mercoledì 15 aprile 2015

19 Aprile 2015 – III Domenica di Pasqua

«Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi» (Lc 24,35-48).
I due discepoli di Emmaus tornano dalla loro incredibile esperienza e raccontano di come abbiano visto e riconosciuto Gesù; anche Pietro racconta entusiasta il suo incontro con il Signore: nonostante ciò quando Gesù si presenta anche agli altri, questi rimangono perplessi e stupiti. Cosa vuol dire tutto questo?
È chiaro: come abbiamo detto domenica scorsa, l’esperienza del Signore Risorto, cioè il sentirlo vivo, presente nella vita, è un’esperienza che ciascuno deve fare personalmente. Gesù infatti dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”. Si tratta cioè di toccare, di percepire, di vedere con il cuore, di rendersi conto che davvero Lui è vivo, che Lui c’è, che Lui agisce.
Non basta che gli altri ci raccontino. Non basta che alcune persone abbiano rivoluzionato la loro vita. Non basta che vediamo persone fiduciose in lui, guarite dalle loro malattie. Non basta che vediamo la felicità negli occhi di chi non l’ha mai avuta dopo averlo incontrato. Nulla ci basta se non abbiamo il coraggio di toccare, di lasciarci coinvolgere, di metterci in gioco. Nulla ci basta se noi dubitiamo.
E perché dubitiamo? Perché non abbiamo fatto alcuna esperienza personale; perché non l’abbiamo incontrato, non l’abbiamo toccato, non ci siamo lasciati coinvolgere. Solo se una cosa l’abbiamo vista e sentita, solo se ci ha cambiato la vita, se ci ha fatto guarire, se ci ha fatto riscoprire la bellezza, la felicità, la gioia di amare, se da morti che eravamo dentro, da disperati, siamo tornati a sentirci vivi, a sentire la vita dentro di noi: ecco, solo allora noi non abbiamo più dubbi; solo allora sappiamo per certo che “Lui è vivo!”.
La fede è un’esperienza, un incontro. Altrimenti rimaniamo nell’ipotesi, nella possibilità, nel dubbio.
Chi dubita non si lascia coinvolgere da nulla. Il dubbio è la pigrizia (o la paura) che blocca qualunque passo in avanti. Siccome vivere, sperimentare, mettersi in gioco significa lasciarsi coinvolgere, uno preferisce dubitare. Finché uno dubita, finché uno pensa, finché uno si pone tutti i perché e i “come mai?” del mondo, rimane fermo, bloccato, non si muove. Dubitare, riempirsi la testa di idee e di infiniti “distinguo”, è un buon pretesto per non lasciarsi coinvolgere, per non volersi impegnare ad incontrare Gesù e a toccarlo.
Luca descrive la difficoltà degli apostoli di credere: non credono ai loro amici; non credono a Gesù, pur avendolo davanti!, e non gli credono neppure dopo aver visto le sue ferite e aver mangiato nuovamente con lui; fanno fatica a credergli anche quando Gesù spiega loro il senso di quanto è accaduto nei giorni scorsi.
Con questo l’evangelista vuol farci capire che la fede è un traguardo difficile, una strada, un cammino in cui si procede gradualmente, passo dopo passo; comporta un divenire lento e faticoso. Noi al contrario siamo quelli del “tutto e subito”, del “detto e fatto”, del “cotto e mangiato”. Ma non funziona così per le cose dell’anima o del cuore. Noi siamo abituati con la TV o il computer: basta un semplice pulsante, un telecomando, e tutto è risolto, vediamo immediatamente le immagini, tutto ci appare chiaro e comprensibile. Ma non funziona così! Nell’anima, nello spirito, tutto avviene lentamente, gradualmente. Tutto va conquistato con gradualità, con pazienza, con perseveranza. È come scalare una parete rocciosa: ogni passo in avanti richiede la sua messa in sicurezza, dobbiamo essere sicuri del nostro punto di appoggio, prima di piantare più in alto un nuovo arpione che ci dia fiducia e certezza. Del resto solo una arrampicata superata tra mille difficoltà può farci apprezzare pienamente l’ebbrezza della vetta: solo l’aver superato ogni contrarietà ci fa capire quanto abbiamo voluto quella conquista e quanta fatica ci è costata; solo allora possiamo gustare con soddisfazione, ogni singola tappa, ogni passaggio, il superamento di ogni situazione contraria.
Luca però, oltre a dimostrarci la difficoltà del nostro cammino di fede, ci descrive anche quali sono le strade di questo cammino che portano all’incontro con Gesù.
La prima strada è mostrargli le nostre ferite: ripetere cioè quello che Gesù stesso ha fatto con i discepoli. Le mani e i piedi feriti, il costato e il cuore trafitto, erano la documentazione della sua sofferenza. Le mani rappresentano il fare, l’agire, il costruire, il realizzare. Molte persone credono che, una volta ferite,“non ci sia più niente da fare, che ormai tutto sia compromesso. Ma non è vero! Non scansiamo, non demandiamo ad altri, quello che spetta a noi di fare: Gesù ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà: perché se non siamo noi a realizzare i nostri desideri, le nostre aspirazioni, ciò che ci piacerebbe fare o vivere, chi mai potrà farlo al nostro posto? Perché dovrebbero farlo gli altri? Perché lamentarci che siamo infelici, che la nostra vita non ci soddisfa, che il mondo che ci circonda fa schifo, se poi da parte nostra non facciamo nulla? Perché scusarci col dire “è troppo tardi”, soltanto perché abbiamo paura di iniziare?
Noi non immaginiamo neppure quanta voglia di fare, quanta forza interiore ci assale nel vedere come le nostre mani ferite, incapaci di realizzare, di costruire, di fare qualcosa, se ci fidiamo del Signore, diventino improvvisamente mani forti, gloriose, risorte, guarite, con le quali poter finalmente creare, fare, iniziare, realizzare. Il Risorto vuole che tocchiamo il suo cuore trafitto, perché così facendo, il nostro cuore ferito potrà guarire; e potrà condividere con gli altri una nuova vita vera, intensa e luminosa.
La seconda strada per incontrare Gesù è l’amicizia, la donazione di noi stessi agli altri. Gesù mangiava con gli apostoli. In vita aveva mangiato tante volte con loro e con tante altre persone; amava stare a tavola, perché in quell’occasione creava legami di amicizia, di confidenza, di intimità fra le persone.
Possiamo sentire vivo e chiaro il Risorto, percepirlo in maniera forte quando, tra amici, riusciamo ad aprirci, ad aprire il nostro cuore. Quando parliamo delle nostre cose private, quando riusciamo a raccontare le nostre cose più profonde e siamo accolti, allora ci sentiamo amati, sentiamo la forza della vita pulsare dentro di noi; allora iniziamo a non vergognarci più di quello che siamo; allora troviamo fiducia in noi e in ciò che siamo; allora ci sentiamo interiormente forti. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”: quando noi possiamo aprirci liberamente, e lo stesso avviene dall’altra parte, allora sentiamo che le nostre anime si riconoscono, si uniscono, si incontrano. Allora possiamo percepire chiaramente che Dio è presente, lì, in mezzo a noi, con noi e fra di noi. Sono queste infatti le comunità del Risorto, quelle che Lui vuole.
La terza strada per incontrare il Risorto è la meditazione e la comprensione delle Scritture. Gesù spiega agli apostoli la sua vicenda, cos’è successo e cos’è accaduto. Noi abbiamo bisogno di comprendere la nostra storia, di comprendere il filo rosso che lega le nostre giornate, perché in questo modo troviamo un significato, un senso, un collegamento nella nostra esistenza. Trovare un senso al nostro vivere è fare esperienza del Signore Risorto: perché così scopriamo che nulla avviene per caso, che tutto ha un senso ben preciso; che ogni cosa avviene per un motivo specifico, che ogni situazione ha sempre qualcosa da dirci: e che quando abbiamo un senso per vivere, qualunque situazione è affrontabile.
Abbiamo bisogno di capire il vangelo e la Bibbia. C’è molta ignoranza a questo riguardo. S. Girolamo diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”; per questo dobbiamo approfondire, andare in cerca della verità, capire.
Perché dobbiamo essere comunità fondate sul vangelo e non sulla creduloneria; dobbiamo appartenere a comunità in cui la gente crede per adesione dell’anima e per ricerca e convinzione personale; dobbiamo vivere la storia e il messaggio di Cristo, avendo il coraggio di dire che nei secoli il suo Vangelo è stato anche frainteso e travisato. Non dobbiamo temere di scandalizzare qualcuno, o che qualcuno ci dica: “Ma cosa ci hanno insegnato i preti finora?” (il che forse è anche vero!). Dobbiamo essere noi una “lettura” vivente e cosciente, perché dove c’è buio, ignoranza, ottusità, lì non potremo mai costruire nulla. La verità ci farà liberi, anche se a volte ci farà male e ci mostrerà un mondo diverso da come lo pensavamo. Tornare al vangelo e a Gesù significa fare esperienza del Risorto. Il Gesù del vangelo ci infiamma l’anima, ci appassiona nel profondo e ci riscalda il cuore: perché il vangelo non è un libro da leggere ma una persona da incontrare e da far entrare dentro di noi. Amen.

 

giovedì 9 aprile 2015

12 Aprile 2015 – II Domenica di Pasqua

«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco» (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli.
La prima ci spiega cosa può voler dire “vedere” il Signore nella nostra vita; la seconda che “vedere” il Signore è una questione personale: nessuno, cioè, lo può fare al posto nostro; toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo dentro di noi, è un’esperienza che ognuno deve fare di persona.
I discepoli, dopo la morte di Gesù, si erano rinchiusi ben bene nel cenacolo e dicevano: “Se hanno fatto così a lui, cosa faranno a noi?”. La paura e il terrore dominava le loro giornate e la loro vita. Le “porte chiuse” stanno ad indicare che non ne volevano più sapere del Signore, avevano una paura folle, e avevano deciso di dimenticare tutto, di tornare alla loro quotidianità, alla vita di prima. Certo avevano trascorso dei giorni indimenticabili, quando con loro c’era Gesù; erano arrivati anche a credergli, a seguirlo con entusiasmo, ma poi gli ultimi tragici eventi hanno infranto qualunque loro sogno: l’unica possibilità rimasta, dettata dalla paura, è pertanto quella di rinunciare a tutto e di tornare a casa.
È per paura che anche noi molte volte rifiutiamo la fede: non ce l'abbiamo con Dio, anzi lo vorremmo conoscere a fondo, vorremmo che rimanesse nel nostro cuore; sappiamo che Dio non è un nemico, che non viene per ucciderci o per condannarci o per farci del male. Ma abbiamo comunque paura: paura di “aprirgli le porte”, paura di quanto potrebbe trovare dentro di noi, paura che ci metta di fronte alle nostre responsabilità, paura che scopra le nostre maschere, le nostre immagini di facciata, le nostre illusioni costruite sul nulla.
Ma Dio non incute terrore. Dio non vuole mettere nessuno con le spalle al muro.
Incontrarlo significa scuoterci dal nostro immobilismo, dal nostro nasconderci; significa rinunciare al nostro caparbio ed eccessivo proteggerci, dal voler risolvere i problemi da soli, di testa nostra. Far entrare il Signore nella nostra vita è qualcosa di concreto, di vitale, di molto impegnativo, e talvolta anche di doloroso: significa togliere tutti i “paletti”, aprire ogni serratura, spalancare le nostre porte, pregandolo di accomodarsi; significa mettersi completamente nelle sue mani, accettare ogni sua iniziativa; significa farlo entrare proprio là dove regna il potere del buio, della paura, dell’isolamento, dell'ignoranza, della notte.
Tommaso non è presente a questa prima apparizione: come a dire che non è ancora pronto ad incontrarlo: resiste, è ancora dominato dalla paura, non vuole aprire a nessuno.
Ma quando la seconda volta Gesù entra nel cenacolo, presente Tommaso, e dice: “Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che egli non inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno: Egli augura la pace a tutti e a ciascuno; col suo saluto vuol dire: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non aver paura”. E per dimostrare che è proprio Lui, “mostrò loro le mani e il fianco”. Perché al primo incontro Egli mette in evidenza le sue ferite? Perché non la sua potenza, la sua gloria, il suo essere vittorioso sulla morte? Per dimostrarci che anche Lui ha sperimentato il dolore: a Lui interessa incontrare prima di tutto, il nostro io sofferente, vuole eliminare anche a noi tutto ciò che ci fa male, che ci impedisce di vivere, che blocca la nostra crescita, la nostra vita interiore, che ci impedisce di camminare spediti e liberi al suo seguito.
Incontrarlo significa per noi sperimentare immediatamente la sua sollecitudine di medico; constatare il suo intervento come determinante e risolutore, al punto da farci riconoscere con sollievo: “è vero, o Dio, avevo proprio bisogno di te; le mie ferite, appena sei entrato, sono completamente guarite. Quanto tempo ho perduto!”.
Purtroppo tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta, preferendo tenersi le loro ferite. Soffrono e non lo dicono a nessuno; non vogliono farsi curare. Ma la ferita pian piano marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Una ferita non curata, non medicata, infetta tutto l'organismo. La vita di moltissimi uomini è un fiume di sofferenza, è piena di dolore, di rabbia, di lacrime e di umiliazioni: eppure nulla traspare in superficie; dal di fuori tutto sembra normale, tranquillo. Continuano ad essere dominati dalla paura, dal sospetto, dal rispetto umano. Non si fidano di Gesù, non ascoltano le sue parole: “Non temere, lo so che hai una paura folle, lo so che chiudi tutte le tue porte, lo so che ti sei sbarrato in te stesso e non vuoi che io entri, ma fidati, fammi entrare nella tua paura, nei tuoi luoghi chiusi; stai tranquillo, io ti porto solo la pace! Quello che ti è successo, quello che ti sta accadendo, non è casuale. Tu fammi entrare e scoprirai che tutto ti riguarda; ogni tua ferita deve insegnarti qualcosa, devi vivere certe prove, perché solo affrontandole puoi imparare. Fammi entrare e scoprirai che la tua vita, anche nelle difficoltà, anche nel dolore, è ricca di senso”.
La nostra fede ha bisogno di esperienza, è frutto di esperienza personale. Il percorso e le prove degli altri non incidono sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli altri hanno incontrato Dio è istruttivo, ma ininfluente per il nostro percorso: il punto essenziale è che dobbiamo essere noi, di persona, ad incontrarlo; inoltre, è di vitale importanza che questo incontro avvenga quanto prima, che sia bruciante, decisivo: dobbiamo conoscerlo, dobbiamo sapere esattamente chi è Lui, dobbiamo sperimentarlo, condizionandogli la nostra esistenza. Dobbiamo fare la stessa esperienza di Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti vedono…” (Gb 42,4).
I testimoni, i santi, la fede degli altri, non ci basta più: abbiamo bisogno di un incontro decisivo, illuminante, unico, tra noi e Lui. La nostra fede è una questione riservata, appartiene solo a noi, alla nostra sfera personale; è un’esperienza unica, perché avviene esclusivamente tra Dio e la nostra anima. Tutti prima o poi dobbiamo incontrare il Risorto; e dobbiamo farlo di persona: nessuno può sostituirci in questo.
Allora, come Tommaso, anche noi possiamo dire: “Mio Signore e mio Dio”. Anche la Maddalena ha detto: “Mio Signore; rabbonì, mio maestro”. Gesù stesso ha parlato di “Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17). È una espressione profonda, personale, che indica un possesso esclusivo, pur essendo comune a tutti quelli che incontrano Dio. La fede infatti nasce da questa comune esperienza personale di relazione con Dio: è una relazione profonda, diversa in ciascuno di noi, ma comune per tutti, in quanto è una relazione d'amore, di conoscenza, di crescita; un percorso che diventa sempre più agevole attraverso la convivenza con le persone, attraverso gli incontri, il tempo, i gesti d'amore, l’affinamento del nostro io: insomma attraverso le esperienze dell’intera nostra vita.
Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, andiamo per fare un incontro, per alimentare una relazione d'amore, per incontrare, per vedere il nostro Amore.
Molte persone dicono: “Io vado a Messa quando ne ho voglia”. È sbagliato esprimersi così, perché quando si ama qualcuno lo si vuole anche vedere. Gli innamorati vorrebbero vedersi in ogni istante. Ci si sposa per “vedersi sempre”, per stare sempre insieme. Una relazione ha bisogno di frequenza, di vedersi, di conoscersi, altrimenti che relazione è?
Molte persone vanno in chiesa, ma non ci sono con il cuore, con l'anima, con il canto, con la preghiera: non partecipano, non si espongono, non si lasciano coinvolgere. In questo modo non c'è nessuna intimità con Dio, nessun incontro, nessuna relazione. E' come andare dall'amata e non accarezzarla, non darle un bacio. Che amore è? Che rapporto è? Molte persone vanno in chiesa e non ascoltano la Parola di Dio, sono refrattari a qualunque invito, sono sordi, disinteressati, impermeabili a tutto, chiusi nella loro corazza di indifferenza: sono come un fidanzato che invece di ascoltare l'amata ha la testa altrove, è insofferente, pensa alla squadra del cuore. Altre si distraggono per qualunque cosa, per i motivi più futili: quando uno si alza o si siede, quando un bambino fa qualche rumore, al primo errore di lettura; altri non sanno fare silenzio esteriore, né tantomeno quello interiore; non c'è intimità, non c'è profondità nel loro stare in chiesa, alla presenza di Dio. Si distraggono con tutto e tutto li distrae: esserci o non esserci è la stessa cosa.
Ogni volta che noi andiamo in chiesa per l’Eucaristia, abbiamo bisogno di toccare il Signore, di sentirlo, di sperimentarlo. Abbiamo bisogno di fare esperienza di qualcosa che entri, che colpisca, che nutra, che disseti il nostro cuore. Non tutti vi riescono, ma sono tante le persone che, quando escono dalla chiesa in particolari occasioni, pur non sapendo dire esattamente cosa hanno vissuto, sono comunque soddisfatte: “Sono stato bene! Mi sono commosso! Mi sono sentito come a casa mia! Sì, ho incontrato il Signore. Sono felice come una Pasqua”.
Sono espressioni semplici, che rivelano però che quanto meno c'è stato un “incontro”.
Ogni volta che andiamo a messa, mostriamo al Signore le nostre mani ferite: sono ferite debilitanti che riceviamo ogni giorno: sono i pensieri che ci turbano, che ci ossessionano, le ansie che impediscono di esprimerci, di essere noi stessi, di diventare come lui ci ha pensato; le paure, i litigi, le incomprensioni, le relazioni che non vanno, il panico che ci assale, i giudizi della gente. Abbiamo bisogno di disintossicarci dal male, dall'odio, dal dolore. Mostriamogli queste ferite, e ascoltiamo la sua voce che ci tranquillizza: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”. Ci servono queste parole; ne abbiamo bisogno, ci ridanno pace, fiducia e amore per ripartire con vigore.
Ogni volta che andiamo a Messa mostriamo al Signore, come ha fatto lui, il costato ferito. È la nostra ferita del cuore. Rappresenta le ferite più profonde del nostro io: il non essere accettati dagli altri, l'essere rifiutati, l'essere traditi, il non essere considerati nelle nostre necessità. Sono le paure forti e onnipresenti, le sensazioni amare che ci rincorrono sempre, giorno e notte, che non ci lasciano mai, che non ci danno tregua: la sensazione di aver sbagliato tutto; di aver fallito i nostri più importanti appuntamenti con la vita: nel matrimonio, nel lavoro, nell'educazione dei figli; di avere umiliato, usato e sfruttato il nostro prossimo; di esserci abbandonati al vizio e alle sue dipendenze, alle trasgressioni devianti; di non essere riusciti a crescere, di continuare ad essere, anche da adulti, degli eterni immaturi. Offriamole, queste nostre ferite, alla misericordia divina, proprio in quanto laceranti, profonde, umilianti; ferite che ci spezzano il cuore e che ci fanno vergognare profondamente. E aspettiamo umilmente quelle sue parole di cui abbiamo tanto bisogno: “Pace a te; ci sono io con te: non disperare, tu devi risorgere; ristorati qui con me. Io ti accetto così come sei, con calma affronteremo la tua guarigione, tu puoi guarire; e se anche non riuscirai a guarire completamente, io ti amerò comunque”.
Abbiamo bisogno di sentirci capiti, valorizzati, importanti. Abbiamo bisogno di sentirci rassicurati, incoraggiati; abbiamo bisogno di sentirci dire che per Lui noi valiamo più di qualunque altra cosa; che ce la possiamo fare, che possiamo vivere, che la nostra dignità non è del tutto distrutta. Ogni otto giorni, ogni domenica, dobbiamo andare a fare esperienza del Risorto in chiesa. Dobbiamo andare per incontrarlo, per assicurargli il nostro amore, la nostra riconoscenza. Per dirgli che senza di Lui non possiamo più vivere. Amen.
 

mercoledì 1 aprile 2015

5 Aprile 2015 – Pasqua: Risurrezione del Signore

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).

Pasqua è il centro focale della nostra fede cattolico-cristiana: Cristo è risorto dai morti.
In genere però le persone non capiscono molto questa festa. Il Natale è più semplice: un bambino che nasce lo capiscono tutti; è una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di feste insomma che la gente ama di più.
La Pasqua è più difficile da capire; ci ricorda una tragedia: la crocifissione e la morte di Gesù, e dopo tre giorni la sua vittoria sulla morte. Per quanto esaltante, ci lascia abbastanza freddi e indifferenti.
Ma vediamo prima di tutto cosa significa la parola resurrezione: è una parola che deriva dal latino “resurrectio” i cui componenti concorrono a darci un significato completo: “dirigersi di nuovo da sotto verso fuori”, ossia “andare in senso contrario, da dentro a fuori, dal buio alla luce”. Resurrezione, significa allora, che mentre si andava in un senso, improvvisamente dal di dentro succede qualcosa che ci fa andare in direzione opposta. È un cambiamento di senso, di direzione (dalla morte alla vita) che avviene dentro (sub). Vuol dire che fuori le cose possono anche rimanere uguali a prima (infatti Gesù non è più ritornato in vita), ma dentro tutto è diverso (prima era morto e poi non più), i suoi lo sentono vivo, in maniera forte e chiara.
Storicamente, cos’è successo? Quando Gesù venne arrestato, tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e scapparono. Probabilmente se ne tornarono in Galilea, alle loro case. Solo alcune discepole (le donne!) trovarono il coraggio di assisterlo da lontano.
I discepoli vissero un fallimento totale: si sentirono finiti, morti dentro e presi in giro da tutti coloro che li avevano messi in guardia da Gesù: “Come fate a fidarvi di un pazzo? Di un eretico? Di un senza-Dio ?”. E messi di fronte a ciò che era successo, essi convennero: “Avevano proprio ragione!”.
Ma poi successe il vero miracolo della resurrezione: quel Gesù che credevano morto, finito per davvero, davvero sepolto; quella loro esperienza con Gesù, che pensavano chiusa per sempre, improvvisamente riacquistò tutta la sua attualità: essi cominciarono a sentire dentro di loro proprio quello stesso Gesù, morto sulla croce: e lo sentivano vivo, potente, presente nuovamente nella loro vita in maniera inequivocabile, indiscutibile. Era così presente che “lo videro” chiaramente: non c’era nessuna possibilità di errore. I discepoli che il venerdì santo erano disperati ed erano tutti fuggiti via in preda alla paura e al terrore più totale, alcune settimane dopo, a Pentecoste, erano pronti ad annunciare Gesù risorto, vivo, Signore del mondo. Per lui andavano in prigione, per lui venivano derisi, umiliati, percossi, ma nulla li fermava più. Per lui potevano anche morire e molti di loro furono davvero giustiziati: ma nulla poteva fermarli. C’era in loro un fuoco che non si spegneva mai.
Tutto questo è successo e ne siamo certi: non si può spiegare come quei discepoli abbiamo potuto cambiare in maniera così radicale, profonda, decisiva, fedele, in così breve tempo, se non con l’irruzione in loro di una forza divina. O erano tutti impazziti o ciò che dicevano era vero: “Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è dentro di noi, vive in noi e con noi”.
Possiamo pertanto convenire che la resurrezione è stata una esperienza inaspettata e incredibile, fatta personalmente dagli apostoli. La cosa viene ben descritta nel vangelo.

Pietro e Giovanni, la mattina di quella domenica, si fanno una bella corsa. Giovanni descrive con scrupolosità come sono andate le cose: egli, più giovane, arriva per primo ma non entra; è Pietro, giunto subito dopo di lui, che entra per primo. Nonostante ciò Pietro non vede: chi vede è Giovanni. È chiaro che qui “vedere” equivale a “credere”. Pietro, infatti, nel vangelo è colui che vuol capire con la testa (Cefa), con il raziocinio; Giovanni, invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore, dall’intuizione, dal sentimento. Sia la mente che il cuore crederanno: ma la mente cerca di controllare il sentimento, cerca di contenerlo, perché il sentimento è come un’onda d’urto travolgente. La mente ci serve per capire, per spiegare, per interpretare. Ma l’organo della vita è il cuore: l’anima, l’amore, la vitalità, lo stupore, la fede, la conoscenza di Dio, si percepiscono, si “sentono”, si sperimentano: poi la mente spiega cos’è successo.
Di fronte ad un dolce la mente cerca di individuarne i componenti, per capire se è più o meno buono: il cuore al contrario lo assaggia, lo gusta e ne sente subito la bontà.
Siamo Pietro, la mente, la durezza, quando non vogliamo fare spazio alla vita che c’è in noi: vediamo tante cose, ma è come se non vedessimo nulla, perché quello che vediamo non ci emoziona. Siamo invece Giovanni, l’amore, l’interiorità, il sentimento profondo, quando non solo vediamo, ma anche “capiamo” immediatamente.
Quando parliamo con una persona cara, guardiamola negli occhi, entriamole dentro. Ascoltiamo non tanto cosa ci dice, ma le vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua tristezza, il suo slancio, la sua meraviglia, il suo amore. Quando la abbracciamo, “sentiamola”, chiudiamo gli occhi e riconosciamola dalla fragranza della sua pelle, dal profumo del suo corpo. Quando cantiamo, fermiamoci e ascoltiamo le onde che vibrano dentro di noi; onde che provocano emozioni, che fanno risuonare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte ogni pensiero e ascoltiamo il battito del nostro cuore: allora potremo percepire forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi.
Ogni tanto fermiamoci e ascoltiamoci. All’inizio magari usciranno da dentro di noi demoni e mostri. Ma se avremo pazienza, con calma, nel silenzio, nel tempo, scopriremo dentro di noi una presenza soprannaturale, sorgente inesauribile di vita e di luce.
Resurrezione è poter cogliere l’invisibile nel visibile. Ma ci servono degli “occhi speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che varcano la soglia della materia, riuscendo a cogliere la vera realtà delle cose. Con la resurrezione di Gesù, noi affermiamo: Dio è qui. Dobbiamo solo cercarlo, dobbiamo solo scoprirlo, dobbiamo solo conoscerlo.

Il testo del vangelo ci dice che Maria di Magdala si recò di buon mattino quand’era ancora buio. Sono due momenti temporali completamente diversi: “di buon mattino” vuol dire luce, giorno; “quand’era ancora buio” vuol dire buio, notte. Apparentemente sono una contraddizione. In realtà esprimono i due aspetti di un unico evento: nel cuore di quella donna e dei discepoli, tutto era finito, e per questo era davvero buio, anzi di più, era notte. Ma stava per accadere qualcosa di unico: stava venendo fuori la luce, la Vita, la vitalità.
Ogni volta che diciamo: “È tutto finito”, dobbiamo sapere che, in qualche modo, sta nascendo qualcosa. Un qualcosa che ci pone su un altro livello, che ci chiede di fare un salto dinamico, un salto di crescita, un salto evolutivo. Questa cosa si chiama fede. Avere fede significa poterci fidare, perché in tutto ciò che ci succede, c’è sempre Dio che tenta di plasmarci, di forgiarci, di purificarci. Tutto ciò che ci succede è bene per noi: certo, a volte è doloroso, duro, per niente piacevole, ma è necessario, perché tenta di farci andare nella giusta direzione.
Se rimaniamo a livello di storia, come è successo per gli apostoli, diciamo: “Che disastro! È tutto finito! Gesù è morto”. Ma se compiamo il “salto” di fede, diciamo: “Tutto ha un senso! Ora capisco, Dio sia lodato per tutto ciò che fa!”. Da un punto di visto storico, una crisi è sempre buio pesto, è sempre difficile, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi definitivamente da una persona cara è sempre molto doloroso; vedere distrutti i progetti di una vita è profondamente destabilizzante; constatare di aver sbagliato tutto, dopo tanti anni di lavoro e di sacrifici, è davvero deludente. Ma da un altro punto di vista, se facciamo il salto di qualità, di fede, di evoluzione, allora tutto è resurrezione, è vita. Ogni fatto grave, per quanto grave sia, per quanto ci costringa nel buio più totale, se riusciamo a fare il nostro salto, diventa “luce”, diventa vita, diventa resurrezione.
Tutto ciò che ci succede sarà sempre buio, notte, morte, se rimaniamo allo stadio iniziale, senza fare alcun salto. Tutto ciò che ci succede sarà prezioso, grazia, benedizione, gratitudine, se compiamo quel salto. Un salto che nessuno può fare al nostro posto; solo noi possiamo farlo.
Molti sono perennemente infuriati, rabbiosi, perché nel mondo succedono le peggiori cose; perché attorno a loro tutto va storto: la moglie, il marito, ha fatto una cosa; il collega, l’amico, ne ha fatta un’altra; il figlio non si comporta come deve; insomma il mondo intero gira nella direzione sbagliata. Ma vivere così non serve. È necessario fare un salto di resurrezione, un salto che ci trasferisce dalla materia allo spirito. E dobbiamo farlo personalmente.
Ma in che cosa consiste questo “nostro” salto interiore, evolutivo, che dobbiamo fare? Prima di tutto non dobbiamo accusare il mondo, gli altri: il mondo in se stesso non ha nulla di male, gli altri sono comunque figli dello stesso Padre; sono soltanto diversi da noi, non sono noi: seguono vie diverse, hanno tempi di crescita diversi: forse noi siamo chiamati a lavorare fin dalla prima ora, loro magari all’ultimo istante: ma tutti indistintamente dobbiamo presentarci davanti allo stesso Signore della vigna. Le accuse non servono, ci pongono in un ruolo che non è il nostro. Dobbiamo invece guardare le cose con occhio sereno, nella loro giusta luce. Perché se leggiamo l’oggi alla Luce dell’Amore di Dio, allora ci accorgiamo che tutto acquista la sua autenticità, tutto ha un senso, il suo lato buono; il male assoluto, nella sua ineluttabilità, si trasforma all’istante in un bene concreto, possibile: tutto diventa recuperabile, riscattabile; tutto diventa positivo; magari non riusciamo subito a capire come, ma sicuramente tutto acquista una nuova prospettiva. È vero: dobbiamo vivere tutti i nostri giorni da protagonisti, con entusiasmo, con iniziative sempre nuove; ma dobbiamo farlo sapendo che il “mondo” non è nostro, non ci appartiene; risponde a delle regole che trascendono la nostra comprensione. Noi dobbiamo imparare a guardare oltre il mondo; dobbiamo imparare a guardare il “nostro” mondo, perché è su questo che dobbiamo lavorare, è questo che dobbiamo cambiare. Prima o poi verrà un giorno in cui la morte si presenterà alla nostra porta, e ci chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro: è il normale ciclo della vita: inutile abbandonarci alla disperazione. Inutile opporsi: “No, non voglio. Ho ancora tanto da fare qui. Ora non sono ancora pronto!”. Inutile dimenarsi: non abbiamo appigli o avvocati a sui appellarci. Allora capiremo che tutto quello che pensavamo “nostro”, lo abbiamo avuto soltanto in “concessione” “in uso”; niente e nessuno ci appartiene, niente e nessuno può intervenire per noi: con nulla siamo nati, con nulla moriremo. Assolutamente soli. Soltanto se siamo abituati a guardare con gli occhi della fede, potremo sentirci sorretti dall’Amore: grazie a quella minuscola scintilla d’amore che abbiamo riservato ai fratelli, potremo avviarci con fiducia, con gioia, verso la Luce, cantando: “Si torna a casa! Si va verso la Vita! Eccomi!”. Amen.
 

giovedì 26 marzo 2015

29 Marzo 2015 – Domenica delle Palme

«Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire…» (Mc 14,1-15,47).
La Passione di Gesù è la storia di un uomo perdutamente innamorato di Dio. Questo suo amore e la fedeltà a quest'amore lo portarono fino alla conseguenza estrema della morte. Possiamo capire ciò che accadde, solo rifacendoci alla “passione” che quest'uomo ebbe per le persone, per chi era lebbroso, per le donne, per gli ultimi, per tutto ciò che era piccolo, insignificante e rigettato dagli uomini.
Gesù era innamorato dell'uomo, perché in lui vi trovava una ricchezza enorme: Dio. Questo amore e questa passione li ritroviamo nell'animo poetico di Gesù quando dice le Beatitudini; è lo stupore che prova di fronte agli uccelli del cielo o ai gigli del campo; è la misericordia che prova di fronte agli uomini malati; è la tenerezza che sente di fronte alle madri o ai padri che hanno perso i loro figli; è l'ardore con cui si scaglia contro i farisei e gli scribi ipocriti; è la violenza con cui scaccia i venditori dal tempio di Gerusalemme.
Nel racconto della Passione questo amore e questa passione sono la forza, la scelta di percorrere fino in fondo il suo cammino nella fedeltà al suo cuore, alla sua anima e al suo Dio. Ciò che qui Gesù compie non è nient'altro che la continuazione estrema di tutta la sua vita.
Tutta la sua vita è stata vissuta con passione, con intensità, bruciando, amando, piangendo, commovendosi, non passando mai, vicino a qualcosa, dimostrando indifferenza, ma infuocato sempre o d'amore o di sdegno. Una vita vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare. Gesù pensa: “Ciò che vivo, ciò che sento, i miracoli e soprattutto mio Padre non mi hanno mai abbandonato e tradito. Io mi sono fidato e loro mi hanno accompagnato fin qui. Perché non dovrei fidarmi proprio ora? Se mio Padre non mi ha mai tradito, perché dovrebbe farlo proprio adesso? Sono stato condotto per tutta la vita da una Voce che mi diceva: “Tu sei il Figlio mio diletto, in te mi sono compiaciuto”. Sono stato accompagnato per tutta la vita da una Mano che mi ha indicato la strada e che mi ha condotto con amore. Sono stato condotto dalla mia coscienza a mettere in discussione tante norme, tante leggi e usi consolidati per secoli, preso per eretico e per pazzo. Sono stato spinto a fidarmi di ciò che sentivo, a non aver paura di chiamare Dio con il nome di “Padre”, a credere nella forza che c'era in me, a credere nella forza degli uomini. Sembrava incredibile, ma non lo era; sembrava impossibile e, invece, si è verificato. Mi sono fidato e la Vita mi ha condotto. Sono stato fedele a questa Voce e lei è stata fedele a me. Non mi ha mai tradito. In tutti questi momenti sembrava di essere di fronte a qualcosa d'impossibile. Ma io le ho creduto e lei mi ha dato ragione. Adesso mi trovo di fronte a qualcosa di incomprensibile, di inspiegabile, di non ragionevole, di atroce. Non capisco, ma mi fido. Dio non mi ha mai tradito. E, se è Dio, non lo farà neppure ora”.
Così Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l'uomo e per tutto ciò che vive, e soprattutto alla sua unica e vera passione: Dio. E quando tutto sembrò finire, concludersi; quando tutto sembrò chiudersi Dio non lo tradì. La Passione è la storia di quest'uomo fedele a se stesso e al proprio profondo, innamorato di questo Dio che non lo lasciò, ma che confermò con la resurrezione che tutto ciò che Gesù viveva era “Dio”.
In Gesù possiamo anche noi acquisire la forza per compiere il nostro viaggio, fino in fondo, e per vivere con passione la nostra vita.
Analizziamo alcuni personaggi e alcuni momenti della Passione di Gesù: rispecchiamoci in essi per capire come noi viviamo nella vita di ogni giorno, con quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura. In essi possiamo rivederci e ritrovarci, e comprendere meglio, più in profondità, la nostra vita.

1) I Sacerdoti e gli scribi tentano di uccidere Gesù, ma la cosa deve rimanere riservata, segreta, non deve trapelare in pubblico, il loro complotto deve rimanere un affare privato. Fin dall’inizio del mondo, il male ama l'inganno, il nascondersi, il camuffarsi; si insinua pericolosamente nella vita delle persone, e queste non se ne accorgono; manipola le notizie, gestisce le informazioni, falsifica la realtà e ben pochi se ne accorgono.
Il Figlio di Dio è stato condannato e ucciso come un impostore, tutto è stato costruito anche per lui sulla falsità, sull’imbroglio, sull’indifferenza generale. Il mondo purtroppo è succube del male, ne è dominato: ma non sono le armi, le guerre che lo sovrastano, ma è l'odio, l'angoscia, la paura, la disperazione che ogni uomo porta dentro di sé, nel suo cuore: siamo noi, in casa nostra, nel nostro animo, che fomentiamo le guerre mondiali, che alimentiamo l’odio universale. Dobbiamo rendercene conto e darci subito da fare: ovviamente non riusciremo mai da soli a cambiare il mondo, ma sicuramente riusciremo a cambiare noi stessi, il nostro piccolo mondo, poiché il vero e unico territorio su cui siamo sovrani indiscussi è il nostro cuore; solo lì potremo decidere se fare della nostra vita un campo di battaglia o un’oasi di pace.
E se in certi momenti saremo presi dallo sconforto poiché l’impresa ci sembrerà irrealizzabile, abbiamo pur sempre alla nostra portata un’alternativa valida e immediata: amare, amare, semplicemente amare; stare vicini a chi sta peggio di noi, a chi più di noi ha bisogno di conforto e comprensione: in una parola possiamo sempre essere presenti e determinanti nel mondo, con il nostro amore, offerto discretamente, nel silenzio, nell’umiltà. Perché è col donare un amore generoso, spassionato, sincero, fraterno, che noi esercitiamo il nostro potere: l’unico potere vero, autentico, totale, che nessuno al mondo potrà mai toglierci o limitarci.

2) Giuda: “L'illusione del denaro”. Com'è stato possibile che uno di quelli che seguivano, che amavano Gesù, lo abbia tradito? Com'è stato possibile che uno di quelli che per Lui avevano lasciato tutto lo abbia consegnato ai nemici? Rimane un mistero. Marco fa un accenno al denaro. Cosa non si fa per denaro? Chi non si vende per denaro? Per il denaro si vende ciò che si ha di più prezioso, di più caro, di più importante: il proprio cuore, la propria anima, l'affetto e il proprio tempo. E quando noi abbiamo perso tutto questo per il denaro, cosa ci rimane? Chi insegue il denaro finisce come Giuda, che disperato s'impicca. Il denaro è un'illusione affascinante che ti conduce alla disperazione quando ti accorgi che, credendo di aver tutto, di poter tutto, in realtà, non hai niente, non hai amato, non hai vissuto, hai solo inseguito un'illusione, un'apparenza e un sogno. È la morte.

3) L’ultima cena: il sinedrio ha già deciso di condannarlo; Gesù, come ogni buon ebreo, ogni anno celebra la Pasqua. Tutto si svolge secondo lo schema solito, rituale. Da tanti anni, fin da quando erano bambini i Dodici avevano celebrato così la Pasqua, il passaggio del Mar Rosso, la liberazione dalla schiavitù. Ma adesso Gesù aggiunge alla preghiera due frasi: “Prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti”.
Con l'immagine del pane e del vino, Gesù fa della sua vita un dono. Gesù dice: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato. Sì, sono io quel vino che viene versato. La mia fedeltà mi sta portando verso quest'estrema conseguenza della mia vita. Desidero che dal mio morire, dal mio andare fino in fondo, altri gustino la vita. Desidero che la passione della mia vita, il mio vibrare e il mio sangue siano ebbrezza, gusto, fuoco per altre persone. Vorrei essere per tutti voi un po' di pane e un po' di vino. Vorrei che la mia vita, che sta per finire, diventasse per voi e per il mondo alimento, vita, sapore, gusto, senso e felicità”. Con queste parole Gesù affronta la sua sofferenza. Non gli sarà tolta: niente esternamente cambierà. Ma tutto sarà diverso, perché adesso ciò che sta per accadere ha un senso. “Anche se perdi la vita non morirai. La tua morte produrrà nuova vita”. Cosa poteva donarci di più Gesù? Gesù non ci ha donato solo delle belle parole, dei bei miracoli, dei bei discorsi. Ci ha donato tutto se stesso. Questo è il vertice della vita. “Non ti dono la mia intelligenza, la mia simpatia, i miei soldi, il mio fascino, ti do, ti dono, tutto me stesso”. L'amore è donarsi. In ogni eucaristia noi celebriamo questo: un amore donato.

4) Il Getsemani: “Ho paura di morire e di morire da solo”.
Gesù avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. E si ritira per parlare con il Padre: Egli è terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere: è l'angoscia di fallire, di sentirsi tradito, di finire la vita in un supplizio che gli si prospetta terribile: la croce! In questo momento sente tutta la sua solitudine. Nessuno dei suoi amici, neanche i più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, riescono a stargli vicino. Dormono. Non capiscono, non colgono la profondità, il dramma, cosa ci sia in questione. Vivono nella superficie, non si accorgono di ciò che sta accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, sono così presi dalle loro cose e da tanto altro che non “vedono” la tragedia che si sta per compiere.
Gesù si accorge che non può contare su nessuno. È solo. Tutti lo hanno abbandonato o dormono. Nessuno gli è vicino; nessuno lo comprende; nessuno lo consola. Eppure Gesù ha fiducia in loro.
L'uomo, nel profondo, è buono; l'uomo nel profondo ama la verità, la libertà, la vita. E se può vincere le sue paure, la sua angoscia, potrà vivere senza tradire la sua vita. Gesù “vede” tutto questo: ora lo tradiscono, è vero, ma lui vede più in profondità: e per questo, nonostante tutto, confida in essi!

5) Il tradimento di Pietro: egli è la roccia; è l'uomo che ostenta sicurezza: “Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò”. È l'uomo istintivo, d'azione, un uomo che, dice lui, non ha paura. Egli rappresenta la banalità con cui la gente si conosce, un idealismo e una superficialità che si dissolve di fronte alla vita. Finché le cose vanno bene, sono facili, allora è semplice seguire Gesù. Ma quando c'è da mettersi in gioco, da mettere in gioco quello che si è, da cambiare, da convertirsi, da trasformarsi, quando c'è il pericolo delle proprie scelte, allora tutti possiamo agire come Pietro: rinnegare la verità, far finta di niente, tradire la propria strada. Quante volte imprechiamo, spergiuriamo, quante volte ci difendiamo con tutte le forze e ci ribelliamo, quando seguire Gesù è pericoloso, è compromettente, doloroso, controcorrente,! Quando Gesù ci chiama a testimoniare di persona, con la nostra vita, allora com'è facile tirarci indietro!

6) La crocifissione e la morte. “Guardare la croce per capire”.
Qual'é il senso della croce, della crocefissione e della morte di Gesù? Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte le speranze di chi aveva lottato con lui, di chi aveva coltivato il desiderio e l'attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero, per lui e per questo mondo.
Cosa si può provare nel vedere chi si ama appeso ad una croce?
La croce è l'abbandono totale di Gesù nelle mani del Padre e della vita. È lo scontro fra due religioni: quella di Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la religione della forma, della maschera. Qui contano i grandi numeri, l'istituzione, l'ordinamento e l'obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto ossequioso alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita, non la sofferenza. Gesù dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù: lebbroso, prostituta o pagano che fosse, perché tutti per lui erano figli dell'unico Padre. Gesù non voleva che gli uomini si reprimessero o vivessero al di sotto delle loro possibilità. Gesù voleva e diceva a tutti che molti mali possono essere guariti, che tante infermità del cuore e dell'anima possono essere risanate, perché noi viviamo e siamo fatti per la felicità profonda e vera. Gesù voleva che fossimo umani. Che non c'è niente di ciò che viviamo che sia indegno agli occhi di Dio, da nascondersi. Che davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere. In croce tutto questo finisce. Questa era la religione di Gesù. E questa è la religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma ciò che viene da Dio non muore mai. Può essere perseguitato, ucciso, deriso, umiliato, annientato, ma non può morire. Dio è l'unica realtà. Ciò che viene da Lui; chi si affida a Lui, non muore mai.

7) Le donne continuano ad osservare: “L'amore è più forte”.
L'amore non si arrende, l'amore non può credere alla fine, alla morte. Chi vive nell'amore conosce l'eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l'amore conosce l'eternità. L'amore vuole “per sempre”. Queste donne non si arrendono all'evidenza dei fatti perché conoscono l'evidenza del cuore, dell'anima, della vita e di Dio. E proprio per questo loro sperare al di là di ogni speranza; per questo credere al di là di ogni ragionevole credenza; per questo amare al di là della fine, saranno loro le prime testimoni della resurrezione. Avevano visto bene: l'amore è più forte. Amen.

venerdì 20 marzo 2015

22 Marzo 2015 – V Domenica di Quaresima

«È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna». (Gv 12,20-33).
Questo vangelo ci introduce nel mistero della vita di Gesù e di ogni vita. Dapprima Gesù, con l'immagine del seme che cade in terra, ci spiega le grandi leggi della vita: crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po' come morire. Per diventare “grandi”, adulti, dobbiamo morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e maturare. Una vita ha senso solo se è donata, spesa, impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Gesù stesso vive la fatica di andare fino in fondo alla sua missione; egli stesso vive la paura della morte; egli stesso è quel seme che cade in terra. Egli oggi ci dimostra di trovarsi al punto cruciale della sua vita: deve decidere se andare fino in fondo o fermarsi.
La vita ci pone davanti ogni giorno delle scelte: a volte sono semplici, a volte un po' più complesse. Ma prima o poi verrà un momento per tutti in cui la vita ci metterà di fronte alle nostre responsabilità: dovremo fare delle scelte senza ritorno. Verranno dei momenti in cui ci verrà chiesto di fare delle scelte definitive, e per questo ancor più coraggiose, difficili, ardue. Perché da certi incroci non potremo più tornare indietro.
Quel particolare treno non passerà più, quella particolare situazione ci capiterà solo una volta nella vita: sono occasioni che se le coglieremo, ci cambieranno radicalmente la vita. Certe direzioni vanno prese solo in quel preciso istante: non prima e non dopo. Certe scelte non si ripeteranno: vanno compiute in quel momento o mai più.
Gesù sa da sempre che deve andare a Gerusalemme: il momento è arrivato, ora deve decidere se andare o meno: Galilea è vivere, Gerusalemme è morire. Il bivio è davanti a Lui: e Lui va a Gerusalemme.
Quando arriva questo momento cruciale, lo sentiamo subito dentro di noi, lo avvertiamo distintamente: è arrivato il momento, quella decisione deve essere presa. Sono incroci, sono strade senza ritorno, cambiamenti radicali, e ci fanno paura.
Sono proprio un crocevia, una “via crucis”! Sono i momenti decisivi in cui noi plasmiamo la nostra vita, le diamo una forma: la “nostra” forma.
In questo testo Giovanni mette più volte in bocca a Gesù la parola “gloria” (doxa).
Noi, quando la leggiamo, le diamo un senso completamente diverso da quello di Giovanni; pensiamo infatti a tutto quello che ha a che fare con la fama, con l'essere famosi, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo ai divi della tv o ai campioni dello sport o della musica.
Ma per Giovanni noi siamo nella “gloria” quando nella nostra vita rendiamo Dio manifesto, visibile, trasparente. In questo senso quindi Gesù è la gloria di Dio: nessuno infatti ha reso più visibile Dio nella propria vita come Gesù; con il suo vivere, il suo agire e il suo morire, Gesù ci ha dimostrato chi è Dio. Pertanto è Gesù la “gloria di Dio” per eccellenza: egli lo fa vedere quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando vive la trasfigurazione o quando dice le beatitudini. Ma il culmine di questa gloria, dove cioè noi possiamo vedere Dio in Gesù in maniera assoluta, è la croce. Nella croce noi vediamo, in Gesù, Dio che non si sottrae alla morte, a quella morte; e lo fa perché ci ama, lo fa per starci vicino, per vivere fino in fondo la sua missione redentrice.
Allora, guardando la croce, non dobbiamo più aver paura: dobbiamo invece riconoscere: “Quanto bene mi deve voler Dio, se è arrivato a fare tutto questo per me. Dio mi ama veramente da morire. Anche se tutti mi odiano, se nessuno si cura di me, Lui è sempre pronto ad accogliermi, ad accettarmi; Lui non mi rifiuta mai”.
Gloria è dunque quando qualcosa di divino, qualcosa al di sopra della dimensione terrena, appare nella nostra vita. Gloria è ogni volta che noi seguiamo la Voce che ci ri-suona dentro e la seguiamo dovunque ci chiami.
Poi Gesù fa un esempio che ci illustra molto bene lo scopo della sua vita, e che pone come legge universale per la vita di ciascuno.
«Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Ora in ebraico “bar” significa sì “chicco di grano”, ma significa anche “figlio”: quindi possiamo anche dire che soltanto “se il Figlio muore produce molto frutto”. Ora Gesù, giorno dopo giorno, è sempre più consapevole della sua fine inevitabile: perché Egli sa che la sua fine non è solo un semplice morire, ma un portare molto frutto. È per questo che egli accetta e vuole la sua morte. Per noi invece è diverso: voler morire è da stupidi: significa solo voler mettere fine ad una vita che per noi non ha alcun senso. Come se la morte potesse dare “senso” ad una vita dissipata! Morire non può mai essere un valore da acquisire, un riscatto da pagare, un fine, una meta da raggiungere. Il morire può essere accettato e voluto solo per un motivo più grande, più alto, più nobile da conseguire, dove la meta della nostra morte non è il morire in sé, ma il portare frutto. In mancanza di alternative, la morte individuale è praticabile solo se serve a procurare un bene assoluto per la collettività. Gesù non voleva morire: Gesù voleva essere per tutti pane e vino, frutto di vita eterna per l’umanità: ed è unicamente questo che l'ha portato a morire.
Sono parole, dicevo, che pongono anche una legge universale: Dio è in me come un seme. Un seme che contiene in sé il principio di morte e di vita, perché deve morire, deve venir meno, per poter vivere e svilupparsi; eccola la legge universale: è la legge dell'evoluzione spirituale e umana: perché Lui nasca bisogna che io (che l'io) muoia. Lui è in me come un seme: un seme che può rimanere tale per sempre se non trova le giuste condizioni per crescere. Io posso vivere e lasciare che quel seme dorma e sonnecchi per tutta la vita. In tal caso io uccido Dio.
Ma il Vangelo, la buona notizia (in ebraico “basorah”) ci dice che possiamo far nascere Dio in noi, possiamo sviluppare il divino che Dio ha posto in noi; noi cioè possiamo creare (“barà”) dalla nostra carne (“bar”), dalla nostra vita, la parola (“dabar”) di Dio Amore.
È chiaro che dobbiamo far morire il nostro “io”, il nostro narcisismo, il nostro egocentrismo perché, giorno dopo giorno, possa nascere e crescere il nostro vero io, il D-io che ci abita e che vuole portare vita, fecondità e frutto in noi, e attraverso noi, negli altri.
Ogni giorno noi moriamo non perché sia bello morire (è sempre un evento tragico) ma perché con questo morire noi nasciamo nuovi e più vitali. In questa nostra morte c'è la vita: in questo morire dell'io (trasformazione) c'è la vita vera.
Perché Dio si manifesti in noi, si renda evidente in noi, dobbiamo avere il coraggio di morire, cioè dobbiamo avere il coraggio di affrontare, senza scappare, ciò che dobbiamo affrontare; dobbiamo avere il coraggio di lasciarci trasformare dalla vita, cioè di cambiare. Per vivere davvero, in profondità, dobbiamo morire (soffrire).
Questa, ripeto, è la grande legge della vita. Assurdo è il contrario: voler vivere a tutti i costi, non voler assolutamente morire (trasformarsi, cambiare, crescere attraverso la sofferenza) e per questo morire sul serio. In altre parole: non possiamo pensare di vivere senza mai soffrire, di poter evitare il dolore, i problemi, le tensioni, le difficoltà, i conflitti della vita. Morire significa allora scontrarsi con la dura realtà della vita, tornare con i piedi per terra, smettere di volare sulle nuvole: cadere a terra significa che dobbiamo fare i conti con gli altri, con quello che ci circonda; vuol dire confrontarsi con i problemi e con i limiti della vita, aiutare le persone che non sempre vivono come noi pensiamo; cadere a terra vuol dire rinunciare ad essere onnipotenti, di sapere tutto, di non aver bisogno di nessuno; cadere a terra vuol dire essere vulnerabili, sofferenti, piangere; cadere a terra vuol dire sbagliare, commettere errori e avere l'umiltà di riconoscerli.
Tutto questo ci fa male. È come morire. Distrugge l'immagine di “persone brave e buone” che ci siamo cucita addosso. Ma se non cadiamo a terra, non possiamo far nascere nulla di nuovo, di buono, di fruttuoso!
È il segreto della vita: solo se è spesa per qualcosa di grande ha un senso. Possiamo viverla in maniera narcisista, egoistica, ripiegata su di noi; oppure possiamo viverla come un dono, donandola e spendendola per gli altri e per la Vita. Una cosa è certa: in ogni caso noi moriremo. Arriverà il giorno dei bilanci, nessuno è in grado di evitarlo.
Allora, di fronte a questa ineluttabilità, come intendiamo impostare la nostra vita? Cosa vogliamo farne dei giorni che ancora ci rimangono? Molte persone vivono purtroppo solo per se stesse; non si preoccupano di nulla, il seme che è in loro muore senza portare frutto. La loro vita non serve a nessuno, non c’è nulla da imparare da loro, non hanno maturato nulla. Non hanno nessuna saggezza, nessuna profondità, non hanno mai osato, mai “ragionato” sulle cose. Passano nel tempo senza lasciare traccia: vite inutili, senza senso. Persone che non possono darci nulla, perché non hanno nulla da darci; i loro passi non lasciano impronte: se qualcosa lasciano, è solo rabbia, negatività, lamentele, acidità invidia. Hanno ricevuto la vita, ma non hanno saputo donarla. Non hanno saputo fare della vita ricevuta, un dono. Impiegano i loro giorni per cose futili, insignificanti, si impegnano solo per accrescere la loro immagine, il loro prestigio. Si credono abili e impegnati, ma in realtà sono narcisisti e pieni di paura. Sono “tiepidi”: e non sanno che Dio vomita i “tiepidi” (Ap 3,16). Moriranno tristi perché potevano essere un albero rigoglioso, ricco di frutti e di linfa vitale: hanno preferito invece non maturare: si sono rinsecchiti nelle loro sterili radici; hanno rinunciato a vivere, sono dei falliti!
La vita è felice solo se ha un senso, se ha un ideale da concretizzare, se si dedica a qualcosa di valido, altrimenti vivere non ha senso. Noi abbiamo un compito nella vita: mettere in circolazione quello che siamo dentro, perché diventi utile (frutto) per gli altri. Solo così ci sentiremo “compiuti”, realizzati; ci sentiremo parte della Vita. I frutti devono essere condivisi. Sono doni che vanno donati, dobbiamo continuare questa catena d’Amore.
Solo così, quando arriverà, la morte avrà un senso e non ci farà paura. Inutile illuderci, inutile non voler pensare a quel momento. Nessuno potrà allontanarla, nessuno potrà accompagnarci nella traversata. Saremo soli e una paura folle ci sommergerà: ci sentiremo scivolare inesorabilmente verso il nulla, verso il buio, verso il niente. Nessuno potrà salvarci. La morte non risparmia nessuno. È un conto che ognuno deve saldare da solo.
Solo la fede verrà in nostro soccorso: le nostre opere buone saranno il nostro lasciapassare; se alle nostre spalle ci sarà una vita vissuta con fiducia, con forza, con passione, con intensità, con carità e amore, allora ci sentiremo più leggeri, ci sentiremo sorretti da Dio, dalle sue braccia misericordiose. Sentiremo dentro di noi la sua voce rassicurante: “Coraggio, ci sono io con te, non temere”. Certo sarà comunque doloroso, difficile, separarci definitivamente da questa esistenza terrena, dai nostri cari, da quanto abbiamo conquistato con anni di lavoro e di sacrifici; ma quelle braccia paterne e insieme materne, protese verso di noi, ci daranno fiducia, coraggio, sicurezza, tranquillità: e in esse ci lasceremo andare, serenamente: “Sento che ci sei Tu, o mio Dio: rimani con me, ed io non temerò alcun male”. Amen.

venerdì 13 marzo 2015

15 Marzo 2015 – IV Domenica di Quaresima (“Laetare”)

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,14-21).
Nel vangelo di Giovanni solo due personaggi sono chiamati “maestro”: Nicodemo (Gv 3,10) e Gesù (Gv 13,14). Entrambi sono maestri, ma il loro insegnamento è diametralmente opposto.
Ma chi è questo Nicodemo? È un fariseo, un dottore della legge; il suo nome stesso è tutto un programma: vuol dire infatti “vincitore del popolo”; indica cioè un uomo che quando parla ha sempre ragione, nessuno mai è in grado di contraddirlo; un dialettico di grande abilità oratoria: uno studioso che poggia la sua “infallibilità” su una grande conoscenza del testo sacro e della tradizione; doti e meriti dei quali il nostro ne è pienamente consapevole, e apertamente se ne compiace! Il sapere però, per quanto enciclopedico, non è tutto nella vita! Anzi a volte la sua vastità costituisce un grande intralcio per una Vita vera, semplice, serena e felice.
Un fariseo dunque: e sappiamo bene che tra i farisei e Gesù, c'è sempre stata una totale incompatibilità: è quindi ovvio che in occasione del loro incontro non riescano a capirsi, visto che le loro ragioni poggiano su presupposti diversi.
Prima di questo storico incontro, iniziato nei versetti che precedono e concluso con il vangelo di oggi, Gesù ha appena finito quella “purificazione del tempio”, scacciando da esso commercianti, venditori, ladri e quant’altro, (il vangelo di domenica scorsa); anzi, più che “purificato”, come abbiamo detto, lo aveva in qualche modo “abolito”, in quanto quel tempio rappresentava un culto basato sulla “paura” di Dio: in esso, cioè, si presentavano offerte e sacrifici con l’unico scopo di “tenerselo buono”, di evitare la sua “ira”. Una visione di Dio improponibile rispetto a quella nuova e rivoluzionaria, fondata sull’amore e sulla misericordia, proposta da Gesù.
Naturalmente i farisei, dopo quell’affronto violento subito pubblicamente in “casa loro”, erano diventati ancor più furenti nei suoi confronti, al punto che Gesù diventa ancor più diffidente nei loro confronti, “non si fida” per nulla di loro; egli conosce bene come la pensano, e prende le sue precauzioni: è vigile, attento, non si espone troppo, consapevole che essi sono ancor più decisi a strumentalizzare tutto ciò che lo riguarda per combatterlo, ferirlo, condannarlo.
L'incontro col fariseo avviene dunque di notte: forse perché Nicodemo stesso non voleva farsi vedere da nessuno. Del resto come biasimarlo? Egli è un personaggio molto in vista, un personaggio pubblico, stimato dal popolo e dal sinedrio, apprezzato da tutti per la sua competenza e per la sua onestà.
Egli, a differenza dei suoi colleghi, è un testimone oculare attento del “fenomeno” Gesù; e proprio grazie alla sua onestà intellettuale, gli insegnamenti di costui, la sua azione benefica e misericordiosa verso tutti, hanno già in qualche modo minato le sue certezze, procurandogli dubbi e interrogativi sia sulla natura della sua persona, sia sul suo ruolo di divino messia: e da uomo serio e meticoloso qual’era, vuole vederci chiaro.
È comunque emblematico che Giovanni abbia specificato l’ora di questo incontro: “di notte”.
In genere infatti egli usa il termine “notte”, quando vuole riferirsi a quelle “tenebre” che cercano di soffocare la luce di Gesù (anche Giuda esce dal cenacolo in piena “notte” per tradire Gesù); ma in questo caso è molto probabile che egli voglia descrivere proprio lo stato d’animo di quest’uomo che, assalito dai dubbi, si scopre privo di riferimenti certi: la sua anima brancola nel buio della notte, è confusa, si sente frastornata, persa. È quella stessa “notte” in cui anche noi procediamo a tentoni nel buio, spaesati, smarriti; esattamente quando non sappiamo dove andare, immersi nell’oscurità più totale, quando non riusciamo a scorgere, dentro di noi, neppure un barlume di luce e di speranza.
E Nicodemo dice a Gesù: “Sappiamo (parla a nome dei farisei) che sei un maestro venuto da Dio; nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Gv 3,2). Egli inizia riconoscendo onestamente l’origine divina di Gesù. Tergiversa. Prende tempo, non parla del suo problema personale, dei suoi dubbi, si tiene sulle generali, parla d’altro. La questione è complicata e non sa come affrontarla. Sente chiaramente che gli manca qualcosa, ma non sa cosa. Non conosce la vera natura di questo suo profondo malessere, e soprattutto non capisce perché questo suo “bisogno di verità” sia improvvisamente diventato così tanto urgente. Al suo esterno non traspare assolutamente nulla, nessuno può immaginare tanto disagio in profondità; egli sa simulare molto bene, all’esterno, quella calma e sicurezza che non prova nel suo interno: una situazione ancor più dolorosa da affrontare.
Ma Gesù ha capito tutto, non gli servono tanti discorsi, egli sa perfettamente cosa assilla quel poveretto: “caro amico, è vero: la tua vita così com’è non ti soddisfa, non ti offre soluzioni valide; nessuno, infatti, può vedere il regno di Dio, “se non colui che nasce dall’alto”: in greco ànothen”. Ma ànothen in greco ha due significati: vuol dire sia “dall’alto” che “di nuovo”. E qui Nicodemo si perde, non capisce più nulla, e replica: “Come può un uomo nascere se è già vecchio? Non può mica rientrare nel grembo di sua madre e nascere un’altra volta! (Gv 3,4). Egli prende per buono il significato temporale del termine. Ma anche in questo caso, le parole di Gesù sono chiare: “È vero, tu sei già nato, ma è stata tua madre che ti ha fatto nascere: non sei stato tu a voler nascere, non l’hai scelto tu. È opera sua, non tua. Tu invece devi fare una seconda nascita: questa volta devi essere tu a decidere di “partorirti”, di nascere ad una vita nuova: come? modificando radicalmente quello che sei ora, realizzando tutto il potenziale che c’è in te, espandendo e alzando le tue vedute, affrancandoti dalla tua mentalità legalistica, ormai superata. In altre parole devi cambiare, devi rinascere per vivere una vita completamente nuova. E questo dipende solo da te, da nessun altro. Sarà una nascita dolorosa: ma questa volta sarai tu a soffrire, non tua madre; sei tu che devi porre fine a questa tua vita materiale, per ri-nascere ad un altro mondo, un mondo completamente diverso, un mondo in cui regna lo Spirito, la Libertà, l’Amore. Nel tuo mondo attuale tutti dicono di vivere: ma il loro è un sopravvivere; solo i “rinati” nello Spirito vivono realmente.
“Rinascere dall'alto”, infatti, vuol dire: “Vivere in una prospettiva spirituale, una prospettiva più alta, più ampia, seguendo le ispirazioni dello Spirito. “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,3). Se non si vive in questa prospettiva, si rimane radicati nella materialità della vita; rischiamo cioè di vivere unicamente per i soldi, per il successo, per il lavoro, per la carriera, per il divertimento, la famiglia, i figli, il coniuge: rischiamo di trasformare tutte queste cose nella nostra unica missione, nel nostro unico scopo di vita.
Non dobbiamo dimenticarci mai chi siamo (figli di Dio), da dove veniamo (dall'Alto) e dove andiamo (nell'Amore di Dio). Non siamo qui per caso o per sbaglio: siamo qui per un motivo ben preciso, specifico.
E concludo come al solito con una domanda: cosa ci dice in particolare questo vangelo?
Prima di tutto che dobbiamo “fare luce” nella nostra vita. Dice Giovanni: “Chi crede in lui non è condannato” (Gv 3,18). Ora “credere”, per lui, significa “fare luce”, portare la luce là dove regnano le tenebre, lo stato di peccato, in tutte quelle situazioni che odiano la “Luce”. Chiunque fugge dalla verità, chiunque non accetta di conoscere se stesso, chiunque non vuole vivere pienamente la Vita che ha dentro di sé, praticamente rifiuta la Luce, e si condanna da solo. Se facesse luce, il buio, le tenebre che imprigionano la sua anima, scomparirebbero; vedrebbe chiaramente in faccia la sua reale situazione, e prenderebbe quei provvedimenti, adotterebbe quei rimedi, appropriati al caso.
Seconda cosa, dobbiamo assolutamente distogliere lo sguardo da terra; dobbiamo alzare gli occhi al cielo; se ci sentiamo persi, finiti, sul baratro della vita, rivolgiamo il nostro sguardo in alto: è lì che stanno la Forza, la Luce, la Sicurezza. Come gli ebrei con il serpente di bronzo, anche noi dobbiamo guardare con fiducia Gesù, innalzato in croce: perché questo è l’unico modo per salvarci dai morsi velenosi e mortali della vita, l’unico modo che ci fa sentire al sicuro, protetti dalle braccia spalancate e accoglienti della Vita e dell’Amore. Amen.

giovedì 5 marzo 2015

8 Marzo 2015 – III Domenica di Quaresima

«Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!» (Gv 2,13-25).
Il Tempio di Gerusalemme non era l’equivalente delle nostre chiese. Era il luogo più santo della terra: era quello vero, l’autentico, l’unico in cui Dio si manifestava. La sua maestosità architettonica superava di gran lunga qualunque altra costruzione (fu distrutto dai soldati romani nel 70 d.C.): in esso si svolgevano le sacre liturgie, si bruciava l'incenso sacro a Jahweh, si offrivano i sacrifici cruenti: ogni ebreo vi doveva offrire il suo sacrificio pasquale.
Anche Gesù, in occasione della Pasqua, sale a Gerusalemme e va al tempio: si aspetta di trovare persone pie che adorano Dio, famiglie che si organizzano per un’offerta comune in vista della Pasqua ormai prossima (tutta la carne dell’animale offerto doveva essere consumata, per cui le famiglie poco numerose si aggregavano tra loro per fare un’unica offerta). E invece cosa vi trova? Affaristi, commercianti, cambiavalute, sensali, venditori di buoi, di pecore, di colombe. Da luogo sacro di preghiera era diventato un mercato, centro di guadagni sporchi e di indegni interessi. Per agevolare un costante introito di denaro, infatti, i sommi sacerdoti, d'accordo con gli scribi (i teologi del tempo), avevano introdotto l’obbligo per gli ebrei di recarsi al tempio, oltre che per le feste tradizionali, anche per riscattare qualunque loro colpa personale, mediante l’offerta di alimentari o di animali, debitamente descritta e quantificata caso per caso: in altre parole, avevi fatto peccato? Facevi la tua offerta ed estinguevi il tuo peccato. L'avidità di tali personaggi era inoltre agevolata da una Legge meticolosissima che prevedeva innumerevoli divieti e prescrizioni, oltre alle 613 della sola Torah; per cui, essendo impossibile la loro completa e costante osservanza, il povero peccatore era costretto a recarsi di continuo al tempio, per offrire a Dio (meglio: ai tenutari del tempio) il suo sacrificio di espiazione. Uno stratagemma che assicurava ai grandi sacerdoti e ai dirigenti un incasso enorme e continuativo di denaro. Di conseguenza il tempio era diventato anche il posto più sicuro in cui conservare i cospicui proventi di questo “sacro” commercio, incassi che consistevano in denaro, oro, pietre preziose: era diventato insomma la più grande banca del Medio Oriente, la cui sicurezza era oltretutto assicurata da oltre 200 guardiani sempre in servizio: chi mai avrebbe osato rubare “a Dio”? In tutto questo, la cosa più grave era che essi davano di Dio un’immagine completamente falsa: com’era possibile, infatti, che il popolo considerasse “amico” un Dio che si “offendeva” per qualunque stupidaggine? Come poteva il pio israelita contare sull'amore di un Dio implacabile che non perdeva occasione per farlo sentire in colpa per tutto? Un fatto era ormai consolidato: a quell’epoca il Dio adorato nel tempio, non era più Jahweh, il Dio di Israele, ma era Mammona, il Dio denaro, il Dio ricchezza.
A questo punto cosa fa Gesù? Si prepara una “sferza di cordicelle(Gv 2,15),e con quella incalza e percuote tutta la gentaglia che staziona alle porte del tempio, compresi dirigenti e autorità, rovescia i loro banchi e li caccia tutti fuori! Un vangelo forte quello di oggi: conosciuto anche come “La purificazione del tempio” o “La cacciata dei venditori dal tempio”. Ma qui, a leggere attentamente tra le righe, il testo ci fa capire che Gesù non solo “purifica”, non solo “caccia” la gente indegna dal tempio, ma arriva addirittura ad eliminarlo: Gesù cioè “distrugge” il tempio del “Dio” di allora, e introduce un nuovo “tempio”, una nuova immagine di Dio, un Dio nuovo, un Dio che fino ad allora era sconosciuto a tutte le religioni: un Dio che non ha bisogno né di “offerte” né di sacrifici; un Dio che diventa lui stesso offerta e sacrificio a favore dell’uomo: pertanto non è più l'uomo che si toglie il pane per offrirlo a Dio, ma è Dio che si fa pane per nutrire l'uomo. Con il Dio di Gesù è finito il tempo della schiavitù, dei servi, del “servire”: Dio non vuole più essere servito; anzi sarà Lui stesso a servire l'uomo.
Quand'ero piccolo mia madre mi costringeva a compiere continui “fioretti” per fare contento Gesù, poiché, mi diceva, lui gradiva molto i miei sacrifici, li apprezzava, lo “consolavano”: ma io non ne ero convinto; non mi andava di amare un Gesù che mi impediva di giocare a pallone con gli amici, che mi privava della gioia di un gelato, del piacere di gustarmi una bella fetta di torta ecc., cioè di quelle innocenti soddisfazioni, piccole in sé, ma per me e per la mia infanzia molto importanti. Saranno stati anche “fioretti” meritori, ma a me un Dio così non era molto simpatico. Mi sembrava che ce l'avesse con me: tutto ciò che mi piaceva, che per me era bello, lo voleva lui e io dovevo darglielo!
Una mentalità che è rimasta ancora oggi in certe forme di “voti”: per avere una grazia, o per ottenere il successo di qualche evento, si rinuncia cioè a qualcosa di importante. In questo caso però è ancora peggio, perché trasformiamo Dio in una specie di “banchiere” esoso, un Dio che per accordarci qualcosa ci chiede in cambio sacrifici, privazioni e quant’altro. Ma Dio non è così; smettiamola quindi di “insultare” Dio con questo genere di voti: non ha bisogno di mercanteggiare con noi, non gli servono i nostri voti, le nostre promesse interessate: egli ha bisogno soltanto del nostro amore, di un amore vero, filiale, riconoscente, gioioso.
Tutto il libro del profeta Osea è una denuncia di Dio contro siffatte offerte e sacrifici: “Che mi importa dei vostri numerosi sacrifici; io sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di bestie ingrassate; il sangue dei tori, degli agnelli, dei capri, io non lo gradisco; quando venite a presentarvi davanti a me, chi vi ha chiesto di contaminare i miei cortili? Smettete di portare offerte inutili”. E poi Dio se la prende con tutto l'incenso, i sabati, le riunioni false fatte in suo nome, le liturgie vuote e vanesie, ecc.: Dio non le sopporta (se non le sopporta Dio, figuriamoci il popolo!); Dio non vuole e non ha chiesto tutto questo. “Voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os 6,6). E molte volte nel suo vangelo Gesù citerà proprio questa frase: “Misericordia io voglio e non sacrificio(Mt 9,13; 12,7). E la misericordia che egli vuole, non è verso Dio ma verso il prossimo.
Gesù dunque “elimina” il tempio: del resto che senso avrebbe un manufatto in pietra, quando è Lui stesso il vero santuario, il nuovo tempio di Dio? A conferma di ciò Gesù, nel famoso dialogo con la Samaritana, alla sua domanda se “Dio va adorato sul Garizim o al tempio di Gerusalemme”, risponde: “Né qui né lì: è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24).
Gesù in pratica supera del tutto, con queste parole, la questione di dove Dio vada adorato. Dio è Spirito e per questo è dappertutto. Pregare e lodare Dio, raggiungendo la comunione con Lui, è prima di tutto un fatto che riguarda l’anima non un luogo materiale, ancorché sacro. Preferire una chiesa piuttosto che un'altra, che magari consideriamo più “miracolosa”, senza però unire mente e cuore a Dio, significa ridurre la nostra preghiera ad un culto puramente esteriore. Il vero fedele è colui che, cosciente di aver ricevuto attraverso il battesimo e i sacramenti quello Spirito vitale di Dio che lo rende figlio, alimenta questa sua condizione con la “verità”, con la Parola di Dio, che diventa per lui via di fede, lampada di carità. La nuova lode a Dio sale, pertanto, da questa “nuova creatura”, trasformatasi essa stessa in “tempio” dello Spirito santo.Nella sua azione purificatrice, Gesù poi se la prende in particolare con i venditori di colombe: “Portate via queste cose e non fate della casa del padre mio un luogo di mercato” (Gv 2,16). Come mai il suo unico rimprovero è per i venditori di colombe? Per due motivi: la colomba, da sempre, era immagine dell'azione creatrice di Dio, del suo Spirito e del suo amore. L'amore di Dio è assolutamente gratuito. Se invece l'amore viene comprato, perde la sua essenza, è un’altra cosa, è prostituzione. La casta sacerdotale ha prostituito infatti l'amore di Dio, perché pretestuosamente, con l’inganno, ha promosso i propri guadagni. Le colombe costituivano infatti l'offerta dei più poveri per ottenere il perdono delle loro colpe: e Gesù non accetta che, proprio i più poveri e i più bisognosi, siano costretti a svenarsi per conquistare quell'amore di Dio, che già è loro di diritto.
E concludo: cosa dice, cosa insegna in particolare questo vangelo ai cristiani del nostro tempo?
Ci fa capire soprattutto due cose. La prima, la più importante, è che il vero “culto” nei nostri templi, nelle nostre chiese, deve essere l'amore. Osservando la scarsa affluenza domenicale, viene spontaneo chiederci quanti cristiani sentano ancora il bisogno di venire in chiesa: ma più che preoccuparci del numero di presenze, dovremmo invece chiederci: “Tutti quelli che sono presenti, che frequentano le nostre liturgie, le nostre messe, fanno una personale esperienza dell’amore di Dio? Escono dalla chiesa “confortati”, con nuovi propositi, con nuova energia, con nuova voglia di vivere? In chiesa la gente si sente toccata nel profondo dall'amore di Dio? Quelli che vi capitano per caso, i lontani, sentono sbocciare nel loro cuore un bisogno nuovo di amare Dio e il prossimo? I frequentatori assidui, escono convinti di dover essere più misericordiosi, più compassionevoli, testimoni più credibili della loro fede e dell’amore di Dio?”.
A Gesù non interessano quelli che vanno in chiesa per apparire, e fanno l'elemosina guardandosi in giro, e quasi suonando la tromba sembrano dire: “Guardate che cos'ho fatto!(Mt 6,1-4). L'elemosina, di qualunque genere e di qualunque entità, si fa esclusivamente per amore del povero, per amore di chi che soffre, di chi non è fortunato come noi.
Gesù non sopporta la gente che prega per ostentare la propria devozione, per farsi ammirare, per sbandierare ai quattro venti il proprio fervore cristiano: “Quando pregate non fatelo per essere visti... non sprecate parole come i pagani...” (Mt 6,5-8). Gesù non tollera quella gente che digiuna, che prega, che frequenta gruppi elitari di spiritualità per soddisfare il proprio amor proprio. La loro è una vita cristiana che non serve a nulla; Dio non vuole questo. Persone simili Gesù le chiama “ipocriti”, cioè commedianti, attori. Lui non si lascia ingannare dall’apparenza come gli uomini: lui capisce al volo quando una persona è veramente sincera e convinta nel profondo del suo cuore. Anzi in proposito è molto chiaro: “Se presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). Cioè: tutte le tue offerte, le tue preghiere, le tue liturgie, non servono a nulla, vengono completamente annullate se, invece di provare vero amore nei confronti dei tuoi fratelli, nutri addirittura anche solo verso uno di loro, odio, risentimento, rancore. Non è quindi la preghiera in se stessa che ci rende “divini”, ma è l'amore. Solo se la preghiera è amore, è una preghiera “divina”, gradita a Dio.
La seconda cosa che ci suggerisce questo vangelo sulla purificazione del tempio, è che il tempio siamo noi, è la nostra anima: dentro di noi, insieme a Gesù costretto ormai in un angolo, ci sono i mercanti, i cambiavalute, le pecore, i buoi, le colombe.
Siamo noi i “mercanti”, quando cerchiamo soltanto soluzioni di compromesso, a basso prezzo, quando preferiamo le vie facili e larghe del “così fan tutti”. Siamo i “cambiavalute”, quando facciamo sì la carità, ma in cambio di un tornaconto, di un utile, di un riconoscimento: anche se sappiamo che l’amore non si può mercanteggiare.
Siamo le “pecore”, quando ci comportiamo senza criterio, quando rinunciamo alla nostra identità, quando facciamo solo quello che ci viene detto. Obbediamo passivamente: “Cosa dice Tizio? Cosa dice Caio? Cosa è giusto?”. Siamo rimasti bambini: non c'è nessuna presa di responsabilità nella nostra vita. Rinunciamo a vivere: seguiamo la mandria. Sulla nostra epigrafe verrà scritto: “Ha vissuto tanto... ma per niente”. Oppure: “Non ha mai fatto male a nessuno... perché non ha mai fatto niente”.
Siamo i “buoi”, quando siamo testardi, ottusi, cocciuti; quando procediamo imperterriti senza guardarci intorno. “Perché fai quella cosa?” ci chiedono. “Non lo so!”. E continuiamo a farla. “Ma perché fai quella cosa?”. “Perché l'ho sempre fatta! Che vuoi da me?”.
Siamo infine le “colombe”: siamo cioè quelli che saltellano di ramo in ramo, che non si fermano mai, che sono perennemente scontenti e cercano sempre nuove esperienze, senza mai approfondire i segnali che la vita ci invia; facciamo la “ruota” e “tubiamo” per le nostre innumerevoli iniziative, ma tutto finisce per scivolarci addosso. Ci gonfiamo di superbia: “Io ho fatto il Corso di Liturgia, il Corso di Spiritualità biblica, ho frequentato impegnative catechesi sui Comandamenti, sul Padre Nostro, sul Credo; io Paolo lo conosco come le mie tasche”. Ci vantiamo di conoscere qualunque problematica di teologia e di ascetica, ma non ci accorgiamo che spiritualmente siamo sempre gli stessi: non solo non progrediamo, ma addirittura lentamente regrediamo. Come mai? Perché tutto quello che facciamo, lo affrontiamo superficialmente, senza renderci conto che forse tutta questa sete di “santità” individuale, è solo un pretesto, un alibi, per giustificare la nostra poca disponibilità, il nostro rifiuto ad inserirci concretamente nella comunità parrocchiale, e lavorare nel silenzio, nel nascondimento, nell’umiltà. Allora in questa quaresima di conversione, proponiamoci seriamente di cacciare tutte queste icone che deturpano la sacralità, la grandezza, la bellezza della nostra anima, del nostro tempio di Dio; affranchiamoci decisamente da tutto ciò che ci schiavizza interiormente, per tornare a vivere “liberi e immacolati” nell’amore di Dio. Amen.