giovedì 25 settembre 2014

28 Settembre 2014 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli» (Mt 21,28-32).
La tensione e la conflittualità tra Gesù e i capi del popolo (scribi, farisei, anziani, sommi sacerdoti) è già altissima. Gesù, scagliandosi contro la loro stupidità e ipocrisia, dirà cose tremende, inaccettabili per gente che faceva parte del sinedrio, che si considerava pura, di buon esempio, pia, religiosa, intoccabile. Tacere, ignorare, soprassedere, non rientra nello stile di Gesù: quello che non va, che non è lecito, deve essere rimosso: solo così si può ricominciare correttamente. È in tale contesto che si situa la parabola di oggi.
Un racconto semplice, ma ricco come al solito di insegnamenti: c'è un padre con due figli ai quali impartisce lo stesso ordine: “Va' a lavorare nella vigna”. Il primo dice: “Sì” ma non ci va. È un figlio ossequioso, educato, e con molto fair play: gli dice subito di sì (mai contraddire il padre, era la regola da seguire); ma poi, come se nulla fosse, fa di testa sua.
Il secondo invece, con stizza, maleducatamente, gli risponde: “No!”; ma poi, ripensandoci, si pente e obbedisce. Matteo usa qui il verbo metamélomai che vuol dire appunto pentirsi, cambiare idea. La sua prima reazione è: “No!”, ma poi cambia idea e ci va.
È chiaro che nessuno dei due ha voglia di andare a lavorare. Ma mentre il primo, attenendosi alle buone maniere per paura di deludere il padre, non è coerente con ciò che pensa realmente in cuor suo - il suo “sì” esteriore equivale ad un “no” interiore - il secondo invece non gli interessa di deludere il padre, è coerente con se stesso, e gli dice senza tanti preamboli quello che di getto gli nasce dentro: “nossignore!”; ma subito dopo la sua coerenza gli fa cambiare idea, capisce che il suo dovere è di rispettare la volontà del padre, e il suo “no” diventa un “sì”.
“Chi dunque ha compiuto la volontà del padre?”, chiede Gesù. E tutti dicono: “L'ultimo”.
E non può che essere così: ma se guardiamo alle parole, alla gentilezza, al comportamento esteriore, dobbiamo riconoscere che il primo merita un plauso, il secondo invece, con i suoi modi diretti, altezzosi, è da condannare senza attenuanti. Ma è subito chiaro quello che Gesù vuol dire con questa parabola: non sono le buone intenzioni, i modi aggraziati, le belle parole, le apparenze esteriori che contano: quello che conta è il risultato, sono i fatti, è quello che si fa nella vita reale di ogni giorno.
Ed è altrettanto chiaro che Gesù intende colpire in maniera esplicita il comportamento dei sommi sacerdoti, degli anziani del popolo, che vendevano soltanto fumo, apparenza, esteriorità, senza alcun riscontro interiore. Di loro infatti aggiunge: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Inaudito, sbalorditivo, per quel tempo: sarebbe come se oggi Gesù dicesse ai cardinali, ai vescovi o ai preti: “Le prostitute sono meglio di voi!” (anche se in alcuni casi direbbe la verità!).
Ma Gesù non ce l'ha a priori con i religiosi, con i consacrati, con gli addetti al sacro. Semplicemente non fa sconti a nessuno. Ma perché proprio le prostitute passeranno loro avanti? Non poteva dire gli assassini, i ladri, i delinquenti ecc.? Semplicemente perché qualche giorno prima aveva avuto modo di constatare il pentimento di una di loro. Lo spunto infatti gli viene suggerito dall’episodio, riportato da Luca (Lc 7,36-50), in cui “una di quelle”, una prostituta, lo va a trovare. È chiaro che con la sua vita, con la sua condotta di pubblica peccatrice, lei dimostra di non tenere in alcun conto gli insegnamenti e la persona di Gesù. Eppure Egli vede nel comportamento riservatogli in quell’occasione, un suo chiarissimo “sì” interiore, un’apertura a Dio, un pentimento sincero, una grande decisione di redimersi: sappiamo che Gesù stava mangiando a casa di Simone, un fariseo, uno dei puri per definizione; quando improvvisamente questa donna, apertamente impura, entra e si butta ai piedi di Gesù: li lava con le lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Certo, per chi guarda le apparenze, i suoi sono gesti molto accattivanti, sensuali, quasi lascivi: ma la donna usa le arti del suo mestiere per dimostrare pentimento e amore. Quello che poteva apparire sacrilego, un invito a peccare, diventa, nel suo pentimento interiore, nel suo ripensamento, fede e riconoscenza per Gesù. Perché Egli non guarda all'apparenza esteriore; egli guarda “dentro”, guarda il cuore, e le dirà: “La tua fede (=ciò che hai fatto) ti ha salvato”.
Per i puri, gli impeccabili, i religiosi del tempo, la fede era ciò che l'uomo fa per Dio: per Gesù, la fede è ciò che Dio fa per l'uomo. Gesù non vede una prostituta; vede una donna, che ha bisogno d'amore, di accettazione e di perdono. E lui glielo dà. Gesù vede una donna che, come può, ama, ha un cuore che batte ed è viva. E questo gli basta.
Nei farisei e nei religiosi del tempo Egli vedeva molto risentimento, falsità, comportamenti malevoli. Preferisce i pubblicani e le prostitute: non perché approvi ciò che fanno, ma perché questa è gente che faticosamente, con buona volontà, umilmente prova a redimersi. È gente che si butta ai suoi piedi, che piange, che si dispera; gente cioè che non teme di mostrarsi per quello che è, che non si vergogna, non nasconde dietro una bella facciata le proprie miserie, i propri disagi, le proprie ferite. Gente che si accorge di aver sbagliato, gente che cambia vita. Gente dal cuore grande, che arriva a fare follie, perché solo chi ama, solo chi è innamorato può farle.
Sono i gesti dell'amore: folli per chi ha il cuore duro, rigido, insensibile, ma normali gesti di amore, di misericordia, di vita, per chi dice “sì” a Dio.
Un’ultima cosa: abbiamo mai fatto caso che ogni volta che Gesù va in chiesa (in sinagoga) nasce sempre un problema, al punto che - dopo che un giorno, pieno di rabbia, ha buttato tutto all'aria - non ci va più? Perché? Perché il grande pericolo di ogni chiesa, di ogni tempo, ieri come oggi, è quello di trasmettere solo dottrine, catechismi, proposizioni dogmatiche, belle prediche, regole e comportamenti, tralasciando la cosa veramente importante: quella di trasmettere, di far sperimentare, di far vivere, di far sentire Dio nei cuori di ciascuno. Le “regole” si fermano all’esterno: ma lì non c’è vita. Gesù vive e sta là dove c'è vita: dove c'è il dolore, la gioia, dove la gente si commuove, chiede scusa, si mostra per quello che è senza vergognarsi e senza nascondersi, dove la gente non ha un'immagine da sostenere e una maschera da portare. Gesù sta là dove c'è la vita, perché Lui è la Vita, e non può che stare lì. Amen.
 

giovedì 18 settembre 2014

21 Settembre 2014 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-16).
La parabola del vangelo di oggi ci presenta un proprietario terriero che assume dei braccianti per la sua vigna. In Israele vi erano grandi latifondi e i braccianti erano presi a giornata in base al lavoro da svolgere. Non c’era molto da discutere: pur di assicurare il mantenimento della famiglia, accettavano immediatamente qualsiasi lavoro.
La vigna quel giorno richiedeva un lavoro importante e urgente, tant'è che lo stesso padrone, e non il fattore, esce di casa all'alba per andare in piazza per ingaggiare gli operai. La paga concordata con ciascuno è di un denaro per l’intera giornata: una paga equa, che gli operai accettano volentieri. Ovviamente il numero di operai ingaggiati è sufficiente a soddisfare il fabbisogno dell'intera giornata.
Ma poi succede qualcosa di imprevisto. Verso le nove del mattino il padrone esce di nuovo in cerca di altri operai. Come mai? Perché lo fa? I primi infatti erano già in numero sufficiente; perché allora ne chiama altri? Il padrone non lo fa perché gli servono altre braccia per la vigna, ma perché si rende conto che ci sono ancora molti disoccupati, senza lavoro (“li vide disoccupati”); e lui sapeva che essere senza lavoro equivaleva a non mangiare. Il suo è quindi un gesto di pura bontà: lui non ne ha bisogno, ma loro sì! E a questi operai promette di dare un compenso “giusto”.
Ma non è finita. A metà giornata l'uomo torna nuovamente in piazza e assolda altri operai, e lo stesso fa alle tre del pomeriggio. Di operai nella vigna ora ce ne sono più del necessario, ma il padrone continua a chiamare. È chiaro che egli non è affatto preoccupato per la sua vigna, ma per quei poveretti che sono ancora senza lavoro. Va contro i suoi interessi, eppure lo fa! L'accordo con questi è: “Vi darò quello che è giusto”. Lo stesso succede anche alle cinque del pomeriggio, quando manca appena un’ora al termine della giornata: va in piazza, prende tutti quelli che sono rimasti, e li manda a lavorare. Il padrone continua a dimostrare una grande generosità, è un uomo dal cuore grande, perché non pensa a sé ma a tutta quella gente senza alcuna prospettiva per sfamarsi; e con questi ultimi non parla neppure di retribuzione, ma sarà lui stesso a decidere il quanto.
A fine giornata, giunto il momento della paga, egli inizia partendo proprio dagli ultimi arrivati, e a ciascuno di essi consegna un denaro, lo stesso importo promesso a quelli assunti all’alba: è quindi naturale che questi, fatto velocemente il confronto tra l’ora lavorata dagli ultimi e il loro impegno di un’intera giornata, si aspettino quantomeno una somma tre volte superiore. Quando però tocca a loro, e contro ogni aspettativa vengono retribuiti anch’essi con un denaro (d'altronde avevano accettato queste condizioni), sfogano la loro delusione e il loro malumore accusando il padrone di comportamento ingiusto; e - dice il vangelo - mormorano: non esprimono cioè apertamente il loro disappunto, ma parlano di nascosto, senza esporsi. È tipico di chi, non volendo compromettersi, sostiene le proprie ragioni muovendosi nell’ombra, magari ricorrendo spesso alla calunnia e alla maldicenza.
Gesù non si cura di questi, ma avvicinando il più esagitato, gli dice con grande calma: “Amico, perché urli tanto? Quello che hai ricevuto non corrisponde forse a quanto abbiamo concordato?”. “Sì!”. “Per caso ti ho tolto qualcosa?”: “No!”. “E allora, cosa vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso fare ciò che voglio con quello che è mio?”.
Ineccepibile, chiuso il discorso. Un comportamento quello del padrone, pur se oggi qualcuno potrebbe definirlo “anti-sindacale”, assolutamente giusto per i primi, e per gli altri generoso, caritatevole, misericordioso. Egli non toglie nulla a nessuno: vuole soltanto dare a tutti lo stesso salario. Un comportamento da “padrone buono”, spiega Gesù: identico a quello tenuto da Dio, suo Padre.
Dio infatti non dà in base al merito, ma secondo le nostre necessità: egli non dispensa il suo aiuto amoroso come se fosse un premio dovuto, ma lo offre gratuitamente a tutti: egli infatti vuole soddisfare quel bisogno di felicità che ogni uomo porta innato nel suo cuore. Dio quindi non fa preferenze, ma ama tutti indistintamente.
Gesù, con questa parabola, vuole dimostrare proprio questo: e lo fa cogliendo l’occasione offertagli da Pietro che,interpretando il pensiero anche degli altri, gli dice esplicitamente: “Noi per seguirti abbiamo abbandonato tutto, casa, lavoro, famiglia; cosa ci darai in cambio?” (cfr. Mt 19,27).
Pietro ragiona secondo la mentalità del tempo: Dio premia i giusti e castiga i cattivi. Essi sono “giusti” (hanno seguito Gesù senza alcun indugio), e quindi egli rivendica per sé e per gli altri un trattamento di favore: “siamo sempre con te, ti seguiamo ovunque, facciamo molto più degli altri: cosa ci riserverai allora più di loro?”. Gesù però non ha mai pronunciato alcuna parola che potesse anche solo far pensare a cose di questo genere. Ha detto invece: “Il Padre vostro che è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”; e ancora: “Mio Padre ama tutti, buoni e cattivi”.
Quindi nessuna pretesa per chi lo segue, per chi lavora per lui nella sua vigna, di ottenere particolari riconoscimenti: e questo indistintamente sia che lo faccia dalla prima ora che dall’ultima: del resto l’amore che Dio riserva a tutti i suoi lavoratori, supera di gran lunga qualunque aspettativa: li soddisfa a tal punto da escludere in essi l’insorgere di qualsiasi altro desiderio.
Una parabola, quella di oggi, che contiene pertanto due messaggi, entrambi forti e chiari.
Il primo ci dice che “stare” con Gesù, “accompagnarlo”, non vuol dire necessariamente “seguirlo”. Gli apostoli per esempio durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano, stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”. “Seguire” infatti è capire, far penetrare nel proprio cuore, amare il suo messaggio. Per seguire Gesù non basta avere un comportamento esteriore ineccepibile: è il comportamento interiore, è il nostro cuore che deve adeguarsi ai consigli evangelici. L’esterno semmai è solo il riflesso di una autentica conversione interiore.
Si racconta in proposito di un santo abate che guidava diverse centinaia di monaci, sparsi nei vari monasteri da lui fondati; un giorno gli chiesero quanti fossero in totale i suoi monaci, ed egli rispose: “Quattro o cinque al massimo!”. Troppa gente purtroppo “accompagna” semplicemente Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge inni e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo, non segue con il cuore i suoi insegnamenti. A fine giornata si presentano come instancabili lavoratori, assidui frequentatori del sacro, ma è come se non avessero mai lavorato: in realtà non hanno mai sopportato alcun disagio nella loro sequela, fosse pure quella dell’ultima ora; la loro aspettativa di premio è pertanto doppiamente improponibile: se paga buona ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del Padre, non certo dalle loro presunzioni.
Il secondo messaggio, altrettanto fondamentale, conferma e chiarisce il primo: Dio ama tutti, sia coloro che lo “seguono” dal mattino della vita, che quelli che rispondono alla chiamata della sera. I primi non devono aspettarsi un trattamento preferenziale: non è la durata o la difficoltà del servizio che aumenta i meriti: “Voi che mi seguite, non siete migliori degli altri”. Dio cioè non premia secondo i nostri calcoli, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza o coerenza. La ricompensa finale del suo amore eterno è destinata, in ugual misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora. C’è un’unica condizione essenziale per accedere alla ricompensa: essere “lavoratori” di “qualità”, non di “quantità”.
È un principio che ho sottolineato più volte, in quanto per noi è molto indigesto. “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, scriveva Orwell; ed è una grande verità: è in pratica quello che pensiamo anche noi “battezzati”: Dio ama tutti, è vero; ma sicuramente i “segnati” li ama più degli altri. Niente di più falso: le parole di Gesù non permettono fraintendimenti: “I pubblicani (i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Accettiamola umilmente questa verità. Invece anche oggi tanti cristiani, pii e religiosi, non sanno capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte, all’ultimo momento, dopo una vita passata nel peccato, riceva lo stesso nostro trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi che abbiamo “faticato” tutta la nostra sacrosanta vita!”
Purtroppo è la nostra radicata mentalità meritocratica che ci porta a pensare così: “Io ho pregato tanto, io sono sempre andato in chiesa, io ho fatto questo, io ho fatto quello: è impossibile che Dio non mi ami più di quanti non hanno fatto nulla!” No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama anche tutti gli altri. Pensare diversamente significa essere schiavi dell’invidia, significa provare per gli altri soltanto del rancore.
Ed è anche su questo aspetto che Gesù, con questo messaggio, vuol metterci in guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”. Già, l’invidia: non è un paradosso il suo, non allude ad una situazione inverosimile. Non capita forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci ogni volta che qualcuno “sceglie” un altro al posto nostro? Non capita a noi di arrabbiarci perché altri sono più fortunati di noi? Di “legarcela al dito” perché qualcuno ha invitato altri e non noi ad un evento cui tenevamo molto? E in questi casi, non capita puntualmente proprio a noi di pensare: “È veramente un ingrato: come ha fatto a non tener conto di tutto quello che io ho fatto per lui?”.
Ecco, anche noi siamo invidiosi: e lo siamo perché, come i bambini, pretendiamo di essere sempre i primi, i preferiti, gli unici. L’invidia, con tutto il suo malessere, nasce quando, confrontandoci con gli altri, constatiamo che qualcuno è migliore di noi. A questo punto il nostro comportamento è triplice: o lo abbassiamo al nostro livello, ricorrendo magari anche alla calunnia, alla maldicenza, pur di “smontare” la sua superiorità; oppure cerchiamo di alzare noi stessi: facciamo cioè l’impossibile per raggiungere, almeno in apparenza, lo stesso livello dell’altro. Non importa poi se lo siamo realmente, l’importante è che gli altri ci vedano così. Quante persone infatti buttano la vita per rincorrere modelli di vita impossibili, pur di sentirsi ammirati, di passare per qualcuno “che conta”? Purtroppo non arriveranno mai all’assoluto, perché nella loro ansia di primeggiare, troveranno sempre qualcuno o qualcosa con cui continuare a confrontarsi. Il nostro terzo comportamento è infine quello di fare buon viso a cattiva sorte, di fare cioè i disinvolti, ostentando all’esterno un disinteresse, un distacco che non abbiamo; praticamente fingiamo con noi stessi, perché sotto sotto sappiamo di non poter competere, di non avere alcuna chance. Riviviamo in qualche modo la famosa storiella della volpe e dell'uva.
Quello che conta, invece, è che noi siamo una realtà unica: noi siamo noi e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere come gli altri, decretiamo il nostro fallimento: significa che ci consideriamo un nulla, che non abbiamo alcun valore. Dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande valore. Non dobbiamo confrontarci con nessuno: perché se lo facciamo ci sarà sempre un vincente e un perdente, un superiore e un inferiore, e questo creerà tensioni. Noi siamo noi: sviluppiamo quello che siamo; valorizziamo le nostre doti, le nostre risorse, i nostri talenti. Più saremo impegnati in questo, meno tempo avremo per guardare fuori di noi, per fare confronti con quello che sono gli altri. Chi è felice di sé non prova invidia per nessuno. Noi siamo amati. Le persone ci amano, Dio ci ama: non perdiamo tempo a quantificare se di più o di meno degli altri. Siamo amati e questo ci basti! Ringraziamo piuttosto e benediciamo Dio; gioiamo e riempiamoci il cuore di questa certezza. Che significato ha continuare a prendercela con Dio se la nostra vita non è come vorremmo? Se non è “di più” di quella degli altri? O forse siamo invidiosi perché pensiamo che Lui ami gli altri più di noi?
Un bambino, sulle scale di casa, giocava a “fare il prete” insieme ad un suo amichetto. Tutto andò bene finché l’amico, stufo di fare il chierichetto, salì su di un gradino più in alto e cominciò a predicare. Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente: “Solo io posso predicare, tocca a me, perché io sono il prete”. Allora l'amico più piccolo gli disse. “Ma io sono il vescovo, e predico perché sono su un gradino più alto del tuo!”. L’altro lo guardò, fece silenzio e decretò: “Va bene, tu sei il vescovo e puoi predicare; ma ricordati che io sono Dio!”.
Se ci riduciamo a pensare che la vita sia soltanto una questione di scale, passeremo tutto il nostro tempo a sgomitare continuamente sui gradini, cercando di salire sempre più in alto degli altri: ma le scale della vita non sono infinite; prima o poi ci accorgeremo della nostra stupidità; ci accorgeremo di aver sprecato tutto il tempo per raggiungere posizioni precarie sempre più ambiziose, rinunciando a godere dei doni veri, delle bellezze meravigliose e dell’amore profondo che Dio ci ha messo a disposizione gratuitamente in questa nostra vita. Amen.

giovedì 11 settembre 2014

14 Settembre 2014 – Esaltazione della S. Croce

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,13-17).
Giovanni, con poche ma incisive parole, ci spiega il grande mistero di Dio: Dio è venuto nel mondo per amarci, per accoglierci, per starci vicino, per farci vedere come potremmo vivere, con quale estensione del nostro cuore, con quale dilatazione della nostra anima, con quale vibrazione e intensità per la nostra vita.
Il testo di oggi è tratto dal lungo discorso che Gesù intrattiene con Nicodemo. Nicodemo è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, è un maestro, un profondo conoscitore della Bibbia e della religione. Ma gli manca qualcosa, avverte una profonda inquietudine, percepisce che c’è qualcosa di più grande, di oltre. È un uomo che non si accontenta, che vuole capire, che vuole vivere più in profondità. E Gesù gli fa una proposta immensa, a prima vista irrealizzabile: “Devi rinascere”.
Sostanzialmente gli dice: “Quello che tu oggi chiami vita, io la chiamo morte. Abbandona questo tuo modo di vivere, di pensare: ed io ti mostrerò cosa vuol dire vivere per davvero”. Una proposta che avrebbe emozionato chiunque, che avrebbe entusiasmato, stuzzicato chiunque avesse un cuore assetato di verità, di amore, di vita vera come il suo.
Gesù è uno che fa proposte nuove, proposte che rompono tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini. Gesù apre orizzonti nuovi e impensati. Gesù è davvero affascinante, attraente, perché presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, da “mozzare il fiato”, intenso. Gesù è per anime grandi. Gesù non si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: guardiamo per esempio la vita dei santi o degli apostoli. Chi vuol vivere sulla difensiva, senza rischiare troppo, è meglio che lasci stare. Perché Gesù coinvolge, sconvolge, esattamente come l’amore: prende tutto, possiede, afferra. Gesù è il fuoco: se non bruciamo per Lui, non lo conosceremo mai. Gesù è come l’acqua: o ci immergiamo in Lui o non lo conosceremo mai. Gesù è come la vita: o la viviamo con Lui o rimarremo sempre a bordo strada.
A Nicodemo in pratica dice: “Se vuoi capire chi sono io, lascia stare la tua Legge, le tue regole, le tue norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far morire il tuo mondo di illusioni, di falsità, di apparenza, di vuoto, di buone maniere, e riaprire gli occhi alla realtà”.
E cita come esempio la piaga dei serpenti velenosi inflitta da Dio al popolo che durante l’esodo gli si era ribellato: chiunque fosse stato morso, avrebbe potuto guarire guardando il serpente bronzeo posto da Mosè alla sommità di un’asta: il serpente segno di pericolo, di morte, di disperazione, di rovina, diventa in quel momento segno di vita. Esattamente come la croce, segno di paura, di morte, di terrore, di fallimento, di sofferenza: con Cristo diventa segno di vita. Questo in pratica Gesù ci invita a fare: “Non aver paura di quello che ti angoscia: fidati di me: attraverso la croce ti ho riscattato!”.
Gesù si è fidato di Dio, è andato fino in fondo e può quindi testimoniarlo personalmente: Dio non abbandona mai. Egli ha guardato in faccia tutte le sue paure: la morte, il fallimento, la fine, la croce, l’aver sbagliato tutto. Bisognava che affrontasse tutto questo, che andasse fino in fondo nella sua vita, ad ogni costo, anche salendo sulla croce, per dimostrare a tutti noi che Dio non abbandona; che di Dio ci possiamo fidare; che di Dio non dobbiamo aver paura; che l’amore di Dio è più forte di tutte le morti.
Guardiamo allora in faccia tutto ciò che temiamo! La paura più grande è la paura di morire. “Guardala in faccia. Non sottrarti”. Guardare in faccia la tragedia della nostra vita è la nostra salvezza o la nostra disperazione. La grande verità è che noi moriremo. Dovremo lasciare le persone che amiamo di più, i nostri figli, i nostri cari, la nostra casa. Vivere con tale prospettiva ci fa paura, ci rende scettici, pessimisti: “A che serve fare, combattere, lasciarsi coinvolgere, se poi tutto finisce?”. Vivere così ci aliena: “Meglio non pensarci, altrimenti impazziamo!”. Vivere così ci rende insensibili, vuoti: “Godiamoci la vita, accumuliamo benessere, prendiamoci tutto quello che possiamo!”. Però qualunque cosa tentiamo di fare, una verità ci informa puntualmente: “tu morirai, lascerai tutto e tutti”. Possiamo scappare da questa verità. Possiamo vivere come se niente fosse. Evitarla, non pensarci. Ma la paura della morte ci impedisce comunque di vivere, ci fa male; è un pensiero tremendo, doloroso, lacerante, angosciante.
Ma questa non è la fine in assoluto: dall’altro lato del tunnel buio c’è sempre una luce. Nel fondo dell’angoscia brilla la Vita. Nel fondo della morte risplende la Resurrezione. Nel fondo della paura c’è la Fiducia. Se ci fidiamo di andare fino in fondo, di affrontare le tragedie della vita, della nostra vita, ebbene, proprio lì, troveremo il senso e la bellezza della vita stessa. E, dopo di ciò, non saremo mai più quelli di prima. Non saremo mai più gli stessi.
Ecco: questo, per Giovanni, vuol dire “credere”. Credere è quando noi nel bel mezzo del buio troviamo la Luce; nel bel mezzo della morte troviamo la Vita; nel bel mezzo della disperazione troviamo la Forza. Credere è quando noi non ci sottraiamo alla vita e alle sue tragedie, ma ci passiamo dentro, in mezzo, le affrontiamo, fidandoci di Dio. Questa discesa ci fa rinascere, ci rende nuovi, ci cambia completamente vita. Perché guardare in faccia ciò che temiamo, ci fa nascere in una nuova visione della realtà.
Se noi smettessimo di voler “razionalizzare” ogni cosa, di voler cercare sempre risposte convincenti, di voler trovare il filo conduttore di tutto, di pensare e ripensare, di discutere, di concettualizzare tutto, di stabilire sempre cosa è bene e cosa è male, e ci aprissimo, invece, al nostro profondo bisogno d’amore, alla ricchezza delle emozioni che vivono nel nostro cuore, senza reprimere, senza eliminare, senza paura di affrontare la dipendenza, la rabbia, ma guardandole in faccia. Se useremo, contro le nostre paure ed emozioni angosciose, tenerezza, comprensione, misericordia, allora inizieremo veramente a sentirci degni di vivere sul serio; allora ci sentiremo veramente figli di Dio. Allora capiremo che ai suoi occhi noi siamo grandi (siamo stati creati da Lui); è Lui che ci vuole grandi, e anche noi finalmente ci sentiremo tali.
Questa è la realtà: e per questo dobbiamo smettere di inseguire ideali di vita distruttivi: le ricchezze, il buon nome, la carriera, il successo, il nostro apparire esteriore. Non possiamo continuare a vivere così; guardiamoci invece negli occhi, scrutiamoci nel silenzio dell’anima; prendiamoci l’un l’altro per mano e diciamoci le nostre paure, i nostri bisogni, i nostri desideri e tutto il nostro bisogno di amore; guardiamo i volti delle persone e ammiriamone la misteriosa bellezza che celano; guardiamo il cielo, sentiamolo “dentro” di noi; guardiamo gli uccelli e sentiamoci liberi come loro nella nostra anima; guardiamo il sole e viviamolo nel nostro cuore; facciamo anche solo silenzio, e sentiremo che c’è qualcosa che ci accomuna con gli altri, che ci rende fratelli: solo così noi potremo sentire, vivere e percepire il meraviglioso, inebriante e stupendo fremito che si chiama vita. Chi crede, vive così. Chi vive, crede così. Amen.
 

giovedì 4 settembre 2014

7 Settembre 2014 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello…» (Mt 18,15-20).
La catechesi del vangelo di oggi - tratta dal “ discorso ecclesiale”, uno dei cinque grandi discorsi di cui si compone il vangelo di Matteo - intende trasmettere alla nascente comunità cristiana di allora delle regole ben precise, delle norme, dei consigli, con i quali tradurre in pratica, in comportamenti di vita, la grande novità della predicazione di Gesù. Parole che ovviamente noi oggi non dobbiamo prendere alla lettera, poiché sono state scritte per uomini di oltre duemila anni fa, che vivevano in un determinato ambiente, in una determinata cultura molto diversa dalla nostra.
L’importante infatti per noi non è tanto rimanere fedeli a delle “regole” contingenti che mutano nel tempo, ma di fare nostro lo spirito di Gesù, che è quello che rimane fermo nei secoli.
Cosa ci rivela allora “lo spirito”, il senso profondo del testo di oggi? Che dobbiamo riservare agli altri un comportamento di umiltà, di sollecitudine, di attenzione, di discrezione. Il fatto che Dio sia presente in noi, che abiti nel nostro cuore, non lo dimostriamo certo attraverso una grande quantità di preghiere o dal numero di volte che invochiamo il suo nome, ma da come ci relazioniamo, da come ci comportiamo con le persone, da come stiamo con gli altri.
Così anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto con il nostro prossimo, non dobbiamo mai dimenticare, soprattutto in quei momenti, che il nostro dovere è quello di amare: può succedere infatti che, pur non litigando mai con nessuno, non arriviamo ad amare nessuno, oppure che, litigando continuamente, lo facciamo per amore. Tutto dipende se riusciamo ad imparare dalle nostre esperienze, se facciamo tesoro di quanto esse ci insegnao. Quante persone litigano per anni e anni sempre per lo stesso futile motivo? Vuol dire che non hanno mai imparato dalla loro esperienza, non si sono mai domandati il perché del loro comportamento: non hanno capito cioè che insistere nel loro litigare non serve, è inutile, fa solo male a loro e agli altri; non vogliono imparare, non vogliono crescere. La loro è una lotta tra sordi.
Il comportamento che dobbiamo pertanto ricavare dalle parole del vangelo, non è tanto quello della denuncia, del creare uno scandalo a tutti i costi, dello stendere in piazza i panni sporchi del fratello, bensì quello della carità, dell’amore, del rispetto che gli dobbiamo: perché se nostro fratello sbaglia, se ha dei problemi, è esattamente in questi momenti che ha maggior bisogno di noi, del nostro amore, della nostra amicizia: è soprattutto in questi frangenti che dobbiamo usargli ancor più delicatezza, gentilezza, attenzione, rispetto.
Questo infatti ci raccomandano le prime parole del testo: “Se c’è una questione irrisolta fra te e lui... va di persona da lui, incontralo da solo, a quattrocchi”. Quindi è d’obbligo la massima discrezione: un atteggiamento completamente nuovo, rivoluzionario, rispetto all’antica legge israelitica che al contrario imponeva l’obbligo del ricorso immediato alla pubblica denuncia.
Pertanto: c’è qualcosa che non condividiamo nel comportamento di qualcuno? Notiamo in lui qualcosa di stonato, qualcosa che riteniamo sconveniente, deplorevole? Andiamo da lui e parliamone: se non altro andandoci, ascolteremo la sua versione, le ragioni del suo agire, e forse ci ricrederemo; forse capiremo che le cose non stanno poi come noi pensavamo. Andiamo e constatiamo sempre di persona: non prendiamo mai per buono quello che dice la gente. Non comportiamoci in maniera infantile: non isoliamo, non scherniamo, non mettiamo alla berlina, non crocifiggiamo nessuno a priori. Spesso i comportamenti che noi condanniamo sono imposti da situazioni, o da cause di forza maggiore, che noi neppure immaginiamo. Dobbiamo tener presente, inoltre, che molto spesso le persone agiscono per paura, per fragilità, per ignoranza e non per cattiveria.
Pertanto, dobbiamo soprattutto imparare ad “ascoltare” il prossimo. Dobbiamo dargli credito, dobbiamo dargli fiducia. Per ben quattro volte Matteo insiste sul verbo “ascoltare”: “Se ti ascolterà... se non ti ascolterà vai con una, due persone... se non ti ascolterà, dillo all’assemblea..., se non ti ascolterà...”. L’ascolto, il colloquio, il chiarire fraternamente e privatamente qualunque malinteso con i fratelli, sono le basi per un corretto relazionarsi, sono le vie maestre della “carità” cristiana: perché la calunnia, la diffamazione, lo screditare subdolamente gli altri, dire male del prossimo, sono azioni di chiara provenienza satanica: solo Satana infatti male-dice, soltanto lui è una male-dizione per il mondo intero; al contrario mettere in luce il bene, incoraggiare, valorizzare, vedere sempre in positivo, dire bene del prossimo sono cose che vengono da Dio: egli infatti bene-dice tutti.
Per questo dobbiamo fare molta attenzione alle parole che escono dalla nostra bocca: perché esse rivelano sempre ciò che segretamente coltiviamo nel nostro cuore: se il nostro cuore è pieno di rabbia, di invidia, di risentimento, di dolore, dalla nostra bocca non potranno uscire che pregiudizi, maldicenze, insinuazioni. Se il nostro cuore invece è pieno di Dio, dalla nostra bocca non potrà uscire altro che espressioni di perdono, di misericordia, di carità, di amore.
Saper “ascoltare” i fratelli, assume quindi un’importanza fondamentale. Ma nella realtà, nelle nostre giornate passate con gli altri, come lo “viviamo” questo ascoltare? Ascoltiamo veramente o fingiamo di ascoltare? Ascoltiamo quello che gli altri ci dicono, oppure ascoltiamo soltanto ciò che vogliamo sentire? Riusciamo ad ascoltare le motivazioni dell’altro anche se dentro di noi abbiamo già deciso che ha sbagliato? Riusciamo ad ascoltare l’altro anche se noi per principio non cambiamo mai parere, se non vogliamo mai accettare punti di vista diversi dai nostri? Oppure lo ascoltiamo se mentre lui parla noi stiamo già pensando a come contraddirlo? Se abbiamo sempre le risposte pronte per tutte le domande, credendoci altrettanti Dio? Se siamo più preoccupati di cosa dirà la gente piuttosto che di lui e di quanto deve dirci?
Certo, tutto questo non è ascoltare: e se noi non ascoltiamo gli altri, come facciamo a dire loro che li amiamo?
La comunità di Matteo non era perfetta: c’erano sicuramente dei conflitti, delle incomprensioni, delle liti tra i vari componenti. Per questo egli qui sente il bisogno di ribadire: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”.
Del resto non esiste comunità, non esiste famiglia, in cui non vi siano tensioni, conflitti, scontri: la normalità sta proprio nella con-flittualità: si hanno pareri diversi, discordanti, si hanno esperienze diverse, ci sono problemi, crisi, difficoltà diverse. Ma non sempre litigare, entrare in conflitto, equivale a non amarsi: vuol dire soltanto che c’è diversità di vedute, di opinioni, che ci sono caratteri con sensibilità magari opposte, nient’altro. È un fatto naturale e inevitabile, che comunque non deve essere considerato un problema. Semmai il problema c’è quando due persone non litigano mai: vuol dire che una delle due si è conformata all’altra, si è spogliata della propria personalità. E non è certo arrivando a tanto che dimostriamo di amare veramente: ma l’amore in una famiglia, in una comunità, traspare solo dal modo con cui vengono affrontati e risolti questi conflitti, queste divergenze.
Il “modo” è un fattore determinante e decisivo: perché le tensioni e i conflitti sono ambivalenti: possono cioè essere causa di comunione ma anche di divisione, di unione o di rottura, di crescita o di separazione. Se infatti partiamo dal presupposto che in casa nostra deve sempre regnare l’armonia e la pace, se evitiamo d’autorità l’insorgere di qualunque parere contrario, è difficile, per non dire impossibile, crescere.
Ci sono infatti persone che pretendono di vedere sempre tutto roseo intorno a loro: persone che negano nella loro convivenza l’esistenza di qualunque conflittualità, pensano insomma che la loro comunità sia esente da qualunque problema… e questo è già di per sé un notevole problema! Altre persone invece sono così fragili, hanno un’identità così debole, che vedono in un semplice contrasto, in una salutare litigata, la fine stessa di un rapporto, un disastro universale, la prospettiva tragica di rimanere completamente sole. Ma entrambe le posizioni non rappresentano la normalità della vita.
Non spaventiamoci allora delle divergenze, delle lotte, dei conflitti. Semplicemente parliamone con gli altri, discutiamone; accettiamo di essere messi in discussione. Non è importante chi alla fine vince, anche se lo scopo primo di ogni nostro intervento e sempre quello di aver ragione. È naturale per noi essere portati a dominare l’altro, a dimostrare che noi siamo “più” in tutto, che abbiamo sempre ragione: questo è vero. Ma stiamo bene attenti: perché dove c’è uno che vince, c’è sempre uno che perde, ed è altrettanto naturale che chi perde si senta umiliato, sconfitto, messo all’angolo: e questo non è mai positivo, non produce mai aggregazione, unione.
Per questo è fondamentale, lo ripeto, ascoltarci: mettiamoci nei panni degli altri, mettiamoci dal loro punto di vista, usiamo nei loro confronti grande em-patia, grande sim-patia; spogliamoci delle nostre manie, perché se rimaniamo in esse non arriveremo mai ad ascoltare nessuno.
La maturità del nostro amore non si vede dal fatto che non creiamo mai screzi, che facciamo tutto insieme con il nostro partner; ma dal confrontarci in maniera sana nei momenti difficili. È il confronto che ci fa crescere, che matura il nostro amore.
Di conseguenza è altrettanto fondamentale imparare a difenderci quando ci attaccano, a mettere dei paletti quando oltrepassano il limite, ma anche imparare ad aprirci totalmente quando è possibile e quando troviamo fiducia; imparare a collaborare senza voler essere superiori agli altri, come pure ad esprimere quello che abbiamo dentro senza sentirci inferiori a nessuno.
Non c’è una scuola per tutto questo. C’è una scuola per tutto, ma non per imparare a convivere. E così le coppie scoppiano (stare in due è già gruppo), le famiglie vivono malesseri profondi, e le persone che hanno amicizie vere, forti e profonde, sono sempre meno.
Matteo per questo ci propone una frase bellissima di Gesù: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. Notare il “mettersi d’accordo: “ac-cor-darsi”, vuol dire in pratica avere i cuori che battono tutti alla stessa frequenza; in greco è sin-fonia. L’accordo musicale infatti è formato da note diverse: ogni nota ha un suono diverso, ma messe insieme formano l’ac-cordo, la bellezza di una sinfonia. L’unità è quindi l’accordarsi, è cantare all’unisono con la stessa melodia, è quando i nostri cuori sono uniti, quando le nostre entità si fondono nell’intimità, nel segreto della nostra vita. E quando ciò avviene, ci dice il vangelo, sperimentiamo la presenza di una forza irresistibile, sperimentiamo tangibilmente la presenza di Dio in mezzo a noi.
L’unione di due persone non sta tanto nello sposarsi, nel quanto tempo stanno insieme, nel quante cose fanno insieme, ma nella profondità del loro stare insieme.
Di alcuni santi si dice che durante il loro parlare intimo, il loro colloquiare profondo con l’altro, giunsero ad una unione talmente con-sonante, da perdere completamente la cognizione del tempo: pensiamo per esempio a san Benedetto con santa Scolastica, a san Francesco con santa Chiara. Come mai noi nel nostro continuo parlare difficilmente creiamo unione? Semplice: perché noi non sperimentiamo la forza intima dell’amore, perché i nostri cuori non vibrano mai in profondità. Parlare del più e del meno, di quello che si è fatto in giornata, parlare del tempo, del vicino di casa, del lavoro, non crea unione, non ci guarisce, non ci sana, non ci fa incontrare dentro. Ciò che ci rende uniti, che ci salva, è quando ci offriamo all’altro completamente, in maniera totale e disarmante, nella nostra vulnerabilità, nelle nostre paure, nelle nostre imperfezioni. L’unione nasce infatti dal “metterci a nudo”, dal farci vedere per quello che siamo realmente, dal donarci vicendevolmente l’anima. Dobbiamo avere il coraggio di farlo e la fiducia di non essere traditi.
Si racconta di un giovane monaco che chiedeva all’abate: “Per quanto tempo dovrò aver cura di mio fratello?”. E l’abate rispose con quattro domande: “Quanto tempo ci vuole per fare una casa?”. Il discepolo rispose: “Un anno”. “Quanto tempo ci vuole per fare un albero?”. “Cinque anni”. “Quanto tempo ci vuole per poter fare un figlio?”. “Almeno quindici anni”. “E quanto tempo ci vuole per distruggere tutto questo?”. “Un attimo!”. “Ebbene: ci vuole tanto tempo per costruire, ma basta un attimo per distruggere. Fa in modo che questo attimo non avvenga mai tra te e tuo fratello”.
Quando parliamo, quando ci relazioniamo con gli altri, teniamo sempre presente questa regola e stiamo attenti a quell’attimo, in particolare a quello che diciamo; perché le parole possono essere come delle bombe: una volta innescate, scoppiano in un attimo. Amen.

giovedì 28 agosto 2014

31 Agosto 2014 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,21-27).
Gesù oggi, per la prima volta, annuncia la sua morte. Egli vuole cambiare il mondo, vuole cambiare la religione del suo tempo, vuole fare un mondo nuovo: ma per fare questo deve andare a Gerusalemme, centro del mondo; egli deve andare là, anche se conosce perfettamente la situazione: egli sa che dovrà operare in un clima molto diverso rispetto a quello della Galilea, regione attuale della sua predicazione. Gesù sa che a Gerusalemme il potere religioso è in mano a scribi e farisei, e per loro Lui è un sovversivo, un anarchico, un trasgressivo, uno che deve essere eliminato ad ogni costo.
Così, quando Gesù paventa la possibilità di uno scontro frontale decisivo, duro, mortale, Pietro reagisce e con la sua solita irruenza gli grida: “Questo non ti accadrà mai!”.
E qui scade il Pietro “beato” di domenica scorsa. Come mai? Guardiamo meglio: Gesù sta andando nella sua direzione, a Gerusalemme. Deve compiere la sua missione: e Pietro che fa? lo “trae in disparte”, lo distoglie, cerca di tirarlo fuori dalla sua strada, lo “tenta”; gli dice: “No, non fare così!”. E glielo dice con forza, con rabbia, gridando, come si fa quando si rimprovera uno che sbaglia e che non vuol capire il proprio errore: il verbo “epi-timao” significa proprio questo.
Praticamente Pietro gli si para davanti, lo affronta, vuol decidere lui la sua vita, vuol dirgli cosa deve o non deve fare, e gli grida: “Tu Gesù non capisci, ti sbagli, non puoi fare così!”. E Gesù: “No, amico, tu sei satana. Vai indietro e non ti permettere di intralciare la mia strada”. E in questo momento Pietro è satana.
Gesù si serve qui della stessa espressione: “Vattene, satana” che usa col tentatore, col diavolo nel deserto (Mt 4,10). E quel Pietro che era il discepolo guida, che era il “beato, perché ispirato dal Padre”, ora improvvisamente qui è il demonio. Pietro qui è il diavolo, satana, il tentatore.
Esattamente come siamo noi quando ci ostiniamo, ci mettiamo contro, ostacoliamo, resistiamo al piano di Dio.
Satana nella Bibbia non è mai nemico di Dio ma degli uomini. È un ostacolo forte nella strada che conduce a Dio: “satana” (l’avversario), oppure il “diavolo” (colui che divide), è un’entità che separa, che spezza, che sconquassa l’uomo: ma non è un’entità separata dall’uomo, autonoma, divisa da noi; non è un’entità altra da noi. Satana, il diavolo, è in noi, siamo noi stessi, sono una nostra proiezione, la nostra longa manus!
Certo, il male c’è, la perversione e il diabolico esistono! Sarebbe sciocco negarlo: ma sono realtà che non nascono spontaneamente, di loro iniziativa, autonomamente: esistono perché noi li vogliamo; sono il prodotto del nostro cuore, di quando non ci evolviamo nell’Amore divino; di quando cioè nel nostro cuore non lasciamo spazio a Dio, e veniamo dominati dal buio, dalle tenebre, dall’ignoto; di quando i nostri impulsi prendono il sopravvento; di quando la rabbia e l’odio ristagnano nell’anima e ci dominano. Certo, è più semplice per noi pensare all’esistenza di una entità esterna, personalizzata, chiamata “demonio”, su cui scaricare la colpa di tutto ciò che ci capita di male, di tutto quello che non capiamo, di quello che nella nostra vita non riusciamo a spiegarci: sarebbe molto più comodo, piuttosto che accettare la realtà che tutti noi, e solo noi, possiamo essere “satana”, gli artefici del male.
Pietro, per esempio, nel momento in cui oggi si rivolge a Gesù, fa la parte di satana: è lo stesso, identico demonio con cui Gesù si è confrontato nelle tentazioni dopo il battesimo. Lì il demonio, con la sua voce interiore, cercava di distrarlo dalla sua missione; qui il demonio, con la voce di Pietro, fa esattamente la stessa cosa.
Dopo la lavata di testa a Pietro, Gesù prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Un invito perentorio, le cui parole cruciali meritano di essere approfondite.
Prima di tutto c’è quel “rinneghi se stesso”; letteralmente: “dica di no a se stesso”. Un’espressione che in passato ha fatto pensare che per raggiungere la perfezione fosse indispensabile rinnegare se stessi, perdere se stessi, ignorarsi; spendersi, esaurirsi completamente per gli altri, piuttosto che coltivare in noi quel seme personalissimo di vita che Dio ha posto in noi: per cui esaudire, ascoltare i bisogni del proprio cuore, appagare i propri desideri, cercare di realizzare i propri sogni, era considerato peccato, un fatto negativo, in contrasto con la fedele sequela di Cristo.
Ebbene, niente di tutto ciò: quel rinnegare, quel dire no, va riferito a satana che è in noi, significa, in altre parole, dire “no” a quanto ci divide, ci allontana da Dio; dire “no” a qualunque cosa ci è d’inciampo sulla strada che abbiamo scelto per seguirlo. E con quanti “no” dobbiamo fare i conti! Con quanti “no” abbiamo dovuto e dobbiamo rispondere ai suggerimenti, alle lusinghe, alle tentazioni del nostro io-satana che ci tormenta in continuazione!
Questa è la nostra croce: la croce- come dice Gesù – che ognuno deve prendere su di sé. Sì, perché tutti, indistintamente, abbiamo la nostra croce, nessuno escluso.
Gesù ha avuto la sua di croce, noi abbiamo la nostra. Ma la vera croce di Gesù non è stato tanto il suo patibolo, la morte in croce: questo è stato il modo finale, la “forma” esteriore, gloriosa, di accettarla: ma la sua vera croce, quella che lui ha coraggiosamente portato, è stata quella di essere, lui Dio, fedele alla sua umanità, a se stesso, alla sua missione di uomo-Dio; l’essere cioè fedele al volere del Padre, al Dio che era in lui (Padre, sia fatta la tua volontà).
E questa è anche la nostra vera croce: l’essere anche noi fedeli al Dio che abbiamo dentro: l’essere fedeli sempre, senza ricorrere a stupidi compromessi; questa è la nostra vera “croce”, una croce pesantissima, in quanto causa di scontri, opposizioni, rifiuto, odio. Ci saranno giorni in cui le nostre scelte, non allineate con le ideologie di massa, ci esporranno alla disapprovazione, allo scherno, creeranno intorno a noi commiserazione, risentimento, odio.
La nostra croce, insomma, come per Gesù, è seguire la volontà del Padre, andare fino in fondo alla nostra vocazione, alla nostra strada, a ciò che Dio-Vita ci chiede singolarmente di vivere. Significa non sottrarci alle possibili contrarietà, non ascoltare la voce della paura e del compromesso.
Poi Gesù dice: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La vita non può essere conservata! Non si può rimanere sempre giovani! Non si può vivere per sempre! Non ci si può garantire contro ogni imprevisto! Non esiste un’assicurazione-vita che ci preservi da ogni malanno o contrarietà! Chi vive così, non vive, perché tutta la sua vita è concentrato a conservare qualcosa, invece che mettere a frutto e sviluppare questo qualcosa.
Prima o poi la vita finirà per tutti! È illusione pensare di conservarla! Allora spendiamola, giocamola, investiamola per qualcosa di elevato, di nobile, di meritorio, per qualcosa che sia utile, che sia significativo. Solo così sentiremo che la nostra esistenza ha un senso. Il “suo” senso. Ha prodotto cioè quei frutti per cui ci era stata donata. Altrimenti abbiamo fallito: la nostra vita è stata una vita insulsa, banale, sprecata.
Ironicamente Gesù commenta: “Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”. Questo è il punto. Ci sono persone che spendono la propria vita per conquistare l’intero mondo, e ci riescono anche, ma non sono felici, non possono esserlo. Perché ciò che dà vera felicità è la Vita della propria anima. Se l’anima (la parte di noi interna, spirituale, divina) vive, si sviluppa, cresce, dà frutto, allora noi viviamo in pace con tutti, siamo soddisfatti, felici, sereni; altrimenti no. Possiamo infatti dare tutto ai nostri figli, ma se non offriamo loro la nostra anima, la comprensione, la presenza costante, la tenerezza, l’amore, li perdiamo comunque in partenza. Possiamo avere la più elegante e ricca casa del mondo, ma se nella nostra famiglia non c’è comunicazione, non c’è scambio di sentimenti, intensità, coinvolgimento, amore, a che ci serve una reggia faraonica? La nostra persona può godere di fama, prestigio, considerazione, onori, agli occhi degli altri; possiamo essere rispettati, acclamati, apprezzati da tutti, ma se dentro la nostra anima ci sentiamo vuoti, senza valore, falliti, depressi, a che ci serve la gloria? Possiamo avere un sacco di soldi, possiamo permetterci cose grandiose, ma se non sentiamo, se non percepiamo la vitalità, l’ebbrezza, la gioia che viene da un’anima fedele a Dio, riconosciamolo, a che ci serve tutto il resto?
E Gesù conclude: “Poiché il Figlio dell’uomo verrà e renderà a ciascuno secondo le sue azioni”. Alla fine della nostra vita raccoglieremo i frutti che abbiamo seminato. La vita è onesta, leale: ci restituisce sempre quello che le chiediamo: se le chiediamo chiasso, frastuono, spensieratezza, delirio di onnipotenza, poi non chiediamoci perché siamo così ansiosi, stralunati, pieni di nevrosi; una esistenza proiettata esclusivamente all’esterno, non può amare il silenzio, la tranquillità, la quiete indispensabili per poter parlare con la nostra anima, ascoltare la sua voce. Se non preghiamo mai e non coltiviamo mai i sentimenti del nostro cuore, non chiediamoci perché ci sentiamo così aridi, così inutili. Se non ci diamo tempo e spazio per stare con i nostri cari, con i nostri figli, se li ignoriamo, se non li ascoltiamo, se non comunichiamo interiormente con loro, non chiediamoci poi perché li sentiamo così lontani, indifferenti, duri e ribelli. Se siamo chiusi nella nostra mentalità, se non cambiamo mai, se rimaniamo bloccati nelle nostre posizioni, se non ci rinnoviamo aprendoci allo Spirito, non chiediamoci poi perché non capiamo più il mondo, perché ci sentiamo “fuori”, perché ci sentiamo vecchi o fuori posto. Il vero problema, in definitiva, è uno solo: dobbiamo affrontare i nostri demoni interiori, le nostre paure, dobbiamo saper rispondere a tono al nostro satana, dobbiamo puntare i piedi e gridare i nostri “no”: altrimenti è inutile poi, alla resa dei conti, piagnucolare “Signore, Signore”, tendendogli le nostre mani sporche e vuote. Sì, la misericordia divina è senza limiti, il cuore di Dio trabocca d’amore, ma non vi sembra un po’ troppo illusorio e pretenzioso contare unicamente sulla bontà divina, buttando alle spalle qualunque richiamo della nostra coscienza, ora che abbiamo ancora il tempo di operare? Non vale forse la pena di ascoltarla quella voce di Dio, per sapere almeno riconoscerla quel giorno in cui ci chiamerà? Pensiamoci. Amen.

giovedì 21 agosto 2014

24 Agosto 2014 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Disse loro: Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-20).
I discepoli che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui, hanno potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita, ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tanta gente cambiare vita, perché egli era seguito e amato dalle folle; hanno ascoltato da lui parole forti, vive, parole che svegliano il cuore, che fanno venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di amare, di donarsi, di slanciarsi nella vita.
Nonostante ciò, nel loro intimo, non riescono a staccarsi dai loro vecchi schemi: sono ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto certamente degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli smussamenti, delle variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette di fronte ad una prova, fa loro una domanda a bruciapelo, per vedere cos’hanno capito di lui: “Va bene: questo è quello che gli altri pensano di me: Ma voi chi dite che io sia?”. A questo punto l’imbarazzo, la risposta è desolante, la loro confusione è totale: ciascuno pensa qualcosa di diverso, c’è un guazzabuglio di idee; nessuno, in ogni caso, coglie esattamente chi è Gesù.
Gli apostoli non vedono Gesù per quello che è; lo vedono secondo i loro “vecchi schemi”: come tutti, vedono in lui un profeta, un personaggio importante della Bibbia. Sono bei paragoni, ma Gesù non è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto Gesù è completamente diverso da tutti, da tutti quelli venuti prima e che verranno dopo. Gesù non è uno dei tanti profeti: Gesù è il Profeta, è il figlio di Dio. E questo essi non l’hanno capito.
Non è come Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva insistentemente una totale conversione di vita, obbligando chi voleva battezzarsi ad una vita di penitenza e opere di misericordia. Gesù al contrario non impone mai nulla, a nessuno. La sua è una “proposta” di vita: chi vuole la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la vitalità che trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde. Nessuna costrizione!
Non è come Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo, duro, rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una verità, una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li ha sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha “bruciato” cento uomini (2Re 1,9-12) solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”. Gesù non può assolutamente essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero voluto in qualche modo così. Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che sistemasse le cose sia dal punto di vista religioso che sociale, con o senza la forza, una volta per tutte. Ma Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopruso in Lui.
Gli apostoli insomma vedevano in Gesù quel particolare personaggio che ciascuno in cuor suo sognava, quel “profeta” che ammirava, ma non vedevano Gesù.
Gesù non è profeta secondo il modello del tempo. Gesù è profeta perché mostra il Padre.
L’autorità religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era uno da temere, da tenersi buono, perché non si sa mai, magari ci manda all’inferno! La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il proprio cuore. Anzi: era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo voleva dire sentire in maniera diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire.
Il Dio di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi. Dio non sa che farsene di esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello, senza un pensiero autonomo, libero e personale.
Del resto obbedire (dal latino ab-audire) significa letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è eseguire ciò che uno vuole, ciò che ci comanda, perché questa è schiavitù; obbedire, in senso stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro (Dio); obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi; obbedire è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire agli altri (e non a Lui) è farlo morire, lasciarlo sepolto.
Obbedire insomma vuol dire ascoltare il nostro cuore e rimanergli fedele, ascoltare Dio e non tradirlo; anche se sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla situazione, seguire la corrente evitando conflitti e contrasti a volte dolorosi.
Sicuramente gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il silenzio che ne segue è perché proprio non lo sanno chi Egli sia veramente, non l’hanno ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro: “No, tu non sei un profeta, non sei un sacerdote così. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16).
In realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt 14,33): è che non avevano capito cosa volesse dire “Figlio di Dio”. La novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta identificativa; quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio; “Tu sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e porta alla vita”.
E Gesù gli dice: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”. Perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”?
Giona è stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la conversione, lui era andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene, Pietro è come Giona (“bar”, suo figlio), sanguigno, testardo come lui; anch’egli andrà contro il Signore, lo rinnegherà, ma alla fine si convertirà.
E Gesù conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha insegnate o te le ha ordinate (carne e sangue). Queste cose le cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima che pulsa, solo se Dio può parlare liberamente dentro di te (“te l’hanno rivelato il Padre mio che è nei cieli”). Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro di sé, lo può conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e non possono sapere”.
Solo su questa pietra, pertanto, solo su questa certezza (che Lui è il Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla. Essa è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. Regno dei cieli, nel vangelo, non significa tanto un regno dell’al di là, ma una vita dove Dio vive e si fa vedere, dove si rende visibile.
La chiave della vera Vita (il Regno di Dio), è allora far uscire, sprigionare tutta la vita, l’energia, la forza, che abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è lode a Dio, una vita vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. È in questo modo che i legami di vita, intrecciati sulla terra, rimarranno vivi per sempre; poiché la vita di ora, liberata, sciolta dalle catene di morte, sublimata, rimarrà viva e libera nell’Amore per sempre.
Le relazioni quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo, incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, ma non l’amore. “A-more” (alfa privativo e mors, mortis) vuol dire infatti “non-morte”. Se la nostra vita è stata Amore, vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre, saremo per sempre uniti con chi abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà nient’altro che la forza di attrazione dell’Amore: ecco perché non dobbiamo temere di perdere le persone amate, perché è nell’amore che rimarranno per sempre parte di noi, indissolubilmente legati a noi. Vivere l’amore è vivere Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci fa vivere in eterno.
Gli apostoli, una volta liberi dai loro schemi religiosi, capiscono finalmente chi è Gesù; e andranno per il mondo a predicare e testimoniare esattamente questo: “Lui ci fa vivere! Lui è la Vita! Lui è vivo!”.
E concludo: nella vita non dobbiamo mai perdere di vista Dio-Amore: deve essere Lui il nostro vero obiettivo, Colui che merita tutta la nostra attenzione, i nostri interessi. Il nostro vivere da cristiani, le nostre preghiere, la nostra messa domenicale, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a Lui: anche se efficaci e fondamentali, rimangono pur sempre dei mezzi; e se questi mezzi non ci fanno vivere, se non riescono ad andare oltre i semplici “riti”, se non riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente inutili. Non servono a nulla!
Così quando entriamo in chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per fare intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per consentire alla Vita di scorrere più forte e più viva dentro di noi; perché è lì, ascoltando le sue parole, pregando e parlando con Lui, che riusciremo a scoprire nuovi spazi di vita per noi e per il mondo. Perché, in questo modo, una volta usciti, ci sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare la vita: è qui fuori, infatti, nel mondo, nella società e non in chiesa, che siamo chiamati a tradurre l’Amore in gesti concreti a beneficio dei fratelli. Dio è Vita e Amore: ed Egli vive ed è presente esattamente dove noi esprimiamo Vita e Amore. Amen.

venerdì 15 agosto 2014

17 Agosto 2014 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,21-28).
Dopo l’attraversata del lago di Genezareth, Gesù si sposta in territorio pagano: Tiro e Sidone costituiscono infatti la “regione pagana” per eccellenza, e Gesù si porta in quei luoghi affinché anche i non circoncisi (cioè i non ebrei) si sentano invitati alla tavola del suo regno.
Ed è là che incontra una donna ellenica, una Cananea: gli ellenici erano la classe al potere; e anche se i Giudei li consideravano gente inferiore, in realtà erano superiori ad essi in ricchezza e benessere. Gesù quindi, dando retta ad una non-ebrea, ascoltandola e curandola, ha voluto dimostrare di essere il medico indistintamente di tutti ed è venuto per tutti, ebrei e non ebrei.
La donna dunque si rivolge a Gesù: “Mia figlia è tormentata crudelmente da un demonio”. Un approccio iniziale piuttosto perentorio, che implica una soluzione immediata da parte sua. Per questo Gesù finge di non sentirla, non le rivolge parola! Anzi di fronte alla sua richiesta si mostra indifferente, quasi crudele. In pratica le dice: “Non mi interessi; non è un problema mio! Non mi seccare!”. Un atteggiamento, quello di Gesù, che a prima vista potrebbe sembrare negativo: non ce lo saremmo aspettato, non risponde all’immagine che ci siamo fatti di lui (sempre buono, disponibile, solerte guaritore di tutti, ecc.).
La risposta di Gesù, secca e rifiutante, va però letta più in profondità: egli vuole, cioè, indicarci una delle regole comportamentali che dobbiamo sempre adottare nel nostro relazionarci col Padre: l’umiltà. Le parole della donna infatti lasciano supporre in lei la pretesa di un immediato intervento risolutore di Gesù: “se è coerente con la sua normale prassi di guarire indistintamente tutti i bisognosi, egli “deve” farlo anche nel mio caso; pretenderlo è un mio diritto”.
Niente di più sbagliato: nessun diritto da vantare, nessuna pretesa, devono insinuarsi nella mente di chi si accinge a rivolgere a Dio una preghiera, una richiesta di aiuto. Questo ci sottolinea Gesù; e questo egli sembra dire alla donna: “Guarda che le cose non stanno come tu pensi; non è questo il modo di comportarsi: Io non sono qui per obbedire ai tuoi ordini!”.
Andando poi ancor più in profondità nella nostra lettura, possiamo ricavare altre considerazioni interessanti: per esempio, la donna va da Gesù per chiedere la guarigione della figlia; ma forse è un controsenso, perché l’ammalata sembra essere più lei che la figlia; è lei che Gesù deve guarire, perché è lei che deve cambiare il suo atteggiamento “malato” nei confronti della figlia.
Gesù infatti, con la sua indifferenza, sembra confermarle esattamente ciò: “Tua figlia non è posseduta dai demoni come tu sostieni: se tua figlia è ammalata è perché fra te e lei c’è un problema di relazione. Sei tu che devi lavorare e guarire a questo proposito; non pretendere da me una soluzione magica”. E per scuoterla, Gesù arriva addirittura a offenderla: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”; in altre parole: “Tu sei un cane e niente pane ai cani!”. Anche qui i soliti benpensanti vedono una grave offesa di Gesù, che paragona ad un “cane” una donna che dimostra un grande carico di sofferenza, di dolore, di dramma, di disperazione.
Ma invece di scandalizzarci, dobbiamo chiederci: perché Gesù è così rigido, duro, “cattivo”, spietato? È proprio necessario? Ebbene sì; in certe situazioni, bisogna essere tremendamente “ruvidi”, poiché le semplici esortazioni non servono a nulla. San Benedetto raccomanda all’Abate: “percute filium tuum virga, et liberabis animam eius a perditione! – picchia tuo figlio col bastone e gli salverai l’anima(Regula). In certe casi la situazione è talmente radicata, fossilizzata, sclerotizzata che solo un violento strattone può cambiare qualcosa. In certi casi il costo del cambiamento è così alto e difficile da sostenere, la verità da vedere è così sconvolgente, che non si può andare “con le buone”, poiché per affrontare certe verità bisogna essere profondamente scossi e motivati.
Se di fronte a gravi inadempienze non reagiamo positivamente, se rimaniamo indifferenti e buoni solo perché abbiamo paura di ferire l’altro oppure perché temiamo di perdere il suo amore, allora la nostra non è “bontà”, ma solo paura, indecisione, incapacità di educare. Se amiamo veramente, sapremo affrontare per amore anche quelle situazioni più scabrose, che magari portano a conseguenze che non vorremmo ci succedessero mai.
Per sua fortuna la donna cananea capisce il comportamento di Gesù: non si ferma al “no”, né alla durezza della sua risposta. Avrebbe potuto dire: “Beh, se mi rispondi così, vuol dire che non sei il maestro generoso che tutti osannano. Un maestro caritatevole non risponderebbe così, non si permetterebbe mai di trattare i bisognosi in questo modo”. Lei insomma non fa l’offesa, capisce la lezione; e questo la salva: “È vero Signore, il pane dei figli non va gettato ai cagnolini, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Improvvisamente la sua presunzione cade: lei è pagana, ricca, ha cibo e pane in abbondanza, contrariamente ai Giudei che soffrono la fame; essi però dispongono di un “altro” pane, hanno la Salvezza, hanno Gesù dalla loro; e lei, ricca, no. Per questo anche lei, come un cagnolino, aspira ad avere da Gesù almeno le briciole, di poter anche lei aspirare alla salvezza, esattamente come loro. Lei soffre per la mancanza “di questo pane”; è una necessità che finalmente la pone allo stesso umile livello di tanti altri “affamati”. A questo punto la donna non vede più solo se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio disagio, ma si accorge che anche altri, forse proprio a causa sua, soffrono e stanno male.
Questo vangelo ci deve aiutare a non assolutizzare il nostro male, il nostro dolore, i nostri problemi, per non essere come quella donna che vede solo il suo dolore, e non vede quello degli altri, quello di chi giornalmente è trattato con ingiustizia. Dobbiamo imparare a guardare a tutte le sopraffazioni che capitano nel mondo, senza fermarci solamente su quelle che capitano a noi.
C’è poi ancora qualcosa che deve farci veramente riflettere. La figlia della donna è malata, ma Gesù non guarisce la bambina. Gesù non la tocca nemmeno, non si comporta come in tutte le altre guarigioni, addirittura neppure la vede. Ammalata è la figlia, ma lui guarisce la madre.
Ti sia fatto come desideri”, cioè: “Si realizzi in te ciò che tu desideri nel profondo del tuo cuore; tu conosci la verità; sei tu che soffri perché ti manca qualcosa; e allora si avveri in te questo qualcosa che tu, in tutta sincerità e umiltà, speri avvenga”. Parole che ci confermano che la “malattia” della figlia è la madre: è lei che, con il suo modo di rapportarsi con la figlia, l’ha resa invalida, l’ha resa in condizioni precarie. E Gesù, che aveva capito il problema, con le sue parole fa pensare all’esistenza di una situazione familiare ben più complessa. Ovviamente non siamo in grado di conoscere le vere problematiche di questa famiglia; possiamo però risalire ad alcune eventualità.
Prima di tutto il testo non fa riferimento all’esistenza di un padre. Il padre, nella famiglia, ha il compito di staccare il figlio dalla fusione con la madre. Nei primi anni di vita è la madre il centro della vita del figlio: lei è accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente (e per fortuna!) il figlio si attacca alla madre. Poi interviene il padre che gradualmente stacca il figlio da questo legame “unico” madre-figlio, in modo da consentirgli di fare la propria vita, di intraprendere la propria strada. Ma qui il padre non c’è. Dov’è? Non sappiamo. Ma sappiamo che quando il padre non c’è, il figlio si trova in una posizione difficile: da una parte sente il richiamo della vita ad andare, a lasciare la casa, dall’altra sente il dolore della madre che si ritrova sola se lui se ne va. Se ci fosse il padre, questi potrebbe sostenere la propria madre, ma non c’è. Se ci fosse, il papà potrebbe insegnargli l’autonomia, l’andare nel mondo. Ma non c’è.
Ciò che insegna un padre non può essere insegnato dalla madre e ciò che insegna la madre non può essere insegnato dal padre. Altrimenti nostro Signore non ci avrebbe dato due genitori se ne bastava solo uno. Quello che un genitore non fa, non può essere fatto dall’altro. Il padre dona l’energia e i valori maschili (se li ha!) e la madre l’energia e i valori femminili. Ogni mancanza non può essere compensata dall’altro. Ci si prova, ma con risultati sempre insufficienti. Ogni mancanza crea inesorabilmente uno squilibrio, checché se ne strombazzi oggi con tanta squallida sicumera (sedicenti “famiglie” composte da due madri, da due patri ecc.!)
Quindi, tornando al vangelo, se in quella famiglia il padre non c’è, allora potremmo pensare che si tratti di una donna che ha investito tutta la sua esistenza sulla figlia; una donna che ha cercato di supplire chi non c’è; una donna che non vive neppure la propria vita, tanto è presa dalla figlia. Il “demonio” che opprime la figlia, allora, sarebbe per assurdo la stessa madre che vive maniacalmente solo in funzione della figlia: troppo amore è infatti talvolta fatale quanto e forse più della mancanza d’amore.
Altro particolare: la donna, riferendosi alla figlia, la definisce “mia”: un termine possessivo, che esprime una proprietà esclusiva. La donna sente che sua figlia è il prolungamento di se stessa, la sente sua, sente che la figlia continuerà o farà ciò che lei non ha fatto o vissuto, e quindi rimette in lei tutte le sue più intime aspettative, i sogni che non sono mai diventati realtà. Usa la figlia per sé, per dimostrare la sua rivincita nei confronti della società.
Più sotto infatti viene chiarito questo concetto: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. È chiaro: la madre non nutre la figlia come dovrebbe, come ne avrebbe bisogno. Siamo nella situazione opposta alla precedente. La “malattia” della figlia non è nient’altro che la sua protesta per la “fame” d’amore che la tormenta. La madre ha altri “cagnolini” a cui gettare il suo amore; la madre è troppo presa da sé, dalle sue paure, dal dover apparire una brava madre, e non rifornisce sufficientemente la figlia di amore autentico.
La madre ha bisogno del lavoro per realizzarsi, ha bisogno dello shopping, di trovare degli svaghi, delle compensazioni, perché non trova soddisfazione dall’essere madre. Ha bisogno forse di farsi bella, di apparire sempre giovane e attraente. In ogni caso, toglie il pane dell’amore alla figlia che ne rimane senza. Per questo la figlia protesta: ha fame d’amore. Tutto qui.
Ciò che è chiaro in entrambi i casi è che la figlia soffre perché la madre non la nutre secondo il suo bisogno. Ciò che è chiaro è che la figlia sta male perché la madre si rapporta con lei in maniera non sana.
Per risolvere la situazione Gesù, infatti, non cura la figlia ma la madre. Quando la madre è curata, la figlia guarisce: “Da quell’istante sua figlia fu guarita”.
Ciò che è meraviglioso in questo è che la donna riconosce la verità: “Sì, è vero, tutti hanno bisogno di cibarsi d’amore. Nessuno può rimanerne senza, neppure i cani. E io forse, senza volerlo, ho trascurato mia figlia”.
A volte noi genitori abbiamo bisogno di sentirci dei genitori perfetti. Un figlio è la cosa più cara che abbiamo (il nostro mito e il nostro modello) e tutti noi vorremmo che ci dicesse: “Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno dato tutto e non hanno sbagliato in niente”.
In realtà nessun genitore, nessun educatore, nessun maestro è perfetto, perché la vita è per se stessa imperfetta. Quando ci accorgiamo che i nostri figli soffrono a causa nostra, ci sentiamo in colpa e dentro di noi neghiamo decisamente questa verità. Non accettiamo di essere imperfetti. Se accettassimo che diamo già un sacco d’amore ai nostri figli, che facciamo tutto quello che possiamo, quello di cui siamo capaci, quello che siamo in grado di fare, allora potremmo anche accettare di fare degli errori, e non sarebbe così grave.
Potremmo accettare che a volte non li nutriamo e non incontriamo i loro veri bisogni, certi comunque che possiamo cambiare, e che comunque sono figli della Vita. Potremmo accettare che a volte pensiamo più a noi che a loro, ma che l’importante è esserne consapevoli. Potremmo accettare che il nostro amore non è sempre amore, e lo dobbiamo pertanto elevare.
Per tutto questo dobbiamo guardare con profondo rispetto e stima a questa donna, perché ha saputo riconoscere il proprio errore: e per questa sua umiltà la figlia è stata salvata, e lei stessa è guarita. Ecco: dobbiamo imparare da lei. Amen.