venerdì 2 gennaio 2015

4 Gennaio 2015 – II Domenica dopo Natale

«In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,1-18).
Il Vangelo di Giovanni e la Bibbia iniziano entrambi con la stessa parola: “in principio”. Ma con una differenza: mentre nella Genesi leggiamo: “In principio (in ebraico berescit) fu creato il cielo e la terra”, al contrario Giovanni dice: “In principio (in greco en arché) c’era il Verbo!”. Punto. Quindi il Verbo, la Parola, esiste da sempre, precede tutto e tutti. Ma cos’è esattamente questo Verbo, questo Logos eterno? Il termine greco, Logos, significa sia Parola (Dio) che Progetto. Possiamo quindi tradurre anche con: “All'inizio c'era un Progetto”. In altre parole, prima di creare ogni cosa, Dio nella sua mente aveva un progetto, un'idea: sapeva cioè, già nei minimi particolari, come realizzare ogni singolo elemento del creato. Non è meraviglioso? Certamente, soprattutto se pensiamo a noi creature, alle nostre persone, al fatto che ci troviamo qui, in questa nostra vita, calati in un determinato habitat: noi, singole persone, non siamo qui per caso, ma solo ed esclusivamente perché rientriamo nel progetto iniziale, elaborato da Dio, per ciascun uomo. La nostra vita è sbocciata in funzione di questo progetto divino: Dio ci ha pensati e voluti, perché in qualche modo ha bisogno di noi per completare il suo progetto. Un fatto questo che implica per noi una enorme responsabilità. Non possiamo rimanere indifferenti. Dobbiamo dargli assolutamente una mano. Non gli altri, ma proprio noi. Qui e ora.
Nell’Antico Testamento le “Dieci Parole” di Dio si identificavano con i dieci comandamenti: ma nel Vangelo Gesù dice: “No, prima di qualunque obbligo, prima di qualunque parola, c'è la Parola”. In un istante, con una precisazione, Egli la Parola, ridimensiona le antiche parole: “Vi do un comandamento nuovo (=kainos), amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Sintomatico che Giovanni abbia usato qui, per indicare questa novità, il termine greco kainos: si tratta cioè di una novità assolutamente rivoluzionaria, un comandamento – quello dell’amore - che non si pone come aggiunta a quelli già esistenti (in tal caso avrebbe usato neos) ma che sconvolge, annulla, tutti gli obblighi precedenti; una novità che stravolge i valori di una legge millenaria.
Ricordate cosa dicevano i Dieci Comandamenti? “Io sono il Signore tuo Dio... non avrai altri dèi all'infuori di me... Non pronuncerai il nome di Dio invano... Ricordati di santificare i giorni del Signore ecc...”. Ebbene, Gesù non dice nulla di tutto questo. Dice semplicemente: “Se amate veramente Dio, lo si vede non dalle vostre preghiere o da quello che dite di fare per Dio, ma da quello che realmente fate per gli altri uomini”. Dio neppure viene nominato da Gesù. È chiaro a questo punto perché Gesù è stato ucciso: perché in un attimo ha annullato una tradizione che per millenni si preoccupava più dell’apparire che dell’essere, dell’avere piuttosto che del dare. Come potevano accettare questa rivoluzione, ad esempio, coloro che avevano dedicato tutta la loro vita ad opprimere, ad annientare, a distruggere gli altri? In un attimo tutta la loro vita crollava, falliva, non aveva più alcun senso: potevano forse accettare una cosa del genere?
Egli era in principio presso Dio, e tutto è stato fatto per mezzo di Lui…”. Una ripetizione che sottolinea l’importanza del progetto iniziale di Dio. Tutto è stato fatto per volontà divina: un concetto che va ribadito. Anche per noi: “Tu ci sei per volontà di Dio. Magari i tuoi genitori non ti volevano... magari la gente ora ti rifiuta e ti respinge... magari tu stesso non ti vuoi e ti fai schifo... ma Dio ti vuole e ha un progetto ben preciso su di te, ha bisogno di te, per questo ti ha creato”.
Lui (cioè nel Logos-Progetto) era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Eccolo finalmente il progetto: è la Vita; è avere ed essere Vita. Questa è la caratteristica prima degli uomini. Non per nulla in Giovanni il termine “vita” (zoè) appare ben 37 volte.
Dio ci ha fatto un dono: la vita. Il dono che noi dobbiamo fare a Dio è di vivere questo dono. Lui vuole solo questo. “Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza”.
Dobbiamo cioè essere uomini interamente di Dio. Prima di Gesù gli “uomini di Dio” erano gli uomini di preghiera, quelli che si mortificavano, quelli che rinunciavano al mondo, quelli che conducevano una ferrea vita ascetica. Ma dopo Gesù gli “uomini di Dio” sono i “vivi”, quelli che hanno la vita e la vivono, che sanno piangere, indignarsi, commuoversi, emozionarsi, che provano amore, misericordia, che si innamorano, che hanno slanci, che sanno stupirsi: perché più un uomo è vivo, più trasmette vita agli altri, e più è pieno di Dio.
Ecco allora, finalmente chiaro, il perché del nostro essere qui. Il perché Dio ci ha voluti in questo particolare contesto. Semplicemente perché dobbiamo “vivere”.
Questo è il messaggio del Natale: un bambino che nasce, una vita che sboccia.
È vero: nella vita, a voler essere buoni, c’è anche il rischio di passare per sentimentali, sciocchi, ingenui: se amiamo c’è il rischio di non venire corrisposti, se viviamo intensamente corriamo il pericolo di morire, se speriamo troppo c’è il rischio della disperazione; qualunque cosa ci proponiamo di fare, c'è sempre il rischio di fallire. Ma se vogliamo vivere, dobbiamo affrontare i rischi, perché il rischio più grande nella vita, è proprio quello di non rischiare nulla. Chi non rischia nulla, è un nulla, diventa un nulla. Può evitare la sofferenza, l'angoscia, è vero, ma non potrà mai imparare a sentire, a cambiare, a progredire, ad amare, a vivere. Incatenato alle sue certezze, è schiavo. Ha rinunciato alla libertà. Solo colui che rischia è veramente libero. La vita è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta in pieno è il nostro dono a Lui. Una vita sprecata è il peccato.
Allora cosa aspettiamo a vivere? Non diamo anni alla nostra vita, ma diamo vita ai nostri anni.
L'uomo che vive (= che ha accolto la luce), è colui che, accettato il progetto di Dio (=la vita), si apre, risplende, brilla. Le tenebre odiano la luce, non la vogliono: sono i “morti”, quelli “senza vita”, che vivono chiusi, inflessibili, freddi, autoritari, senza un cuore caldo. Dovrebbero portare la luce e invece preferiscono le tenebre: il potere, l’orgoglio, la superiorità, la mancanza d'amore, la rigidità, ecc. E non capiscono che le tenebre non possono conoscere Dio.
Anch’essi sono creature di Dio, “divine”, impregnate di Dio: ma si sono, come dire, dimenticate di chi sono veramente, hanno rinunciato alla loro dignità, si sono dimenticate di avere l'impronta di Dio, di essere a sua immagine, e vivono senza potersi riconoscere, senza poterlo riconoscere più. Che tristezza: essere re e vivere da schiavi!
Venne fra la sua gente ma i suoi non l'hanno accolto”. È una denuncia terribile. Chi non accoglie la vita e non la fa vivere, uccide Dio, che è Vita!
L'esame che Gesù fa al nostro cuore, non è più sui comandamenti, ma sulla vita: “Sei vivo? Ti lasci vincere dalla paura? Sei bloccato dal timore del giudizio? Come mai la tua vitalità è frenata? Cos'è che blocca la tua creatività e la tua fantasia? Ti commuovi? Sai gioire delle gioie degli altri? Sai entusiasmarti, appassionarti?”.
A quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. Chi lo ha accolto? È incredibile come nei vangeli quelli che l’hanno accolto siano stati proprio i più lontani da Lui; quelli invece che erano i più vicini alla religione, che frequentavano il tempio, si sono rivelati i più ostili, i più contrari ad accoglierlo.
Ecco perché dobbiamo fare nostro il progetto di Dio: solo accogliendo la sua “Parola”, il “Progetto” che Lui ha pensato per ciascuno di noi, potremo “Diventare figli di Dio”.
In passato ci hanno insegnato che lo scopo della vita è soprattutto quello di “servire” Dio, di diventare suoi “servi”: Dio è il padrone, noi i servi. Meglio ubbidirgli perché, se non stiamo attenti, nella sua potenza può punirci con l’inferno o con qualche altro tremendo castigo già in questa vita.
Ma noi non siamo i servi di Dio; siamo piuttosto i serviti da Dio. È Dio che serve l'uomo, non più l'uomo che serve Dio. Dio non ci chiede preghiere, servizi, fioretti per lui: è Lui che è venuto su questa terra per mettersi amorevolmente e completamente al nostro servizio. Dimostrare la nostra fede in Lui, non consiste più nel fare qualcosa per Lui, ma accogliere tutto quello che Lui fa per noi. “Non sono venuto per essere servito ma per servire(Mt 20,28).
Non siamo figli di Dio per nascita, per diritto, o perché apparteniamo ad una determinata élite: dobbiamo invece diventarlo, dobbiamo cioè meritarlo, esserne degni. Come? Amando gli altri. Non con parole, non con esibizioni, non con promesse, ma solo ed esclusivamente con l'amore.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”; letteralmente, piantò la sua tenda in mezzo a noi. Dio non è più nel tempio tra i sacerdoti, ma nella tenda in mezzo al popolo.
È una teologia “trasgressiva” questa di Giovanni: Dio non è più soltanto nelle chiese, nei luoghi di culto, ma “in mezzo” al popolo. Dio non è più fermo, fisso, ma in continuo cammino insieme alla sua gente. Meglio: Dio non è più un luogo ma un tempo: nell'esatto momento in cui c'è l'amore, lì c'è Dio. L'amore è Dio, e viene da Dio: “chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”.
Quando la gente parla di Dio, dice tutto e il contrario di tutto. Invece solo amando come ha amato Gesù noi possiamo vedere e capire Dio: “Chi vede me vede il Padre”. Dio non è lontano da noi; Dio è qui. Impariamo a vederlo.
Il vangelo del resto è molto chiaro e ci fornisce il criterio valido per poter fare le nostre scelte: se Dio è come Gesù, noi che cerchiamo di conoscerlo, dobbiamo guardare, dobbiamo imitare, dobbiamo diventare come Gesù. Tutto ciò che non è Gesù, non è Dio, e non ci porta né a vederlo, né a conoscerlo.
Tante nostre forme di religiosità non vengono da Dio perché non le troviamo in Gesù, non gli appartengono. Egli è semplicemente “pieno di grazia e di verità”, cioè “pieno di amore vero”. Questa è la caratteristica di Dio: Lui ama di un amore fedele, di un amore che non tradisce, che non si vendica, che rimane sempre: anche se noi cerchiamo di allontanarci da Lui, anche se noi lo tradiamo.
Ancora oggi molti temono di aver perso l'amore di Dio, di aver fatto qualcosa di irreparabile nei suoi confronti, di essere indegni di Lui...: smettiamola! Lui non è così! Dio è più grande del nostro cuore! Lui continua a rimanere al nostro fianco, Lui è fedele, per sempre! Se non lo vediamo, dipende solo da noi, dalla nostra carenza di amore. Ricordiamocelo bene. Amen.

 

martedì 30 dicembre 2014

1 Gennaio 2015 – Maria SS.ma Madre di Dio


«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,16-21).
Maria a Nazareth. La sua famiglia. Nell’intreccio dei vicoli, profumati di minestre quotidiane e disturbati dalle urla dei fruttivendoli. Tra le fanciulle che, rimbalzando le loro melodie di balcone in balcone, parlavano d’amore. Nel cortile dove gli anziani prolungavano nell’ultimo sbadiglio i racconti della sera prima che risonasse il tintinnio dei chiavistelli. Maria è stata scoperta lì. Non sotto i flash dei gossip ma in un villaggio di pecorai sconosciuto dall’Antico Testamento e disprezzato dalle borgate vicine. «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria». Mi piace scrutare quella donna fuori dalla Scrittura, senza tutti i riflettori puntati, senza quell’aureola di santità tutta meritata. Mi piace inseguire Maria dentro la casa di Nazareth dove, tra pentole e telai, tra lacrime e preghiere, tra gomitoli di lana e rotoli di Scrittura, “con arpa e cetra per svegliare l’aurora” ha sperimentato gioie senza malizie, amarezze senza disperazioni, partenze senza ritorni. Se potessi mi siederei accanto a lei non m’alzerei più. Vorrei sapere tutto da lei. Vorrei che mi dicesse in quali campagne si recava nei pomeriggi di primavera per udire il silenzio dell’Eterno. In quali fenditure della roccia si nascondeva adolescente… Su quali terrazze della Galilea abbeverava le sue veglie di salmodie mentre il gracidare delle rane la disturbava appena appena. Maria! Che discorsi facevi seduta sul ciglio della fontana? Cosa raccontavi a Giuseppe quando al crepuscolo, prendendoti per mano, ti conduceva sulla spiaggia di Tiberiade a farti accarezzare dal sole. Oltre allo Shemah Israel e alla monotonia delle piogge nelle grondaie, di quali altre voci, magari rauche, risonava la bottega del tuo falegname preferito?
Maria, il tuo viso fa impazzire, la tua dolcezza fa naufragare, la tua semplicità è disarmante perché sei  acqua e sapone, senza trucchi spirituali. Perché, pur benedetta tra tutte le donne, saresti passata inosservata in mezzo a loro se non fosse per quel vestito che Dio ha voluto confezionarti su misura. Le “boutiques” di Nazaret non erano alla tua portata, gli “ateliers” d’alta moda di Gerusalemme non facevano per te. Lei, semplicissima ragazza, cresceva come un’anfora sotto le mani del vasaio e tutti s’interrogavano sul mistero di quella trasparenza e di quella freschezza senza ombre. Persino l’angelo s’è sprecato regalandoti un saluto tutt’oggi senza ombra di concorrenza: «Ti saluto, piena di grazia, il Signore è con te (...) Concepirai un Figlio». E tu subito al contrattacco. Hai intascato il saluto, ma, puntandolo in faccia, hai messo le cose in chiaro: «Non conosco uomo». Lucente, perché al tuo Dio hai rinfacciato di non essere una tra tante, hai difeso la tua fatica d’essere ragazza vergine, profumata di bellezza e ricamata di un’eleganza trasparente. Hai ragione Maria: bisogna sudare per salvare la propria purezza. Ma dimmi la verità: quanta gioia era nascosta dietro quel «non conosco uomo»? Che incantesimo pensare di non esserti svenduta per un sogno da sabato sera, che emozione mettere nelle mani del tuo Dio il profumo della tua verginità strappata ad occhi ingordi e mani rapaci.
E quell’angelo lo sa: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». Per questo dovresti raccontarmi di quell’uomo cresciuto modellando e interpretando il legno, annusando le sue vernici e i suoi colori, barattando una panca appena piallata con una bisaccia di grano. Giuseppe, l’uomo dei tuoi sogni. Era contento di starle vicino. Ne spiava i bisogni, ne capiva le ansie, ne interpretava le improvvise stanchezze. Ne assecondava i preparativi per un Natale che ormai non doveva tardare a venire. Da te, nelle lunghe sere dipinte nel retrobottega, ha intuito che fermarsi sotto la tenda, per ripensare la rotta, vale molto di più che coprire logoranti percorsi senza traguardo. Io non so se ai tuoi tempi s’adoperassero gli stessi messaggi d’amore, teneri come preghiere e rapidi come graffiti, che le ragazze incidono sui libri di storia, sugli zaini di scuola, sui jeans strappati. Ma penso che anche te, magari con uno “scriba di stilo veloce”, magari su una corteccia di sicomoro, avrai inciso amore per quell’impareggiabile falegname: “Giuseppe, ti voglio bene!”.
Potessi ritoccare con la mia fantasia la sacralità dei vangeli, intitolerei il primo capitolo del libro di Luca “l’annuncio dell’angelo al Signore”, più che “l’annuncio dell’angelo a Maria”. Mi piace pensare che l’angelo ha fatto ritorno in cielo recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio d’andata. Ha portato nell’agenzia dell’Eterno un contratto principesco: «Eccomi, sono la serva del Signore». “Eccomi”: per essere insostituibili nella vita!

Gesù è rimasto in quella periferia per trent’anni. L’evangelista Luca riassume questo periodo così: Gesù «era loro sottomesso [cioè a Maria e Giuseppe]». E uno potrebbe dire: “Ma questo Dio che viene a salvarci, ha perso trent’anni lì, in quella periferia malfamata?” Ha perso trent’anni! Lui ha voluto questo. Il cammino di Gesù era in quella famiglia. «La madre custodiva nel suo cuore tutte queste cose, e Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (2,51-52). Non si parla di miracoli o guarigioni, di predicazioni - non ne ha fatta nessuna in quel tempo - di folle che accorrono; a Nazaret tutto sembra accadere “normalmente”, secondo le consuetudini di una pia e operosa famiglia israelita: si lavorava, la mamma cucinava, faceva tutte le cose della casa, stirava le camice: tutte le cose da mamma. Il papà, falegname, lavorava, insegnava al figlio a lavorare. Trent’anni. “Ma che spreco, Padre!”. Le vie di Dio sono misteriose. Ma ciò che era importante lì era la famiglia! E questo non era uno spreco! Erano grandi santi: Maria, la donna più santa, immacolata, e Giuseppe, l’uomo più giusto. La famiglia. (Francesco, Udienza generale, 17 dicembre 2014)
L’altro giorno, davanti alla lavatrice, sono andato in tilt guardando mia madre. Papa Francesco ha detto di te che stiravi le camicie di Giuseppe e Gesù. Come la mia mamma: le camicie mie, di mio papà e di mio fratello. Allora ne ho approfittato e t'ho immaginato così. Però, Maria, ti chiedo scusa se per un attimo ho osato toglierti l’aureola, ma è perché volevo vedere quanto sei bella a capo scoperto, perché mi sembra di misurare meglio la grandezza di Dio che dietro ad un volto di fanciulla ha nascosto la sorgente della bellezza. Lo so che tu navighi in alto mare, io veleggio sotto costa ma sentirti vicina alle mie spiagge mi fa sentire il sapore della mia normalità. Vedi, laggiù è spuntata una stella. Io me ne vado. Tu siediti qui alla fermata dell’autobus e conquistali tutti con la tua bellezza.

(Fonte: don Marco Pozza, Sulla strada di Emmaus, 19 dicembre 2014)

 

mercoledì 24 dicembre 2014

28 Dicembre 2014 – Santa Famiglia

«Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione, e anche a te una spada trafiggerà l’anima, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,22-40).
Oggi è la festa della Santa Famiglia, ma il Vangelo si concentra soprattutto su Maria e sul suo stato d’animo.
Quaranta giorni dopo la circoncisione, infatti, Maria e Giuseppe salgono al tempio per due distinte prescrizioni della legge: la purificazione della madre e il riscatto del figlio primogenito.
Maria e Giuseppe fanno tutto secondo la Legge religiosa. Luca sottolinea la cosa nominando per ben cinque volte la parola “Legge”. È difficile anche per noi staccarci dalle tradizioni impostateci. È difficile seguire la nostra strada seguendo il proprio cuore; è difficile dar voce a ciò che sentiamo dentro; è difficile prenderci le responsabilità delle nostre scelte. È difficile staccarci da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che si è sempre fatto, da ciò che tutti fanno.
Maria e Giuseppe dunque salgono al Tempio. E qui incontrano un personaggio strano: Simeone (che vuol dire “Jahweh ha ascoltato”). Non è detto che fosse vecchio. Si dice che era un uomo giusto e timorato di Dio. Potrebbe far pensare ad un sacerdote, anche se si dice che lo Spirito Santo era sopra di lui (nei vangeli i sacerdoti non hanno mai lo Spirito Santo!). Simeone non è un sacerdote ma un profeta, non un uomo del culto ma della vita.
Maria e Giuseppe dovrebbero trovare un uomo della Legge per riscattare il primogenito. Invece, trovano un uomo dello Spirito. Le sue parole non riportano nessuna regola o prescrizione: sono parole piene di vita. Essi rimangono attoniti di fronte alle parole di Simeone: già i pastori avevano parlato di un “salvatore”, già l’angelo aveva parlato di lui a Maria come il Figlio dell’Altissimo, ora quest’uomo parla di “luce per illuminare le nazioni”... ma cos’è tutto questo? Cosa sta dicendo quest’uomo?
Erano andati al tempio pensando che il sacerdote purificasse la madre del bambino e invece hanno trovato quest’uomo che annuncia che quel bambino purificherà Israele. Gesù sarà la “pietra d’angolo” su cui molti dovranno costruire, su cui molti dovranno gettare le loro basi; ma per molti altri Gesù sarà la “pietra di scandalo”, la pietra d’inciampo che li farà cadere (1Pt 2,7; Rm 9,33).
Seguire Gesù infatti non è indolore. Gesù non è un bel sentiero, comodo, in pianura, all’ombra, con fontanelle d’acqua, molte panchine su cui sederci tranquillamente.
Gesù ci mette davanti scelte, crocevie, rotture; Gesù ci pone davanti verità dure e radicali; Gesù ci mette di fronte a noi stessi, senza poterci fuggire. Gesù è un cammino di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento. Gesù non ci lascia sonnecchiare tranquilli. Per questo il vangelo se per alcuni è Vita, per altri è “morte”.
Simeone predice a Maria ciò che verrà: non le dice niente eppure le dice tutto. Maria ascolta anche se non capisce tutto ciò che le viene detto.
Maria non è sempre stata la Madonna! Diceva sant’Ambrogio “Maria è il tempio di Dio e non il Dio del tempio”. Maria nel corso dei secoli è stata talmente ricoperta di privilegi e di titoli da impedirci di vedere quel che Maria era, quando ancora non sapeva di essere Madonna.
Per tre volte in questo capitolo viene detto che Maria non comprende. Ella accolse il messaggio di Dio, senza capire cosa esattamente l’aspettasse. Maria non capì neppure suo figlio Gesù. Semplicemente lo seguì. E questo fu il suo grande merito: da madre divenne discepola di suo figlio.
La religione le aveva sempre insegnato che la salvezza sarebbe arrivata solo per tutti gli ebrei fedeli al Signore. Ma Simeone dice cose ben diverse: Lui è venuto per tutti: “luce per illuminare tutte le nazioni”, e nello stesso tempo “rovina e resurrezione di molti in Israele”. Il Messia cioè non è come tutti se l’aspettavano, e gli ebrei, popolo prediletto, non sono gli unici che saranno salvati. Inoltre le sue parole saranno “una spada che le trafiggerà l’anima”. Le parole del Figlio, cioè, saranno difficili da capire, le causeranno dispiacere, sconforto, incomprensione e derisione. Ben presto si renderà conto che le aspettative riposte in questo figlio si realizzeranno in maniera ben diversa da come lei pensava.
Ma il dramma di Maria sarà ancora più profondo: quelli del suo paese proprio non lo vogliono, lo rifiutano: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo ecc.?”; per dire: “Ma chi si crede di essere? Sappiamo bene chi è!”. Quelli di casa lo rifiutano: “Neanche i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7,5). Per gli scribi è un bestemmiatore, uno stregone “posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,30) che “scaccia i demoni nel nome del principe dei demoni” (Mc 3,22). Per i farisei conservatori e per i dissoluti erodiani, entrambi allarmati dal suo comportamento, è un pazzo perché “mangia insieme ai peccatori e ai pubblicani” (Mc 2,16).
E si accordano per farlo perire (Mc 3,6). Gesù insomma è considerato pazzo, matto, da ricovero in psichiatria, da internare: e questo dai suoi familiari!
E Maria? Cosa può provare una donna che vede suo figlio odiato da tutti, non capito. Tutti cercano di prenderlo; tutti cercano di “farlo fuori”, tutti dicono la stessa cosa: “E’ posseduto dal demonio; è pazzo”. Non è una spada che trafigge l’anima?
La spada per Maria non è la sofferenza naturale di una madre per il figlio: preoccupazioni, ansie, timori, aspettative non accolte, ecc. La spada per Maria è che, seguire il Figlio nella sua missione, viene prima anche del legame più forte, naturale e di sangue, che c’è tra madre e figlio. Maria ha dovuto rinunciare al “privilegio” di una posizione di favore in quanto madre. Se infatti Gesù la accoglie è perché Maria è sua discepola.
La spada è quando la sequela del Signore ci porta a rinnegare i rapporti di sempre, quelli familiari e quelli dei nostri cari: non perché vogliamo loro male, ma semplicemente perché non parlano più di libertà, di autonomia, di osare, di prendere il largo. Allora ci si divide (padre contro figlio, suocera contro nuora, madre contro figlia): i rappresentanti del vecchio (padre, madre, suocera) contro i rappresentanti del nuovo (figlio, figlia, nuora).
Ecco perché dobbiamo vivere con spirito nuovo la nostra famiglia.
In questi tempi dobbiamo avere il coraggio di parlare di più e meglio della famiglia, delle nostre famiglie. La famiglia è in crisi, ci dicono i sociologi. Ma senza scomodarli, ci rendiamo conto che qualcosa non funziona nella nostra società: sempre di più sono le coppie che si sfasciano, che non credono più nel matrimonio cristiano, nella possibilità di un rapporto duraturo.
Quanta sofferenza e disillusione possiamo vedere negli occhi di coloro che cercano una certezza affettiva! Dobbiamo forse arrenderci e concludere che è impossibile amarsi? No: La festa di oggi ci ricorda il sogno che Dio ha sulla coppia. Amarsi è possibile; restare fedeli è possibile; crescere in un progetto di famiglia è possibile. Ce lo hanno insegnato Giuseppe e Maria: nel loro amore pieno di tenerezza e di fatica, ci dicono che Dio ha scelto di nascere proprio in una famiglia, di soggiacere alle dinamiche famigliari, di vivere le fatiche del rapporto di coppia.
Riscopriamo allora questo nuovo modo di essere famiglia: nell'autenticità, nella fede, nel cammino di amore e di comprensione reciproca. Maria e Giuseppe ci aiutino veramente a riscoprirci famiglia sul loro esempio. E perché il Natale possa tornare ad essere la nostra festa, la festa di ogni famiglia, noi genitori dobbiamo affrettarci a presentare i nostri figli al “Tempio”: se poi questi sono cresciuti, e al Tempio non vogliono più venire, non scoraggiamoci: portiamoli ugualmente, mediante la nostra preghiera e la nostra fede; poniamoli ugualmente nelle mani del Padre, e attendiamo da lui, con fiducia, una particolare benedizione. E vedremo che essa non si farà attendere. Amen.
 

25 Dicembre 2014 – Natale del Signore

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».

«Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita.
Il Figlio di Dio infatti, giunta la pienezza dei tempi che l'impenetrabile disegno divino aveva disposto, volendo riconciliare con il suo Creatore la natura umana, l'assunse lui stesso in modo che il diavolo, apportatore della morte, fosse vinto da quella stessa natura che prima lui aveva reso schiava. Così alla nascita del Signore gli angeli cantano esultanti: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Essi vedono che la celeste Gerusalemme è formata da tutti i popoli del mondo. Di questa opera ineffabile dell'amore divino, di cui tanto gioiscono gli angeli nella loro altezza, quanto non deve rallegrarsi l'umanità nella sua miseria! O carissimi, rendiamo grazie a Dio Padre per mezzo del suo Figlio nello Spirito Santo, perché nella infinita misericordia, con cui ci ha amati, ha avuto pietà di noi, e, mentre eravamo morti per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5) perché fossimo in lui creatura nuova, nuova opera delle sue mani.
Deponiamo dunque «l'uomo vecchio con la condotta di prima» (Ef 4,22) e, poiché siamo partecipi della generazione di Cristo, rinunziamo alle opere della carne. Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all'abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! Non mettere in fuga un ospite così illustre con un comportamento riprovevole e non sottometterti di nuovo alla schiavitù del demonio. Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo».

(Dai “Discorsi” di san Leone Magno, papa: Disc. 1 per il Natale, 1-3; PL 54, 190-193)

 

giovedì 18 dicembre 2014

21 Dicembre 2014 – IV Domenica di Avvento – Anno B

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». (Lc 1,26-38).
L'annuncio a Maria è sconvolgente, poiché nella mentalità dell’Antico Testamento la donna in genere era ritenuta impura, esclusa dall'azione di Dio. Solo nei vangeli le donne acquisteranno tutta la loro dignità; non solo sono equiparate agli uomini, ma addirittura sono poste ad un livello superiore; un esempio? Maria è la prima credente; Maria Maddalena la più vicina a Gesù; le donne sono le uniche che rimangono con Gesù durante la passione; le donne sono le prime testimoni della resurrezione. Gli incontri più spettacolari, incredibili, dove più “si sente”, si vive, si percepisce l'amore, Gesù li fa con le donne (la peccatrice Lc 7,36-50; l'unzione di Betania Mc 14,3-9; l'adultera Gv 8,1-11, ecc.).
E infatti da chi va l’angelo Gabriele? Va da Maria. Per noi oggi Maria è un nome dolcissimo ma non così nella vecchia mentalità ebraica: nella Bibbia esiste una sola persona con questo nome, la sorella di Mosè, donna ambiziosa, rivale del fratello: ed è per questo, che Dio l’ha maledetta con la lebbra. Il nome di Maria era pertanto sinonimo di lebbra, evocava la maledizione di Dio.
Ma quando l'angelo arriva da Maria, le dice: “Ti saluto o piena di grazia”. Si inchina cioè a Maria, la benedice in quanto “piena di grazia”; non va certo per maledirla!
Ma cosa significano le parole dell’angelo? Normalmente quando noi parliamo di Maria, ricordiamo e ammiriamo i suoi meriti, i suoi titoli, le sue prerogative. Ma essere “piena di grazia” non è un merito di Maria: è invece la dimostrazione di un intervento singolare, unico da parte di Dio.
Maria è un’umile fanciulla, di un paesino sconosciuto, non è nessuno, è un nulla; ma Dio la ama. E questo la fa “grande”, la fa “Piena di grazia” perché questo è ciò che Dio fa per lei.
Ma non è solo una prerogativa di Maria: Dio fa la stessa cosa anche con noi; perché lui fa per noi tante cose che non dipendono assolutamente da noi. Quando lui ci guarda in un certo modo, anche noi siamo automaticamente pieni di grazia. È vero che la religione ci insegna che l'amore di Dio va meritato: che lo possiamo avere solo se siamo santi, puri, onesti, in regola.
Ma per la fede, per il vangelo, l'amore di Dio va soprattutto accolto. Per averlo basta dire: “Sì”. Così poco? Certo, ma lasciarci amare da Dio, con una nostra adesione convinta, sincera, totale, non è così semplice e scontato, come può sembrare.
Maria infatti è turbata, e possiamo capirlo! Soprattutto perché prima Dio non si era mai rivolto ad una donna. E Maria ne è sconvolta: quello che le sta succedendo è davvero impensabile.
Ma Dio normalmente a chi si rivolge? Al papa, ai cardinali, ai vescovi, ai preti? Alle suore? Agli uomini importanti? No. Dio vuole noi, proprio noi. Sembra che non abbia nessun altro oltre noi. Dio è come impotente, senza di noi, senza l’uomo, che non può fare nulla. Con noi, invece, può fare tutto.
L'angelo dice a Maria: “Concepirai un figlio”. E Maria: “Ma non conosco uomo”. In passato si parlava del voto di verginità di Maria; ma era una cosa impensabile per una donna ebrea: avere figli, era segno di benedizione da parte di Dio, non averne, per qualunque motivo, era segno di maledizione.
Maria quindi non era vergine per voto di verginità; era vergine semplicemente perché, appena ragazza, era ancora “promessa sposa”, si trovava cioè tra la prima fase del matrimonio (herusin) e la seconda (qiddushin); il matrimonio ebraico infatti si svolgeva in due tempi: prima vi erano gli accordi matrimoniali, l’ufficializzazione del fidanzamento, lo scambio dell’anello, dopo di che ognuno tornava a casa sua; dopo circa un anno, la sposa veniva condotta solennemente in casa dello sposo, dove il matrimonio veniva consumato ed iniziava la vita matrimoniale.
E l’angelo continua: “Lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”. Altra novità riservata a Maria: le donne non potevano mettere il nome ai figli! Era il padre, e solo lui, che vi provvedeva. Si tratta di un’altra tradizione importantissima che viene rotta. D’altronde l'irruzione di Dio nella vita degli uomini porta sempre una drastica “rottura” con certe tradizioni, con certe usanze, con certi pregiudizi. Per questo è così difficile accoglierlo.
Allora l'angelo le dice: “Lo Spirito Santo scenderà su di te”. Lo Spirito di Dio ti “adombrerà”.
Luca presenta Maria come la donna dello Spirito: negli Atti degli Apostoli, infatti, libro sconosciuto da molti di noi anche se in realtà è la seconda parte del vangelo di Luca, c'è sempre Maria, anche nella seconda discesa dello Spirito Santo. Possiamo quindi dire che tutta la vita di Maria, dall'inizio alla fine, è sotto il segno dello Spirito.
Maria è inoltre la donna tutta “fiducia”. Non sa in chi e in che cosa si fida. Ma agisce d’impulso, si rende immediatamente disponibile, semplicemente pronunciando il suo : “Sì”.
Non ha la minima di idea di cosa voglia dire “verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre”. Lei dice solo: “Sì”.
Quello di cui si rende conto è soltanto che lei, Maria, con il suo “Sì” rischia di essere condannata a morte, addirittura per due motivi: prima di tutto perché anche solo pensare di partorire il Figlio di Dio, era una bestemmia gravissima, punita con la condanna con la morte; secondo poi perché, non essendo ancora pienamente sposata, avere un figlio significava essere un’adultera, colpa che la Legge condannava con la lapidazione. Maria però non tiene conto di nulla, sfida coraggiosamente due possibili pene di morte, già pendenti sulla sua testa. Non sa cosa le succederà, in che modo le toccherà vivere, ma dice solo: “Avvenga di me quello che hai detto”.
Le parole dell’angelo che rivelano la volontà di Dio, per lei sono già legge, più della legge degli uomini.
Cosa ci insegna dunque questo vangelo? Cosa ci dice in particolare? Che anche noi, quando siamo con Dio, siamo tutti automaticamente “grandi”.
Noi purtroppo soffriamo spesso del complesso di inferiorità, siamo convinti di essere “nessuno”. Ci diciamo: “Io? Io non ho niente. Non so fare niente. È difficile, è impossibile! Mi piacerebbe, ma è troppo grande!”.
Eppure abbiamo davanti a noi l’esempio di Maria: chi era Maria al suo tempo? Nessuno. Eppure...! Lei ha messo davanti a tutto la fede: se crediamo anche noi in Dio, allora tutto diventa possibile, concreto. Se crediamo in Dio, se sentiamo la sua presenza dentro di noi, allora acquistiamo immediatamente le nostre forze, non temiamo più nulla, crediamo tranquillamente in noi stessi. Allora possiamo pensare di essere veramente grandi, importanti, di essere anche noi in questa vita per uno scopo ben preciso, per lasciare un segno a questo mondo che lo renda migliore.
È così anche per tutte quelle persone che magari vivono defilate, che non fanno nulla di eccezionale nella loro vita, ma rispondono ogni giorno umilmente il loro “Sì” a Dio, perché lo sentono dentro di loro: e questo infonde loro una forza straordinaria.
È stato così per Maria, che non aveva in assoluto nulla più di noi: ha soltanto creduto in Dio e in se stessa. Credere in Dio è facile; è credere in se stessi che è difficile! Perché significa impegnarsi in percorsi prima impensabili. Maria ha detto “sì” senza sapere nulla, fidandosi.
Avere fede, infatti, non è conoscere prima cosa ci succederà, sapere a cosa andiamo incontro, cosa comporterà il nostro “sì”: questo è avere certezza, questo risponde al nostro bisogno mentale di sapere, di essere sicuri, di avere tutto sotto controllo, di non correre rischi. La fede è, invece, semplicemente un “Sì”. Non importa cosa, non importa come, non importa quando, ma sì: mi fido, fai Tu, o Dio, quello che ritieni più opportuno per me! Amen.
 

giovedì 11 dicembre 2014

14 Dicembre 2014 – III Domenica di Avvento – Anno B

«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui». (Gv 1,6-8.19-28)
Siamo alla terza domenica di avvento, la domenica “Gaudete”: rallegriamoci, perché il Natale, la venuta di Gesù nei nostri cuori, è vicino.
Il vangelo ci ripropone anche oggi la figura del Battista. Ma questa volta è l’evangelista Giovanni che ce ne parla: non è, come negli altri vangeli, l’asceta o il profeta duro che annuncia la distruzione se gli uomini non si convertono. Qui è il testimone. Il Battista in Giovanni è semplicemente una indicazione, uno strumento che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me, guardate ciò che sta dentro me”. Non dice chi verrà o come verrà. Dice solo “Preparate la via... verrà uno che non conoscete... io di fronte a lui sono niente”.
Ebbene: questa è l’essenza dell’avvento. Il Battista sente che qualcosa deve avvenire, attende, aspetta. Sente che sta arrivando qualcosa, ma non sa cosa.
Attendere vuol dire aspettarsi qualcosa di nuovo, di diverso, di insolito. Ma dobbiamo rimanere sorpresi, perché se conosciamo già tutto, se tutto è già scritto, che Natale è? Che avvento è? Prepararsi vuol dire: “Acconsentiamo che ci succeda qualcosa di cui non possiamo disporre, che non possiamo controllare, che non possiamo gestire. Permettiamo che la vita ci faccia delle sorprese”.
Noi invece siamo portati a controllare tutto. Noi pianifichiamo tutto. Vogliamo gestire tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, perché Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il più in là. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia svegliandoci dal nostro torpore e rendendoci consapevoli di certe cose, non è Dio.
Nel vangelo c’è una grande domanda rivolta al Battista: “Chi sei tu?”. E Giovanni inizia col dire chi effettivamente non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”.
È importante rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci appiccicano addosso, tutte le etichette che ci mettono; è importante dire agli altri: “No, non sono come voi pensate”.
Ma noi in realtà chi siamo? Siamo uomini, è vero; siamo buoni, ok. Ma è troppo poco. Ci sono milioni di uomini buoni. Siamo dei papà, delle mamme: sì, va bene, ma anche di papà e di mamme ce ne sono milioni. Siamo un marito, una moglie, bravi cristiani, lavoratori; siamo dipendenti, professionisti, artigiani, commercianti. Sì è tutto vero, ma è sempre troppo poco. Perché questo è il ruolo che abbiamo, è il vestito che indossiamo; ma dentro di noi chi siamo?
Il ruolo è un vestito. È buono per andare a lavorare, per andare a scuola, a teatro, al cinema, alle feste. Ma poi quando siamo soli con noi stessi, quando andiamo a letto, quando vogliamo stare in libertà, quando ci va di fare qualcosa al di fuori del nostro ruolo, il vestito ce lo togliamo, perché rappresenta il nostro contenitore, il nostro esteriore, una parte della nostra vita, quella a contatto con gli altri.
Purtroppo molti di noi si sono vestiti di un ruolo e vivono sempre e solo quello. Certo, recitare sempre il solito ruolo ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile, ma ci limita inevitabilmente la vita, ci fa vivere a metà.
Ci sono dei ruoli, inoltre, che non vanno sempre bene. Ad esempio c’è il simpaticone: essere simpatici va bene, ma nella vita non si può scherzare sempre. C’è l’altruista: essere generosi, dare sempre, va bene, ma a volte dobbiamo ricaricarci, dobbiamo ricevere anche noi. C’è il critico: essere critici va bene, ma non possiamo aver sempre da ridire su tutto, essere perennemente il “bastian contrario”. C’è il “capo” che continua a fare il capo dappertutto, a casa, con gli amici, con la moglie con i figli, è sempre autoritario con tutti. C’è il professore, che fa il professore, il saputello dappertutto, si sente superiore agli altri: ma così diventa pesante, insopportabile. E poi c’è chi fa il perfetto, quello che non sbaglia mai; c’è il timido; c’è quello che è convinto di avere tutto in pugno, ecc.
Se lo viviamo così, il ruolo ci ingabbia, ne diventiamo schiavi e, invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. Purtroppo in molte persone è venuta a mancare la “persona” ed è rimasto solo il ruolo. Se togliessimo il vestito, il ruolo, sotto il vestito non troveremmo nulla, il vuoto assoluto.
Per cui la grande domanda che dobbiamo porci è: “Al di là di tutti i ruoli, i vestiti, chi siamo noi? Chi siamo noi dentro, in profondità, nell’intimo della nostra anima?” Questa è la grande domanda. In altre parole: “Cos’è, che ci rende unici, irripetibili, diversi, da tutti gli altri? Cos’è che ci rende insostituibili?” Perché se non lo troviamo vuol dire che noi, o un altro, è la stessa cosa; vuol dire che non siamo importanti, che di gente come noi ce n’è in abbondanza; vuol dire che siamo uno dei tanti, un doppione, una fotocopia: come se la vita facesse fotocopie! Ma se siamo uguali, identici in tutto agli altri, che senso profondo può avere la nostra vita?
La prima cosa da fare, pertanto, è fare pulizia, liberarci da ciò che non siamo. La grande scelta, come per il Battista, è non accettare di essere gli altri: “No, non sono questo! Io sono io; io sono diverso; io sono Giovanni il Battista, non sono Elia, né il Cristo né un Profeta”.
Riconoscere ciò che non siamo, anche se la gente lo vorrebbe, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative che gli altri ci hanno incollato addosso, è sempre molto faticoso e doloroso. Ma solo se iniziamo a spogliarci di ciò che non è nostro, solo se ci scrolliamo il ruolo di dosso, piano piano emergerà chi siamo veramente. E ne varrà la pena!
Giovanni Battista ha trovato il motivo per cui vivere, per cui è stato creato, ciò che dà senso alla sua vita. Lui deve dire a tutti: “State attenti, preparate la via al Signore, non dormite, non sonnecchiate, il Signore vi passa vicino, non lasciatevelo scappare. Dio c’è, ma se avete gli occhi chiusi non lo vedrete”. Egli è voce di qualcun altro, è strumento, mezzo. Questo è il primo compito di ogni uomo: dar voce all’infinito, a Dio, all’oltre, alla forza che lo abita, ma che non gli appartiene. “Dai voce a ciò che hai dentro!”.
Lui dà, presta la voce, ma le parole sono di un altro: testimonia la luce, illumina, ma non è la Luce; è come la luna che riflette, ma non è da lei che viene la luce; la luce viene dal sole.
L’uomo è chiamato a testimoniare il di più che si porta dentro. Questo è il primo servizio che dobbiamo a Dio. Essere strumenti vuol dire proprio questo: permettere che Dio scelga, utilizzi noi per suonare la sua musica, la sua sinfonia. Non siamo noi che suoniamo. È Lui che suona in noi: non siamo noi la musica, non ci appartiene. Siamo solo gli strumenti. Noi siamo l’onda, Lui è il mare. Noi siamo i raggi, Lui è il sole.
Questa è la grande chiamata di ciascuno di noi. Noi viviamo, ma la vita non è nostra. Noi siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra. Non la possediamo. Noi siamo veri, ma la verità non viene da noi. Noi diventiamo liberi, ma non siamo la libertà. Noi danziamo, ma non siamo la danza. Noi facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, ma non siamo Dio. Noi abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Noi viviamo e operiamo, ma non siamo il soggetto. Il soggetto è sempre e solo Dio. Il grande male dell’uomo è sentirsi proprietario delle cose e delle persone. Le sente sue, ma non lo sono. Siamo gli amministratori delle cose, non i proprietari.
Nel vangelo c’è infine una frase forte: “In mezzo a voi c’è uno che non conoscete”. Meglio: “uno che voi non volete conoscere”. I Giudei, i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, Colui che viene. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui farà o dirà non potrà in nessun modo cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista urla, scuote, grida, strattona: ma non serve. Se noi abbiamo deciso dentro di noi che non ci interessa, niente ci può convertire. Se abbiamo deciso dentro di noi che Natale è il 25 dicembre, il pranzo e la messa (una volta all’anno ci può stare!), niente può cambiare. Se abbiamo deciso che Dio è un corollario della nostra vita, un apparato periferico, nessuna predica ci può scalfire. Se abbiamo deciso che non vogliamo metterci in gioco, la vita non avrà più niente da insegnarci.
C’è ancora chi rimane stupito delle chiese piene la notte o il giorno di Natale. Non facciamoci illusioni: molte persone ci saranno anche, ma dentro di loro, nel segreto del loro cuore continueranno a dire: “Non ci interessi, non sappiamo che farcene di te”.
Ebbene, ascoltiamo la “Voce”, spianiamo una buona volta quella strada che dal nostro cuore porta al cuore di Dio. Prepariamo in noi la venuta della “Parola” che è Cristo, perché dia senso alla nostra “voce”. Perché solo in Cristo, Parola eterna di Dio, possiamo trovare il nostro vero senso, il significato autentico della nostra vita. Amen.
 

giovedì 4 dicembre 2014

7 Dicembre 2014 – II Domenica di Avvento – Anno B

«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» (Mc 1,1-8).
Dove troviamo il Battista? Nel tempio? No. Eppure, in quanto “sacerdote”, figlio di un sacerdote, gli sarebbe spettato di diritto. Ma non lo troviamo nel tempio: il deserto è l'unico ambiente ideale per la sua predicazione: “Convertitevi dai vostri peccati”.
Nel deserto non esiste l’ “ovvio”: se non fai qualcosa per vivere, muori. Lì conta solo l'essenziale. Nel deserto non ci sono fronzoli o finezze: il deserto toglie tutte le sicurezze, le convinzioni, nella solitudine uno si trova davanti a se stesso, a quello che ha dentro. E mostra quello che non vorremmo vedere.
Nel tempio noi abbiamo le belle liturgie, il bel canto, la bella gente, la sicurezza: anche parlando di Dio e in nome di Dio, non ci convertiamo, non cambiamo dentro, rimaniamo sempre gli stessi, giustifichiamo religiosamente le nostre iniquità.
Il deserto, al contrario ci dice: “No, amico mio, devi convertirti e devi cambiare. Non illuderti. Non nasconderti. Dove vai? Perché fuggi? Eviti la verità? Qui si vede se ami Dio: se ami Dio devi cambiare il tuo cuore”.
Leggendo il Vangelo ci convinciamo sempre più che per credere in Gesù Cristo, dobbiamo necessariamente abbandonare quella che è la “nostra” religione.
È una verità forte, ma è così. La religione, per definizione, ci dà regole, ci dice cosa dobbiamo fare e cosa non dobbiamo fare, ci rassicura, ci dice che se faremo così andremo in paradiso e se faremo colà andremo all'inferno; ci dice chi sono i bravi, i puri e gli ammessi e chi invece sono i cattivi, gli esclusi.
Ma di tutto questo non c'è nulla in Gesù. Perché la fede ha un solo obiettivo: l’amore: sentirsi amati da Lui sempre, e amare ogni creatura (rispetto, compassione, tenerezza, cura).
La regola della religione è: “Quanto preghi? Quanto sei puro? Quanto se incontaminato? Quanto sei fedele alle regole?”. Ma la regola di Gesù è: “Quanto ami? Quanta fiducia dai alle persone? Quanto le fai crescere? Quanto le stimi? Quanto credi in loro? Quanto le rispetti? Quanto vuoi il meglio per loro?”.
Il Battista, nonostante il suo annuncio sia duro e severo, all'inizio ha successo con la gente, al punto che le autorità religiose si allarmano. In realtà egli dice: “Guardate che non sono io quello che deve venire, non sono io il Messia”. Ma nonostante ciò, per esse, egli rimane un pericolo. Per questo sarà diffamato. Quando non si può eliminare l'avversario basta screditarlo e diffamarlo. Se non troviamo in lui del male, parliamone male, e lo creeremo. Ma perché con il Battista? Perché è uno che non guarda in faccia a nessuno, uno che non te le manda a dire, e questo non piace a nessuno.
Inoltre non è facile da accettare proprio perché annuncia un battesimo di fuoco.
Noi ci diciamo: “Siamo cristiani” e lo diciamo perché effettivamente siamo battezzati e registrati in parrocchia nel libro dei battesimi. Ma per il vangelo non è così.
Tutti siamo battezzati con l'acqua, ma il vero battesimo (quello di fuoco) è la vita. Nel giorno del battesimo ci viene detto: “Tu sei figlio di Dio” (battesimo d'acqua). Ma poi dobbiamo diventarlo e questo è il nostro compito e il nostro cammino (battesimo di fuoco).
Battesimo, in ebraico, vuol dire “immergersi”; dove? nella luce e nella non-luce che sono dentro di noi. Anche “Giordano” vuol dire “immergersi”. E dove va a finire il Giordano? Va a finire nel Mar Morto. Ed è esattamente quello che ciascuno di noi è chiamato a fare: immergersi “nella mortalità” di questa vita, immergersi in ciò che sembra morto, finito, senza senso, disperato, per potere dalla morte far emergere la Vita.
Gesù, con la sua discesa nella storia mortale (kenosi), ha rivelato che, nel profondo della morte di questa vita, c'è una luce divina che non muore mai.
“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”. Eppure Gesù l'aveva già ricevuto il battesimo al Giordano, ma non è quello il battesimo cui alludeva, è il battesimo di fuoco.
Cos'è il battesimo di fuoco? È quel cammino dentro e verso di noi che inizialmente elimina tutto ciò che si è sedimentato in noi, tutto ciò che non siamo noi: è un cammino di purificazione, di liberazione, che ci porterà a scoprire chi siamo veramente, il nostro centro e la nostra parte divina, quella indistruttibile. Per cui chi ci guarda, vedrà in noi qualcosa che ci supera, che è più grande di noi, vedrà qualcuno in trasparenza, di cui noi siamo somiglianza, immagine.
Ma non basta “pensarlo”: dobbiamo farlo! Non possiamo diventare ciò che siamo (figli di Dio) stando a letto tranquilli e pacifici, magari davanti alla tv e mangiando patatine. Vogliamo raggiungerci dentro di noi? Camminiamo! Dobbiamo discendere nella nostra umanità.
L'ha fatto Gesù Cristo che è disceso nel fiume del peccato, il Giordano, dove tutti andavano a lavarsi dai peccati; dobbiamo farlo anche noi: perché soltanto immergendoci, rifioriremo; e solo bruciando, torneremo ad essere amore vivo.


Oggi il Battista, domani Maria Immacolata: sono le due figure che ci conducono al Natale. Entrambi ci annunciano un figlio ma secondo prospettive diverse.
Maria è la madre accogliente: “C'è qualcosa che vuole svilupparsi in te, accoglilo. Se questo qualcosa, questo “figlio”, non è secondo i tuoi programmi, non importa, accoglilo lo stesso. Se questo figlio ha un nome diverso da quello che tu pensavi, non importa, accoglilo lo stesso. Se questo figlio non è come tutti se l'aspettavano e ti spiazza, non importa, accoglilo lo stesso”.
Cosa fa una donna quando partorisce un figlio? Cos'ha fatto Maria? Una donna ama “suo figlio” non perché è il più bello, il più buono o perché è come lei se l'aspettava. Lo ama perché è suo, perché viene da lei, è parte di se stessa, perché ha bisogno del suo amore, della sua cura e della sua tenerezza.
Anche il Battista aspetta il Messia. Anche il Battista non vede l'ora del suo arrivo. Nelle sue parole si percepisce tutta la sua ansia, il suo desiderio per l'avvento del Messia: “Preparate la strada e raddrizzate i sentieri”. La sua stessa vita è vissuta in funzione di Colui che deve venire.
Sì, Gesù è l'Aspettato ma non come se l'aspettavano. Non è potente come un nuovo Davide, con l'esercito, le armi, le spade e i cavalli. Non è forte come un nuovo Elia, che distrugge le falsità, combatte l'ingiustizia e uccide i malfattori. Non è condottiero come un nuovo Mosè che libera gli ebrei dalla schiavitù dei nuovi Egiziani, i Romani.
Il Battista dovrà cambiare opinione e convertirsi: “Lui è diverso dalle mie idee”. Non fu per niente semplice per lui accettare questo “figlio”!
Ma il “figlio” è tutto ciò che vuole nascere, che vuole emergere, in noi. Natale è accettare questo “nostro figlio”: una verità difficile... ma è così. Se la rifiutiamo uccidiamo ciò che vuole nascere.
Natale è un “bambino” da accogliere, è vero. Ma il punto è che noi abbiamo già stabilito che tipo di “bambino”. Se non arriva come noi ce l'aspettiamo, lo rifiutiamo, non lo accogliamo neppure, perché non è secondo le nostre idee.
Ma il "bambino" è lui. Non è come noi, è diverso da noi: per questo lo dobbiamo accogliere com'è, anche se sarà diverso da come noi ce l'abbiamo in testa, o addirittura all'opposto. E per questo ci sorprenderà; per questo ci chiederà di cambiare le nostre idee, i nostri pensieri; per questo ci chiederà di aprire la mente anche su ciò che per noi è inconcepibile.
Lui vuole vivere in noi. Dio vuole nascere in noi. Accogliamolo, accettiamolo, perché è lui, Gesù, che vuole nascere ancora in noi. Amen.