giovedì 17 luglio 2014

20 Luglio 2014 – XVI Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò.» (Mt 13,24-43).
È la parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non l’abbiano capita, ma perché non vogliono capirla così com’è, non sono cioè d’accordo con Gesù. Infatti, è una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta una realtà di difficile gradimento.
C’è un uomo che ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico di notte semina la zizzania. La zizzania è una graminacea - molto simile al frumento e quindi impossibile da distinguere finché non arriva a maturazione - i cui grani nerastri sono tossici e hanno un effetto narcotizzante. Il riferimento al male è evidente. È naturale che la prospettiva dei buoni (i discepoli) di dover convivere con i cattivi (i “nemici”di Gesù) non è condivisa dai primi. Sarebbe preferibile metterli immediatamente fuori causa. Ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) a priori, sul nascere, si corre il grosso rischio di estirpare anche il grano, poiché le radici di entrambi gli elementi sono strettamente intrecciate l’un l’altra. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; e soprattutto “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va coltivato e cosa no.
Praticamente, con questa parabola, Gesù mette in guardia gli apostoli dalla tentazione, sempre presente in ogni comunità religiosa, da che mondo è mondo, di sentirsi gli autentici rappresentanti della buona novella, i soli protagonisti, cioè, in grado di formare un gruppo di eletti, di gente superiore, di elementi migliori,che pensano di essere i soli meritevoli della “salvezza”. Dio però, dice Gesù, non fa queste differenze, non divide i buoni dai cattivi; Egli “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”.
Per tutta la sua vita Gesù ha infatti combattuto contro questa “presunzione”, contro quelli che si ritenevano giusti, bravi, buoni e che condannavano tutti gli altri come peccatori, come gente persa, sbagliata, da convertire o da condannare. Farisei, scribi e maestri della Legge erano davvero maestri in questo: ma la stessa tentazione iniziava ad insinuarsi anche fra gli apostoli, proprio perché, seguendo il maestro da vicino, si ritenevano in qualche modo superiori agli altri, più degli altri, e rischiavano di cadere nello stesso errore.
Un errore, questo, una ideologia, che ha avuto grande seguito nei secoli successivi, con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, quanti “difensori” della fede e di Dio hanno ucciso, condannato, fatto guerre per estirpare il male, gli “eretici” del mondo? La fanatica volontà di fare il bene a tutti i costi, di eliminare ogni male, ha creato guerre sante, rivoluzioni, epurazioni, stermini razziali, camere a gas, inquisizioni, la caccia alle streghe e le peggiori crudeltà. Una religione che si ritenga superiore alle altre è una religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità crea inferiorità, crea pregiudizi, condanne e divisioni: buoni e cattivi, gente salvata e gente condannata. Ma Dio, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha mostrato un Dio come questo; anzi Lui è venuto per tutti, per salvare tutti, proprio tutti.
Cosa suggerisce allora, in particolare, questa parabola a noi, discepoli di oggi? Che quel campo siamo noi, e che nel nostro campo, nella nostra vita, convivono grano e zizzania. È un dato di fatto. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di essere soltanto grano scelto. Siamo purtroppo anche zizzania, a volte della peggiore, e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci e amarci anche nei nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo predisporre la mietitura finale.
“Sei grano e zizzania”, ci conferma Gesù. “Se vuoi essere solo grano ed estirpare tutto il non-bene che c’è in te, non ti rimarrà niente di niente. Accettati con le tue potenzialità, con i tuoi doni, con le tue risorse, ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Quindi, non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in assoluto”.
Gesù, con questa parabola, vuole infatti rispondere a tutti i perfezionisti, a tutti coloro cioè che pretendono e cercano in loro stessi il puro bene, il puro amore, la pura fede, la pura preghiera: tutte cose che da sole, divise dal male, dalla debolezza, dalla caducità umana, non esistono.
Per questo motivo dobbiamo individuare bene in noi, quale tipo di perfezione stiamo cercando. È importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la volontà di Dio; un altro è mirare alla perfezione (=“fare-per, fare-per-uno-scopo”) da “perfezionista”, avendo cioè come risultato, quello di soddisfare sempre più il nostro “ego”, aumentando a dismisura la nostra autostima, attraverso il riconoscimento e l’ammirazione degli altri. Il perfezionista, peraltro, è monolitico: divide il mondo in buoni e cattivi. Punto. Non ci sono mezze misure per lui. La sua vita è continuamente sotto stress, in ansia; le sue vertiginose aspirazioni lo fanno sentire incompleto, insoddisfatto, perché in ogni caso la sua ricerca è volta al finito, non all’infinito, a Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato solo all’esterno: non si chiede mai cosa gli comanda la sua coscienza, cosa gli suggerisce il suo cuore e, soprattutto, cosa gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
Perfezione, per noi cristiani, è dunque attuare, concretizzare nella nostra vita, in semplicità e umiltà, quel progetto che Dio ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma fatto a nostra misura, che tiene conto di tutti i nostri difetti, di tutte le nostre miserie, di tutte le nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio da persone nient’affatto perfette: peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli non teme i nostri errori; Egli teme invece quando noi partiamo per la tangente e, insofferenti del nostro stato (un mix di grano e zizzania), vogliamo diventare “perfetti” oltre ogni misura, pretendendo di estirpare da subito la zizzania, stravolgendo la nostra “umanità”.
Un santo monaco raccontava in proposito: «Un giorno anche il demonio volle provare a creare un uomo. Disse: “Voglio creare un essere perfetto, bello, puro, incontaminato dal male e dal negativo”. Ma dopo averlo creato lo guardò e iniziò a dubitare. Aveva gli occhi e poteva vedere le nudità delle donne: “Oddio, che pericolo”, disse tra sé. Così glieli tolse. Ma aveva anche le mani e avrebbe potuto usarle per derubare i suoi simili, uccidere e ferire: “Oddio che rischio”, e gliele tolse. Ma poi si accorse che aveva la mente: e la mente può essere ancor più crudele, può ingannare, può essere menzognera, può organizzare crudeltà immani. E così per sicurezza gliela tolse, e per essere sicuro e non sbagliare gli tolse tutta la testa, “perché non si sa mai!”. Infine si accorse che l’uomo aveva un cuore: “Oddio!”, questo era veramente il pericolo più grande. “Un cuore!? Con il cuore può lasciarsi andare alle passioni, può lasciarsi trasportare dall’ira, può innamorarsi di persone sbagliate, può amare in modo perverso. È troppo pericoloso il cuore. Per il suo bene glielo devo togliere”. E così glielo tolse, e dell’uomo non rimase nulla, proprio nulla. Per salvarlo, l’aveva ucciso».
L’uomo “perfetto” dunque non esiste: tutti noi siamo esposti ad ogni tipo di prova: l’importante è superarle e trasformarle tutte in opere d’amore.
Dopo la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli sorrise, ma con un velo di tristezza gli disse: “È vero, ma sono anche vuote”.
Allora non perdiamo tempo ad angustiarci per non essere puri, immacolati, senza ombra alcuna. Accettiamo umilmente la nostra debolezza, la nostra imperfezione; concentriamoci piuttosto sul nostro “grano” da coltivare e far comunque crescere. Ecco, questo è l’importante; perché possiamo fare un sacco di bene, possiamo mirare alla perfezione, anche se nella nostra vita, nel nostro campo, c’è tanta, ma tanta “zizzania”! Amen.

giovedì 10 luglio 2014

13 Luglio 2014 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…» (Mt 13,1-23).
Siamo nel capitolo 13 di Matteo, il capitolo cosiddetto “delle parabole”. Che succede qui esattamente? Gesù parla in “parabole”, servendosi cioè di storielline tratte dalla vita reale, dalla vita di ogni giorno, perché in questo modo gli riusciva più facile (e gli riesce ancora oggi) far capire i suoi profondi insegnamenti anche alla gente più umile e culturalmente sprovveduta: la parabola infatti può essere giudicata puerile, un po’ stupida, da chi si ritiene “superiore”, da chi la accantona a priori, non volendo lasciarsi coinvolgere; ma è profondissima e comprensibilissima per chi vi entra dentro con il cuore; se non la capiamo, vuol dire che il nostro cuore è chiuso, è ottuso: è perché non la vogliamo capire. “Chi ha orecchi intenda”: c’è tanta luce per chi vuol vedere, e tanto buio per chi non vuol vedere.
Per ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo: dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a regolare in esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene: la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge sul terreno la semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo è la strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire. Il secondo è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente una protezione per quella parte di seme che cade sulla poca terra che li ricopre; ma in fretta il seme inaridirà; in realtà i sassi rappresentano i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria; sono le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere, ma ancora debole, viene soffocato da tutta una serie di elementi esteriori. Infine c’è il quarto terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto in tutta la sua potenzialità.
Bene: noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che, nonostante tutto quello che ho fatto, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato, ma non è successo assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è altrettanto vero che c’è sempre una piccola parte che nasce, cresce, e col tempo matura. Quindi di fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè essere certi che il nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un risultato consolante.
Possiamo poi entrare nella stessa parabola mettendoci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno sono nato? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi, sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora: “che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In che cosa devo crescere, cosa devo far vivere, sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella che è solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? Qual è il mio carisma?” È molto importante conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo che non si distingue dagli altri è soltanto una fotocopia, è la copia di un qualcosa che già c’è: è quindi inutile.
Del resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo infatti dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare, presente solo in alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un seme per nascere deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una nostra risposta!
C’è infine una terza possibilità nel leggere questa parabola: quella cioè di metterci dalla parte del terreno. E allora le domande da porsi sono: “Che terreno sono io?”. Che tipo di terreno penso di essere?” Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme), ciascuno di noi (il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo per esempio questo principio a tutti coloro che si avvicinano a questo “commento”: è impossibile che esso produca per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati, alleggeriti in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno come prima: vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene fatta alle persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale?”. Sono il terreno “sassoso”.
Altri ancora saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero tanto poterle adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, è troppo forte e invadente: “Ma credi ancora a queste cose? Ma sì, è uno che parla tanto, ma non tiene conto che la vita è un’altra cosa”. E così il mini germoglio appena nato, morirà. È il terreno “con le spine”.
Può darsi infine che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo Spirito di Dio, escano da questa pagina completamente rinnovati; in futuro non saranno mai più come sono entrati. Il motivo? Perché hanno riconosciuto in queste povere parole la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo stesso testo di commento, lo stesso passo del vangelo, hanno ottenuto risultati diversi: perché sono le persone a non essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma le credenze, le chiusure, i blocchi, i pregiudizi delle persone no. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno. Il seme di Dio, uguale per tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del terreno che lo accoglie. Ciò che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se noi riconoscessimo di essere insieme tutti e quattro i terreni di questa parabola? Allora essa ci aiuterebbe comunque ad affrontare e ad accettare, oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti). Non dobbiamo pensare di essere dei falliti, guardando ai frutti negativi prodotti dalla nostra vita; perché i pochi risultati positivi sono già sufficienti a dare un senso a tutta una vita.
E concludo: Gesù ci accoglie e ci ama anche se non portiamo frutto in ogni settore della nostra vita. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente aridi. Dobbiamo certo provare continuamente a migliorare, ad essere più accoglienti, ma non pretendiamo la perfezione in assoluto: perché anche una piccola parte sana, una piccolissima parte fertile e fruttifera della nostra anima, deve bastare ad infonderci coraggio, a farci guardare avanti con fiducia e umiltà: non deprimiamoci, non rinunciamo a combattere: perché la nostra vita ha comunque un senso, ha comunque uno scopo, nonostante i nostri fallimenti, i nostri insuccessi, le nostre aridità. Una piccola fecondità (un terreno su quattro) - ci insegna il vangelo - è già di suo una grande fecondità. Amen.

mercoledì 2 luglio 2014

6 Luglio 2014 – XIV Domenica del Tempo Ordinario

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza… Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro… imparate da me, che sono mite e umile di cuore…» (Mt 11,25-30).
In queste parole possiamo cogliere un’esplosione di gioia di Gesù, un momento di commozione, di illuminazione, di consapevolezza, di stupore, di giubilo. Succede così quando, nel dubbio, nel buio, nell'oscurità interiore, tutto improvvisamente ci diventa chiaro. Fino a poco prima non riuscivamo a capire nulla; poi in un istante, all’improvviso, tutto diventa comprensibile, semplice, alla nostra portata.
Il contesto da cui è tratto il testo di oggi, ci dice che Gesù è triste, si trova in un momento di profonda delusione per la diffidenza di chi gli stava vicino: fa trasparire il volto umano di Gesù, che, come succede spesso a tutti noi, non capisce e non si dà spiegazione di certi comportamenti.
Egli fa il bene ovunque si trova, insegna ad amare, a non giudicare, porta accoglienza e dignità soprattutto dove non sono mai state sperimentate, guarisce, libera, aiuta ciascuno a ritrovare il proprio volto deturpato dalle ferite della vita, a ritrovare il senso di una strada persa o mai trovata, a ritrovare la gioia, l’emozione di vivere: e come risposta la gente lo rifiuta, gli gira le spalle, lo accusa, lo attacca, gli si scaglia contro come se fosse il peggiore dei nemici.
Del resto, ripeto, è una situazione molto comune, una situazione in cui viene naturale anche a noi chiederci: “Cos’ho fatto di male?”. In realtà, nulla.
Ma è proprio in tale situazione che a noi umani è richiesto un primo salto di qualità nel nostro cammino spirituale: dobbiamo cioè passare dal fare ciò che facciamo, aspettandoci il riconoscimento degli altri, al farlo come risposta ad una specifica chiamata di Dio, il cui campo di esecuzione avviene nella riservatezza e nell’umile nascondimento del proprio io.
Consapevoli di operare per la sola gloria di Dio, non dobbiamo dimenticare le parole che Madre Teresa diceva a questo proposito: “Quando fai il bene, gli altri diranno che lo fai per motivi egoistici, per secondi fini, ma tu continua a farlo. Quando hai successo nel bene, ti fai dei falsi amici e dei veri nemici, ma tu continua ad averlo. La sincerità e la franchezza ti rendono vulnerabile, ma tu continua ad essere sincero e franco. Quel che hai costruito in anni di lavoro può andare distrutto in una notte, ma tu continua a costruire. Del tuo aiuto c’è realmente bisogno, anche se la gente ti attacca proprio quando l’aiuti; tu però, aiutala ugualmente. Da’ al mondo il meglio di te; ti tratteranno a pesci in faccia, ma tu continua a dare il meglio di te”.
Purtroppo, al contrario, quando non abbiamo un motivo valido per vivere, quando sentiamo che la nostra vita è inutile o quando, semplicemente, non siamo in grado di reggere le difficoltà del cercare la verità, del trovarla di persona, succede che ci vendiamo a qualche ideologia; troviamo cioè motivazioni pseudo religiose che ci esaltano a livello umano, portandoci a condurre una vita che pensiamo sia meritoria, nobile, retta e santa. E non ci accorgiamo che così facendo, gratifichiamo soltanto il nostro amor proprio. S. Teresa d’Avila diceva: “Dio ci liberi da quelli che vivono in un certo modo credendo di essere dei santi; se quei tizi non fossero così fermamente convinti di essere santi, sarebbe molto più facile convincerli del contrario!”.
Ciò che stupisce nel vangelo di oggi è la reazione di Gesù: in una situazione di profonda delusione, di scoraggiamento, lui – invece di recriminare - innalza un inno alla vita e si lascia stupire da ciò che il Padre fa. Egli non cade nella trappola del negativismo: vede il male, vede l’ottusità e l’oscurità della gente, ma sa vedere soprattutto il bene e la meraviglia che comunque c’è nel mondo.
C’è il male nel mondo? Certo, e più cerchiamo, più ne troviamo. C’è il bene nel mondo? Certo, e più cerchiamo, più ne troviamo. C’è negatività nel mondo? Oh sì tantissima, e più la cerchiamo, più la troviamo. C’è positività nel mondo? Oh sì, tantissima, e più la cerchiamo, più la troviamo. Tutto quindi dipende dai nostri occhi, da cosa vediamo. Cosa cerchiamo esattamente? Perché alla fine vedremo e troveremo soltanto ciò che noi “vogliamo” vedere e trovare: nient’altro.
Quando ci guardiamo allo specchio, cosa vediamo? Se pensiamo di riflettere un bel sorriso con i denti allineati, una pelle perfettamente liscia e tonica, magari non li troviamo. Ma se vogliamo cercare le rughe, le troviamo tutte. Quando guardiamo nostro figlio cosa vediamo? Se vediamo che non si è laureato, che non si è affermato come noi volevamo, ci sentiamo profondamente delusi e ci diciamo che, come genitori, abbiamo fallito. Se guardiamo invece che sta crescendo con sani principi, che affronta apertamente e con grande forza interiore le contrarietà della vita, che fa con entusiasmo e in piena libertà le sue scelte, allora non possiamo che gioire ed essere orgogliosi di quel nostro figlio. Perché noi troveremo sempre ciò che cerchiamo.
Lo stesso succede con quello che ci succede nella vita: una crisi, una malattia, può essere un dramma, ma anche una grande occasione di riscatto. Niente è veramente negativo; tutto dipende dai nostri occhi. L’essere pessimisti oppure ottimisti non dipende da ciò che ci succede intorno, all’esterno, ma da ciò che noi abbiamo dentro.
Una buona fortuna? Una cattiva fortuna? Chi lo sa? Lasciamo fare alla Vita.
Ciò che Gesù sta vivendo per colpa della gente non è affatto bello né tantomeno gratificante. Eppure tutto questo non gli impedisce di tenere un cuore capace di stupirsi, di meravigliarsi, di cantare, di gioire, di sorridere e di amare. Con l’aria che “tirava attorno” non c’era poi tanto da ridere: eppure Gesù era capace di sorridere, era capace di tenerezza, di abbracciare, di cantare, di stupirsi e di benedire.
Non permettiamo che i fatti della vita induriscano o inacidiscano il nostro cuore. Teniamolo vivo; teniamolo libero.
Fare esperienza di Dio è una cosa talmente grande, così sublime, che l’unico sentimento che possiamo trovare è lo stupore: “non ho parole…!”. “Mistica” infatti, dal greco miein, vuol dire proprio questo: “Non ci sono parole, è troppo grande”. Ebbene, lo “stupore” è il poter vedere la forza e la bellezza della vita, al di là di ciò che ci succede, al di là di ciò che ci sembra. Lo stupore è una questione di fede: vediamo i problemi, le difficoltà, il negativo, ma non permettiamo che tutto questo distrugga ciò che siamo, la nostra felicità, la nostra serenità; soprattutto distrugga il Dio che abita dentro di noi.
Lo “stupore” è fare l’esperienza che c’è un di più che ci supera, e lasciare che questo di più ci entri dentro. Non è il saperlo con la mente, ma il lasciarsi coinvolgere con il cuore. I bambini vivono di questo.
I bambini infatti non sanno che la mamma li ama, lo “sentono”. I bambini guardano una foglia, le stelle, un gatto: e dietro tutte queste cose vedono un mistero: e si stupiscono, sorridono, e amano.
Un giorno chiesero ad Einstein quale fosse la forza che lo aiutava nel suo continuo studio. Rispose: “L’unica forza che mi spinge nella vita e nel lavoro, è lo stupore, la meraviglia che trovo di fronte alla natura”. Una tradizione araba dice che “il mondo non finirà, fintantoché ci sarà anche un solo uomo che, alzandosi al mattino, guarderà il sole e loderà Dio per questo”.
Lasciamoci stupire da quello che ci circonda! I mistici talvolta dicevano: “Signore sono talmente pieno di gioia che potrei morire”. La vita, dono di Dio, è talmente bella, grande, colma, ricca, entusiasmante che, anche quando a volte è tragica, merita comunque di essere vissuta pienamente e con riconoscenza.
Se noi lasciamo che il volto, il cuore di nostra moglie ci entri dentro, allora la vita è amore. Se lasciamo che il cielo, le stelle, ci entrino nel cuore, allora la vita è piena. Se lasciamo che la passione per una giusta causa ci invada, allora la vita è significativa. Se ci lasciamo toccare dalle parole di un uomo, allora sentiremo che la vita è comunione. Se ci lasciamo toccare dal pianto, dalla sofferenza di un uomo, allora sentiremo che la vita è umana. Se ci lasciamo toccare da ciò che vediamo, da ciò che sentiamo, da ciò che succede, allora certo non capiremo Dio - perché nessuno lo può capire - ma sapremo che lui c’è. Se viviamo così, ricevendo, accogliendo, imparando, allora la vita sarà sempre ricca, sarà sempre piena, sarà sempre colma, sarà sempre leggera: e vivere sarà decisamente bello.
Gesù, con le parole di oggi, si rivolge a tutti gli affaticati e gli oppressi. Chi erano? “Affaticati e oppressi” erano tutti quella povera gente che non riusciva a sostenere il culto pesante della legge ebraica, con le sue prescrizioni, le sue decime (per i poveri era praticamente impossibile essere bravi religiosi). Ai nostri giorni “oppressioni” possono essere tutte quelle false “costrizioni” religiose a cui ci siamo incatenati; costrizioni che non ci lasciano amare, che dopo certi errori ci condannano inesorabilmente. Ebbene, proprio perché siamo “oppressi” da tutte queste nostre “infatuazioni” formali, proprio perché esse ci condannano, ci costringono, Gesù ci chiama per andare da lui. E Lui ci accoglie, perché aspetta proprio noi, gli “oppressi”.
E tutti in qualche modo siamo oppressi: per alcune persone, oppressione è il non riuscire a venir fuori da certi tunnel. Un uomo, per esempio, non riesce a smettere di bere: ci sta provando davvero, ce la mette tutta; per un po’ ce la fa, ma alla prima frustrazione ci ricade. La sua volontà è inefficace, forse perché troppo ferita. Allora si sente indegno di Dio. Ma Dio accoglie proprio tutti gli affaticati e oppressi.
Per altre persone, oppressione è il pretendere l’impossibile da se stessi. Una donna è stata abbandonata dal marito, ha due figli adolescenti, e non è facile educarli da sola. Lei ci prova ma si accorge che non ce la fa, si accorge che per il suo carattere le è impossibile essere dura di fronte a certe scelte dei figli. Allora si addossa tutte le colpe e si sente una cattiva madre; è oppressa da questo peso; ma Gesù che la conosce e vede tutto il suo impegno, la chiama a sé, perché non si giudichi troppo e sia contenta di tutto quello che fa.
Gesù è la casa di tutti quelli che faticano a vivere, di tutti quelli che si sentono feriti, di tutti quelli che sono oppressi da pesi e dolori grandi.
E allora, quando ci sentiamo così, andiamo da Gesù. Lui è sempre pronto ad accoglierci; da Lui potremo trovare sempre un po’ di pace e di ristoro. Andiamo da Gesù: urliamogli tutto il nostro sdegno, le nostre amarezze, le nostre difficoltà. Andiamo da Gesù e sfoghiamo la nostra rabbia; urliamo il nostro peso, piangiamo il nostro dolore, gridiamogli l’ingiustizia degli uomini. Lui ci ascolterà; ci darà forza per andare avanti e luce per trovare altre soluzioni. Amen.

mercoledì 25 giugno 2014

29 Giugno 2014 – Ss. Pietro e Paolo

«…Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-19).
Oggi la chiesa celebra la festa dei santi Pietro e Paolo, che furono le colonne portanti della prima chiesa. La loro forza fu quell’incontro personale con Gesù, fatto da Pietro sulle strade della Galilea e da Paolo sulla via di Damasco: lo videro di persona, lo incontrarono, furono due innamorati di Dio.
Per incontrare Dio, per essere anche noi innamorati di Lui, dobbiamo cercarlo, averne bisogno, ritenere prioritario il suo incontro. Ritenere di non poter stare senza di Lui perché Lui è la Vita, perché Lui è Tutto.
Il motivo principale per cui non troviamo Dio è che non lo desideriamo ardentemente. Le nostre vite sono piene di troppe cose “altre”, sono affollate da tanti altri pensieri e, non nascondiamocelo, tutto sommato stiamo bene anche senza Dio.
Diciamocelo: per molte persone, nella quotidianità dell’esistenza, che Dio ci sia o che non ci sia, non è poi così importante, non cambia poi molto, non ha molto peso. Diventa importante solo quando ci troviamo in situazioni limite: quando stiamo crollando o siamo ammalati, quando stiamo soffrendo, quando muore qualcuno a noi vicino, quando siamo vuoti o depressi. Ma prima? Dov’era, prima, Dio per noi?
Il vangelo ci dice che a Pietro e agli altri discepoli Gesù, ad un certo punto della sua vita, pose una domanda centrale: “Chi sono io per voi?”. Bella domanda: anche noi oggi possiamo chiederci tante cose su Gesù: “Cosa dice il catechismo su di Lui?; cosa dicono gli esperti e i preti su di Lui?; cosa se ne dice in giro?”. Possiamo giustificare la nostra “ignoranza” dicendo che non abbiamo studiato, che non siamo esperti, che non ne sappiamo molto. Ma sono solo giustificazioni, perché Gesù con quella domanda, in pratica vuol dirci: “Tu, personalmente, in che misura vuoi lasciarti coinvolgere da me?”. È una domanda che non esige tanto una risposta teologica, da catechismo, giusta e corretta: esige semplicemente una nostra scelta di vita.
Vuole che ci lasciamo coinvolgere totalmente, contagiare nel più profondo del cuore: “Tu sei il Figlio di Dio, quello Vivente”. Cioè: “Tu sei colui che dà vita, che dà senso, significato, pienezza, unità alla mia vita. Senza di te nulla ha senso. Tu sei ciò che mi rende vivo. Senza di te sono morto”.
Quando infatti chi ci ama ci chiede: “Chi sono io per te?”, è chiaro che non intende chiederci se conosciamo i suoi dati anagrafici; ma ci chiede se lo amiamo, se siamo felici di stare con lui, se siamo disponibili a fare con lui la strada della nostra vita”.
Gesù non chiede a nessuno se conosce il catechismo a memoria; ma soltanto: “Con la tua vita, sei pronto a stare con me? Ti va di seguirmi? Ti va di mettere tutto il tuo mondo in gioco insieme a me?”.
Pietro, Paolo, e tutti gli apostoli, con il loro comportamento, con la loro vita, hanno praticamente risposto alla domanda di Gesù più o meno in questo modo: “Beh, caro Gesù, in effetti noi non ti conosciamo a fondo, non sappiamo bene neppure chi tu sia. Però una cosa sappiamo molto bene: che prima eravamo morti, mentre adesso viviamo. Prima vivevamo trascinando stancamente i nostri giorni, mentre ora ci sentiamo pieni di vita, vibranti, entusiasti, intensi. Prima eravamo pieni di paure, adesso con te siamo disposti ad affrontare qualunque cosa. Prima temevamo il giudizio della gente, adesso con te niente e nessuno ci fa più paura. Pertanto, secondo noi, tu vieni proprio da Dio, perché solo Dio può fare queste meraviglie. Noi vogliamo vivere con te, perché solo con te abbiamo sperimentato la vera vita”.
Questa risposta non è frutto di ragionamenti, di sofismi, di elucubrazioni mentali, dell’aver studiato molto o dell’aver fatto molto incontri. Questa risposta è il frutto di persone che hanno fatto una scelta seria, ponderata, definitiva; di persone che quotidianamente, con i fatti, continuano a mettere generosamente in gioco la loro vita.
Le grandi scelte non sono mai logiche: sono illogiche, sono contro la logica e il ragionamento umano: si pongono su di un altro piano, sul piano del cuore, della passione, dell’amore, dell’intensità.
Quando Dio ci chiama, il cuore dice “Sì”, e si slancia con tutto l’entusiasmo che ha dentro di sé. Mentre invece la mente: “Calma, fai attenzione! E se ti sbagli? E se poi non ce la fai? Chi ti assicura che questa sia la scelta giusta, ecc.?”. In genere, prima di una decisione importante, la nostra testa è portata a calcolare le eventuali possibilità di errore, i vari rischi che una tale scelta comporta. Ma il cuore non ragiona così: se si sente attratto, il cuore decide di andare. Poi, con calma, studierà anche la strada da percorrere. E la trova sempre! Il nostro raziocinio si preoccupa sempre di trovare l’obiettivo, la meta, perché pianificare e sapere dove andare ci infonde sicurezza. Ma il cuore non segue la strada del raziocinio; basta un impulso, una spinta, uno slancio, perché decida immediatamente che quella è la sua strada: “Per di qua”. E lui va: a tutto il resto ci si penserà dopo.
Pietro ad un certo punto si rende conto che in quell’uomo, chiamato Gesù, c’è veramente qualcosa di grande, di immenso, di divino. Non si tratta più dunque di pensarci, di valutare, di ragionare, di fare un bilancio guadagni/perdite: si tratta di fidarsi, di seguire l’intuizione e la vibrazione del cuore e di seguirlo. Non fu una scelta logica quella dei discepoli di seguire Gesù. Tant’è che dal punto di vista della gente, essi erano dei pazzi scatenati. Del resto pensiamo solo un attimo: seguivano uno che era convinto di essere lui stesso Dio, visto che si proclamava figlio di Dio! Noi oggi, gente come quella, la interneremmo tutta in cliniche specializzate! Hanno abbandonato su due piedi casa, lavoro e famiglia per andare dietro ad un esaltato, con idee rivoluzionarie, che si era messo contro tutti quelli di buon senso. E perché ci andarono? Perché avevano capito che Lui era il Vivente. Perché sentivano che con Lui vivevano, con Lui avevano scoperto cos’era la passione vera. Pietro e Paolo si buttarono, e non furono mai più li stessi. Mai più. Quella fu la svolta determinante della loro vita. Puntarono tutto su di Lui, e basta!
Questo è fondamentale anche per noi: ad un certo punto, dobbiamo prendere una decisione; dobbiamo cioè decidere cosa dobbiamo fare della nostra vita, se seguire il cuore o la mente. Se seguire cioè i nostri ideali, lottare per essi, pronti a pagare qualunque prezzo per tale scelta, oppure seguire la ragione, il “buon senso”, la strada larga e rassicurante dei più. Ad un certo punto dobbiamo avere il coraggio di salpare con decisione verso il mare aperto, anche di fronte alla possibilità di naufragare; altrimenti continueremo a stare sempre fermi, ancorati in porto.
Dio è un incontro-scontro, è un’esperienza che ci avvolge, ci travolge, ci stravolge. Non siamo più noi. Dopo l’incontro con Lui nessuno potrà mai più essere se stesso. Simone divenne Pietro, Saulo divenne Paolo.
Penso sia per questo che molti temono incontri personali e profondi con Dio. È più facile “dare qualcosa” a Dio: una preghierina, un’offerta, un gesto, una buona azione. Ma “darsi” (cioè donargli tutta la vita) è un’altra cosa; seguirlo fedelmente, poi, è ancor più impegnativo!
Gesù dice: “Beato te, Simone, perché il Padre mio, che sta nei cieli, te l’ha rivelato”.
La fede di Pietro non è il frutto di uno studio approfondito, sistematico, analitico. Queste risposte non si danno perché si è intelligenti, perché si è esperti in teologia; si danno perché si è entrati col cuore dentro al “mistero”. L’amore infatti ha ragionamenti, risposte, modi di vedere e di considerare la vita, che non appartengono ad una mente razionale: non li conosce, non li può avere. La fede di Pietro è frutto dell’amore: “Io ti amo; tu mi fai vivere; tu sei l’aria che respiro; sono innamorato di te”. La sua è una fede sicura, una roccia; è per questo che Gesù può fondare su di lui la sua chiesa. Eppure, nonostante ciò, Pietro tradirà più volte il Signore. Durante la passione, ad esempio, lo tradirà tre volte e infine lo abbandonerà. Perché allora Pietro è considerato “roccia”? Perché, al di là della sua debolezza umana, lui “sapeva”, aveva cioè sperimentato personalmente e profondamente chi era il Signore. Gesù ha sentito tutta la sua sincerità, tutta la sua passione, l’intensità, il ritmo impetuoso del suo cuore innamorato. L’entusiasmo, l’irruenza, talvolta può farci anche cadere; ma ci fa anche immediatamente rialzare da qualunque caduta; ci fa guardare nuovamente in avanti, ci fa ripartire con decisione, con la stessa passione di prima. La tiepidezza invece, pur rimanendo nella “fedeltà”, nel “lecito”, fuori da ogni sussulto, è un male molto pericoloso, perché spegne ogni slancio, rende indifferenti, si limita al “minimo” previsto dalla legge, dimenticando il “massimo” dell’amore.
L’assuefazione, la famigliarità, il camminare lenti e prudenti, l’essere calcolatori, è il nostro peggior nemico. Perché nel corso degli anni siamo portati a trasformare la nostra fede in una pratica religiosa amorfa, asettica, senza sussulti, noiosamente ripetitiva: confessarsi tot volte all’anno, fare la comunione perché tutti gli altri la fanno, scegliere solo cosa fare o non fare per essere considerati dei cristiani “passabili”, ecc. Sarebbe come pensare “Fare un figlio? ma per carità! È un impegno gravosissimo, ti fa perdere la serenità, la pace, il sonno, non hai più la tua vita di prima”. È vero, è così! ma ci si dimentica che fare un figlio è anche e soprattutto gioia, estasi, commozione, sorrisi, realizzazione, completezza, ecc. La vera felicità è nemica del facile, dell’ozio, dell’indifferenza.
Il nostro andare in chiesa, deve quindi rispondere ad un nostro bisogno interiore, al bisogno di ridare forza e vigore alla nostra vita, alla necessità di riprendere “fiato”, di ritrovare pace e serenità; è il bisogno di incontrare e di fermarsi a salutare un Amico importante, di ringraziarlo per i suoi favori; dobbiamo andarci perché lì ci sentiamo a casa, ci stiamo veramente bene, respiriamo la “nostra” aria, incontriamo i nostri fratelli, i nostri “compagni” di viaggio e di avventura.
Vivere la nostra fede è un’esperienza che ci riempie la vita, ci rende liberi, ci fa uomini e donne veri fino in fondo; perché la fede è fiducia in se stessi, nella Vita e negli altri. La fede ci porta ad aprirci, a superare i nostri limiti; ci fa andare là dove abbiamo paura di andare, affrontare ciò che abbiamo paura di affrontare. La fede è vibrazione, intensità; è la sensazione di essere nelle grandi mani di Dio, al centro dell’universo, dove nulla ci può spaventare, dove tutto acquista un senso.
Dio ci ha creati per qualcosa di veramente grande! Diventiamo consapevoli della potenza che c’è in noi e della missione che Dio ci ha affidato. Chi ha incontrato Dio veramente, anche solo per una volta, l’ha incontrato per sempre. Dio non si può dimenticare. È continuamente al nostro fianco, ci guida, ci sorregge, ci consola: sbagliamo? c’è Lui! Ci perdiamo? c’è Lui! Siamo un fallimento? c’è Lui! Moriamo? c’è Lui! Chi ha trovato la Vita, sa che non esiste la “morte”: sa che esistono i “passaggi”, le separazioni, gli “arrivederci” ma non “la fine di tutto”. Il mistero della Vita è semplice per chi ha incontrato Dio; mentre è complesso e tragico per chi ne è fuori. Dio in questo mondo è talmente “visibile”, “evidente”, per quelli che gli credono, quanto “oscuro”, “irriconoscibile”, per coloro che non l’hanno mai incontrato, per coloro che non hanno fede in Lui, per chi non vuole cercarlo. Dio è “tutto” per chi si lascia riempire; “niente” per chi ne ha paura.
Solo dopo aver incontrato Dio, capiremo a fondo la vita, le persone, noi stessi; solo allora troveremo il senso autentico di ogni cosa e tutto ci sembrerà chiaro. Incontrare Dio sarà allora come aprire una porta o una finestra in una camera buia, e vedere finalmente il sole, la luce, la natura, il calore: in una parola tutto ciò che prima non avevamo mai visto né provato. Amen.

giovedì 19 giugno 2014

22 Giugno 2014 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51-58).
La festa liturgica di oggi è abbastanza recente. Risale al 1264 quando il Papa Urbano IV istituì la festa del Corpus Domini in ricordo del miracolo successo al sacerdote boemo Pietro di Praga: questi dubitava che nella Messa ci fosse la presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del vino; per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro. Durante il viaggio di ritorno in patria, fece sosta a Bolsena per la celebrazione eucaristica: e qui, alla frazione del pane, l’ostia diventò miracolosamente carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue. Pietro, impaurito da tale fenomeno incredibile, avvolse tutto nel corporale di lino e nel fazzoletto purificatoio, posti sull’altare, che rimasero entrambi vistosamente intrisi di sangue, e fuggì in sacrestia. Durante il tragitto alcune gocce di sangue caddero anche sul marmo del pavimento e sui gradini dell’altare. Se andiamo ad Orvieto, nel famoso duomo, possiamo ancora oggi ammirare e venerare questi oggetti sacri macchiati di sangue, come pure le lastre di marmo sulle quali sono ancora visibili le tracce di sangue cadute per terra.
In questa festa del Corpus Domini, dunque, la Chiesa ci ricorda che nel pane e nel vino consacrati c’è veramente il Corpo e il Sangue di Cristo. Quando noi “mangiamo” il pane consacrato, non mangiamo soltanto un pezzo di pane ma ci nutriamo e ci incontriamo a tu per tu con Lui. Durante la messa noi celebriamo un sacrificio: il dono che Gesù fece di se stesso per la nostra salvezza, offrendo la sua carne “per la vita del mondo”. “Fate questo in memoria di me”.
Il vangelo parla più volte di “mangiare la carne” e “bere il sangue”. Ovviamente, quando la gente sentiva queste parole, inorridiva. E possiamo ben comprenderne i motivi: non a caso i primi cristiani, fra le varie accuse, furono tacciati anche di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio. Del resto, il verbo trðgw, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare. Quindi quando venivano riproposte queste parole di Gesù, la gente estranea pensava giustamente che i cristiani mangiassero realmente carne umana.
Gesù, invece, vuol dire tutt’altra cosa. Con queste parole Egli invita i suoi discepoli a diventare una sola cosa, un tutt’uno, con Lui e in Lui, esattamente come il pane mangiato diventa noi, e noi diventiamo il pane mangiato: in altre parole il cibo assunto, una volta metabolizzato, diventa noi stessi: forza, vigore, azione, produttività. Non a caso, quando due si amano veramente, si dicono: “Ti mangerei”; perché il “mangiare” l’altro, produce appunto l’unione perfetta, l’unione ideale più ambita,la fusione totale di due esseri in uno: Io in te, tu in me.
In quest’ottica, pertanto, nel mangiare l’Eucaristia, ciascuno di noi è chiamato a lasciare il suo “uomo vecchio” per diventare “Cristo”. Dobbiamo abbandonare l’io, per diventare Lui. Dobbiamo lasciare il nostro “io”, la nostra identità, per diventare il corpo di Cristo, per assumere la sua identità, l’identità del “Dio in noi”.
E non si tratta di un processo facile, come può essere il “mangiare”, il prendere cibo: non per nulla Giovanni qui introduce la necessità di masticare: non una semplice “ingestione”, ma una ruminatio, un’assimilazione, lenta, studiata, progressiva.
In altre parole una “conversione”, un diventare “l’Altro”. Nei vangeli, tutti quelli che hanno “incontrato” Cristo, non sono più stati gli stessi di prima. La loro è stata un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E la nostra “esperienza”? Cosa ha cambiato Dio nella nostra vita? Quanto, dove, come, Dio ci ha “sconvolto” l’esistenza? Che fuoco ha acceso dentro di noi? Quali paure, quali blocchi psicologici, quali “infatuazioni”, Dio vuole che superiamo?”.
Se non si è verificata in noi alcuna “conversione”, vuol dire che non abbiamo una vera, autentica fede. Vuol dire che se continuiamo ad essere “noi stessi”, se continuiamo a rimanere ancorati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, non potremo mai diventare “Lui”. Un minimo di buona volontà, di coerenza, di coinvolgimento, ci deve pur essere: per il resto, “sufficit tibi gratia mea” – dove tu non puoi arrivare, ti verrà in aiuto la mia grazia.
Il nostro “incontro” con Gesù, che noi riviviamo in ogni Eucaristia, è pertanto un incontro di “comunione”: Egli cioè offrendosi a noi in cibo, in alimento, permette alla nostra “materialità”, al nostro essere “carnali”, la trasformazione in “esseri spirituali”: assumendo cioè il suo “cibo di vita”, noi arriveremo gradualmente a vivere della sua vita vera.
Ma come è possibile? Gesù parte da una semplice constatazione: la vita si mantiene, grazie al “dono” da parte di altre vite; noi, per esempio, non ci siamo dati la vita da soli: siamo nati, siamo entrati nella vita, grazie ai nostri genitori! Nostra madre ha pianto, sofferto, si è preoccupata per noi, ha perso notti, riposo, ha sacrificato “anni di vita” per noi: è il suo dono. Nostro padre ha lavorato, si è sacrificato, ha fatto molte rinunce per noi: è il suo dono per noi. Noi respiriamo l’aria del cielo: è il dono del cielo per noi. Siamo cresciuti, abbiamo rinvigorito la nostra vita mangiando carne, frutta, verdura, ecc.: un dono di altre vite e della terra per noi. Tutto quello che riguarda la nostra vita, pertanto, è un dono di altri: e per potersi conservare, è necessario che altri continuino a sacrificarsi.
La vita peraltro non è nostra: non è mia, non è tua: non è di nessuno. È un dono che ci viene fatto, ma non la possediamo. La vita è il dono che Dio ci fa; di conseguenza, il modo con cui la viviamo, è il dono che noi facciamo a Dio. E come ci è stata donata gratuitamente, così anche noi, vivendola degnamente, dobbiamo farne dono gratuito ad altri.
È proprio qui che sta l’essenza della felicità: infatti il motivo per cui tanti uomini e tante donne sono infelici, sta nel fatto che non hanno un traguardo valido, un motivo profondo, per cui valga la pena di vivere. Hanno la vita (un dono) ma non sanno metterla a frutto (non la spendono per gli altri), e la dissipano giorno dopo giorno.
Presi dall’euforia della mediocrità, dell’apparire, pensano di essere eterni. Ma sbagliano di grosso. La nostra esistenza è come una candela: una volta accesa, si consuma. La vita è così: un arco che nasce, cresce, arriva all’apice, decresce, muore. E non abbiamo altre vite di riserva o di scorta. La vita è una sola e passa, ci piaccia o no; non si può conservare all’infinito: è illusorio pretendere di fermarla con falsi accorgimenti: possiamo ricorrere a lifting di ogni genere, a liposuzioni estreme, ad interventi ripetitivi di chirurgia estetica; possiamo fare incetta di titoli onorifici, di fama, di gloria; possiamo accumulare denaro e rendite: è tutto inutile, prima o poi la fine arriva per tutti. Totò diceva: la morte è la grande “livella”, rende tutti uguali. È così.
Ecco allora l’importanza di avere un progetto valido di vita, una missione da compiere, una fondata ragione per vivere: cosa pensano di risolvere quelli che tirano a campare, che si lasciano vivere nei bar, nelle chiacchiere, nei giudizi malevoli, nelle critiche velenose, che passano il loro tempo davanti alla tv, nelle continue liti e beghe, pur di fornire qualche apparente emozione ad una vita che di emozioni non ne ha, ad una vita completamente arida?
Inutile scuotere il giogo: il momento delle risposte arriva anche per noi: e dovremo darcele, guardando in profondità, in faccia a noi stessi: “È in questo modo che voglio vivere la mia vita? Ne vale proprio la pena?”. Già, perché spesso la gente, e noi per primi, “buttiamo via” la vita per delle cretinate. Non ci rendiamo conto che la vita, invece, è un dono grande... un dono che non si può buttare via impunemente. Se solo pensassimo a quanto sarebbe diversa, se la innestassimo direttamente a quella di Dio!
E, in proposito, Gesù in ogni Eucaristia continua a ripeterci: “Prendete, questo è il mio corpo; prendete, questo è il mio sangue” (Mc 14,22-23). Che in estrema sintesi significa: “Figlio mio, la tua vita è un dono e l’unico modo di viverla è che tu faccia come ho fatto io, che tu viva questo dono che ti ho fatto, donandoti a tua volta. Fai della tua vita un dono per il mondo”.
Ma cosa dobbiamo fare in particolare per vivere come Gesù ci ha insegnato? Tutti i vangeli nel descrivere l’istituzione dell’Eucarestia, o la moltiplicazione dei pani, si servono immancabilmente di tre parole sempre uguali: prendere, benedire, spezzare.
Evidentemente attribuiscono a tali parole una particolare importanza, le considerano dense di significati e di simbolismi. Ed è proprio in tali parole che anche noi, ogni volta che celebriamo l’Eucarestia, possiamo ritrovare il senso autentico del nostro originale programma di vita, quello che Gesù stesso ci ha chiamati a svolgere e a vivere:
1) Prendere: Gesù, nella moltiplicazione dei pani, prende quel poco che c’è: sono ben poca cosa 5 o 7 pani e pochi pesci, di fronte ad una folla enorme da sfamare. Avrebbe potuto dire: “Che ce ne facciamo di tanto poco?”. Invece prende quello che c’è, anche se è pochissimo, anche se è senza valore, anche se è insufficiente per quanto gli serviva. Anche noi pertanto dobbiamo imparare a prendere in mano il poco che siamo. Noi invece non accettiamo quel poco che siamo; vorremmo sempre essere “altri”: per questo accampiamo scuse e rimandiamo continuamente ogni impegno; siamo sempre inconcludenti: “Se fossi così, se avessi questo o quello, se non mi fosse successa quella cosa, se gli altri fossero diversi, se avessi saputo...”. Dio però ci ha voluti così come siamo: e anche se siamo insufficienti, egli ci offre l’opportunità di fare della nostra vita un miracolo, il “nostro” miracolo. Dobbiamo partire da quel poco che siamo, accettandoci. Siamo così e andiamo bene così. Se Dio ci avesse voluti diversi ci avrebbe creati diversi, ma avrebbe voluto da noi anche cose diverse. Per cui ogni mattino, quando ci alziamo per iniziare una nuova giornata, diciamo: “Sì, Signore, io sono io, vado bene così. Non devo essere “diverso”, non devo essere uguale all’altro. Mi accetto così come sono, perché con il tuo aiuto so di poter fare grandi cose!”. Così pure dobbiamo accettare gli altri per quel che sono, con la loro personalità, con i loro pregi e i loro difetti, perché amare gli altri, significa proprio questo: “Tu sei così, sei questo, e ti amo così come sei. Volerti cambiare ad ogni costo, volerti diverso, vorrebbe dire amare qualcun altro che non sei tu”.
2) Benedire, ringraziare. Eucarestia vuol dire proprio ringraziare, benedire, dire bene. E noi dobbiamo ringraziare Dio perché ci considera una cosa bella, una cosa buona: fin dalla creazione del mondo, ogni cosa da nasceva dalle sue mani, era “tov”, era cosa bella, buona.
Anche noi, in quanto creature di Dio, siamo pertanto “tov”, siamo una cosa bella, una cosa buona. Per questo dobbiamo benedire, ringraziare Dio; dobbiamo ringraziarlo perché siamo sinceramente convinti di essere “tov”: di essere cioè per Dio delle creature veramente belle e buone. Amiamolo e ringraziamolo per come ci ha fatti; è inutile cercare e invidiare negli altri ciò che noi non abbiamo; ma ammiriamo e apprezziamo quello che abbiamo e che siamo. È il punto di partenza per costruirci sopra la nostra vita.
3) Spezzare. Io sono un dono per me e per altri. Un dono è qualcosa di atteso, di cercato, di desiderato. Essere dono vuol dire che il mondo ha bisogno di noi, ci aspetta, vuole noi. Essere dono vuol dire che noi siamo importanti per questo mondo. In che modo? Amando i fratelli, “spezzando” la nostra vita per loro. Amare significa proprio questo: “spezzarsi” per gli altri; non nel senso di spezzarsi in due dalla fatica o di distruggersi per gli altri, ma di fare della nostra vita un dono.
Ogni volta che andiamo a messa, noi ci “prendiamo in mano”, ci “benediciamo” e ci “spezziamo”. “Ci trasformiamo”, cioè, come il pane e il vino, in dono di Dio.
Noi siamo un dono, un tesoro, siamo preziosi... ma spesso non lo sappiamo. Tutto è dono: il dono di Gesù è di averci fatto conoscere il Padre (la conoscenza di Dio); il dono del Padre è averci inviato Gesù su questa terra. E noi cos’abbiamo da donare? Da quale ricchezza iniziale dobbiamo attingere? Che “albero da frutto” siamo nella nostra vita? Pensiamoci e provvediamo di conseguenza! Amen.

mercoledì 11 giugno 2014

15 Giugno 2014 – SS. Trinità

«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16-18).
Oggi è la festa della Trinità. Ma cos’è la Trinità? Cosa vuol dire che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo? Cerchiamo a grandi linee di conoscere questi tre aspetti di Dio.
Dio è Padre, ed è in cielo: lo abbiamo conosciuto attraverso suo figlio; abbiamo cioè capito che Gesù ha un Padre, perché parla spesso con Lui, si rivolge a Lui amorevolmente; è un Padre che è sempre presente nella sua vita, anche se talvolta assente: per esempio lo ha riconosciuto esplicitamente in varie teofanie, ma poi non è intervenuto a salvarlo dal supplizio della croce, nonostante egli lo avesse pregato intensamente. Un Padre che è anche nostro Padre, pur non correndo sempre a risolvere immediatamente i nostri problemi. Egli sa veramente ciò di cui abbiamo bisogno: i suoi disegni sono diversi dai nostri; ma è Lui che dobbiamo pregare, come Gesù stesso ci ha raccomandato e insegnato: è insomma un Padre vicinissimo anche se può apparire talvolta lontano; è quaggiù e lassù, al di fuori del tempo e dello spazio.
Dio è Figlio, è il Dio che si è fatto uomo in Gesù, accettando in tutto la nostra condizione umana su questa terra. Gesù Cristo è il Dio che si incarna nel tempo e nello spazio della storia, che prende forma, umanità, visibilità. Gli apostoli e i primi cristiani lo hanno conosciuto di persona: hanno sentito le sue parole, hanno ascoltato le sue parabole, hanno visto i suoi miracoli, hanno toccato con mano la sua forza, la sua passione, la sua verità e non hanno avuto dubbi: “È veramente il Figlio di Dio”. E infine la sua resurrezione dai morti ne ha dato ampia conferma: poi però, dopo essere apparso per confortarli, se ne va.
Lo Spirito è invece il Dio che sarà sempre presente tra noi. I primi cristiani, subito dopo la partenza di Gesù da questo mondo, lo hanno sperimentato – e anche noi continuiamo a sperimentarlo - in una maniera nuova, difficile da capire e da comprendere; Gesù è sempre presente dentro di noi come Spirito, come energia, fuoco, ardore, speranza, lotta, fiducia. Il Dio Amore che lega indissolubilmente Padre e Figlio, continua a vivere in noi, come in ogni creatura.
Ebbene, queste esperienze di Dio, vissute dagli apostoli e dai primi cristiani, diviene nel corso degli anni il dogma della Trinità: l’Unico Dio, cioè, vive in Tre persone, distinte, diverse, ma non separate; è sempre lo stesso Dio, che vive e che è presente in modalità diverse, Uno e Trino.
Ogni volta che noi ci facciamo il segno della croce non facciamo nient’altro che invocare questo dogma, questa verità di fede: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Questa è dunque la grande verità: Dio è Famiglia, è più persone. Le tre persone della Trinità sono in un continuo dono reciproco d’amore, in una continua “relazione” fra di loro. Una relazione che caratterizza il loro essere, la loro essenza: non esiste l’una senza l’altra.
Sant’Agostino nel suo De Trinitate definisce così la Trinità: il Padre è l’Amans, il Figlio è l’Amatus e lo Spirito Santo è l’Amor. C’è insomma un Dio che fa il “Padre”, l’amans, l’amante, colui che dona. C’è un Dio che è donato, il “Figlio”, l’amatus, il dono. E c’è l’amor, lo “Spirito”, la relazione d’amore che li lega insieme.
Dio quindi è Relazione, è rapporto, è connessione, è unione: «Dio ha tanto amato (gapw) il mondo, da donare (d°dwmi) il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
La festa della Trinità ci fa capire che tra due persone, fra me e te, quello che conta di più, quello che è più importante, non sono né io né tu, ma è la relazione che intercorre fra di noi. Non siamo cioè noi, presi individualmente, che rendiamo felice l’unione tra due persone, non sono le nostre qualità personali, ma è la qualità del nostro rapporto, è il “come” ci relazioniamo.
La maggior parte delle persone pensa, ad esempio, che la felicità coniugale dipenda dal trovare o meno la “persona giusta” con cui condividere la propria esistenza. Condiziona cioè il raggiungimento della felicità di una vita, all’incontro con uno che detenga un “pacchetto magico della felicità” già pronto e confezionato. Ma il principe azzurro non esiste, è un personaggio delle favole. Non possiamo demandare ad altri la responsabilità di farci vivere felici. È un traguardo che va costruito insieme: perché ciò che rende una vita meravigliosa non sono gli altri, per quanto buoni siano, ma è la qualità delle relazioni che noi instauriamo con loro. Pensiamo infatti solo per un attimo: cosa succederebbe se in una relazione noi non sapessimo “dare”? Succederebbe che l’altro, prima o poi, si stancherebbe di aspettare. E così di seguito: se in una relazione noi non sappiamo ricevere, l’altro non si sentirà mai importante. Se noi non stimiamo l’altro, l’altro si sentirà umiliato. Se non stimiamo noi stessi, costringeremo l’altro a farci sempre da mamma, a incoraggiarci, a dirci che ne abbiamo le capacità, che ce la possiamo fare. Se non vogliamo crescere, l’altro si sentirà imprigionato. Se vogliamo che le cose rimangano sempre uguali, l’altro si sentirà morire. Se siamo convinti di non valere, di essere inadeguati a tutto, ci attaccheremo morbosamente all’altro. Se non siamo mai ottimisti, vitali, gioiosi, divertenti, finiremo per contagiare l’altro con la nostra negatività, rendendo la relazione pesante e invivibile.
Dio è relazione. Dio è l’Amore. Il nostro amore deve essere pertanto “relazione”. L’amore è un movimento circolare continuo, una compenetrazione (pericoresi trinitaria) di due persone che si danno e che si ricevono, che si donano e che si accolgono. L’amore è quell’intervallo di spazio che esiste tra l’io e il tu, spazio in cui si crea il noi: l’amore è dove io non sono “io” e tu non sei “tu”, ma io e tu siamo “noi”.
Tutto ciò che esiste è creato ad immagine della Trinità: ognuno di noi ha bisogno di vivere in sé stesso i tre elementi che la costituiscono. Se ne manca uno non c’è comunione, perché la comunione è data dalla loro presenza in contemporanea:
1) L’amans, il Padre, il genitore. Noi tutti dobbiamo essere amantes, gli amanti, coloro che amano. L’amans è colui che prende l’iniziativa, che va, che non guarda cosa fanno gli altri: non guarda se fanno di più o di meno di lui. Lui ha dentro di sé l’amore, e lo dona gratuitamente. È il “genitore” per eccellenza: è talmente pieno d’amore che lo dona, lo riversa sugli altri. L’amore è dare, è donare. Ma per dare dobbiamo essere pieni, altrimenti credendo di dare, pretendiamo di ricevere. Siamo pieni d’amore? Lo doniamo. Siamo pieni di gioia? La doniamo. Siamo pieni di vitalità? La doniamo. Siamo pieni di allegria? La doniamo. Siamo pieni di felicità? La nostra gioia diventa iniziative, voglia di creare unioni, condivisioni, momenti gioviali.
Non possiamo mai dare ciò che non abbiamo. Luca parla chiaro in proposito: «L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Lc 6,45). Chi dentro ha rabbia sarà sempre arrabbiato e ogni occasione sarà buona per arrabbiarsi; chi dentro ha tristezza vedrà tutto nero, tutto negativo e tutto pericoloso; ma chi dentro ha la gioia, trasmetterà serenità; e lo si può riconoscere dal volto, dai gesti, dalle parole e dai sorrisi che dona a chi incontra. La nostra vita esteriore non è nient’altro che la proiezione della nostra vita spirituale, interiore.
2) L’amatus, il Figlio, il bambino. Il Figlio è colui che riceve. Tutti noi abbiamo bisogno di ricevere. Abbiamo bisogno di coccole, di tenerezza, di ascolto, di gioia, di ridere, di lasciarci andare, di sentirci accolti, riconosciuti, amati. Il bambino è colui che si apre e riceve. Tutti siamo bambini. Ma a volte vogliamo ricevere senza aprirci. Vorremmo che gli altri ci ascoltassero, ma noi non vogliamo chiedere. Vorremmo tenerezza, affetto, ma non vogliamo mostrarci vulnerabili o bisognosi. Vorremmo conforto, protezione, ma non vogliamo farci vedere piangere o sofferenti. Vorremmo sentirci riconosciuti ma quando qualcuno ci fa un complimento o ci dice: “Ti voglio bene”, noi ci sottraiamo, ci sentiamo imbarazzati. Per ricevere dobbiamo invece aprirci, dobbiamo accettare di essere vulnerabili.
3) C’è poi l’amor, lo Spirito, l’amore, l’unione, il legame, l’essere adulti: io sono io e tu sei tu; l’amore, è ciò che ci unisce entrambi. Se però pretendo che tu “divenga” me, io ti uccido. Se invece io divengo te, mi uccido. L’amore non vuole cambiare l’altro: tu sei tu. Se cambierai, è una scelta tua. Io ti amo, non ti cambio. È l’adulto che fa così: io ti amo e non mi aspetto che tu cambi. Lo faccio perché l’amore nasce dal mio cuore, dal mio essere, da ciò che io ho dentro. Non voglio nulla in cambio. «Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?» (Mt 5,46); non è più amore, è solo interesse, è un barattare qualcosa!
L’amore è ciò che fa vivere. L’amore fa vivere tutto ciò che vive. Amore è che l’altro sia al massimo, sia se stesso anche se ciò è contro il suo volere o le sue idee.
Cosa vuol dire per noi, nel nostro lavoro, essere amore, essere unione? Cosa vuol dire essere amore con il nostro fratello? Cosa vuol dire essere amore con chi non sopportiamo? Madre Teresa, o Teresa di Lisieux, dicevano: “Oggi sarò l’amore”. E vivevano così quella giornata. Abbiamo di che imparare.
La festa della Trinità, per concludere, ci dice che Dio, il Tutto, è collegato al tutto; dice cioè che noi siamo in relazione con il Tutto (Dio) e con il tutto (gli altri). Siamo cioè interconnessi fra noi. Siamo collegati, interdipendenti.
Nessuno allora può più dire: “A che serve fare il bene, se poi sono l’unico a farlo?”. Nessuno può più pensare in questo modo, perché tutto quello che facciamo comporta realmente delle conseguenze per noi, per gli altri, per il mondo intero.
A noi invece piace molto pensarci “unici”, separati dagli altri: “La vita è mia e faccio quello che ne voglio”. E invece no: se urliamo, se bestemmiamo, se viviamo nel rancore e nella rabbia, la risonanza delle nostre azioni, dei nostri sentimenti, si diffonde e si riverbera nel mondo. Se, invece, amiamo incondizionatamente, se viviamo nel perdono lasciando andare e cadere l’odio e la rabbia, se compiamo gesti di bontà gratuita, se abbiamo compassione e tenerezza, tutto questo si riflette in noi, nella nostra famiglia e nel mondo. È la Trinità che ce lo ricorda: siamo collegati al Tutto e il tutto è collegato a noi. Tutto è in relazione e la relazione è tutto. Amen.

domenica 1 giugno 2014

8 Giugno 2014 – Solennità di Pentecoste

“Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”.
I discepoli sono terrorizzati. Cosa sta succedendo? Gesù è morto, lo hanno ucciso. Poi è risorto, molti di loro lo hanno rivisto, qualcuno lo ha anche toccato con mano. Infine, dopo averli incontrati in Galilea, se ne è andato definitivamente: “Ora che sarà di noi?”, si dicono perplessi. È un momento difficile per loro, un momento di crisi profonda, radicale, decisiva. E li possiamo capire. Quante volte anche a noi, trovandoci in una situazione altrettanto difficile, apparentemente senza sbocchi, non viene naturale pensare: “Ora che faccio?”.
Ma ecco la Pentecoste: cosa succede esattamente in questo giorno? Essi fanno un salto qualitativo decisivo, la loro vita subisce un totale sconvolgimento: da una comprensione del loro ruolo limitata, bassa, esteriore, terra-terra, passano ad un livello di cognizione decisamente superiore, profondamente interiore: dall’esteriorità passano cioè all’interiorità. Se prima si lasciavano guidare dai sensi, ora è il loro cuore, è ciò che hanno dentro che li illumina sul da farsi.
Questo passaggio di livello lo possiamo cogliere soprattutto nella prima lettura di oggi, tratta dagli Atti (sono essi e non i Vangeli che descrivono nel dettaglio la discesa dello Spirito sugli apostoli); e lo percepiamo attraverso l’analisi di tre immagini:
1. Il vento (At 2,2): non si tratta tanto di un vento esteriore, materiale, atmosferico, ma di un vento interno, un “soffio” spirituale. È il vento della libertà, dell’apertura, dell’amore; un vento che tutti possono avere: solo se uno ce l’ha, ha il coraggio di uscire, di esporsi al giudizio della gente, di affrontare le sfide, di osare, di rischiare, di esprimersi per quello che è, ecc. Se non abbiamo questo “vento” dentro di noi, siamo ancora nella stessa condizione degli apostoli prima della Pentecoste: pieni di paura (20,19).
2. Il fuoco (At 2,3): le lingue di questo fuoco non sono fisiche; è un fuoco che brucia dentro, una passione che ci arde l’anima. È la forza, il tormento, la tenacia, l’ardore, il coraggio; è “l’essere presi”; è il giocarci fino alla fine per una causa o un motivo, è l’entusiasmo, è la vitalità che ci brucia e arde dentro. Anche qui, se non abbiamo questo fuoco, continuiamo ad essere come gli apostoli prima della Pentecoste: freddi senza motivazioni, senza impulsi, rinchiusi in noi stessi.
3. Parlare le lingue (At 2,8-11): non è che di punto in bianco parlino materialmente tutte le lingue del mondo. Tutti li capiscono, è vero, qualunque sia il paese d’origine: ma ciò è possibile perché la nuova lingua che parlano, è la lingua del cuore, la lingua dell’amore; quella lingua che tutti capiscono, che fa rivivere, che fa vibrare l’anima, che parla al cuore.
Gesù non c’è più: a livello storico, materiale, Gesù non lo vedono più come prima, non gli possono parlare più come prima. Ma lo sentono con loro, dentro di loro, ad un altro livello, più alto, più spirituale: lo sentono dentro di loro come libertà, come passione, come coraggio, come amore; e da questo punto di vista, Lui è sempre con loro, più di prima.
Ma ritorniamo a noi: anche a noi serve un salto di qualità: serve anche a noi lo Spirito. Se continuiamo a rimanere sul livello esteriore, materiale, non avremo mai certezze, non avremo sicurezze, non avremo coraggio; perché è nell’intimo, è nello Spirito che ci inabita, che troviamo il coraggio di osare, di capire, di salire sempre più in alto.
Prendiamo per esempio l’andare in chiesa: se noi non facciamo un vero salto di fede, continueremo ad essere dei semplici esecutori materiali, distaccati e superficiali, di regole esteriori. Quello che sentiamo a livello materiale sarà pertanto: “Sono a posto, sono in “regola”. Ma siamo sufficientemente bravi anche per Dio?”. Se ci confrontiamo sul livello spirituale, infatti, sentiamo che Dio non è qualcuno da tenersi buono, per paura di castighi, ma qualcuno di cui innamorarsi, di cui appassionarsi; di qualcuno che per amore ci fa cambiare modo di pensare,di credere, di vivere.
Oppure guardiamo la nostra insoddisfazione: a livello materiale noi cerchiamo di risolverla distraendoci, divertendoci, magari con un viaggio, con questo o quello, pensando che ciò ci renderà felici; o magari pensando che si tratta di una cosa passeggera, che prima o poi passerà; quindi aspettiamo. A livello spirituale, invece, il traccheggiare, il rimandare, il perdere tempo, non esiste; dobbiamo fare un salto decisivo: perché se non troviamo un senso profondo per cui vivere, un motivo che catalizzi le nostre energie, saremo sempre insoddisfatti.
Cos’è allora che ci salva? Solamente se facciamo un salto al nostro interno. Se riusciamo cioè a dare un nuovo senso alla nostra vita, un senso più vero, più profondo, più spirituale, insomma diverso.
Il nostro compito primario – come ci insegna la Parola di oggi - è infatti quello di trasformare il materiale in spirituale. Il grande simbolo che ci deve ispirare è il Crocifisso. La croce è formata da due bracci: uno orizzontale e uno verticale. Su quello orizzontale ci sono le braccia aperte di Gesù che prende, accoglie, raccoglie, accetta tutto ciò che c’è nel mondo: odio, cattiveria, ingiustizia, morte, tradimento, ecc. Su quello verticale c’è la persona di Gesù che porta, eleva, trasforma tutto questo in opera di salvezza. Per questo possiamo dire che se la Croce, da un punto di vista materiale, storico, è un obbrobrio di ingiustizia, di sadismo, dal punto di vista spirituale è la nostra salvezza, è lo strumento con cui Lui ci salva. Gesù cioè per mezzo della croce dà un senso alle ingiustizie del mondo e all’odio stupido e ingiusto che riceve dall’umanità. Ma ciò che gli è capitato, ha un senso? Storicamente no, è una brutalità, una bestialità. Ma con la Pentecoste Gesù ci fa capire, trasforma il non-senso terreno della croce, in senso spirituale di salvezza, il non senso in opera di redenzione.
Gesù è il Sommo Sacerdote (sacrum facere=rendere sacre le cose). Gesù sacralizza questa umanità che lo ha ucciso e continua a ucciderlo. È Pontefice (pontem facere=gettare un ponte): è colui cioè che fa da ponte, che mette in contatto il materiale con lo spirituale, l’uomo peccatore con Dio Amore e misericordia.
Tutti noi siamo pertanto chiamati ad essere sacerdoti (pontefici): tutti noi dobbiamo trasformare il materiale in spirituale. Perché solo così tutto ciò che ci succede viene elevato, trasformato, sacralizzato. La materia diventa spirituale; ciò che è basso diventa alto e ciò che è senza senso inizia ad averlo per noi. E quando il sacerdote trasforma un po’ di pane (materia) in Corpo di Cristo (Spirito) e un po’ di vino (materia) in sangue di Cristo (Spirito), ci siamo anche noi su quell’altare, sacerdoti della nostra vita, per trasformare, elevare, sacralizzare i nostri giorni e ciò che ci succede. Tutto è spirituale per chi ha lo Spirito nel cuore. Tutto è materiale per chi non si eleva e non diviene sacerdote della propria vita.
La festa di Pentecoste esprime appunto la grandiosa verità che Dio abita dentro di noi. Dio non è più presente fisicamente in mezzo a noi, Dio è presente in noi con il suo Spirito.
Se noi chiediamo alle persone cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. E non sa rispondere perché non lo conosce, non ne ha esperienza, non lo ha mai vissuto.
Molti pensano che lo Spirito sia un qualcosa che si “aggiunge”, che si attacca a quello che già siamo; e poiché ci sta bene così come siamo, dello Spirito possiamo anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un di più, un’aggiunta, un accessorio: è qualcosa di noi, del nostro essere, un qualcosa che ci fa essere. Lo Spirito di Dio non decide di scendere su di noi in un certo giorno della nostra vita; egli abita in noi da sempre, ci ha fatto nascere.
Altri pensano che lo Spirito sia in contrasto, sia incompatibile con la materia, con l’uomo: per loro spirituale, equivale a disincarnato, fuori dal mondo; quando pensano ad una persona spirituale si immaginano un santo monaco che vive fuori dal mondo, che prega in solitudine e che odia tutto ciò che esiste nel mondo. Nulla di più sbagliato. Queste persone dovrebbero infatti leggere un po’ di più il vangelo e prendere nota di quanto “materiale” sia stato Gesù: mangiava, beveva, faceva festa, si divertiva, toccava e abbracciava. E con tutto ciò non possiamo certo dire che non fosse spirituale!
Essere spirituali, quindi, non è pregare molto, fare tante cose religiose, frequentare la chiesa, fare penitenze, compiere pellegrinaggi o dire rosari. Essere spirituali vuol dire vivere in modo che tutte le nostre azioni, i nostri pensieri, la nostra vita, confermino all’esterno la presenza dello Spirito di Dio che è dentro di noi. È semplicemente un modo di vedere e di vivere le cose.
Materia è infatti il pane della domenica sull’altare. Ma Spirito è quando vediamo in quel pane, il Pane, il Cristo. Materia è quando vediamo in una persona solo uno che ci disturba, uno che scoccia, uno che ci dà fastidio. Spirito è quando iniziamo a vedere in essa un fratello che soffre, uno che ha un cuore e un’anima bisognosi d’amore.
Materia è quando vediamo al mattino soltanto un altro giorno di lavoro. Spirito è quando vediamo nel nuovo giorno un regalo divino, un’altra opportunità che ci viene regalata dall’alto per sperimentare la vita.
Materia è quando qualcosa ci fa innervosire. Spirito è quando iniziamo a chiederci il perché, il che cosa dobbiamo imparare o che cosa dobbiamo cambiare del nostro comportamento o del nostro modo di pensare. Materia è mangiare, spirito è gustare. Materia è respirare (avviene in automatico), spirito è essere consapevoli del nostro “soffio” (non a caso ruah, spirito, in ebraico vuol dire anche “soffio”). Materia è sentire il canto degli uccelli, spirito è ascoltare il canto degli uccelli.
Tutta la nostra vita può essere quindi terribilmente materiale o terribilmente spirituale; piena di buio o splendente di luce. Tutto può essere materia o tutto può essere spirito: dipende solo ed esclusivamente con quali occhi noi guardiamo: se con quelli del corpo o con quelli dell’anima, dello “Spirito”. Amen.