamo fatica a capire, stiamoci: ripartiamo, lavoriamo alacremente in questo mondo greve e insensibile, sicuri che la giustizia di Dio inizierà a contagiarlo, a guarirlo, partendo sicuramente col rinfrancare il nostro cuore. Amen.


giovedì 6 ottobre 2016

9 Ottobre 2016 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: Gesù, maestro, abbi pietà di noi!» (Lc 17,11-19).

Il vangelo di oggi racconta di dieci guarigioni e di un miracolo: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo riconosce ciò che gli è successo, e solo in lui avviene il miracolo. Perché guarire comporta una trasformazione interiore.
Gesù, ormai verso la conclusione del suo viaggio verso Gerusalemme, entra in un villaggio e dieci lebbrosi gli vanno incontro. La lebbra, allora, era tremenda sia come malattia, sia perché il lebbroso per la società era un morto vivente, non poteva avere più comunicazione sociale con nessuno, era un isolato, un imprigionato. Chi riusciva a venirne fuori, doveva presentarsi ai sacerdoti del Tempio, gli unici che avevano l’autorità di constatarne la guarigione, e di reintegrarlo nella società.
In altre occasioni Gesù per guarire gli ammalati li toccava: un atto per quei tempi decisamente scandaloso. Qui, no. Qui non li avvicina neppure, ma li manda direttamente dai sacerdoti pur essendo essi nel pieno della malattia. Perché? Non poteva guarirli subito? Chissà cos’avranno pensato quei lebbrosi: “Ma come: siamo malati, impuri e ci mandi dai sacerdoti? Come ci tratteranno vedendoci arrivare in questo stato?”. Tuttavia i dieci vanno, confidando sulla parola di Gesù; questo è il punto: “credono” e vanno. È questa loro dimostrazione di fede che li guarisce. Credono con fede profonda e sincera di poter guarire, di poter finalmente cambiare la loro situazione; e grazie a Gesù, ciò avviene.
Un monito per tutti noi: anche noi dobbiamo rivolgerci a Dio con altrettanta fede, perché se non siamo convinti che Dio ci ama, se dubitiamo di Lui, se siamo scettici nei suoi confronti, Egli non potrà mai darci retta, non potrà mai trasformare la nostra vita, migliorarla, non potrà mai guarirla. Tanti cristiani non riescono a migliorarsi, non guariscono dalle loro malattie, dalle loro infermità spirituali, proprio perché non credono nella possibilità che Gesù li possa aiutare, li possa guarire: e continuando a non credere, non guariranno mai! Quello che in particolare li frena nel loro cammino di fede, minandola, è il rispetto umano: trovano estremamente vergognoso e umiliante dimostrare apertamente, in pubblico, di essere credenti, di agire coerentemente con la loro fede, di fare o non fare certe cose perché credono fermamente nelle Parole di Cristo. Per prima cosa, quindi, devono vincere le loro paure, devono affrancarsi dalla loro vergogna, dai loro freni inibitori.
Gesù infatti non dice: “Ritiratevi in silenzio e andate privatamente nel tempio a pregare”, bensì: “Presentatevi dai sacerdoti”. Cioè: “Muovetevi, accantonate ogni timore, ogni reticenza, e andate a “mostrarvi” così come siete, andate a fare proprio quello che per rispetto umano non fareste mai, quello che avete paura, vergogna, di fare”.
Del resto la preghiera non è altro che il presupposto del “fare”, dell’agire: è preparazione: inizia cioè quando ci ritiriamo in noi stessi nel silenzio, convinti che Dio ci ama, e percepiamo in noi la presenza potente del suo amore incondizionato; e termina nel momento stesso in cui questa esperienza interiore si trasforma in forza, in energia, e diventa “azione”: “pregare” pertanto corrisponde ad “agire”, muoversi, andare, darsi da fare; altrimenti la preghiera non è preghiera, ma un inutile e vuoto blaterare. Quando dobbiamo affrontare una paura, un imprevisto, un problema che non conosciamo, ma che dobbiamo affrontare e risolvere, è allora che dobbiamo pregare: perché pregare significa metterci mano, uscire da ogni incertezza, affrontare a viso aperto, con coraggio e fede in Dio, ciò che temiamo, l’ignoto, ciò che ci fa paura.
Molte persone hanno un’idea distorta della preghiera, la considerano “magica”, un toccasana, miracolosa a prescindere: “C’è un problema, una difficoltà, di qualunque genere? Prego il Signore”. Punto. Chiuso. Hanno fatto quello che dovevano. Rimangono in attesa, non si muovono: “Io l’ho pregato, è Lui ora che deve darmi quello che gli ho chiesto!”. Sbagliato: pregare va sicuramente bene, ma per agire. La nonna diceva “aiutati che il ciel ti aiuta!”. Gesù infatti non si limitava a parlare, ma mandava, chiamava, dava ordini: “Va’; esci; vieni; seguimi!”; faceva muovere, faceva agire le persone: in una parola le faceva “vivere”!
Il nostro modo di pregare, invece, il nostro “vivere” la fede, è spesso terra terra. È come se andassimo al supermercato: ci basta scegliere, senza fare alcuna fatica, per portar via ciò che vogliamo: lì c’è tutto. Solo che quando si tratta della nostra vita di fede, abbiamo bisogno di cose spirituali, di aiuti particolari. E Dio non è un supermercato delle nostre voglie, il pronto “tappabuchi” per ogni nostra necessità. Non scarichiamo su Dio le nostre responsabilità, non rinfacciamogli la responsabilità delle nostre situazioni, incancrenite e insopportabili. Perché potremmo sentirci dire: “Ma tu cos’hai fatto fino ad oggi? Pensi di continuare a far nulla? Sei tu che devi intervenire, sei tu l’unico artefice, il responsabile unico della tua vita!”.
Gesù vedeva nelle persone che incontrava, nella prostituta, nella peccatrice, nei pubblicani, nei peccatori, nei lebbrosi, cose che nessun altro riusciva a vedere. Il vangelo dice spesso infatti che Lui “li vide”. E Lui li vedeva bene, vedeva dentro di loro, nel loro cuore: se “credevano”, se cioè la loro preghiera era originata, “spinta”, “azionata” dalla forza dell’amore, allora ottenevano ciò che chiedevano, venivano miracolosamente guariti.
Il miracolo avviene soltanto se noi crediamo in Dio con i fatti, concretamente, altrimenti Lui non può fare nulla: se noi lo “speriamo”, se lo “desideriamo”, se ce lo “auguriamo”, non ci sarà alcun miracolo. Ma solo se crediamo: solo se abbiamo fede, se ne siamo convinti, possiamo guarire da qualunque “malattia”.
Con il termine “lebbra” noi oggi designiamo la classica malattia di Hansen. Ma il termine ebraico “sara’at” si riferiva in genere alle varie malattie della pelle: escrescenze fungose, muffe, infezioni, eczemi. In questo caso possiamo identificare la nostra pelle con la nostra vita; è lei infatti che mette in comunicazione il nostro “interno” con il mondo esterno, con la società. La pelle ci difende, ci avvolge, ci protegge dalle ferite e dai pericoli esterni. In senso figurato possiamo quindi interpretare la lebbra, malattia della pelle, come quella malattia spirituale che intacca, attraverso l’esterno, la bellezza interiore della nostra anima: quella malattia che ci isola, che ci esclude da ogni rapporto vitale con Dio e con la realtà. È la malattia dell’esclusione; è quel marchio indelebile che ci condiziona, che ci fa sentire tagliati fuori dalla comunità dei fratelli, che ci fa vergognare, che ci fa sentire “discriminati” da Dio e dagli uomini.
Ma non dobbiamo disperare, non dobbiamo darci per vinti: muoviamoci, andiamo da Gesù: Egli continua a passare continuamente per le nostre strade e si ferma pazientemente ad aspettarci: chiamiamolo a gran voce, preghiamolo e, se la nostra fede è autentica, potremo sentire distintamente la Sua voce che ci invia dai sacerdoti e ci dice: “Non permettere mai che la vergogna, che il giudizio degli altri ti uccidano, ti impediscano di vivere. Ritrova la fiducia che è in te: alzati, abbi il coraggio di mostrarti, di far vedere a tutti quello che sei realmente. Fatti vedere, non nasconderti, lavati dalle tue brutture, togliti di dosso tutte le maschere che ti deturpano, perché la tua faccia è bella, luminosa, perfetta: non dimenticare mai che io ti ho creato a mia immagine e somiglianza!”. Il grande miracolo avviene, la nostra guarigione è assicurata!

Poi c’è la seconda parte del vangelo. Tutti guariscono ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? E gli altri dove sono? Il vangelo dice che solo “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. È quel “vedendosi guarito” che è decisivo. Uno di loro cioè si accorge di ciò che gli è successo: se ne “avvede”, riconosce la fortuna, la benedizione, la grandezza dell’accaduto. E gli altri? Degli altri non sappiamo: il vangelo non dice “che abbiano visto”.
Gesù aveva detto loro di andare dai sacerdoti: partono in dieci, tutti lebbrosi, ma uno “vede” e guarisce completamente anima e corpo: in lui avviene il “miracolo”; gli altri nove non “vedono”, si limitano ad eseguire l’ordine, e guariscono solo all’esterno, il miracolo vero in loro è fallito. È la religione del “io ti do e tu mi dai”. Tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. I nove non sono stati toccati nel profondo. Sono stati guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Pensano: “La guarigione l’abbiamo avuta, abbiamo fatto ciò che ci ha detto. Che altro dobbiamo fare?”. Non hanno visto Dio. Non c’è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento: avevano sete, hanno ricevuto il bicchiere d’acqua e si sono accontentati; non sono ritornati alla Sorgente, alla fonte, alla forza che li aveva guariti.
A Gesù le persone chiedono sempre segni e miracoli; ma vogliono tutto a basso prezzo, senza fatica, senza troppi coinvolgimenti. Vogliono un pacco-dono dal cielo, ma non per convertirsi, non per cambiare vita, per crescere; non riconoscono che Lui è la Vita vera, autentica, e non lo fanno entrare nella loro vita di facciata.
Tante persone pregano, pregano molto, e infine ottengono quello che chiedono: ma una volta ottenutolo, tutto continua come prima. Quello che è loro successo non le cambia, non le tocca. Rimangono in superficie, all’esterno. Magari, se non ottengono subito quel che chiedono, si arrabbiano anche, come se ottenerlo fosse un loro diritto. Insistono nel chiedere non per fede, ma per piegare in qualche modo Dio alla loro volontà, come se Dio fosse in debito con loro. Vivono una vita senza una vera lode di riconoscenza, senza gioia e festa, senza gratitudine, nella meschinità del tutto è dovuto: “Io prego, io faccio, io mi impegno: tu Dio, tu Vita, mi devi dare in cambio quanto ti chiedo”.
Il ringraziamento del samaritano è invece il segno proprio di chi ha capito che quanto è avvenuto in lui è un dono, che nulla gli era dovuto; e solo lui, “samaritano”, dissidente, peccatore, torna indietro a ringraziare: non possiamo ignorare una certa nota polemica in questa sottolineatura di Luca: sappiamo infatti che gli osservanti e pii Giudei consideravano i samaritani gente malfamata, depravata: ma saranno proprio i nove “religiosi”, i nove osservanti giudei, (non è scritto, ma il testo lo lascia supporre) che non torneranno indietro “miracolati” a ringraziare Gesù.
Il verbo ringraziare, “rendere grazie”, in greco è “eucaristèo”, fare “eucaristia”: accorgersi cioè che tutto ciò che avviene in noi e attorno a noi, è solo un “dono” gratuito, non dovuto, di cui dobbiamo essere profondamente riconoscenti. Spesso al contrario noi avanziamo soltanto pretese assurde, esagerate, eccessive. Siamo come i nove lebbrosi: non ci rendiamo conto dei doni che riceviamo, continuiamo per la nostra strada, come se non fosse successo nulla: siamo convinti che i doni che riceviamo non siano prove d’amore gratuite da parte di Dio, ma solo il riconoscimento di un nostro diritto in sofferenza, liquidatoci a seguito dei nostri solleciti: e in questo modo rifiutiamo anche noi il “miracolo”.
Per questo l’Eucarestia della domenica dovrebbe essere il nostro “ringraziare” Dio per i suoi doni, per la sua presenza nella nostra vita e nella settimana appena conclusa. Le nostre eucaristie, invece, sono spesso senz’anima, rischiano di essere solo l’osservanza di un precetto, una consuetudine, senza festa, senza vitalità, senza passione. Sono “impegni” di ordinaria amministrazione, un inno all’indifferenza: non vediamo, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio nel nostro tempo, nella nostra vita, non sappiamo vedere ciò che Egli fa per noi, non c’è alcun sussulto nel nostro essere presenti/assenti.
L’egocentrismo delle persone si manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: sono convinti di non ricevere mai abbastanza; sono sempre in ansia per ciò che manca, per ciò che non hanno; la società intera è sempre in debito nei loro confronti, nessuno li ama adeguatamente; le loro richieste, le loro pretese, crescono continuamente in progressione geometrica.
Il miracolo invece è rendersi conto, percepire, che niente ci è dovuto, che niente è un nostro diritto. Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ci meritiamo nulla, nulla ci è dovuto: tutto è dono dell’Altissimo; godiamocelo e ringraziamolo: non per nulla “ringraziare, grazia, gratitudine”, sono parole che derivano tutte dalla stessa radice: “gratis”! Tutto proviene dall’Amore di Dio. Un amore che non ci è dovuto, che è solo un dono. Ringraziamo Dio allora, viviamo le gioie e i piaceri del suo amore, stupiamoci e cantiamo se la nostra vita viene riempita d’amore; ringraziamo ogni giorno Iddio che ci fa vivere e percepire questa esperienza, che è la più forte e la più profonda della vita, benediciamolo per ciò che ci viene dato di vivere e siamogli grati perché nessun uomo su questa terra merita tanto. Così, la vita non ci è dovuta, è un dono, godiamola. Godiamo del sole che ci riscalda, della strada su cui camminiamo, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che pulsa, del cuore che batte in noi; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, possiamo esprimerci, possiamo piangere. Benediciamo Dio per gli amici, per le occasioni sempre nuove che abbiamo, per le possibilità che ci ritroviamo. Tutto questo è gratis, è per noi. Benediciamolo perché nulla ci è dovuto, ma è tutto frutto del suo amore.
Solo menti ottuse, senza cuore, totalmente rigide e senza vita, non sanno lasciarsi contagiare dallo stupore e dalla meraviglia di questo fremito così fragile e così perfetto che si chiama vita. La nostra vita è un capolavoro e soltanto chi è senza cuore non riesce a commuoversi e inchinarsi di fronte a tale bellezza. Solo menti cieche non sanno vedere in quale miracolo siamo immersi. Solo menti ottuse non vogliono conoscere, si ostinano ad ignorare la perfezione e la bellezza di un mondo in cui tutti noi abitiamo.
Chi non conosce Dio, non lo ringrazierà mai. Può farlo soltanto chi torna sui propri passi come il samaritano, perché si rende conto di essere coinvolto in un mistero molto più grande di lui: un mistero che lo trascende, che lo supera, che lo sorpassa: il mistero di Dio Amore. È un peccato vedere in Chiesa delle persone che non cantano, non ringraziano Dio, rimangono mute: rifiutano qualunque coinvolgimento, non vogliono dare voce ai sentimenti di riconoscenza che hanno dentro. Benediciamo invece ed eleviamo a Dio il nostro grazie per la vita: e questo non perché siamo ciechi, perché non vediamo i mali, le ingiustizie, i soprusi che, per causa nostra, ci sono nel mondo, attorno a noi, e spesso dentro di noi; ma perché guardando alla bellezza che ci circonda pur in mezzo a tante crudeltà, guardando alle meraviglie in cui siamo immersi pur in mezzo a tante cose incomprensibili, guardando alla bellezza della vita pur in mezzo alla sua limitatezza, riusciamo a vedere i tratti inconfondibili e innegabili del suo Amore divino.
Lodare (dal greco aineo) vuol dire anche “assentire, approvare, dire di sì, essere contento”.
Allora siamo contenti della vita non perché tutto sia roseo ma perché le diciamo di “sì”, perché la accogliamo così com’è, perché cerchiamo di viverla com’è, perché sentiamo che ha un valore inestimabile, enorme.
Dobbiamo sempre diffidare di chi non si sa stupire, di chi non si sa meravigliare, di chi non sa congiungere le proprie mani e ringraziare Dio per tutto ciò che vive; perché uno così manca di sensibilità, di riconoscenza, di amore. In altre parole non “sente” il dono, non capisce il “miracolo” che gli è stato fatto. E se non capiamo il miracolo incalcolabile della vita, non ne percepiremo neppure il suo valore inestimabile, e rischieremo di buttarla via, di svenderla, di sprecarla.
Lodiamo Dio per i suoi doni, per l’amore che ci dimostra continuamente, per la vita: perché lodarlo vuol dire essere fedeli, con stupore, con riconoscenza, sia all’incanto della vita, che alla sua drammaticità. Vuol dire essergli fedeli, dirgli sempre di “sì” anche quando non capiamo, anche quando siamo portati a fissarci solo sul negativo, su ciò che non va bene, su ciò che è parziale, limitato o insufficiente; lodarlo vuol dire riuscire a guardare oltre, a vedere che un domani tutto potrà essere migliore, anche se oggi non lo è. Lodiamo Dio, creatore della vita, perché ci ha dato la possibilità di vederla attraverso i suoi occhi; di viverla fiduciosi nella sua Provvidenza, di amarla nel suo Amore. Amen.


giovedì 29 settembre 2016

2 Ottobre 2016 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli apostoli dissero al Signore: Accresci in noi la fede! Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,5-10).

Siamo nel capitolo 17 del vangelo di Luca, e Gesù, lungo il percorso che lo porta a Gerusalemme, continua la sua catechesi itinerante. Il Vangelo di oggi si apre con gli apostoli che rivolgono a Gesù una richiesta accorata: “Signore, aumenta la nostra fede!”.
A che proposito? Come mai avanzano una tale richiesta? Per quale motivo affrontano qui il tema della fede?
Ci sono due spiegazioni logiche a questi interrogativi: la prima vede questo intervento sulla fede strettamente legato ad un contesto più ampio: sarebbe quindi un chiarimento di fatti e parole che lo precedono. La seconda invece pone la richiesta degli apostoli come un pretesto offerto a Gesù per cambiare discorso, per affrontare un nuovo argomento, in questo caso la fede.
In Luca il primo caso non appare subito così evidente e comprensibile. Perlomeno non come in Matteo, in cui il tema della fede è strettamente sequenziale al contesto che lo precede: un uomo ha un figlio epilettico, lo porta da Gesù perché lo guarisca, visto che i suoi discepoli in precedenza non erano riusciti. Gesù lo guarisce e a questo punto i discepoli gli chiedono: “Perché noi non ci siamo riusciti?”. E Gesù: “Per la vostra poca fede!” (Mt 17,14-19). E qui il tema della fede si lega in maniera perfetta e logica: se i discepoli avessero una fede grande anche “quanto un chicco di senape”, quindi in misura infinitesimale, riuscirebbero agevolmente a spostare le montagne.
In Luca, invece, la richiesta degli apostoli di aumentare la loro fede non appare così chiaramente legata al testo che la precede: qui infatti Gesù parla degli “scandali” (Lc 17,1-3), del perdono (Lc 17,3-4) e soprattutto che bisogna perdonare non una, ma “sette volte al giorno”, cioè sempre. Ora, che c’entra l’argomento della fede con lo scandalo e il perdonare? Apparentemente nulla, ma c’entra eccome: la spiegazione? Sta nella impossibilità da parte degli apostoli, umili e ignoranti pescatori, di accettare questa direttiva di Gesù, per loro assolutamente incomprensibile e contraria alla loro cultura: “Come? Perdonare sempre? Dare sempre un’altra possibilità? Dopo un torto, uno scandalo, un insulto così grande, dobbiamo ancora perdonare?”. Ecco, la molla che fa scattare la loro richiesta sta tutta qui: si rendono conto cioè dei loro limiti umani, capiscono che con la loro mentalità non potranno mai, in assoluto, concedere sempre il loro perdono, indipendentemente da tutto: “È troppo per noi, Gesù. Così come siamo ora, non ce la faremo mai; per questo, Signore, aumenta la nostra fede”.
Troviamo però altrettanto valida anche la seconda possibilità: che cioè la richiesta degli apostoli sia un escamotage “lucano” per cambiare argomento, per dare l’opportunità a Gesù di cominciare una nuova catechesi: da dove si capisce? Leggiamo il testo che precede: Gesù “un giorno” (17,1) si mette a spiegare ai discepoli (in greco mathetai), come gli scandali siano inevitabili: è un male che purtroppo esiste da sempre in tutte le comunità: una piaga che neppure Dio può eliminare, per non compromettere il libero arbitrio dell’uomo; tuttavia, pur condannandolo fermamente (“guai a colui che li provoca”), ordina ai suoi di perdonare il peccatore pentito: e non una volta, ma sempre. Punto: termina il v. 4 e l’argomento è chiuso. Inizia il versetto 5 e cambia scena: se prima era stato Gesù, spontaneamente, a voler parlare di scandali e perdono, ora sono gli apostoli, in greco apostoloi, che intervengono con una richiesta ben mirata: “Signore, aumenta la nostra fede”. Sono dunque “altre” persone, più qualificate rispetto alle precedenti, che erano semplici mathetai, “simpatizzanti” (sappiamo infatti che nei vangeli apostoli e discepoli appartengono a due gruppi ben precisi e distinti); si tratta di “collaboratori” di Gesù, che di punto in bianco, costringono Gesù a cambiare argomento.
Comunque sia, quello che preme qui a Luca è di riportare gli insegnamenti di Gesù sulla fede.
Seguiamo la tesi del nesso logico esistente tra il vangelo di oggi e il contesto che lo precede: è chiaro, in quest’ottica, che gli apostoli non si sentono ancora adeguatamente pronti per seguire quelle indicazioni di Gesù, per loro così difficili, innaturali, così “rivoluzionarie”: nel loro cuore avvertono però il bisogno di crescere, di migliorare la loro fede, di aumentarla: “Signore, aumenta la nostra fede”; si rendono conto che hanno ancora molto da imparare, da cambiare, da evolvere. Fanno comunque capire di essere nello stato d’animo ottimale per intraprendere un serio cammino di sequela: così come sono non basta; non si sentono adeguati, vogliono migliorare, progredire, andare sempre più in avanti, verso l’alto. A volte non credono, sono scettici, non arrivano a dare un senso agli insegnamenti del loro Maestro: per questo vogliono una fede “più”, in tutti i sensi.
È la fede, dunque, il loro assillo. Sappiamo che tutti gli interventi salvifici di Gesù sono sempre legati alla fede. Ma noi, che tipo di fede dobbiamo avere? Anche se Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, è chiaro che non è la fede del malato o bisognoso di turno che lo salva, ma è la potenza di Dio. La fede però ne è il presupposto, la condizione essenziale: senza la fede anche la potenza di Dio si annulla. Come mai? Perché “aver fede” significa riconoscere la nostra totale impotenza e, nello stesso tempo, porre ogni nostra fiducia nella potenza del Signore. La fede è il rifiuto di contare su di noi stessi, per contare unicamente su Dio. Questa è la condizione interiore che Egli ritiene indispensabile per esercitare la sua potenza, per donarci la salvezza, il coraggio che ci serve per seguirlo. Ma se la fede è questo, allora è chiaro che non possiamo trovarcela da soli, è chiaro che non possiamo crearcela autonomamente: anche la fede è un dono di Dio. A noi allora non rimane che chiederla umilmente, come giustamente hanno fatto gli apostoli: “Signore aumenta la nostra fede”.
Molte persone, purtroppo, pur avendone bisogno, non sentono affatto il desiderio della fede, non si pongono neppure il problema, la considerano una cosa per donnette ignoranti, di poco conto. Altre invece sono talmente diffidenti da respingere qualunque possibilità di iniziare nuovi percorsi, si bloccano, terrorizzate, all’idea stessa di cambiare, di crescere, di affrontare situazioni che aumenterebbero inevitabilmente le loro responsabilità. Per questo “Signore aumenta la nostra fede” deve essere invece la nostra preghiera quotidiana a Dio.
Alla domanda degli apostoli, Gesù non risponde con un “fate questo”, o “fate quell'altro”; e neppure risponde “Sì”, o “no”. Gesù offre loro semplicemente un criterio per poter stabilire da soli la qualità della loro fede: “Se aveste fede quanto un granello di senape potreste farlo”; cioè, potreste sradicare qualunque ostacolo vi si pari davanti, qualunque blocco mentale, qualunque decisione apparentemente impossibile da superare, come per esempio, questa vostra incapacità di perdonare sempre, di concedere sempre e comunque alle persone un’altra possibilità di riscatto, prima di sentenziare la loro morte spirituale.
Le caratteristiche della nostra fede stanno dunque tutte nella vittoria che essa può conseguire nello scontro titanico, alla Davide e Golia, tra la sua piccolezza, la sua debolezza pari ad un “granello di senape”, e la fermezza, la potenza poderosa di un albero centenario come il gelso. Un confronto tra due poli estremi: in Palestina era infatti proverbiale citare un “granello di senape” per indicare una cosa piccolissima, infinitesimale; oggi diremmo è “un niente”, una cosa insignificante, senza forza. Il gelso, invece, era notoriamente conosciuto come un albero difficilmente sradicabile, per la profondità delle sue robuste e lunghe radici, che gli consentivano di vegetare anche per 600 anni.
Ebbene, cosa vuol dirci in pratica Gesù con tale paragone? Che una cosa piccolissima, inerme, senza forza, è in grado di vincere, di sradicare, di sopraffare una cosa enorme, robusta, inamovibile. È l’assurdo della fede.
Avere fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se non sappiamo come; significa:“qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile, controproducente”.
Non confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede: quanti pregano senza fede anche tra i preti; quante Eucaristie si vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue! E non parliamo di noi “fedeli”: un disastro! La fede non è legata al nostro stare in un posto sacro, in un Santuario piuttosto che in un altro, a Medjugorje piuttosto che nella nostra Parrocchia.
La fede è una disposizione dell’anima, è attenzione a Dio, è fiducia pura in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è percezione netta, convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a meno, di essere protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi. Questo significa avere fede!
La fede in Dio allora non è quello che sappiamo, quello che abbiamo studiato, i trattati di mistica che abbiamo letto; non è la laurea in teologia; ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quello che abbiamo dentro, che sentiamo dentro: in una parola è sentimento, forza, energia, amore, emozioni incondizionate, che regolano la nostra esistenza.
Il contrario della fede è la “fissazione”, è quando cioè siamo irremovibili su una nostra convinzione, su un’idea, e non vogliamo in alcun modo cambiarla: un’altra grave deficienza del nostro essere veri cristiani. Quante persone per esempio sono convinte, sono fissate, che certe espressioni, certe azioni, certi comportamenti siano espressione di fede! Così, certi segni di croce, certe corone del rosario al collo, certe preghiere biascicate in fretta, certe “messe” per i defunti in cui deve essere necessariamente citato il nome della buonanima altrimenti la messa anche se “pagata” non vale, sono autentiche manie, fissazioni appunto, che nulla hanno a che vedere con la fede! In questo caso siamo come il gelso, dalle possenti radici, caparbiamente fissati sulle nostre idee, sulle nostre regole rigide, sui nostri pregiudizi, sui nostri credo indiscutibili: ma così rimaniamo fermi, immobili, impossibilitati a procedere; veramente più nulla ci è possibile.
Il più grande modello di fede presentatoci dai Vangeli? Maria ovviamente. Pensiamoci un istante: era impossibile per lei, umile ragazza di campagna, accettare quello che l’angelo Gabriele le proponeva, di diventare cioè la madre di Dio; cosa che solo a pensarla significava essere eretica: una donna madre di Dio? Subito la pena di morte!; accettare di rimanere incinta, ma non dal suo uomo, Giuseppe? Significava cercarsi almeno la lapidazione. Ma Lei ebbe fede, una fede incrollabile, una fede autentica: “Non so come farò, ma mi fido; avvenga di me quello che tu vuoi; tutto ciò che tu mi dirai, io lo farò”. E così fu.
Ma torniamo al seguito del nostro vangelo: all’insegnamento sulla fede, Luca fa seguire una parabola, una sua esclusiva (Lc 17,7-10). Indirizzata in particolare agli apostoli, agli operai della vigna del Signore e a quanti col battesimo hanno scelto di seguire le sue orme, questa parabola avverte che non ci si può mai fermare sui risultati acquisiti, mai riposarsi pensando di aver lavorato abbastanza. È una piccola parabola che non intende tanto descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di uomini verso Dio: che deve essere nei suoi confronti un comportamento di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Dopo una giornata piena di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono soltanto un servo”.
L’esempio portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10).
Ma cosa vorrà mai dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, reso in italiano con “inutili”, pur essendo evidente che i servi della parabola non sono stati inutili; è una parola di difficile traduzione, un termine che implica un particolare atteggiamento di modestia, tipico di persone “misere”, degli “schiavi”; l’atteggiamento di coloro cioè che lavorano stando al proprio posto con umiltà, senza ostentazione o presunzioni; che sono consapevoli di essere dei servi e che tutto quanto fanno rientra, nella normalità del loro stato: in loro nulla di eclatante, nulla di eccezionale. Sappiamo infatti che servire Dio è per sua stessa natura gratuito, rientra nella logica del dono: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
In particolare questa parabola colpisce una certa mentalità del tempo, che accampava pretese verso Dio: stabilisce cioè che il padrone indiscusso è Dio e che i suoi discepoli sono dei servi, privi di qualunque pretesa. Per alcune persone dell’epoca, invece, le opere buone, la fedeltà alla Legge e alle regole, costituiva un merito, un titolo di credito, che assicurava dei diritti nei confronti di Dio. Era un “do ut des”, uno scambio: “Sono bravo, ubbidiente, non faccio nulla di male, e quindi merito il paradiso, merito di essere amato da te, è un mio diritto, perché mi comporto da bravo cristiano!”.
È un rischio sempre presente anche ai nostri giorni. Soprattutto quando preghiamo: abbiamo fatto delle donazioni, delle offerte, siamo stati sempre caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, abbiamo frequentato la Chiesa, abbiamo assistito a liturgie particolari e impegnative? sono tutte cose che non ci danno alcun diritto di pretendere da Dio questo o quello, di chiedere grazie e benefici, come di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, di stabilire la pace nel mondo, ecc.”; quando preghiamo dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare con Dio, a non aver la presunzione di “comprarlo”, vantando in contropartita eventuali nostre opere “meritorie”.
Quando preghiamo Dio, lo dobbiamo pregare per ringraziarlo di quanto ha fatto e continua a fare per noi, per assicurargli il nostro amore, per donargli la nostra vita. Lo dobbiamo pregare perché ci dia la forza di affrontare ciò che, nella nostra debolezza, dobbiamo affrontare; la forza di fare le nostre scelte, di prenderci le nostre responsabilità, di accettare i limiti imposti dalla vita, ecc.
La preghiera non è uno scambio: “io ti prego un tanto e tu mi devi dare altrettanto”. Dio sa bene ciò di cui abbiamo bisogno: lasciamo decidere a Lui cosa, come e quando darcela; non pretendiamo di insegnarli come deve fare il mestiere di Dio!
Quante volte ci capita di sentire gente che mormora: “Sono arrabbiato con Dio, perché nonostante tutte le preghiere che gli ho rivolto non mi ha esaudito!”. Ed ha fatto bene! Dio non è questo, la preghiera non serve a questo. La preghiera non è il nostro strumento per “convincere” Dio a darci quello che ci interessa. La preghiera non serve per fare i “furbi” con Dio, per cercare di “raggirarlo”. La preghiera serve solo per convertire il nostro cuore, la nostra anima, per diventare più docili alla Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10). Amen.


giovedì 22 settembre 2016

25 Settembre 2016 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16,19-31).

Il vangelo di oggi non parla dell’oltretomba, della vita dopo la morte, ma parla dell’al di qua, di questa nostra vita: ci dice cioè come dobbiamo vivere ora, per non correre il rischio di finire poi, nell’al di là, come il ricco; ci dice in pratica che se ora ci disinteressiamo del povero che urla alla nostra porta, nell’altra vita finiremo sicuramente nei tormenti come il ricco della parabola.
Ci sono dunque due personaggi in primo piano: il ricco e il povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, segno di grande agiatezza e di alta posizione sociale, una casa, cibo a volontà per cui ogni giorno mangia lautamente e abbondantemente; ha fratelli, cioè amici, relazioni, amore; ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, anzi si preoccupa dei suoi fratelli; non è malvagio; non fa niente di male. Egli ha tutto, non gli manca proprio niente. L’unica cosa che non ha è il nome.
Poi c’è Lazzaro. Lazzaro, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i cani. Lazzaro è indifeso, è mendicante, bisognoso, affamato e solo, malato e ricoperto di piaghe. L’unica cosa che possiede è un nome.
Per la Bibbia, il nome riassume un po’ la vita della persona che lo porta, la rappresenta, è la sua immagine speculare; persona e nome sono la stessa cosa, coincidono. Allora conoscere il proprio nome, vuol dire conoscere se stessi, la propria identità, avere un programma preciso da realizzare, insomma, vuol dire essere vivi. “Lazzaro” è il nome del povero: il suo significato è “Dio aiuta”: un nome che sintetizza infatti la sua vita: egli ha bisogno che qualcuno lo aiuti, che qualcuno si prenda cura di lui e che lo salvi dalla sua condizione, ha bisogno di Dio.
Il ricco, invece, no. Quasi sempre i ricchi del vangelo di Luca non hanno nome: in questo caso il ricco non ha nome perché è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa o attira la sua attenzione, neppure ciò che gli succede praticamente in casa; non ha insomma alcun potere sulla sua vita. Non si accorge neppure di Lazzaro: ma come avrà fatto a non vederlo? Egli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere. Ecco, questo è stato il suo problema, la causa della sua condanna: non accorgersi, non voler prendere coscienza di nulla.
Ebbene, questo, dice il vangelo, è quanto sicuramente ci capiterà, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere, addirittura in casa nostra!
Viviamo pure come quel ricco: insensibili, indifferenti a ciò che reclama la nostra attenzione, il nostro intervento, le nostre cure; sicuramente ci condanneremo da soli, già in questa vita ma soprattutto nell’altra, eterna, a tormenti e disagi senza fine. Viviamo pure superficialmente, ignoriamo volutamente o per ignoranza le cose di Dio, e ci troveremo nelle sofferenze del nostro inferno.
L’inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi: continuiamo a perderci in chiacchiere insulse, evitiamo furbescamente di porci domande che ci scombussolerebbero la “quiete”, non affrontiamo volutamente questioni profonde e vitali, non scaviamo dentro di noi, evitiamo le difficoltà, i problemi, sbarazziamoci di tutto ciò che è scomodo, che ci crea fastidio, non ascoltiamo mai la voce della nostra anima, del nostro cuore: poi vedremo cosa ci capiterà!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di amore, di aiuto, di tenerezza, di comprensione e non ci sono arrivati! Non sentirci amati, aiutati, considerati, è stato sicuramente drammatico. Certo, sarebbe piaciuto anche a noi vivere come quel ricco nelle comodità, senza aver bisognoso di nessuno, autosufficienti in tutto! Fa così male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, umiliarsi perché qualcuno ci presti attenzione, ascoltandoci, colmando il nostro vuoto abissale: c’è sempre il terrore di ricevere un no, di essere ancora ignorati, rifiutati!. E così viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e buttiamo la nostra vita nella ricerca irrazionale dell’effimero riconoscimento altrui, di apparire almeno esteriormente importanti, di sembrare qualcuno.
Ma “Lazzaro” sono anche quelli che ci stanno vicini: sono le persone che sono tristi, che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: e noi spesso facciamo finta di nulla, di non sentirle: vediamole, queste persone, accogliamole, ascoltiamole! Se chi ci è vicino non parla mai, ammutolisce, è sempre chiuso in se stesso, vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Se chi ci è vicino è sempre di malumore, non ci rivolge la parola, anzi ci evita, vediamolo, ascoltiamolo, cerchiamo di capire i motivi del suo urlo silenzioso. Come facciamo a non accorgerci che nostra moglie, nostro marito, i nostri figli, hanno bisogno del nostro amore, delle nostre parole, della nostra presenza? Come facciamo a non vedere che hanno bisogno di noi, del nostro apprezzamento, di sentirsi valorizzati, delle nostre dimostrazioni di stima? Come facciamo a non vedere l’angoscia di quanti ci vivono a fianco, i dolori, i pesi, le delusioni che si tengono dentro il loro cuore? Lazzaro ci è vicino, pressante nella sua discrezione, ma noi non lo vediamo, non lo sentiamo, siamo distratti, occupati nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri passatempo.
E non ci accorgiamo, come l’uomo ricco, che viviamo già fin d’ora nell’inferno: perché il nostro inferno è la mancanza di amore, è la solitudine, è credere che nessuno mai potrà entrare in noi per chiederci e offrirci amore; inferno è chiudere con l’egoismo la porta del nostro cuore, della nostra mente, sbarrarla e impedire a chiunque di entrare. L’inferno è la chiusura a Dio: è non permettergli di entrare con la sua luce dentro di noi, dove c’è tormento, solitudine e sofferenza, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono e misericordia.
L’inferno o il paradiso è dunque nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se ospitare in casa nostra Lazzaro o se lasciarlo fuori.
La conversione è il momento preciso in cui smettiamo di ignorarlo, di resistergli e, con il cuore in lacrime, con dolore ma con un senso di liberazione, accettiamo che lui ci appartiene, che Lazzaro siamo noi: e proprio in quell’istante sperimenteremo su di noi il significato del suo nome: “Dio salva”.
Nella seconda parte della parabola poi, che si svolge in cielo, troviamo il ricco che rivolge al Padre Abramo l’accorata richiesta di mandare il povero Lazzaro dai suoi fratelli, su questa terra, per indurli a cambiare vita, per non fare la sua stessa fine.
Ma, dice Abramo, ciò non è possibile, oltretutto non serve a nulla; in altre parole: se uno ha il cuore indurito, se uno per principio non vuol credere, niente e nessuno potrebbe fargli cambiare idea, non crederebbe neppure se Cristo stesso ritornasse a predicare sulla terra. Del resto, prosegue Abramo, gli elementi, i segnali per credere, ci sono già tutti: chiunque può vederli, basta che lo voglia; chi invece testardamente non vuol vederli, non li vedrà mai!
Tutti abbiamo a disposizione “Mosè e i Profeti”; ma molte persone vivono una vita insensata, da sordi; si tappano le orecchie per non udire, vivono ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi inviti alla conversione. Hanno in questa vita tutte le possibilità per imparare, per fare esperienza, per crescere, per coltivare la loro sensibilità, per prestare attenzione non soltanto al loro “Lazzaro”, alla loro anima, ma anche per soccorrere tutti i “Lazzaro” che soffrono accanto a loro. Hanno tutto, ma non fanno nulla! Altri profeti, altri miracoli per salvarsi? No: è la fede che ci indica il come, e la carità che lo mette in pratica! È credere in Dio, vivere alla sua presenza, credere e confidare nella sua bontà, nel suo Amore misericordioso, nella bontà e nella perfezione delle sue creature, nella bellezza del creato intero.
I miracoli li viviamo ogni giorno: esseri vivi, risvegliarsi al mattino, è già da solo un miracolo strepitoso che Dio compie ogni giorno per noi; i computer, i robots, le conquiste tecnologiche più estreme, fanno semplicemente ridere di fronte al miracolo della Vita. Ma questo pensiero neppure ci sfiora; siamo immersi in un continuo e meraviglioso miracolo che si chiama vita, che si chiama amore di Dio, e questo non ci impressiona, non ci stupisce, non ci commuove.
È proprio vero: chi non vuol credere, chi pensa di sapere tutto, chi vive orgogliosamente nella sua ostinazione, nel suo isolamento, non crederà mai, neppure se vedesse un morto alzarsi e camminare!
Noi su questa terra siamo esseri di luce e di ombra: siamo spiritualmente i poveri “Lazzaro” e materialmente i ricchi gaudenti; siamo cioè i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti, i prediletti di Dio, quelli che godono della Sua luce divina, ma siamo anche, e forse più, quelli che non guardano nessuno in faccia, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita non facendo nulla, i gaudenti di questo mondo, quelli insomma che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo. È vero, siamo divini ma anche terribilmente umani.
Il grande compito della nostra vita è pertanto portare luce dove c’è buio, dove c’è il diavolo, il male, perché egli ama il buio, l’oscurità, la notte, il sotterfugio, il nascondersi, l’anonimato.
Ma chi vuol scendere nel buio? Nessuno. Il buio ci spaventa, ci angoscia, ci fa terribilmente paura. Chi vuole proiettare un raggio di luce in certi inferni della vita? Nessuno, ovviamente; per quanto ci riguarda, il più delle volte preferiamo seguire la soluzione del ricco, la più semplice: chiudere gli occhi e far finta di nulla; negare cioè l’esistenza del male, dei malesseri interiori, delle sofferenze: non li vediamo, quindi non ci sono! Ma siamo degli illusi! Non abbiamo bisogno di altre profezie per saperlo! Quante volte abbiamo provato, noi personalmente, l’esperienza del buio, del nostro inferno: viviamo immersi nel niente; non abbiamo più riferimenti, il nostro spirito è smarrito, ci sentiamo perduti, il dramma della nostra anima che brancola nell’oscurità più totale, ci destabilizza. Ma se ad un tratto una persona pia riesce a far filtrare in queste nostre tenebre, in questo nulla, anche una piccolissima scintilla di Luce, ci accorgiamo immediatamente che il nostro inferno si attenua, diventa sopportabile, vivibile. Come mai? L’importanza della nostra missione! Perché noi, nonostante la nostra inadeguatezza, siamo figli della Luce, siamo figli del Dio che ha creato la luce; siamo figli destinati a vivere nella luce di quel Padre che ci ama e che pazientemente ci aspetta per introdurci un giorno, come Lazzaro, nello splendore dell’Amore eterno. Amen.


giovedì 15 settembre 2016

18 Settembre 2016 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare» (Lc 16,1-13).

La parabola di oggi, al primo impatto, potrebbe risultare quanto meno sconcertante, poiché Gesù sembra elogiare un truffatore, un amministratore infedele, un ladro. Dopo le “parabole della misericordia” di domenica scorsa, siamo passati nel capitolo 16 del Vangelo di Luca, con la parabola del fattore infedele.
C’è un uomo ricco e, come tutti i ricchi, ha un amministratore dei suoi beni che è accusato di sperperare i suoi averi. Il padrone lo chiama e gli dice: “Rendimi conto della tua amministrazione, perché da adesso sei licenziato” (Lc 16,1-2). L’uomo, consapevole che il suo comportamento disonesto gli avrebbe procurato il licenziamento in tronco, cerca di risolvere al meglio questo problema imprevisto, ricorrendo astutamente ad uno stratagemma, in grado di creargli amicizie e connivenze importanti per il suo domani.
Ma osserviamo più da vicino i fatti: nella parabola l’amministratore non ammette le sue colpe, non si pente e non chiede scusa. Anzi, considerato che non ha più l’età per affrontare un nuovo lavoro manuale, decisamente più pesante, e che si vergogna di andare per le strade a chiedere l’elemosina, che fa? S’inventa una mossa in contropiede molto astuta, da manuale: continua cioè a rubare al suo padrone, ma questa volta a fini “pensionistici”, investendo per il futuro l’utile del suo malaffare . È un ladro professionista: sa che il padrone, come si usava allora, gli paga lo stipendio sulla base di una percentuale calcolata sul totale delle entrate, ovviamente ad incasso avvenuto; allora convoca tutti i debitori del padrone, s’informa sull’entità del loro debito, e detrae da esso l’importo che egli riteneva destinato a lui. Insomma una truffa in piena regola, ma che per lui truffa non è: “Queste somme mi spettano di diritto: non le potrò incassare più dal mio padrone, ma le investo ora che ho ancora l’autorità, per poterle riavere un giorno dai miei debitori, in termini di amicizia, di aiuto, di collaborazione. Sono certo che essi, a seguito della sostanziale riduzione dei loro debiti da me registrata, mi saranno sicuramente riconoscenti!”.
È chiaro che l’amministratore non è un esempio di correttezza: anzi l’aver fatto sottoscrivere ai debitori delle “cambiali” con l’importo falsificato, è da furfante, non certo imputabile a motivazioni spirituali, teologiche o caritatevoli.
È in questa sua scaltrezza mefistofelica che sta infatti la sua “grandezza”: perso per perso, costretto a rinunciare di punto in bianco alla sua sicurezza economica, allo stipendio, al denaro contante, si crea, finché è ancora in tempo, un investimento per il futuro che, sebbene rischioso in termini di denaro e di ricchezza immediata, gli assicurerà comunque un ritorno di riconoscenza, di legami commerciali, di amicizie, di collaborazione negli affari, tutti elementi ottimali per poter ricominciare una nuova attività redditizia.
Dice il vangelo: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza” (Lc 16,8). Una conclusione che per noi è piuttosto difficile da concordare con l’esempio di vita e gli insegnamenti di Gesù. Ma qui Gesù non elogia la disonestà, la malafede, l’ingiustizia, i furti compiuti dall’amministratore. Ad essere elogiata è la sua furbizia, la sua intraprendenza, la sua intuizione, la sua prontezza di spirito. Doti per nulla negative, ma assolutamente condivisibili e consigliabili a chi si adopera nel fare il bene; doti raramente riscontrabili in chi lo vuol seguire. Tant’è che Gesù conclude la parabola, costatando un po’ amaramente: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). Una constatazione che ci fa pensare ad un Gesù scoraggiato: suo malgrado, dopo tanto impegno da parte sua, deve ammettere che i figli di questo mondo, i figli delle tenebre, nei loro comportamenti negativi, sono più scaltri, più furbi, più “svegli” dei “suoi” figli, i figli della luce. Parole, le sue, che contengono un chiaro a pressante invito ai suoi di adottare nel bene una pari scaltrezza, di agire da insomma da persone “sveglie”, dotate di altrettanta furbizia e inventiva.
Per avere tuttavia una visione più completa del messaggio di questa pagina del vangelo, dobbiamo tener conto anche di altre considerazioni più tecniche.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che Luca è l’unico evangelista che ha molto a cuore il tema della “ricchezza”, dell’arricchirsi, con annessi e connessi. Egli infatti riporta sempre puntualmente gli interventi che Gesù fa a questo proposito: come per esempio nel capitolo 12, in cui parla della insensatezza di quell’uomo molto ricco che pensa solo ad aumentare le ricchezze fino all’inverosimile, rimandando continuamente nel tempo la possibilità di godersi la vita, senza capire che nessuno è padrone del tempo; per lui la ricchezza è garanzia di felicità, ma egli “muore” da subito, infelice, perché troppo attaccato ai soldi, perché fonda la sua vita soltanto sull’avere e non sull’essere.
Sempre lui, Luca, ritorna sul tema della ricchezza in questo capitolo 16, con il testo di oggi e con quello di domenica prossima, in cui leggeremo la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro.
Ora, il contrasto ricchezza-povertà era una questione sociale di grande attualità anche ai tempi di Gesù. Il termine di riferimento era il “Mammona”, cioè la ricchezza, che veniva comunemente distinta in ricchezza onesta e ricchezza disonesta. Ma per Gesù non c’è distinzione: la ricchezza è sempre, in ogni caso, “disonesta” (“adikia” in greco); per Lui l’arricchimento è sempre ingiusto, perché chi “accumula” solo per sé, inevitabilmente “sottrae” a qualcun altro: e questo si chiama “egoismo”.
Se però scendiamo un po’ più in profondità, vediamo che il termine “Mammona”, tradotto con “ricchezza”, in ebraico contiene la stessa radice di “amen”, un termine che conosciamo bene e che vuol dire “così sia”: un termine che introduce il significato di accettazione, di benestare, dell’augurarsi un qualcosa di sicuro, di certo; un termine insomma che dà sicurezza, su cui si può contare. E cosa c’è nella vita di veramente certo, cos’è che dà fiducia, che infonde sicurezza? Certamente, come abbiamo visto, non è il denaro, non l’accumulo di beni, non le ricchezze: pensare infatti che i beni materiali procurino felicità, è pura illusione. Allora, qual è la cosa che ci dà tranquillità, su cui possiamo contare, quella cosa che possiamo procurarci tramite il “mammona”, la ricchezza, vivendo cioè con la mentalità di questo mondo? Solo l’amicizia, la “filìa”. Ce lo dice chiaramente il testo: “mammona”, la ricchezza, che in sé è sempre “disonesta”, deve servirci solo per procurarci “degli amici” (fìlus), “procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Attenzione però: chi sono questi “amici” in grado di accoglierci nelle “dimore eterne”? Certamente nessun amico “fisico”, umano, materiale, può farlo. Solamente un amico “spirituale”, un amico sincero e fedele in qualunque frangente, un amico cui sta a cuore la salvezza della nostra anima: un amico che si chiama “la nostra fede”, “il nostro credo”; insomma, l’unico e vero amico che può accoglierci nelle “dimore eterne”, è Dio stesso.
In questo mondo possiamo dunque farci un solo “amico” che manterrà ogni sua promessa, un “amico” che ci salverà, che ci toglierà da ogni delusione: Dio.
Per noi cristiani la vera ricchezza è Dio, il vero “amico” è Lui, è la fede in Lui, l’abbandono in Lui: con Lui, la morte, il crollo di ogni nostra certezza materiale, non è più un dramma, ma sarà il mezzo per prendere il definitivo possesso della Vera Ricchezza, quella che non viene mai meno, quella che niente e nessuno potrà mai distruggere.
“Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?” (Lc 16,10-12). Non ci sono vie di mezzo: non esiste una fedeltà nel poco e una speciale nel molto. La fedeltà è unica.
Ma concretamente, in cosa consiste questa fedeltà? Come possiamo definirla? È una virtù, una dote, un “modus operandi” che ci proviene dalla fede; è la ferma convinzione che la nostra unica, autentica ricchezza, è Dio. Se siamo convinti di ciò, allora i beni terreni non contano, vivremo senza l’assillo continuo della loro crescita: useremo la ricchezza per quel che serve, in nessun caso vivremo per essa; anzi la condivideremo volentieri, senza alcun rammarico, perché non ne siamo schiavi.
Se non possediamo questa unica “fedeltà”, se non riponiamo esclusivamente in Dio ogni nostra certezza, siamo “infedeli”, siamo cioè “disonesti” verso di Lui e verso i fratelli, nel poco come nel molto. Perché “nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e Mammona” (Lc 16,17).
In altre parole, solo servendo Dio possiamo vivere affrancati dalla schiavitù del denaro: lo usiamo, ma non ci attacchiamo ad esso, non è il nostro Dio, non rappresenta per noi la certezza, l’assoluto. Solo in questo modo Dio è il nostro Dio; solo così il nostro cuore diventa “generosità”, “servizio”, “agape”; solo così il nostro cuore sarà aperto, sensibile, attento alle necessità e alle sofferenze del prossimo, e solo così un giorno verremo accolti nelle “dimore eterne” della Vita.
Dio, nostra unica ricchezza, ha il grande vantaggio di non deteriorarsi mai, di non avere scadenza, di essere imperdibile e irrinunciabile. Per questo vivere con Lui significa tranquillità, serenità, beatitudine, gioia vera, Vita!
Noi però, nostro malgrado, continuiamo a dimenticarci di Dio, ci lasciamo sedurre dai beni terreni (soldi, buon nome, prestigio, carriera, riconoscimenti sociali, potere): siamo purtroppo affascinati proprio da quei beni che non offrono certezze, che sono passeggeri, corruttibili; beni che possiamo perdere in qualunque momento; per essi siamo spesso disponibili a vendere anche l’anima. Viviamo una non vita in continua tensione: abbiamo paura di perderli, questi beni; cerchiamo di tenerceli stretti con ogni mezzo, e non ci rendiamo conto che, prima o poi, li perderemo comunque. Siamo stolti! Non abbiamo ancora capito che il “Mammona” non è un investimento: è solo un grande imbroglio, un bluff macroscopico, che riesce solo a soffocarci con l’ansia e la paura, che ci rende la vita, di per sé meravigliosa, sterile, vuota, arida, invivibile. Amen.