giovedì 24 settembre 2015

27 Settembre 2015 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo, e venga gettato nel mare» (Mc 9,42).

 Il vangelo di oggi ci mette di fronte ad un vero e proprio “peccato” della prima comunità cristiana: la presunzione cioè di possedere in esclusiva la verità, la perfezione e tutte le facoltà soprannaturali; in pratica: “Gesù è nostro!... noi abbiamo la vera sapienza... solo noi possiamo”. Una forma di devianza che conferma come i discepoli ragionassero sempre con la stessa bacata mentalità: la stessa di quando, domenica scorsa, litigavano tra loro su chi doveva essere il più grande, in quel nuovo regno di Gesù che essi si ostinavano a vedere solo come soluzione politica.
Il peccato più grande di questo gruppo era dunque la convinzione di avere il monopolio esclusivo su Gesù e i suoi insegnamenti, come se fossero i padroni della persona stessa di Gesù. Ma Gesù non è di nessuno; è di tutti. Non è di nessuno perché Lui è un uomo libero.
Fino a pochi anni fa si diceva: “Extra ecclesiam nulla salus”: fuori dalla chiesa non c’è salvezza. Cioè: solo noi abbiamo Dio e la salvezza. Ma il vangelo di oggi non dice affatto così. Dice: “Chi fa il bene, di dovunque sia, viene da Dio”. Una falsa certezza, quella di allora, che ha contribuito a innescare un fenomeno intramontabile, un fenomeno peraltro negativo sia ieri che oggi: quello della invidiosa competizione.
I discepoli vedono dunque uno che scaccia i demoni, dimostrando di essere molto più bravo di loro, e pensano: “Come è possibile che uno qualunque, un uomo della strada, riesca a fare quello che noi, i seguaci più stretti di Gesù, e quindi gli unici abilitati, non riusciamo ancora a fare? Vuol forse dimostrare a tutti che noi non valiamo nulla?”. Una constatazione che li mette in serio imbarazzo, li fa sentire in uno stato di netta inferiorità: non li sfiora neppure il pensiero che, se non riescono a farlo, dipende soltanto da loro, in quanto non sono liberi. Nessuno infatti può scacciare i demoni degli altri, se prima non sa scacciare i suoi. Nessuno può guarire un altro se prima non è capace di farlo con se stesso. Non si può dare agli altri ciò che non si ha. Non si può fare agli altri ciò che non si è in grado di fare a se stessi. Come possiamo amare, se non sappiamo amare noi stessi, non sappiamo difenderci, non sappiamo avere cura di noi, stimarci, volerci bene, valorizzarci, migliorarci, accettarci insomma per quello che siamo? Come possiamo insegnare “Dio” agli altri, se noi stessi non lo conosciamo? Se non lo sperimentiamo, se non ci lasciamo trasformare da Lui, se non lo seguiamo? Come possiamo perdonare gli altri se nel nostro cuore non conosciamo cos’è il perdono?
Tutte considerazioni che i discepoli non fanno: per cui decidono su due piedi di annullare il loro senso di inferiorità, eliminando colui che ne è stato la causa scatenante; si lasciano cioè trascinare in quella che è la forma più insana della competizione, quella più negativa, che consiste nella eliminazione dell’avversario: “Visto che tu, a differenza di noi, sei così bravo, riesci in tutto, sei brillante, hai successo, ecc., noi troviamo subito una buona scusa per metterti a tacere: ti giudichiamo, ti mettiamo in cattiva luce, ti mettiamo tutti contro; in pratica ti distruggiamo moralmente e fisicamente”.
Nonostante tutto, però, la competizione è in sé una cosa buona, positiva, perché risponde al bisogno naturale di affermarsi, di arrivare primi, di essere i vincitori; è il desiderio innato di trovare il nostro spazio, il nostro posto, la nostra realizzazione; è il desiderio buono che tutti abbiamo. Solo che è più facile, più comodo, più sbrigativo, distruggere semplicemente gli altri.
Poi il testo riporta quella frase terribile, che tutti ricordiamo: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo, e venga gettato nel mare” (Mc 9,42).
Cerchiamo di approfondirne un po’ il senso. Il termine “piccoli” usato oggi da Marco, è stato spesso inteso come “bambini”. Ma non è così: il termine micron, “piccolo”, era il termine dispregiativo con cui i rabbini definivano le persone che vivevano al di fuori della legge, o quelle che non riuscivano a praticarla per intero. Erano in sostanza delle persone di scarto.
Di fronte ad un Gesù che parla e attua la misericordia, il perdono, la tenerezza, l’accoglienza per tutti, è naturale che questi lontani, questi emarginati, queste nullità, in una parola questi “micron”, si sentano attratti da Lui, si avvicinino a Lui e al suo seguito, pensando di trovare qui un clima diverso da quello in cui trascinavano la loro triste esistenza. Purtroppo però una delusione attendeva quei “piccoli”: anche qui, tra i discepoli di Gesù, prevalevano identiche gravi scorrettezze: rivalità, invidia, gelosia, rancore, competizione, arroganza, ambizione di occupare i posti più prestigiosi (Mc 9,34). Inizialmente affascinati dall’amore di Gesù e dalla sua misericordiosa accoglienza, una volta a contatto con siffatta comunità di seguaci, rimangono talmente scandalizzati, traumatizzati, delusi, da decidere di allontanarsi definitivamente da Lui e dal suo Vangelo: ebbene, per Gesù, il comportamento traumatizzante dei suoi è a dir poco vergognoso: è ripugnante e scandaloso infatti che nella Sua comunità, nella Sua “Chiesa”, prolifichino ambizioni, grettezze, meschinità, risentimenti, odio. È impensabile, ma ci sono! In tal caso, Egli dice, urge un taglio netto, deciso, a qualunque altezza…
Unica soluzione cioè, per quelli che ne sono causa, è di farla finita una volta per tutte. In altre parole la soluzione migliore per loro è quella di buttarsi a mare, legandosi al collo una “macina da asino”.
Ma per suicidarsi in mare, non bastava “legarsi al collo” una semplice pietra? Perché specificare proprio “una macina d’asino?” (Mc 9,42). Perché a quel tempo, alla portata di tutti, c’erano due arnesi in pietra, esattamente due “macine” che servivano a triturare il grano: la prima, non troppo pesante, era azionata a mano dalle donne: mettevano cioè il grano dentro al foro e la giravano per frantumarlo. La seconda, invece, era la classica macina da frantoio, pesantissima, inamovibile, al punto che per farla girare era necessario l’intervento di un animale da soma. Quindi: non una zavorra qualunque al collo, ma data la gravità della situazione, la scelta obbligata era per quella che avrebbe garantito una fine assolutamente certa. Inoltre perché “gettarsi in mare”? (Mc 9,42). Non bastava buttarsi giù da un qualunque precipizio? Gettarsi in mare legati ad una “macina d’asino” era per gli ebrei la fine peggiore che potesse loro capitare, in quanto il corpo bloccato dall’enorme peso non sarebbe mai più riemerso e non avrebbe potuto avere la prevista sepoltura in terra di Israele, unica condizione per essere poi ammessi alla resurrezione finale.
In altre parole, Gesù vuol farci capire che con persone di questo genere, così arroganti, invidiose, gelose, competitive, Egli non vuole avere nulla a che fare. Gesù nella sua bontà non rifiuta nessuno, accoglie tutti, anche quelli che sono immaturi, pieni di paura o che proiettano i loro disagi interni sulle relazioni con gli altri. Ma non tollera che una comunità che si professa “cristiana”, che dice di vivere nel Suo nome e del Suo vangelo, si produca in simili atteggiamenti. Egli non sopporta chi distorce il suo messaggio e la sua immagine di Dio. Chi dice di annunciare Dio, e cerca invece di assicurarsi benessere materiale, ricchezza, gloria, notorietà, agiatezza, non solo non annuncia Dio, ma provoca grave scandalo; si comporta cioè in maniera intollerabile per Gesù. Per cui Egli ordina in maniera categorica: “Se la tua mano... il tuo occhio... il tuo piede, sono motivo di scandalo, tagliali” (Mc 9,42-48). Non a caso Egli cita questi tre componenti del corpo umano: infatti nominando la mano, Egli intende tutte le azioni, le opere; con l’occhio, i suoi criteri di giudizio, il suo discernimento; con il piede, il suo cammino, la sua condotta, il suo comportamento. In una parola l’intera entità umana è interessata: per cui se qualunque azione, qualunque pensiero, qualunque comportamento fossero motivo di scandalo, devono essere tagliati e gettati nella Geenna.
La Geenna (c’è tuttora a Gerusalemme) è il luogo dove venivano scaricate tutte le immondizie di Gerusalemme per essere bruciate. Era in pratica l’immondezzaio di Gerusalemme.
Allora, qual è il grande pericolo? Il grande pericolo è che se viviamo in un certo modo, finiamo col vivere nella Geenna, saremo morti dentro; vivremo da schifo; vivremo senza vita. Ecco perché dobbiamo tagliare via per tempo tutto ciò che ci potrebbe portare a  vivere in questo stato.
Queste del vangelo di oggi sono ovviamente delle immagini limite, che non vanno prese alla lettera. In pratica ci fanno capire che se noi, la nostra attività (mano), i nostri modi di pensare (occhio), i nostri comportamenti (piede), offrono scandalo (lo “skandalon” era la pietruzza dentro al sandalo che impediva di camminare), dobbiamo “tagliarli”: non si tratta cioè di tagliare letteralmente una parte del corpo, ma di eliminare definitivamente l’elemento che ci impedisce di crescere, di essere vivi, di fare il nostro cammino sulla strada del Signore.
Abbiamo visto che il motivo scatenante di queste parole è l’ambizione dei discepoli (Mc 9,34). In pratica quindi Gesù dice loro: “Dovete eliminare, estirpare, rimuovere, “tagliare”una volta per tutte la vostra ambizione. Altrimenti morirete dentro, morirete nell’anima. Perché l’ambizione è la radice dei mali, uccide il cuore, avvelena il sangue, annienta qualunque relazione. E queste stesse parole Gesù oggi rivolge anche a noi. Amen.

 

mercoledì 16 settembre 2015

20 Settembre 2015 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

“Partirono di là e attraversarono la Galilea, ma non voleva che alcuno lo sapesse, perché istruiva i suoi discepoli” (Mc 9,30-37).
 
Gesù chiede nuovamente ai suoi la riservatezza nei suoi confronti: non vuole che la gente sappia della sua presenza. Egli vuole, prima del precipitare degli eventi, concentrarsi su di loro, per formarli, istruirli; per questo ha bisogno di tempo e di tranquillità.
Compattare un gruppo, una squadra, è decisivo per compiere qualunque impresa: se non si dispone di una buona squadra, si può essere bravi quanto si vuole ma non si va da nessuna parte. E Gesù lo sa. Egli sa benissimo che da solo il suo messaggio non potrebbe continuare. Per questo forma un gruppo di volontari, di appassionati, di gente libera, di gente che lo segue perché coinvolta, “presa”, entusiasta: e ad esso Egli dedica tempo e formazione, perché saranno loro che lo aiuteranno e che poi continueranno la sua missione.
Gesù dunque parla agli apostoli e dice loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (Mc. 9,31).
Abbiamo già sentito domenica scorsa (Mc 8,27-35) un annuncio analogo: ma questa volta è un po’ diverso: se nel primo Gesù indica come autori della sua passione e morte le autorità religiose, tutta gente ebrea, qui parla più in generale di “uomini”. È l’umanità intera quindi che si rifiuta di accettare quella vera umanità che il Figlio dell’uomo è venuto a portare su questa terra, un’umanità che è solidarietà, perdono, amore, tenerezza, compassione, servizio, non violenza.
«Ma essi non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazione» (Mc. 9,32). Non chiedono perché hanno paura dei chiarimenti, preferiscono non capire perché intuiscono che la novità degli insegnamenti del Maestro, del suo Vangelo, è completamente diversa dalla loro, da quella che essi intendono. Essi pensano ad una grande nazione, con a capo Gesù; ad un forte esercito, magari proprio sotto la loro guida, con armi e potere. Essi vedono in Gesù il nuovo Davide che restaurerà l’antico regno. Ma Gesù non è nulla di tutto questo. Lui è il “Figlio dell’uomo”.
Giunti a Cafarnao Gesù chiede loro: “Di cosa stavate discutendo lungo la via?” (Mc 9,33). È chiaro che non hanno voluto coinvolgere Gesù nel loro parlottio. Camminava insieme a loro, ma essi lo hanno volutamente escluso dai loro discorsi: come mai? Perché, annotazione molto bella di Marco, essi stavano discutendo su chi sarà “il più grande” al seguito di Gesù. Ancora una volta dimostrano di non aver capito nulla delle sue parole. Sono completamente fuori.
Gesù, che pensa sempre in positivo, interpreta invece il loro parlare un semplice scambio di opinioni, un’amichevole reciproco riflettere su qualcosa di interessante, di profondo: nella sua domanda infatti Marco gli fa usare il verbo “dialoghizo”, che indica appunto un conversare pacifico, tranquillo, quando invece, noi sappiamo, la loro era stata una vera e propria discussione, una disputa: non un “dialoghizo”, quindi, ma un autentico “dialego”; due modi diversi di affrontare le cose: Gesù è mosso dall’amore, essi invece covano nei loro animi ambizione, voglia di successo, desiderio di gloria mondana. Una differenza chiarissima, per cui, dice il vangelo, “essi tacevano” (Mc 9,34). Il loro è il classico silenzio dell’imbarazzo, l’ammutolirsi di chi capisce improvvisamente e inequivocabilmente di trovarsi sul versante opposto.
A questo punto Gesù, che conosceva bene la situazione, avrebbe potuto arrabbiarsi sul serio: “Siete dei testoni irrecuperabili, possibile che vi ostiniate ancora a non voler capire?”. Invece si siede, e pazientemente riparte offrendo loro una nuova opportunità. Ben diverso da noi, che di fronte ad una contrarietà scattiamo immediatamente: Lui sa che tutto si impara con calma e con grande pazienza.
E a scanso di ulteriori equivoci, spiega: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti, il servo di tutti” (Mc 9,35). Parole chiarissime, che vanno ben oltre l’oggetto del loro contendere.
Loro infatti avevano litigato su chi sarebbe stato il “più grande”, Gesù invece stabilisce il comportamento di chi vuol essere il “primo”. Due situazioni differenti: perché mentre per gli apostoli “il più grande” è in assoluto uno che è “più” degli altri, per Gesù essere il “primo” non comporta l’essere “più” di nessuno: se uno solo dei discepoli può diventare il “più grande”, al contrario tutti, discepoli e non, possono essere i “primi”; come? diventando “servi” degli altri. E qui dobbiamo fare attenzione alle parole: Gesù parla volutamente di “servo” non di “schiavo”: il termine usato è “diàconos”, non “doulos”: quindi una differenza sostanziale, un approccio completamente diverso, perché mentre il “diacono” si mette spontaneamente a servizio degli altri, in maniera libera e volontaria, lo schiavo no: lui fa le cose solo perché è costretto a farle.
Essere “servo” dei fratelli, quindi, comporta un atteggiamento sinceramente propositivo, vuol dire in pratica non considerarci superiori a loro, non disprezzarli, non fagocitarli, non dominarli, non discriminarli. Vuol dire trattarli come trattiamo noi stessi, con la stessa cura, con la stessa sollecitudine, con lo stesso entusiasmo: ben consapevoli che nessuno è inferiore a noi, e che noi non siamo superiori a nessuno.
L’essere “servi”, pertanto, esclude anche ogni forma di servilismo, contrariamente a come talvolta ci hanno fatto credere: esclude cioè l’annullamento di noi stessi, della nostra dignità, il distruggerci, l’umiliarci, l’esaurirci, l’arrivare fino quasi a morire per “servire” gli altri; ancora: non vuol dire spersonalizzarci, non vuol dire che dobbiamo obbedire sempre e passivamente, stare sempre zitti, essere comunque accondiscendenti, soprattutto quando non dovremmo: soprattutto non vuol dire arrivare ad essere considerati persone inutili, degli zerbini da calpestare. Perché questa è una forma di spiritualità esasperata, inutile e dannosa. Significa non tenere in nessun conto la grande dignità che Dio ha riconosciuto a ciascuno di noi, in quanto opera delle sue mani.
E che fa Gesù a questo punto? Prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia.
Ma perché un bambino? Per la nostra cultura il bambino è il simbolo della tenerezza, dell’amore, della vulnerabilità, una persona importante da difendere e da accudire. Ma ai tempi di Gesù un bambino non era nessuno, non contava nulla, non aveva alcuna autorità, non aveva voce su nulla. Era come se non esistesse. “È così che dovete comportarvi, dice Gesù: dovete essere tutti come dei bambini!”. Che non vuol dire essere “infantili”, ma sentirsi come loro, essere cioè come loro incapaci di dominare gli altri, incapaci di usare forza e potere nei loro confronti; tant’è che “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me e Colui che mi ha mandato” (Mc 9,37). In altre parole, sottolinea Gesù, “dovete essere come me, dovete imitare me, uomo mite e umile, che pur avendo potere, mi sono comportato come se non l’avessi”.
Il “vero potere” è quindi non avere potere. Il vero potere è l’amore: perché l’amore, come il bambino, non ha potere. Se avesse potere, non sarebbe più amore, ma autorità, dominio, supremazia: equivarrebbe cioè gestire gli altri, tenerli in pugno, farli girare intorno a sé; farli sentire in colpa, tenerli legati a noi per poterli manipolare.
Il potere, a differenza dell’amore, ignora gli altri, non rivolge loro la parola, impedisce loro di conoscere la verità, di conoscere cosa pensiamo, cosa decidiamo, come viviamo; manipola, seduce, minaccia, vuole avere sempre ragione. Il potere tende solo a distruggere gli altri; l’amore al contrario li valorizza, li sostiene, previene i loro bisogni, asciuga le loro lacrime, condivide le loro gioie.
C’è un solo modo di esercitare positivamente il potere coinvolgendo tutta la nostra autorità: unicamente verso noi stessi: e questo per migliorare le nostre virtù, per superare le contrarietà che incontriamo nel nostro cammino spirituale, per fare della nostra vita un canale di grazia; per raggiungere insomma l’amore vero di Gesù, l’unico amore che dà pace e pienezza, l’unico amore che ama senza alcuna costrizione. In tal caso non impegnare tutto il nostro potere per questo fine, equivale solo a comportarci come quei discepoli, ottusi e ostinati, che cercavano alibi, deleghe e giustificazioni inutili. Amen.

 

giovedì 10 settembre 2015

13 Settembre 2015 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,27-35).
 
Gesù va verso Gerusalemme. Sa i pericoli che corre e sa l’ostilità che troverà.
Per tre volte Gesù fa questo annuncio: “Vado a Gerusalemme e lì soffrirò e sarò rinnegato”. Ma ogni volta i suoi discepoli rifiutano tale prospettiva: non accettano in pratica chi Lui effettivamente sia e cosa dica. Per essi è troppo difficile accettare la sua debolezza. Non è così che lo vedono: lo vogliono forte, potente, liberatore, ma Gesù non è così. Lo amano, è vero, ma con le caratteristiche che essi vogliono.
L’amore invece non pone condizioni. L’amore non dice: “Io ti amo ma tu devi essere come dico io”. L’amore dice: “Io ti amo per quello che sei, non ti voglio cambiare”.
È l’autorità, non l’amore, che ci vuole come vuole lei; l’amore ci lascia essere sempre ciò che siamo. Chi vuole cambiarci non ama noi, ma ama se stesso; solo chi ci accetta per quello che siamo, ama solo noi.
Il vangelo inizia dicendo che Gesù parti verso i villaggi vicini (Mc 8,27).
Inizia il suo viaggio verso Gerusalemme. Gesù non va a Gerusalemme per caso, per sbaglio, ma è lui che decide di andarci. Andarci è la sua missione. Il suo compito, la volontà del Padre, lo vuole lì. E lì lui deve andare. E durante il cammino, Gesù chiede ai suoi discepoli: “Chi dice la gente (letteralmente “gli uomini”) che io sia?”. Quando in Marco si parla di “uomini” si intende quelli che non appartengono al gruppo di Gesù. Ed ecco la risposta: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri uno dei profeti” (Mc 8,28).
Mentre per gli scribi, per i religiosi e i capi del Tempio Gesù è un demonio, un belzebul, un posseduto, per la gente che incontra è un profeta, un buon uomo, uno “in gamba”. Non hanno capito chi è, ma per loro, è uno “buono”, anche se non hanno capito la novità di Gesù: lo pensano come un altro dei grandi profeti. Mentre la gente ha capito qualcosa di Gesù, gli unici a non capirlo per niente erano proprio i sacerdoti, i religiosi del tempo!
Poi Gesù chiede ai discepoli: “E voi chi dite che io sia?” (Mc 8,29). Gesù vuol sapere ora se loro, i discepoli, lo hanno capito. Essi erano stati testimoni oculari dei suoi miracoli, ad essi egli aveva più volte parlato di sé. Ora vuole una verifica: “Vediamo: cos’avete capito?”. Gesù cioè vuol vedere se anche loro lo vedono come uno grande profeta, un altro dei tanti, oppure se colgono in Lui qualcosa di più.
Interviene “il Pietro”: Marco, quando lo chiama così, lo fa per dimostrare la sua ottusità, la sua testa dura. Quando invece vuol indicare l’apostolo che crede, gli premette il nome “Simone”; in pratica “Simon Pietro” è colui che crede, anche se la sua fede è ancora imperfetta, ha dei dubbi; Pietro invece è colui che ha le sue idee, che è ostile, contrario a Gesù.
Tra l’altro osserviamo che Gesù si era rivolto a tutti (“Voi chi dite...”) ma è Pietro che parla per tutti. Si fa portavoce del pensiero comune, condiviso anche da tutti gli altri.
Pietro dunque è convinto di sapere, di aver capito tutto, e dice: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). “Cristo” in greco, “Messia” in ebraico, hanno lo stesso significato: vogliono entrambi dire “l’unto, il consacrato”.
Qui però si impone una premessa: il Messia, per gli ebrei, mai si sarebbe contaminato con la gentaglia. Pietro aveva visto Gesù con la gentaglia? Sì. Lo aveva visto toccare i lebbrosi? Sì. Lo aveva visto guarire in terra pagana (il Messia li avrebbe distrutti i pagani)? Sì. Aveva visto parlare Gesù con le donne? Sì. Aveva visto Gesù sedere con i peccatori? Sì. Eppure... I suoi occhi hanno visto tutto questo, ma tutto questo non ha intaccato per nulla la sua idea. Aveva visto tutto con gli occhi ma non con il cuore: e se non viene toccato il cuore, si è convinti di vedere quando invece si è ciechi.
Pietro pertanto, ripetendo pari pari la descrizione del Messia ebraico(l’unto, il Cristo), nonostante Gesù davanti a lui avesse dato prove concrete di non esserlo, dimostra chiaramente di non conoscerlo, di non saper spiegare chi sia realmente Gesù. Per Pietro il Cristo è quello che divide buoni e cattivi, ebrei e non ebrei, meritevoli e non meritevoli. Ma un Dio così è totalmente opposto al Dio di Gesù, al Dio dell’amore per tutti.
Gesù infatti si definisce semplicemente il “Figlio dell’Uomo”; non il Cristo o il Messia.
Ma cosa vuol dire con questo titolo? Figlio dell’Uomo è un’espressione per dire l’Uomo veramente umano. E questo è sconvolgente. Gesù il Figlio di Dio non si identifica con il Cristo, il Messia, ma come il “Figlio dell’Uomo”. Un grande insegnamento per noi: “Vuoi essere divino? Sii umano, totalmente umano”. Noi pensiamo invece che per essere divini sia necessario essere santi, perfetti, in-umani. Ma qual’è il “modello di Dio” che Gesù ci ha presentato? Il santo, il puro, il sacerdote, il levita, l’incontaminato? No: ma il samaritano eretico che si prende cura dell’uomo (Lc 10,29-37). “Divino” non è quanto preghiamo, ma se sappiamo prenderci cura dell’umano.
Nei vangeli non troviamo mai Gesù che fa la carità, l’elemosina. Troviamo invece di continuo Gesù che guarisce, che si prende cura delle persone. Umanità, amore, non è assistenza ma: “Mi prendo cura di te. Voglio cioè che tu sia il tesoro, la perla, il meglio che possa diventare”. In pratica non ci limiteremo a far vedere ai nostri fratelli quant’è bello il cielo, ma insegneremo loro che hanno le ali e che possono volare per raggiungerlo. Questa è la vera carità.
Per molte persone amare significa possedere l’altro. Cioè: “Ti amo perché tu sei come me, pensi e fai come me; perché stai con me, sei legato a me; perché anche tu mi ami e sei d’accordo con me”. Ma l’amore non è questo. L’amore è volere il vero bene per l’altro, qualunque esso sia.
“Insegnerai a Volare, ma non voleranno il Tuo Volo. Insegnerai a sognare, ma non sogneranno il tuo Sogno. Insegnerai a Vivere, ma non vivranno la Tua Vita. Ma in ogni Volo, in ogni Sogno e in ogni Vita, rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto” (Santa Teresa di Calcutta).
Tutto ciò che è umano è proiettato al divino. Le persone vorrebbero decisamente scavalcare la loro umanità: vorrebbero cioè essere sempre felici, non star mai male, non doversi guardare dentro, non avere niente a che fare con emozioni, paure, blocchi, schemi familiari, copioni che si ripetono, sogni, desideri, istinto, sessualità. Non sono argomentazioni psicologiche. No, questi siamo noi! Non possiamo sfuggire la nostra umanità, non possiamo eluderla. Dobbiamo invece prenderci cura di noi, di quello che siamo, della nostra umanità, della nostra debolezza. È facile amare gli altri. Difficile è amare se stessi.
Poi Gesù comunica agli apostoli le grandi tappe della sua missione redentrice: Egli cioè “doveva soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Sul “soffrire molto” in passato si è costruita una spiritualità molto rigida e distorta. Qualcuno è arrivato a dire che Gesù è stato mandato da Dio solo a soffrire in maniera disumana per espiare i nostri peccati. Nell’opera redentrice di Cristo sono state messe soprattutto in risalto le strazianti sofferenze di un Dio, oltraggiato come un delinquente, condannato a morire sul patibolo della croce, piuttosto che l’immenso amore di un Padre, che ha sacrificato il suo Figlio amatissimo per redimerci; un amore che Cristo ha portato sulla terra, lasciandolo in eredità, come unico esempio di vita, a tutta l’umanità.
Però dopo tre giorni Egli sarebbe risuscitato. Perché dopo tre giorni? Perché Gesù doveva aspettare tre giorni? Dov’è stato in quei tre giorni? “Tre giorni” va letto nella cultura del tempo: per la mentalità giudaica infatti la morte avveniva dopo tre giorni. Per tre giorni l’anima del defunto era ancora presente e solo dopo tre giorni, quando il corpo cominciava a perdere i tratti fisionomici e a puzzare, sopraggiungeva la morte. Lazzaro infatti era morto da quattro giorni (Gv 11,39). Dopo tre giorni quindi uno era morto per davvero, definitivamente, senza speranza.
Resuscitare “dopo tre giorni” vuol dire allora che la morte, la sofferenza, il fallimento, non hanno alcun potere su Gesù. Cioè: la Vita è più forte. Gesù poteva soffrire, poteva essere condannato, poteva subire di tutto, ma Lui, in quanto Vita, avrebbe vinto, Lui, la Vita è e sarà sempre più forte di tutto. Quindi non si tratta di “tre giorni” riferiti al tempo, ma solo simbolici. Gesù quando muore, risorge subito: tre giorni è solo per dire che era veramente morto.
A questo punto che fa Pietro? Rimprovera Gesù! Da osservare: “Lo prende in disparte” (Mc 8,32). Pietro parla a nome di tutti e cerca di isolare Gesù. “No, caro Gesù, soltanto tu pensi che le cose stiano così. Il Messia non è come dici tu!”. Nel farlo, Pietro dimostra tutta la sua arroganza di presuntuoso: “Io so come stanno le cose; sei tu che devi ascoltare me”.
Ma Gesù gli risponde rimettendolo seccamente nei ranghi: “Mettiti dietro a me Satana”.
In pratica Pietro e Gesù litigano e se ne dicono di santa ragione. “Tu non capisci niente”, dice Pietro. “Io, non capisco niente? Ma sei tu l’omuncolo che pensa solo come gli uomini! Sei Satana”. Nella Bibbia Satana è l’oppositore, l’avversario, colui che in tribunale rappresenta l’accusa. E qui Pietro è satana perché si oppone a Gesù e ai suoi piani, gli sbarra la strada, vuole che Gesù faccia ciò che lui ha già deciso. Per questo Gesù lo rimette immediatamente in riga: “Dietro di me”. Quando lo aveva chiamato gli aveva già detto infatti : “Vieni e seguimi!”. È l’uomo che deve seguire Gesù e non Gesù che deve seguire l’uomo.
Quindi il vangelo dice: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Una frase portata anch’essa a giustificazione di quella spiritualità della sofferenza, per la quale seguire Gesù voleva dire esaurirsi, distruggersi per gli altri, non avere nessun piacere (“rinnegare se stessi”) e soffrire. Più si soffriva, più si era santi (“croce”).
Così per seguire Gesù era necessario rinunciare a tutte le cose gratificanti della vita: divertimenti, viaggi, cinema, tv, ballo, amore, coccole. Bisognava annientarsi, strisciare, diventare vermi.
Ma questo non è Dio: Dio è il Dio dell’uomo, della vita, della festa, della gioia, dell’umanità: Egli è venuto non per deprimere questa umanità ma per esaltarla, per guarirla, espanderla, amplificarla.
Ma cosa significa “rinnegare se stessi”? Letteralmente, “dire di no”, rifiutarsi cioè di pensare come Pietro e gli apostoli, che vedevano in Gesù possibilità di potere, di prestigio, di forza, di autorità, di ricchezza. È questo che dobbiamo rinnegare se lo vogliamo seguire. Non è possibile seguire Gesù pensando in questo modo. Per trovare la Vita vera, dobbiamo quindi perdere “questa vita”, questo modo di pensare, di concepire il mondo. Per seguire Gesù dobbiamo essere disposti a lasciare tutte le nostre certezze terrene, i nostri affetti fuorvianti, le nostre paure, i nostri appigli, i nostri riferimenti limitati. Per seguirlo, in una parola, dobbiamo “lasciare tutto” (Lc 5,11). Per vivere il nuovo dobbiamo prima lasciare il vecchio. Per trovare la vita vera, dobbiamo prima lasciare quella falsa. Amen!

 

giovedì 3 settembre 2015

6 Settembre 2015 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: “Effatà”, cioè: “Apriti!”» (Mc 7,31-37).
 
Dopo l'attacco diretto da parte dei farisei e degli scribi sulla questione del puro e dell’impuro, delle abluzioni del corpo e del lavarsi le mani, Gesù capisce che sta rischiando molto. Così scappa e si nasconde in territorio pagano. Non solo fugge, ma cerca proprio di non farsi più vedere da nessuno. Una decisione calcolata, la sua; una decisione che in seguito non prenderà più, ma in questo momento egli sa bene che non è ancora giunto il momento di affrontare il giudizio delle autorità civili e religiose. Egli dunque decide: questo lui vuole, e questo lui fa.
Quante volte sentiamo la gente che dice: “Voglio fare questa cosa!”. D’accordo: ma è all'altezza di poterla fare? Non basta volere, non basta desiderare una cosa; bisogna avere anche la capacità di farla, la convinzione di portarla avanti, di sostenerla. Altrimenti la nostra decisione si rivelerà un fallimento.
Quante volte per esempio noi ci diciamo: “Voglio ascoltare la voce di Dio”. Benissimo! Ma siamo in grado di ascoltare prima di tutto noi stessi? No! Siamo in grado di fermare il flusso dei pensieri che ci frullano continuamente in testa? No! Siamo in grado di emozionarci, di piangere, di sentire la voce del nostro cuore, di provare per tutti amore e misericordia? No! E allora dove vogliamo andare? Come possiamo “sentire” Dio dentro di noi con tali premesse? Prima lavoriamo sodo su queste: creiamo cioè le condizioni di base, creiamo l'ambiente idoneo perché ciò accada, e poi ci accorgeremo che tutto avverrà da sé, tutto accadrà spontaneamente.
Gli orientali dicono: “Quando il discepolo è pronto, il maestro arriva”. Le cose spirituali accadono quando è il loro momento, quando cioè ci sono le condizioni perché accadano. Non prima.
Gesù dunque decide di fuggire: e dove va? In terra pagana e ostile ovviamente, dove nessuno si sognerebbe di seguirlo. E invece no, i suoi ammiratori lo trovano anche lì. D’altronde è sempre così, ed è ovvio che sia così: dove c’è verità, guarigione, amore, spiritualità, le persone pie accorrono, la folla devota assedia quei luoghi e quelle persone. Dove non c’è nulla, invece, non ci va nessuno.
Un fatto naturale, che però nel caso di Gesù non vale: i vangeli ci dicono infatti che più la gente era lontana da Dio, più era disponibile ad accoglierlo. Più la gente era invece religiosa, più lo rifiutava.
Perché? Semplice; perché quando le persone hanno già un’idea di Dio, e poi lo incontrano, succedono due cose: o Lui coincide con la loro idea di Dio, e allora lo accolgono; altrimenti lo rifiutiamo in ogni caso. In Israele avevano le idee molto chiare su Dio: era una popolazione estremamente coinvolta nella “loro” religione: ma per la nuova religione di Gesù non c’era spazio. Per accoglierlo bisognava essere completamente “liberi” dentro.
Scoperto dunque dove si trova Gesù, la folla gli porta un uomo, pregandolo di imporgli le mani. Di questo uomo si dice che è un sordomuto. Marco utilizza due parole per dire sordomuto: Kophos che vuol dire non solo sordo ma anche ottuso, spento, senza energia, stolto, pazzo, insensibile; un uomo che non sente, non è in contatto con i suoni, con la sua energia interiore; è vuoto, spento; e Moghilalos che vuol dire non solo muto ma anche balbettante, che fa fatica a parlare. In ogni caso si tratta di un uomo con dei grossi problemi di comunicazione.
Marco ci fa subito notare un particolare: “Glielo portarono” (Mc 7,32). Cioè l’uomo non va da Lui di sua iniziativa, sono gli altri che lo portano. Questo è interessante, perché ci dice che l’uomo non ha poi tanta voglia di guarire: uno che è sordomuto, ha comunque le gambe buone, e se vuole è in grado di andare da solo da Gesù; un paralitico no, ma un sordomuto sì.
Questo ci dice che per guarire bisogna prima di tutto voler guarire, bisogna cioè “voler andare”, essere cioè disposti a fare tutto ciò che c’è da fare.
In questo caso, forse, l’uomo si è abituato alla sua malattia: tutto sommato preferisce rimanere così piuttosto che guarire. Come mai? Perché per guarire è necessario “cambiare”, voltare pagina rispetto a prima, e questo gli fa paura, non sa cosa gli comporti. Se continua a fare quello che ha sempre fatto, sa di ottenere quello che ha sempre ottenuto: ma se da sordomuto viveva in un certo modo, da guarito cosa dovrà affrontare?
Arrivato dunque davanti a Gesù, inizia il rito della sua guarigione. Gesù fa quattro cose; e tutte hanno un significato simbolico, terapeutico.
Marco è molto dettagliato nei particolari. Prima di tutto “lo porta in disparte”, lontano dalla folla: quindi, condizione essenziale per la guarigione è l’essere se stessi, non confondersi con gli altri. Nei vangeli succede continuamente che Gesù porti il malato lontano dalla folla, in disparte, nella solitudine: nella guarigione della figlia di Giairo, deve cacciare fuori di casa tutta la gente che urla e che sbraita a causa della sua morte; prende con sé solo il padre, la madre e alcuni suoi discepoli (Mc 5,40). Nel caso del paralitico, che non può arrivare da Gesù col suo lettino a causa della troppa gente assiepata, lo calano giù dall’alto nella stanza dove Lui si trovava (Mc 2,4). Il ragazzo epilettico viene guarito prima che la gente accorra da Gesù (Mc 9,25). Al cieco di Betsaida, dopo averlo guarito, ordina di “non entrare nel villaggio” (Mc 8,22). L’emoroissa, che tocca il mantello di Gesù di nascosto protetta dalla calca della gente, è costretta a venire fuori dall’anonimato, dalla folla anonima, a mettersi in gioco: “Chi mi ha toccato?” (Mc 5,30). E via dicendo.
Quando uno è immerso nella folla, non è nessuno, è uno dei tanti, è anonimo. Gesù, invece, fa sempre uscire i malati dalla folla, li individua, li fa venire avanti, li mette al centro.
Egli non vuole l’anonimato; tutti devono avere la loro identità, devono essere “qualcuno”, avere un nome; bisogna cioè essere se stessi. Per questo motivo Gesù, anche in questo caso, porta l’uomo lontano dalla folla: “Tu non sei uno dei tanti. Tu sei tu. Riprenditi la tua vita. Mostra chi sei, non vergognarti di te e del tuo volto”.
Per guarire, dobbiamo quindi “individuarci”, venir fuori dalla massa. A Lazzaro Gesù dirà: “Vieni fuori!”, “Emergi” (Gv 11,43), che letteralmente vuol dire: “Esci, vieni fuori dal tuo nulla”. Osa con il tuo pensiero, con la tua vita, con le tue scelte: sii te stesso.
Poi “gli pose le dita negli orecchi”: un gesto che indica la necessità di “ascoltarsi” (Mc 7,33).
Le persone spesso non si ascoltano perché non lo sanno fare. È fondamentale invece imparare ad ascoltare le proprie emozioni, perché solo così ci impadroniremo della nostra identità, impareremo chi siamo e cosa vogliamo. Se non lo facciamo noi, ci saranno altri che vorranno intromettersi nella nostra vita. In altre parole se non ci ascoltiamo noi e non dirigiamo noi la nostra vita, altri lo faranno per noi, e non sappiamo con quali risultati.
Dopo di ciò gli “toccò la lingua con la saliva (Mc 7,33). Un segno con il quale Gesù ci dice che dobbiamo imparare ad esprimere ciò che abbiamo dentro. Se abbiamo qualche preoccupazione che turba profondamente il nostro animo, dobbiamo esprimerla, condividerla, altrimenti ci porteremo dentro il suo peso per tutta la vita e nessuno potrà mai aiutarci.
Infine Gesù pronuncia una parola, secca, decisa e forte; impartisce un comando: “Effatà, apriti” (Mc 7,34). In quante occasioni Gesù ha detto al nostro cuore: “Apriti!”? Ogni qualvolta abbiamo paura di amare, di aprirci alla vita, trattenuti dalla paura di poter soffrire ancora, di innamorarci nuovamente dopo esperienze negative, Gesù, la Vita, ripete ogni volta al nostro cuore: “Apriti!”; alla nostra coscienza che prova vergogna per tante infedeltà, Gesù ripete: “Apriti, torna a vivere e perdonati. Io l’ho già fatto!”.
Alla nostra mente confusa e indecisa, Gesù ripete: “Apriti. Impara, conosci, scopri, accetta le novità. La mente è come il paracadute: se non è aperta non serve”.
“Aprirsi” significa accettare che le cose evolvano. Significa "vivere". Perché ciò che non evolve è morto; ciò che vive, invece, diviene, si concretizza, si realizza. Perché ogni anno è diverso dal precedente?  È normale. La vita diviene, è viva, si modifica, cambia. Apriamo la nostra mente alla vita, manteniamola sempre in movimento.Soprattutto “apriamoci” con gli altri. Alcune persone non si rendono conto di quanto sia importante la loro presenza per noi; non sanno quanto bene ci faccia anche solo vederle; non sanno quanto conforto ci arrechi il loro benevolo sorriso; non sanno quanto sia benefica la loro vicinanza; non sanno quanto saremmo più poveri senza di loro. Alcune persone non sanno tutto questo: non sanno di essere per noi un dono del cielo. Lo saprebbero, se noi ci aprissimo e glielo dicessimo. Amen.

giovedì 27 agosto 2015

30 Agosto 2015 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
 Mc 7,1-8.14-15.21-23)

Il vangelo inizia dicendo che intorno alla persona Gesù si riuniscono i capi dei farisei e gli scribi (Mc 7,1). Cosa succede? Dev’esserci un motivo molto grave. È ormai risaputo anche a Gerusalemme che dovunque Gesù vada la gente lo segue entusiasta, tutti cercano di toccarlo o almeno di toccargli la frangia del mantello, perché quei pochi che vi riescono, guariscono immediatamente dai loro mali. Anche il messaggio che Gesù trasmette è un messaggio di vita: chi lo ascolta e lo mette in pratica, cambia vita e riesce a vivere pienamente. I caporioni capiscono che da lontano nessuno può fare più nulla contro di lui: le autorità possono scomunicarlo, possono maledirlo, possono dire di lui che è un indemoniato, ma non c’è niente da fare. Chi era cieco torna a vedere, chi era morto (dentro), torna a vivere. Chi era senza dignità, e torna ad averla, dice con risolutezza: “Potete dirmi tutto quello che volete su di lui, ma io so chi è”. L’allarme ha raggiunto un livello talmente critico, da indurli ad affrontare concretamente e definitivamente il problema. Visto che la maldicenza, lo screditamento, non bastano più, i farisei e gli scribi, dopo essersi consultati, decidono di raggiungerlo personalmente: Gesù è un uomo pericoloso, è uno che tiene un comportamento gravissimo e ostenta davanti al popolo un’autorità che non ha. A questo punto, visto che vengono direttamente da Gerusalemme, ci si aspetta almeno che le loro argomentazioni siano importanti, che le loro contestazioni si riferiscano a gravi inosservanza della legge, siano cioè pesanti e radicali, in grado di risolvere definitivamente una questione per loro di capitale importanza. E invece? Invece la questione che pongono è ridicola: semplicemente tragicomica.
Il loro gravissimo problema? Che “alcuni dei suoi discepoli prendevano i pani (e non il cibo) con mani immonde, cioè non lavate” (Mc 7,2). “Sai che delitto!” direbbe chiunque. Ma la contestazione va ben oltre. Essi vorrebbero negare il potere soprannaturale di Gesù, ma di fronte all’evidenza, sono costretti a sfiorare il ridicolo. I pani ai quali si riferiscono, sono i pani del miracolo della moltiplicazione. Si attaccano quindi alle “modalità”, al fatto cioè di averli toccati con mani “impure”: che la gente torni a vivere, torni ad amare, a sperare, a lottare, che ritrovi la propria dignità, a loro non interessa per niente. La loro unica, stupida preoccupazione, è di arginare in qualche modo l’attività soprannaturale di Gesù, e lo fanno contestandogli l’inosservanza di “regole religiose” ormai divenute per i più insignificanti. Ma non per loro: poiché è proprio la loro scrupolosa osservanza esteriore di quell’infinità di prescrizioni e di riti imposti dalla legge sulla purificazione, impossibile e impensabile per i comuni mortali, che li poneva su un piano di superiorità: essi soltanto, infatti, proprio perché completamente puri, i purificati per eccellenza, avevano la possibilità di arrivare a Dio. Gesù, al contrario, con il suo comportamento, mette Dio a disposizione di tutti, mani pure o no. E questo le autorità religiose non possono permetterlo: è un sacrilegio!
Gesù, di fronte a tanta insipienza, non ne può più, e sbotta: “Ipocriti, commedianti! Passate per verità di Dio delle regole che voi avete imposto e che Dio non ha mai dato!”.
E spiega: “Non è ciò che da fuori viene dentro che contamina l’uomo ma ciò che hai dentro che contamina fuori (fornicazioni, furti, ecc.)”.
Paolo, nella Lettera a Tito, completa questo stesso pensiero: “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro perché sono contaminate la loro mente e la loro coscienza” (Tt 1,15).
Pertanto, a differenza di quanto sostenevano i capi religiosi di allora, cos’è che determina veramente se una cosa è pura o impura? Gesù risponde: “Dipende!”.
Nel vangelo infatti leggiamo che donne equivoche baciano Gesù. È una cosa cattiva? Dipende! In quel caso era un gesto d’amore puro. Anche un amico di Gesù, il suo discepolo Giuda, lo bacia. Buono? No, proprio per niente. Il suo è il bacio di un traditore. Quindi non è il gesto ma l’intenzione, la motivazione vera con cui si fa una cosa, che è decisiva. È ciò che abbiamo dentro che determina il bene o il male di ciò che facciamo al di fuori.
Così ancora: il mondo è puro o impuro? Sarà secondo il nostro cuore! Il mondo è infestato di demoni o di amore? Dipende dai nostri occhi. Un aiuto materiale ad una persona è puro o impuro? Dipende! Se glielo diamo perché “è un incapace” o perché “ci fa pietà” è impuro. Se glielo diamo perché sentiamo che ne ha bisogno, e lo facciamo con tatto e riservatezza, è puro.
Una preghiera è pura o impura? Dipende! Se pregando ci sentiamo migliori degli altri allora la nostra preghiera è impura. Se preghiamo perché sentiamo il bisogno di lodare Dio e di ringraziarlo, allora, forse, è pura.
Una comunicazione è pura o impura? Dipende! Se parliamo per avere ragione, per avere conferma delle nostre idee, per vincere, allora è impura. Se parliamo per capire, per capire il punto di vista dell’altro, allora è pura.
La religione è buona o cattiva? Pura o impura? Dipende! Se divide in buoni e cattivi, in quelli che devono andare in paradiso e in quelli che devono andare all’inferno, è una religione impura. Se invece cerca di amare, accettare, salvare, capire e aiutare tutti, allora è pura.
I farisei erano perfetti, digiunavano più del necessario e non trasgredivano nessuna regola. Ma la loro purezza era la loro impurità: si ritenevano gli unici ad essere bravi e amati da Dio; tutti gli altri no!
I farisei erano perfetti, digiunavano più del necessario e non trasgredivano nessuna regola. Ma la loro purezza era la loro impurità: si ritenevano gli unici ad essere bravi e amati da Dio; tutti gli altri no! Quando entreremo in paradiso, avremo due sorprese. La prima: dove sono finite tutte quelle persone che credevamo dei santi? La seconda: Dio mio, come hanno fatto ad entrare qui dentro tutti questi tipi sospetti?
Il vangelo di oggi ci dice in proposito due cose molto importanti. La prima è che non dobbiamo mai fermarci a quel che appare all’esterno: è l’intenzione che fa pura o impura una cosa. Se quando guardiamo una persona, pensiamo subito: “È un disgraziato! Non capisce niente! È un incapace! Da uno così cosa può uscire?” Questa è impurità. Se quando guardiamo la stessa persona pensiamo: “Poveretto, quanto ha sofferto! Con i pochi mezzi a sua disposizione, ha fatto quel che ha potuto. È stato anche troppo bravo!”. Questa è purezza.
Quando guardiamo una persona cosa vediamo in lei? Soltanto ciò che non fa? Soltanto ciò che non ha fatto a noi e che doveva farci? Soltanto ciò che ci ha fatto, e non doveva farci? Guardiamo sempre e solo in negativo? È importante allora ascoltare il nostro cuore. Sentiamo che cova rancore? Rabbia? Odio? Dolore? Vendetta? Giudizio? Maledizione? Urla? Dolore? Invidia? Gelosia? Cosa pensiamo di farne di tutte queste impurità? Il “male” è dentro di noi, non fuori di noi. Se dentro abbiamo tutto questo, è esattamente questo che uscirà da noi, anche se non lo vogliamo?
Sentiamo invece felicità? Vitalità? Voglia di vivere? Entusiasmo? Incoraggiamento per gli altri? Fiducia? Amore per tutto ciò che esiste? Desiderio di spenderci? Voglia di dare gratuitamente? Slanci? Sogni? Se dentro abbiamo tutto questo, è esattamente questo che uscirà da noi. Il nostro mondo sarà pieno di demoni, se dentro di noi avremo demoni. Sarà affidabile e pieno di gioia se dentro il nostro cuore regnerà l’amore.
La seconda cosa, strettamente legata alla prima, è che il “male” non è al di fuori di noi: è dentro di noi. Stiamo attenti a come reagiamo di fronte a quanto ci capita, e capiremo subito cosa abbiamo dentro.
Gesù dice: “Tutto dipende dal tuo cuore” e “Ciò che hai dentro è la tua vita o la tua morte”. Ancora più esplicito è in Lc 6,45: “L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore”.
Per Gesù è l’interiorità, ciò che abbiamo dentro il nostro cuore, che determina l’esteriorità. Per la sua mentalità un uomo che agisce è come un vaso pieno: tutto ciò che lui fa è un travaso di quanto contiene: tutto ciò che esce da lui, altro non è che il suo contenuto, quello che lui è e ha dentro. “Se prendete un albero buono anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo. Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? Poiché la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12,33-34). Abbiamo tutti di che meditare! Ma soprattutto abbiamo tutti moltissimo da fare. Amen.

 

mercoledì 19 agosto 2015

23 Agosto 2015 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo [le sue parole], disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono» (Gv 6,60-69).

Se uno rimane in superficie, le parole sono soltanto parole, le cose soltanto cose. La vita solo un susseguirsi di giorni tra fatiche e gioie. Ma se entriamo dentro alla vita, ci accorgiamo che mentre scorre, lei ci educa, ci fa crescere, ci insegna ciò che è necessario imparare.
Se rimaniamo fuori, se viviamo all’esterno, la nostra vita non ha senso: non ne siamo coinvolti, siamo qui solo perché un giorno siamo nati, siamo cresciuti, e visto che c’eravamo, tanto valeva vivere. Ma se entriamo dentro, improvvisamente scopriamo che non è così: scopriamo che vivere ha uno scopo, un fine, ben preciso; è Lui, la Vita stessa, che ci vuole, abbiamo da vivere un qualcosa di speciale, abbiamo da percorrere una strada, da rispondere ad una chiamata. Ma per chi vive “fuori” queste sono tutte fantasticherie: la malattia? l’incidente? la sventura? Sono solo la sfortuna che ci è caduta addosso. Poteva cadere addosso ad altri, invece è caduta addosso a noi. Questo ovviamente se non vogliamo vedere, se vogliamo raccontarcela, se vogliamo scaricare la responsabilità delle cose sul fato, sul destino, sulle casualità della vita. Ma non è così. Tutto ciò che ci succede ha un senso profondo, molto profondo. Del resto se Dio non parla a ciascuno di noi attraverso la vita, attraverso cos’altro potrebbe parlarci?
Dunque: Giovanni nel vangelo di oggi ci propone la reazione immediatamente successiva alle parole sconvolgenti di Gesù di domenica scorsa:“Io sono il pane vivo e se uno non mangia di questo pane non avrà la vita... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui”. In molti, quelli che si erano fermati “in superficie”, se ne erano già andati. In troppi erano infatti così sconnessi, così scollegati da loro stessi, dalla loro interiorità, dalle emozioni, dalla realtà, che mai sarebbero stati in grado di capire, di entrare dentro a tali concetti: “Mangiare la carne di un uomo? ma cosa dice costui?” Parole effettivamente astruse per chi non entra; parole di Dio per chi entra. Parole stupide e senza senso per chi è morto dentro; parole di vita eterna per chi vive. In ogni caso parole difficili.
Anche i discepoli, pur avendo capito il senso del discorso, gli dicono: “Gesù, questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”. Cioè chi può capirlo, seguirlo, dargli retta, metterlo in pratica?
E Gesù di rimando: “È vero. Ma dovete capire che se vi limitate ad applaudirmi, a dirmi che parlo bene, il vostro seguirmi non serve a niente! L’unica cosa che conta è che dovete cambiare vita! Queste belle parole, come dite voi, non servono a nulla se rimangono solo parole; sono un niente se non diventano la vostra vita, la vostra carne, il vostro sangue”.
Parole che non hanno bisogno di chiarimenti. Ma, a questo punto, si impone una domanda seria: “Perché noi che andiamo sempre a Messa non cambiamo mai? Perché preghiamo tanto e siamo sempre gli stessi? Perché abbiamo paura di guardarci dentro? Perché non vogliamo farci aiutare? Perché accettiamo soltanto ciò che coincide con il nostro pensiero e la nostra volontà?”.
Beh, la nostra risposta è sempre la stessa, come pure le nostre inutili giustificazioni. Non servono a nulla i soliti “vorrei ma non posso”, “mi piacerebbe ma non ci riesco”, “ci provo sempre, ma è più forte di me”! Siamo sinceri e onesti con noi stessi una buona volta: guardiamo ai fatti: se in noi non cambia mai nulla, vuol dire che i nostri propositi sono solo parole, sono un fuocherello di paglia che si esaurisce all’istante. Se Gesù non diventa la nostra carne e il nostro sangue, vuol dire che le sue parole, le nostre convinzioni, non ci toccano, non ci scalfiscono, non ci sconvolgono, non ci entrano dentro.
La parola “duro”, in greco “scleros”, indica proprio che le espressioni di Gesù sono qui di una durezza particolare, di un’asprezza e di una ruvidità tremende. Gesù è una mano che ci accarezza e che ci coccola, è vero. Ma in certi giorni è anche una sberla che ci scuote e che ci butta per terra. In altri è addirittura un pugno che ci stordisce, che fa male e che lascia i lividi. Molte pagine del vangelo ce lo confermano.
Per esempio al giovane ricco che voleva seguirlo, dice: “Quello che hai fatto è buono, ma adesso va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri; soltanto dopo, vieni e seguimi” (Mt 19,16-22). Quel ragazzo di famiglia ricca si era comportato sempre bene (osservava tutti i comandamenti!), ma Gesù gli chiede molto di più! Non gli chiede qualcosa in più, gli chiede tutto. A quell’altro che gli chiedeva il permesso di seppellire il proprio padre, prima di seguirlo, dice: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti (lascia cioè che i morti stiano con i morti)” (Lc 9,59-60). Egli, la Vita, non vuole legami con la morte; vuole solo discepoli in esclusiva, solo uomini “innamorati della sua causa”, completamente ed esclusivamente dediti al regno. Anche con un altro, deciso a seguirlo, ma che gli chiede di salutare prima quelli di casa, Gesù è durissimo: “No! Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,61-62).
Molta gente va in chiesa, ed è contenta di andarci, perché poi “si sente bene”. Molte persone pregano e pregano molto. Molte persone pensano spesso a Dio ed esprimono dei pensieri religiosi molto profondi. Ma Gesù non sa che farsene di queste cose belle, se poi le “sue parole” non si trasformano concretamente in vita vissuta. Abbiamo visto che su questo è molto chiaro, addirittura duro: “Siete sempre gli stessi: perché continuate a venire qui? Se mi amaste, vi trasformereste. Se non lo fate, continuerete a vivere di “chiacchiere”, di bei paroloni su Dio; le vostre liturgie saranno sempre dei pii teatrini, senza alcuna fede”.
Gesù tocca qui un punto nevralgico: una risposta coerente, che sia all’altezza dell’impegno cristiano richiesto da Gesù, purtroppo, si è sempre nei secoli rivelata tragica: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6,66).
Anche noi, come i discepoli superficiali, e forse più di loro, viviamo di apparenza. Dobbiamo renderci conto che la fede non è lo scuotimento delle corone del rosario, non è fare elemosine importanti, non è partecipare a tutti i gruppi di spiritualità possibili, non è un “bla, bla, bla”; “avere fede”, al contrario, comporta un cambiamento radicale del nostro carattere, del nostro modo di sentire (cuore), dei nostri pensieri (mente), del nostro progetto di vita (anima), dell’intera nostra personalità. E, una volta “cambiati”, una volta diventati autentici e coerenti annunciatori del regno, spetta a noi promuovere il cambiamento della società, dell’intero mondo che gira intorno a noi: perché noi siamo la società, noi siamo il mondo.
Ecco perché se il vangelo non diventa la nostra vita (carne e sangue) è semplicemente inutile. È solo un bel raccontino, piacevole da leggere e da ascoltare.
Dobbiamo essere decisi. Non facciamo come quei pochi discepoli rimasti vicini a Gesù, che erano scossi, tentennanti, dubbiosi: per non sentirci ripetere, senza troppi giri di parole, la stessa domanda: “Volete andarvene anche voi?” (6,67). Che in pratica sarebbe: “Amici miei, io vi amo e vi voglio bene. Ma ciò che Io ho dentro (Dio) è ben più importante di voi. Spero che condividerete il mio cammino con la mia stessa passione. Ma se non sarà così, sappiate che io continuerò per la mia strada: non posso tradire la mia missione; e sappiate anche che per farvi rimanere non addolcirò per nulla il mio invito a seguirmi. Se rimarrete sarò contento, ma voi siete liberi. Fate la vostra scelta: io ho già deciso, ora tocca a voi”.
La nostra cultura ci predica: “Meglio andare più adagio, comodamente, per stare tutti insieme”. Ma questa non è la logica di Gesù! Egli ama tutti, ma non tutti lo amano al punto di seguirlo come lui vuole, poiché Lui è esigente e radicale. Chi dipende troppo dalle cose, dal giudizio della gente, dalla paura di perdere la faccia o di rischiare, chi ha troppo da difendere (idee, soldi, stato sociale, principi religiosi) non può seguirlo.
Per seguire e amare Gesù, bisogna sapere cosa Egli dà e cosa chiede: dà vita, forza, profondità, evoluzione, cambiamento, una nuova visione della vita e soprattutto una forza e una fiducia incrollabili. Ma chiede autonomia, coraggio, motivazione, umiltà, disponibilità a cambiare e a perdere tutto per Lui (casa, onore, idee, certezze, convinzioni, appigli, difese). Ecco perché Gesù non chiede a nessuno di seguirlo, se non ne è intimamente convinto (“Se vuoi…”).
Un messaggio radicale non può mai essere seguito da una folla di persone, proprio perché è radicale. E Gesù, tra una moltitudine al suo seguito, una massa di gente, e la radicalità, non ebbe dubbi: scelse la radicalità, a costo di rimanere solo. Più una proposta è forte, radicale, e più è destinata a pochi.
“Volete andarvene anche voi?”. Gesù non ebbe mai paura di rimanere solo. Anche se circondato continuamente da tanta gente, egli era comunque solo: “Diffidava di loro” (Gv 2,24). Quando infatti, nel massimo della sua solitudine, Egli cerca un po’ di conforto dai suoi amici, li trova addirittura addormentati: “Simone dormi? Non hai avuto la forza di vegliare un’ora sola?” (Mc 14,37). E nell’ora del disastro, quando lo arrestano, tutti scappano e lo lasciano solo, agnello in mezzo ai lupi: “Abbandonatolo, fuggirono tutti” (Mc 14,50). E anche sul Golgota, al momento della sua morte, Gesù è nella solitudine più totale: non c’è nessuno con Lui. Solo alcune donne stanno ad osservare da lontano (Mc 15,40).
Nella nostra vita ci sono delle scelte che possiamo affrontare con l’aiuto e la collaborazione di altri; ma ci sono dei momenti in cui dobbiamo agire nella più assoluta solitudine. Per esempio le scelte che riguardano la nostra vita, sono solo nostre: possiamo parlarne, chiedere consiglio, ma nessuno può sostituirci, nessuno può vivere la nostra vita al posto nostro. I fantasmi, le paure, i dolori, le ferite che la riguardano, sono solo cosa nostra: gli altri hanno già le loro. Dobbiamo imparare noi a conviverci, a far loro compagnia, a conoscerle, a capirle.
In altre parole dobbiamo imparare a stare soli con noi stessi. Siamo noi gli unici, veri amici di noi stessi, nessuno potrà mai arrogarsi tale titolo. Ci sono dei momenti fondamentali in cui la solitudine ci viene imposta dal normale corso della vita: vivere e morire, per esempio, sono un passaggio che obbligatoriamente dobbiamo affrontare da soli.
Solitudine significa però anche autonomia. Possiamo stare soli con noi stessi, se non dipendiamo dagli altri, se per essere felici abbiamo bisogno degli altri. Le persone insicure sono terrorizzate dalla solitudine: non perché amano stare con gli altri, ma perché non possono stare senza gli altri, perché non sanno stare con loro stesse. Perché quando siamo soli emergono i mostri, le paure, i fantasmi che abitano dentro di noi. È allora che tutto ciò che abbiamo sepolto, che abbiamo nascosto, che non vogliamo ascoltare e vedere, pian piano emerge e ci fa paura. È allora che ci appare nitida la nostra situazione reale, e sempre allora ci accorgiamo di quanto abbiamo fatto per fuggire da Lui e da noi stessi. Il più grande dramma della vita è rinunciare alla propria missione per paura di rimanere soli, di non essere capiti, di essere giudicati. Ma questo è inevitabile: la vita che viviamo è solo nostra, con le sue gioie e i suoi dolori; noi e nessun altro deve percorrerla fino in fondo! Con chi fare questo cammino, spetta sempre e solo a noi.
Gesù infatti guardandoci in faccia può ripetere anche a noi come ai discepoli: “Io ho la mia strada. Non volete venire con me? Pazienza! Io devo andare”. E noi, con lo stesso impulso generoso di Pietro, diciamogli: “Ma, Signore, dove vuoi che andiamo? Tu sei la Vita, Tu solo hai parole di vita eterna!”. Amen.
 

giovedì 13 agosto 2015

16 Agosto 2015 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,51-58).

Giovanni ha scritto un vangelo diverso dagli altri; più che sugli avvenimenti che riguardavano la persona di Gesù, la sua attenzione era concentrata sulle sue parole, sugli insegnamenti. Egli ha lungamente “ragionato” su questi elementi, ha voluto capirli, interpretarli, dare loro un senso, spiegarli, applicarli alla nostra vita: per questo il suo è un vangelo difficile da capire, eminentemente spirituale; egli parla da “mistico”; fa teologia piuttosto che cronistoria.
A lui, per esempio, non interessa neppure il fondamentale racconto dell’ultima cena: tant’è che non riporta alcun particolare dei preparativi, del luogo dove avviene, della sua ambientazione storica; al contrario egli è concentrato esclusivamente sul celebre discorso del Pane di vita, sul significato di questo cibo particolare, sul senso e sulle implicazioni che esso doveva avere sulla vita spirituale dei discepoli presenti e su quella di ogni suo discepolo futuro. Dal suo vangelo risulta che Gesù ha sì celebrato con i suoi discepoli un rito pasquale di saluto, di offerta e di memoria, prima di accomiatarsi da questo mondo (ultima cena); ma ciò che emerge dal suo racconto, è soprattutto la preoccupazione di far capire l’importanza che Gesù ha attribuito a questo cibo e quindi la necessità per tutti i discepoli futuri di accettare il suo invito a reiterare lo stesso rito, facendone “memoria”, cibandosi di quel pane di vita che è Gesù stesso.
Questo modo introspettivo di porsi di fronte agli eventi, diventa fondamentale anche per noi. Nella nostra vita ci succedono ogni giorno tante cose, più o meno importanti. Ebbene, se noi ci fermiamo solo all’esterno di ciò che ci succede, alla sua crosta storica, se rimaniamo solo in superficie, non entreremo mai dentro la vita, alla nostra vita. È invece fondamentale per noi entrarvi dentro, cogliere il senso profondo di ciò che ci accade. In pratica capire dove la vita vuole farci andare. Allora niente rimane più senza senso, perché in questo modo acconsentiamo alla Vita (Dio) di insegnarci ciò che ci deve insegnare, e a noi di capire, di imparare ad essere suoi discepoli. “Discepolo”, sia in greco che in latino, è infatti “colui che impara”: vivendo così, quindi, impariamo sempre, diventiamo sempre diversi e nuovi, senza annoiarci mai; è così che la Vita ci forgia, ci plasma e ci evolve.
Vivendo così nulla è estraneo, incomprensibile, scandalizzante, inaccettabile: tutto diventa parte della nostra vita, tutto è un messaggio per noi, possiamo accogliere ogni esperienza, ogni incontro, ogni persona. Perfino i fatti più tragici, come le malattie e la morte, pur rimanendo tragici, hanno comunque un senso, hanno qualcosa da dirci e da farci capire, diventano maestri per la nostra vita.
È chiaro che i Giudei non capiscono le parole di Gesù: “Se uno mangia questo pane vivrà in eterno” e “Io darò la mia carne per la vita del mondo”. Nei primi anni della chiesa era addirittura diffusa l’idea che i cristiani mangiassero carne umana (mangiavano il Cristo!) e addirittura i bambini.
I Giudei quindi, molto banalmente, si chiedono: “Ma come può costui darci da mangiare la sua carne?”. I suoi stessi discepoli gli diranno: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”.
Il termine “Sarx”, carne, indica la realtà terrena. Mangiare la sua carne vuol dire cibarsi di Gesù in maniera molto reale, terrena, “carnale”. Mangiare di Gesù, per Giovanni, è il massimo!
Per molte persone “nutrirsi di Dio” è invece un qualcosa di indefinito, di spirituale, di impalpabile, al pari di una preghiera, di una messa ogni tanto, di un pensierino a Lui quando capita; e questo, convinti di essere ottimi cristiani.
Ma per Giovanni “nutrirsi di Dio” vuol dire “cambiare vita”, abbandonare i vecchi modelli di comportamento, gli schemi antichi e perversi; vuol dire relazionarci con gli altri in maniera completamente nuova, più sana. “Nutrirsi di Dio” significa farlo entrare nelle pieghe e nelle fibre della nostra esistenza.
Egli vuole metterci in guardia da quel tipo di spiritualismo “disincarnato”, che anche oggi è molto di moda. Per questo usa un termine così forte come “mangiare”, nel senso di masticare, di triturare, di maciullare,per poi digerire, metabolizzare. Si tratta, cioè, e questa è la cosa essenziale, di assimilare, di assorbire, di fare nostri lo stile, il cuore e la mente di Gesù. Di “trasformarlo” nella nostra vita.
In pratica Giovanni dice: “Fai attenzione tu che vai a prendere l’Eucarestia; per il fatto che assumi il corpo di Cristo, non vuol dire che mangi veramente la carne di Gesù”. In altre parole se il corpo di Cristo non ci cambia, non ci “altera”, nel senso che ci rende “altri”, diversi da quelli che siamo; se non scuote i nostri modi di vivere e di pensare, se non ci mette completamente in discussione, possiamo mangiare tutte le Eucarestie che vogliamo, ma non mangeremo mai la “carne di Cristo”. Troppo riduttivamente nella Chiesa è stata identificata la carne di Cristo con l’ostia domenicale. Il che è vero, verissimo, ma per Giovanni la “carne di Cristo” è tale, solo se provoca in noi l’incontro trasformante in Lui. Altrimenti è niente.
Il missionario Arturo Paoli diceva: «La chiesa sa bene che ci sono persone o gruppi a cui bisognerebbe dire di starsene a casa. Ci guadagnerebbero a non frequentare l’Eucarestia, perché, in questo modo, altro non fanno che andare a mangiare la loro condanna”. Ma a chi dovrebbe dire questo la Chiesa? Beh, prima di tutto dovrebbe dirlo a quelli che puntano il dito senza pietà e giudicano senza cognizione alcuna, a quelli che rubano, a quelli che sfruttano gli operai, a quelli che non hanno misericordia, a quelli che maltrattano e uccidono il prossimo anche solo a parole, a quelli che si credono gli unici perfetti e giusti, a quelli che non vogliono lasciarsi coinvolgere dall’amore del prossimo, a quelli che detengono armi sia fisiche, che psicologiche, mediatiche, intellettuali e le usano per affermarsi egoisticamente, per esibire il loro potere. A tutti questi la Chiesa dovrebbe dire: Fuori di qui. In voi tante ostie, ma niente carne di Cristo. Mangiare la carne di Cristo non significa tante comunioni, ma tanta comunione con i vostri fratelli».
Allora chiediamoci: “quando andiamo a messa, usciamo avendo fatto veramente la comunione?” (Tra l’altro non si capisce perché molta gente non la faccia: è come andare dalla persona amata e non darle un bacio, oppure andare a trovare un amico e non salutarlo, non parlargli). “Abbiamo veramente mangiato la carne di Cristo, oppure abbiamo ingerito solo un po’ di pane azzimo?”.
“Chi mangia la mia carne ha la vita eterna… dimora in me ed io in lui… vivrà per me in eterno”.
Espressioni come queste, contenute nel vangelo di oggi, hanno un senso solo se diamo al termine “vita” il suo significato autentico.
Giovanni fa prima di tutto una netta distinzione tra “Bios”, vita fisica, e “Zoè” che indica il principio della vita, la vitalità, la pienezza, l’essenza stessa della vita. Per lui solo  “Zoè” è la vita vera, la vita in cui Cristo vive, in cui Lui abita. Solo chi ha la “Zoè” potrà quindi entrare nel regno della Vita. Chi invece preferisce la “Bios”, la “non-vita”, la morte spirituale, avrà la morte.
Quante persone incontriamo che sono dei morti viventi; vivono anagraficamente, ma in pratica sono morti. Come? Quando non ci commuoviamo più, quando il nostro cuore è diventato duro come una pietra e non sappiamo più piangere, quando non proviamo più tenerezza, misericordia, siamo morti, la vita non scorre più in noi. Quando non proviamo più dolore per nulla, quando i sentimenti non affiorano più, quando siamo una maschera priva di qualunque emozione, la morte è già dentro di noi. Quanto non sappiamo più appassionarci per un’idea, per una proposta, per una scoperta, ma tutto ci scivola via senza sussulti, nella totale indifferenza, allora siamo morti. Quando non sappiamo più innamorarci e il nostro cuore non vibra più, non freme più, quando non sappiamo emozionarci di fronte a chi ci ama e non ci vien voglia di fare qualche piccola pazzia per chi amiamo, allora non è l’amore che è finito, ma siamo noi che siamo finiti, che ci siamo sclerotizzati, che siamo morti dentro. La vita non scorre più in noi.
Guardando dunque gli occhi e i volti di molte persone, è lecito chiederci: “Che fine ha fatto la loro vita?”.
Giorgio Faletti, il comico, scrittore e cantautore recentemente scomparso, in una sua canzone diceva: “Che la morte mi colga vivo”. Già, che la morte ci colga vivi! Non si tratta quindi di essere in vita ma di essere vivi.
Allora, ogni mattina quando ci alziamo, ripetiamoci: “Io voglio vivere. Voglio vivere per davvero; non voglio essere un soprammobile dell’esistenza. Io voglio sentire, vibrare, appassionarmi, amare, ridere, piangere, entusiasmarmi, angosciarmi; voglio “sentire” la vita in tutta la sua ricchezza. Voglio “mangiare” Cristo, perché voglio la vita vera; la voglio oggi, la voglio domani e sempre!”. Amen.