giovedì 24 aprile 2014

27 Aprile 2014 – II Domenica di Pasqua

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!» (Gv 20,19-31) .
Il vangelo di oggi ci parla di due apparizioni di Gesù, avvenute con modalità identiche ma in tempi diversi e soprattutto con finalità diverse: la prima era destinata a consolare e rinfrancare i discepoli di allora, la seconda a sollevare e incoraggiare noi, i discepoli futuri: i primi, radunati insieme nel giorno del Signore, hanno avuto la fortuna di incontrarlo visivamente, tangibilmente, ricavando da tale incontro quella gioia profonda, quell’entusiasmo che li hanno spinti poi a seguire coraggiosamente il suo invito, divulgando nel mondo la sua Parola e fondando la Chiesa; noi, radunati nell’Eucaristia domenicale - pur non vedendolo materialmente, ma incontrandolo e ammirandolo con gli occhi della fede - possiamo sperimentare la stessa gioia, lo stesso coraggio, la stessa forza per proseguire nella Chiesa la loro stessa opera evangelizzatrice: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno”.
In altre parole il racconto del vangelo ci offre l’immagine perfetta di quello che succede a noi ogni domenica, quando ci riuniamo in chiesa per celebrare l’Eucaristia: noi riviviamo, come i discepoli di allora, la stessa “esperienza” del Risorto: egli è presente in mezzo a noi; non lo “vediamo” materialmente, è vero, ma lo possiamo toccare, lo “sentiamo”, lo possiamo assumere in noi, percepiamo nitidamente e concretamente il calore consolatore del suo amore, sentiamo in noi quella stessa forza rinnovatrice di allora, forza di cui abbiamo tanto bisogno. Se non fossimo tanto distratti, sentiremmo esplodere la sua voce dentro di noi: “Pace a voi!”. Sono le stesse parole rivolte ai discepoli radunati nel cenacolo, parole con cui tutti i presbiteri, di ogni tempo e di ogni luogo, salutano i fedeli riuniti in chiesa nella celebrazione eucaristica.

Santa Eucaristia! Importanza e bellezza dell’Eucaristia! Noi settimanalmente possiamo ripetere la stessa esperienza vissuta dagli apostoli! È il nostro appuntamento settimanale con Gesù, nel “suo” giorno, il “primo della settimana”, il “dies Domini”, il giorno del Signore.
È l’occasione sublime in cui possiamo parlargli francamente a tu per tu, confidargli le nostre paure, svelargli i nostri segreti, aprirgli le nostre “chiusure” ermetiche, appianare tutti i nostri contorti “distinguo”. Sì, perché l’Eucaristia è forza e perdono.
Prima di tutto è “forza”: perché noi tutti quando andiamo in chiesa, soffocati dalle nostre paure, dalle nostre chiusure, incontriamo il Risorto, incontriamo la Forza, la Vita, la Luce, l’Energia, l’Amore misericordioso. E che ci succede? I battiti irresistibili del suo cuore, sovrastano l’aridità del nostro, cancellano, annientano le nostre insicurezze, le nostre tiepidezze, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre infedeltà. Solo lì, in quel preciso momento, possiamo ritrovare la voglia di vivere e di ripartire; la voglia di aprirci, di cambiare; la voglia di essere migliori.
Nell'Eucarestia, davanti a Lui, noi ritroviamo l'energia per affrontare e superare tutto quello che ci sembra impossibile. È lì, alla presenza del Risorto dentro di noi che, al pari degli apostoli, sentiamo che nulla può farci più paura, nulla può più fermarci.
L’Eucaristia è poi “perdono”: Gesù nella sua vita terrena ha sempre perdonato tutti; ha avuto per tutti parole di consolazione e di incoraggiamento: peccatori, prostitute, gentaglia di ogni genere, gente di malaffare. Ebbene: noi tutti, quando ci presentiamo alla sua Cena, rappresentiamo un po’ tutti questi personaggi, sia all’esterno, nei nostri comportamenti, che all’interno, nei nostri pensieri. Ci presentiamo a Lui, confidando nella sua misericordia. Prima di sperare però il suo perdono, dobbiamo imparare anche noi a perdonare i nostri fratelli, e soprattutto imparare a perdonarci. Sì perché noi spesso non riusciamo a perdonare gli altri proprio perché non sappiamo perdonare noi stessi; siamo irrigiditi, paralizzati, bloccati dal male che abbiamo commesso: invece di tirarlo fuori, di guardarlo bene in faccia, di esternarlo chiedendo perdono, preferiamo tenerlo chiuso, sepolto nella nostra anima, lo ignoriamo, fingiamo che non esista: ma lui esiste, è lì, nel nostro cuore; ci corrode l’anima, ci incattivisce; anche se non lo vogliamo, nei momenti più impensati , egli riemerge in tutta la sua forza. Solo quando sapremo perdonarci, solo quando riusciremo a liberarci della nostra zavorra, solo quando sapremo distaccarci da esso, il nostro dolore, la nostra vergogna, il nostro pentimento ci faranno ritrovare l’Amore e, riversando in Lui le nostre miserie, potremo a nostra volta rivolgere ai nostri fratelli il sentimento del vero perdono.
Ogni volta che noi andiamo a messa, dobbiamo permettere alla nostra anima di percorrere questa conversione interiore: perché, anche se è difficile ammetterlo, la prostituta siamo noi; i peccatori siamo noi; i “pubblicani” siamo noi; i farisei siamo noi. E andiamo lì, davanti a Gesù, per ricevere il suo perdono: e l'Eucarestia ci fa vivere, ci fa felici, ci fa liberi, spingendoci a portare amore (perdono) dove non c'è.
Possiamo quindi dire che l'Eucarestia è l'incontro con le nostre ferite. E solo dopo averle “toccate”, come fece Tommaso con le ferite di Gesù (mani, piedi e costato), potremo anche noi esclamare: “Mio Signore e mio Dio!”; potremo cioè esprimere a Gesù la nostra più intima e sincera proclamazione d’amore. Con queste parole noi affermiamo la nostra personale esperienza di Gesù Risorto, il nostro incontro diretto con Lui: con gli occhi della fede, lo abbiamo visto, toccato, sperimentato personalmente. E a questo punto non abbiamo più bisogno che gli altri ci vengano a dire le loro di esperienze; noi abbiamo vissuto la nostra.
In realtà a nessuno può bastare le esperienze altrui. Dio è un'esperienza diretta, personale: ognuno lo deve “toccare”, vedere, incontrare. Altrimenti ci costruiamo delle teorie, ci facciamo delle idee, seguiamo delle intuizioni altrui, dei pensieri “fantastici”, ma non abbiamo nessuna esperienza diretta con Lui. Saremmo come coloro che dicono di sapere tutto sul vino, ma non hanno mai sperimentato quanto sia inebriante degustarne un buon bicchiere; o come chi afferma di conoscere tutto sull’amore, per averlo letto o studiato sui libri: ma ignorano cosa vuol dire sentirsi amati, innamorati: è tutt’altra cosa. Con le parole “calore”, “vino, nessuno si è mai riscaldato o ubriacato! È l'esperienza delle cose che produce la vera conoscenza, quella del cuore. Esperienza (da “ex-perior”) vuol dire infatti provare, sentire, toccare, sperimentare.
Ecco perché le nostre liturgie eucaristiche non ci devono “parlare” di Dio; ce lo devono far sentire, toccare, sperimentare. E noi dobbiamo aver il coraggio di lasciarci coinvolgere, di lasciarci “toccare”, perché se ciò non avviene, le nostre belle liturgie non servono a niente: i canti, la partecipazione dell’assemblea, i gesti, le letture, tutto è liturgia “efficace”, soltanto se ci mettono in contatto con Dio. Ripeto: se le nostre celebrazioni eucaristiche, rigorosamente conformi alle norme liturgiche, non ci fanno sentire Dio, non ce lo fanno toccare, non ce lo portano nel nostro cuore e nella nostra vita, non servono a niente, sono assolutamente inutili: sono insomma piacevoli evasioni dal quotidiano, sono momenti di ammirazione per il bello in se stesso; ma non sono l’incontro personale con il Dio della Vita; non ci procurano quelle emozioni intime con cui Lui ci “parla dentro”, con cui Lui entra in vibrazione con la nostra anima e la nostra sete di Infinito; emozioni che ci fanno fare i conti con le nostre realtà, le nostre risorse, le nostre potenzialità.
E concludo: nell’Eucaristia le nostre ferite, le nostre miserie, ci portano a Dio; e Dio, a sua volta ci porta alle nostre “ferite”, ci fa mettere il dito sulle nostre di piaghe. Perché solo “toccandole”, avendone la cognizione esatta, potremo curarle, potremo liberarcene.
Del resto, chi non ha ferite? Come si può pensare di vivere senza essere feriti? Allora chi non ha bisogno dell’Eucaristia? Chi, sapendo di essere ferito, non sente il bisogno di andare da Colui che può guarirci? La Comunione della domenica fatta in grazia di Dio, è il suo balsamo, la sua crema, il suo unguento, l’unico medicamento valido per le nostre ferite. È in questo modo che Lui ci assicura accoglienza, protezione, accettazione, fiducia, amore.
Allora, andare a messa non è più un dovere, un atto abitudinario da fare, ma un bisogno di ricongiungerci con noi stessi, con gli altri, con la Vita, con l’Amore. Se comprendiamo questo, andare a messa la domenica sarà fonte di grande gioia per l’incontro con Dio che andremo a fare, sarà un bisogno impellente, improrogabile, del nostro cuore e della nostra anima. Amen.

mercoledì 16 aprile 2014

20 Aprile 2014 – Solennità di Pasqua

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).
Il vangelo di Pasqua ci presenta tre figure in movimento: Pietro, Giovanni e Maria Maddalena. Tutti e tre vanno al sepolcro, luogo di morte; ma per “vedere” Gesù, devono compiere questo tragitto e superare l'ostacolo della pietra. È un particolare che deve farci riflettere.
Nel “sepolcro” noi pensiamo di trovare la morte, la fine, la rottura di un’esistenza, il buio; invece... troviamo vita, bellezza, gioia di vivere. Il nostro incontro con Cristo inizia proprio da lì. Ma per poterlo incontrare, per poterlo “vedere”, dobbiamo fare i conti con un percorso e con quanto ci preclude ogni visuale: l’accesso a Gesù nel sepolcro è chiuso, ostruito da una pietra: una pietra pesante, un macigno, la cui rimozione ci sembra assolutamente impossibile; per cui, meglio ignorarla. Ma c’è: sì, perché la “pietra” in questione è l'incapacità di provare dentro di noi sentimenti veri, profondi, gioiosi; è la paura di mostrarci per quello che siamo, facendoci piuttosto esibire maschere e facciate diverse; “pietra” è la paura della vulnerabilità, del piangere; “pietra” è quel dolore silenzioso che ci urla dentro, quel segreto che nascondiamo in noi; è il dolore e la sofferenza per chi ci ha lasciato; pietra è il freddo, la solitudine che ci sentiamo dentro, che ci congela l’anima, impedendoci di tirar fuori il nostro amore; pietra è il terrore di morire, la paura delle malattie, l’angoscia di rimanere soli, il rimpianto per gli anni che passano inesorabilmente. Tutti abbiamo una pietra del genere con cui fare i conti: ma dobbiamo essere convinti che rimuovendola, troveremo qualcosa di completamente nuovo, di diverso: la pietra è il nostro motivo di morte che va superato, va spazzato via. Se lo ignoriamo, se lo evitiamo, non potremo mai incontrarci con Lui, non potremo mai trovare la Vita.
Nel nostro cammino, poi, dobbiamo come Giovanni, “inchinarci” per vedere l’interno del sepolcro; dobbiamo cioè inginocchiarci, dobbiamo accettare umilmente la nostra debolezza, il nostro continuo cadere. Dobbiamo cambiare: e dobbiamo volerlo! perché se non lo vogliamo, non cambierà mai nulla, tutto rimarrà nelle tenebre. Il sepolcro rimarrà la nostra dimora stabile: ci sarà impossibile vedere lo splendore della “risurrezione”, il cambiamento radicale della nostra esistenza.
Pietro e Giovanni corrono: anche questo è importante, decisivo: non basta trascinarci pesantemente, controvoglia; non basta adattarsi a quello che fanno tutti. Siamo noi, io tu gli altri, che dobbiamo incontrarlo: nella nostra diversità, pur essendo tutti speciali, dobbiamo spingere al massimo; se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se traccheggiamo, non approdiamo a nulla, se non cominciamo a correre, ci precludiamo ogni risultato. Rimanere nel “sepolcro”, rimanere nelle nostre zone buie, significa rifiutare volutamente ogni invito, ogni tentativo della Vita di farci uscire.
Ci comportiamo un po’ come il bambino che sta per nascere: “Lasciami qui, non voglio! Se esco muoio, sto bene così come sto: perché mettere fine ad una vita tanto beata?”. Ma il bimbo non muore, anzi, al contrario, nasce alla vita! La stessa identica cosa succede alla morte: “Oddio, che paura! Non voglio morire! Cosa mi aspetta di là?” E anche questa volta si nasce a vita nuova, si entra in un’altra esistenza: al cui ingresso ci saranno due mani aperte, misericordiose, piene di amore, che ci accoglieranno, ci abbracceranno. Nel fondo della morte c'è sempre la vita.
Ci sono altre piccole cose che ci insegnano a Pasqua questa grande verità: per esempio, l’usanza di regalare ai bambini un uovo (adesso è di cioccolata perché è più buono, ma quand’ero bambino si usavano “le uova” bollite e colorate). Perché? Perché Pasqua, come l’uovo, è appunto il simbolo della vita, di qualcosa che nasce, di qualcosa di nuovo, di inaspettato, di imprevisto che viene alla luce. È il simbolo della nostra trasformazione, della nostra rinascita, del nostro passaggio decisivo da credenti in embrione, a discepoli maturi e convinti. Ma “risorgere” non è cosa facile. Anche l’uovo, come la pietra del sepolcro pasquale, offre una resistenza all’apertura: c’è uno scudo, una corazza, una barriera da superare perché qualcosa di nuovo possa sorgere. Allora augurarci “Buona Pasqua” vuol dire augurarci che questa trasformazione avvenga: che nella nostra vita possa nascere finalmente qualcosa di totalmente nuovo, di lungamente atteso, di meraviglioso.
La resurrezione deve essere per noi un salto esistenziale decisivo: il Gesù risorto non è tornato a vivere la vita di prima (il Gesù storico è morto per sempre); il Gesù risorto è passato ad una nuova dimensione, completamente diversa: ora Egli vive nella sua dimensione divina, celeste, eterna. In quanto Dio glorioso, egli continua comunque a vivere in mezzo noi; continua a vivere in ciascuno di noi, nell’uomo di ogni tempo. È una verità, questa, che ci lascia abbastanza indifferenti: siamo decisamente molto poco “spirituali”; per credere in Lui sul serio, vorremmo “vederlo”, toccarlo, sentirlo, percepirlo. Come san Tommaso. Come gli apostoli: che, dimenticata ogni paura, ogni esitazione, hanno poi affrontato ogni ostacolo, qualunque pericolo, perché lo sentivano vivo e presente dentro di loro e con loro. Ma sappiamo bene cosa ha detto Gesù in proposito: “…beati quelli che non vedranno e crederanno!”
La risurrezione, oltre che “conversione”, oltre che nascita ad una vita nuova, deve diventare allora, anche per noi, una missione, una risposta al suo invito di “testimoniarlo” nel mondo: “Sì, Signore, andiamo noi!”.
E, nonostante il nostro vezzo di scansare volentieri qualunque responsabilità, dobbiamo fare al meglio la nostra parte. L'umanità ha bisogno di noi; ha bisogno che noi, con la nostra vita da “risorti”, insegniamo agli uomini a vivere ad un livello di valori superiore.
L'umanità oggi è in grado di distruggersi: sembra che gli uomini, nella loro dissennatezza, mirino proprio a questo. Non c’è tempo da perdere: prima che accada, il “mondo” deve cambiare: la nostra società distratta, alienata, ripiegata su se stessa, deve “rinascere in spirito e verità”; deve assolutamente fare questo salto; ma per farlo ha bisogno di noi.
Nella nostra “risurrezione” abbiamo incontrato Cristo: non deludiamolo. Crediamoci! Non servono una cultura eccelsa, una lunga preparazione: gli apostoli erano come noi, gente semplice, ignorante. Ma è l’incontro con Gesù che li ha cambiati, come deve cambiare anche noi. Nel testimoniare Gesù, c’è una sostanziale differenza tra i sapienti, i dotti, e gli umili credenti: i primi, coloro che lo hanno studiato, trasmettono idee, teorie su di Lui; ma chi lo ha “incontrato”, chi lo “vive”, chi crede in Lui, trasmette la Vita, trasmette l’Amore.
Andate in tutto il mondo... io sono con voi” continua a ripeterci il Risorto. Che aspettiamo?
Noi possiamo e dobbiamo: basta esserne convinti. Virgilio infatti diceva: “Possono, perché credono di potere”. È proprio così! Mostriamo il volto di Dio al mondo intero: in modo che tutti i nostri fratelli possano finalmente esclamare in cuor loro, come Giobbe, “Dio, io ti conoscevo solo per sentito dire; ma ora i miei occhi ti vedono”. Amen.

giovedì 10 aprile 2014

13 Aprile 2014 – Domenica delle Palme

«Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea» (Mt 21,1-11).
Gerusalemme è la città che rifiuta Gesù; i suoi abitanti, quelli che gli preparano la croce.
Gesù non vuole entrare in Gerusalemme in un modo qualunque, ma predispone tutta una serie di preparativi che devono dare al suo ingresso un profondo significato simbolico, conforme in tutto a quanto previsto nelle Scritture: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma” (Zc 9,9). Egli entra in Gerusalemme non come un re che vuole impadronirsi del potere, che viene a giudicare e punire, ma come un re che intende servire.
Con questa azione simbolica Gesù vuole attribuire al suo ministero finale un valore paradossalmente regale. Colui che morirà in croce è colui che è entrato “regalmente”, trionfalmente nella città; una regalità che proietta la sua luce sulla croce; una regalità quindi non conforme agli schemi umani, ma alla logica di Dio: egli infatti non entra su carri trascinati da cavalli, come fanno i re e i trionfatori mondani, poiché la sua regalità non è basata sulla violenza, ma sulla giustizia e sulla pace.
La reazione coinvolgente della folla lascia intravedere qualcosa dei fermenti messianici che serpeggiavano nel popolo all’epoca del dominio romano. I loro gesti richiamano peraltro quanto si faceva normalmente per le processioni nella festa delle Capanne e quanto viene evocato dal Salmo 118: “Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare”. Le loro acclamazioni “Osanna al figlio di David” dimostrano che essi riconoscono in Gesù questo Re, che viene a salvare il suo popolo.
In sostanza a Gerusalemme viene offerta l’ultima possibilità per ravvedersi: ma questo non viene capito. La folla enorme e festante che accompagna Gesù infatti non è costituita dagli abitanti di Gerusalemme, ma dai pellegrini, che arrivano in città numerosi per l’imminente festa di Pasqua.
Gli abitanti dunque ancora una volta non gli vanno incontro: mantengono lo stesso atteggiamento di indifferenza, tenuto all’annuncio della sua nascita. Per essi Gesù continua a rimanere uno sconosciuto. Sono anche questa volta gli umili, i devoti, gli osservanti, i pellegrini, che in vista della città, stendono sulla strada i loro mantelli e i rami recisi dagli alberi. È in questo modo, semplice e popolare, che il re umile e mansueto viene intronizzato. Ma solo chi è altrettanto umile, misericordioso, mansueto, può cogliere in lui la sua vera immagine di Dio misericordioso: sotto la sua povertà può scorgere la ricchezza, sotto la vergogna l'onore, sotto la morte la vita immortale.
Siamo dunque alla fine del cammino di Gesù su questa terra. Ha faticato molto per far capire a tutti, con la sua vita, la sua testimonianza, il vero volto di Dio; ma la gente dimostra ancora di non aver capito nulla. A noi oggi viene spontaneo dire: “Certo che a quel tempo erano proprio duri di comprendonio!” Ma noi, tanto critici, siamo proprio certi che ci saremmo comportati diversamente? Non siamo forse noi quelli che, quando ci fa comodo, pensiamo a Dio soltanto come ad uno che ci aggiusta la vita? Accendiamo la candela e l'esame ci va bene; un po' di acqua benedetta, e la salute è assicurata. In pratica cioè stiamo anche noi osannando “il figlio di Davide”, e non il Figlio di Dio. In altre parole stiamo adorando un altro Dio, un Dio che ci fa comodo, un Dio che non è quello di Gesù Cristo.
Il Dio che è venuto a rivelarci Gesù è un Dio che non usa la forza, il potere, la prepotenza; non è venuto per sottometterci al suo volere, ma usa nei nostri confronti la debolezza dell'Amore, ci lascia sempre liberi di scegliere Lui o chiunque altro: come il padre misericordioso, ci lascia andare, liberi di fare la nostra vita lontano da lui, ma tiene sempre lo sguardo fisso sulla strada, sperando di vederci tornare per poterci riabbracciare, senza chiederci niente, pronto a fare festa per noi.
Il nostro Dio non si contorna di gente colta e altolocata, ma sceglie gli ultimi, i più bisognosi, perché sono quelli più oppressi, più schiacciati dal potere, che poi sono anche quelli più disponibili ad accogliere la sua Parola di salvezza.
Per questo motivo, a coronamento di una vita vissuta in questo modo, egli sceglie di entrare in Gerusalemme cavalcando un'asina: e la gente continua a non capire, perché un comportamento del genere è decisamente fuori dalla mentalità comune, da ogni aspettativa; come lo è anche per la nostra. Non siamo forse noi quelli che si guardano bene dal scegliere di stare dalla parte di chi non ha voce, del disabile, dell'anziano, dello straniero, rispondendo ai loro bisogni e non imponendo un aiuto a modo nostro? Non siamo forse noi quelli che, invece di vivere sobriamente accontentandoci di quello che abbiamo, cerchiamo di accumulare sempre di più, ci circondiamo di oggetti inutili, di chincaglierie che riempiono le mensole delle nostre case, adoriamo il Dio denaro, invece di condividere gioiosamente il poco con i poveri della terra? È una questione di mentalità!
Se ci riconosciamo in questa tipologia di persone, allora chiediamoci: “Cosa posso fare per cambiare il mio modo di pensare, adottando quello di Gesù?” Beh, penso che la prima cosa da fare sia proprio quella di conoscere a fondo il suo pensiero, di capirlo, di assimilarlo, di metabolizzarlo: e questo lo possiamo fare attraverso l’ascolto e la meditazione della sua Parola: magari riservando settimanalmente qualche momento di silenzio per riflettere sul brano di vangelo della domenica.
In questo modo, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, noi impareremo a conoscere Gesù sempre meglio; impareremo a vederlo come lui è veramente; ci scopriremo sempre più somiglianti a lui, pronti a vivere anche noi la nostra “passione”, ad amare l’altro fino in fondo, fino al punto di dare la nostra vita perché “l'altro abbia la Vita”. Amen.

venerdì 4 aprile 2014

6 Aprile 2014 – V Domenica di Quaresima

«Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”. All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11,1-45).
Quello che ci colpisce, ad una prima lettura del vangelo di oggi, è il comportamento decisamente incoerente di Gesù nei confronti di un suo carissimo amico: venuto infatti a conoscenza della malattia di Lazzaro, Egli si preoccupa di tranquillizzare tutti – “questa malattia non porterà alla morte” - ma poi in realtà avviene il contrario: Lazzaro muore; inoltre, dopo aver saputo che l’amico stava male, invece di correre da lui, continua per altri due giorni a predicare là dove si trovava: se veramente Lazzaro gli interessava, perché ha perso del tempo prezioso? Non avrebbe fatto meglio a correre subito da lui, raggiungendolo immediatamente? Nei suoi discorsi, Egli parla continuamente di resurrezione dai morti, di immortalità, di vita eterna: tutti argomenti che implicano gioia, fiducia, serenità; ma allora perché di fronte all’amico morto, lui scoppia in un pianto dirotto, come se resurrezione e vita eterna, al dunque, non contassero nulla? Infine, perché ha aspettato che Lazzaro morisse, che venisse sepolto, per resuscitarlo? Non era più semplice e immediato “guarirlo” fintantoché era vivo, risparmiando ai parenti il dolore straziante della morte, e a tanta gente il disagio di presenziare alla sepoltura del cadavere?
Ebbene: la spiegazione la troviamo in queste altre parole di Gesù: “[questi fatti sono successi] per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Che vuol dire? Che Lui ha volutamente aspettato che gli eventi precipitassero, perché così poteva dimostrare di essere veramente l’inviato del Padre. È una spiegazione teologica: in altre parole Gesù vuol dimostrare a tutti che la Vita (lui stesso) è più forte della morte. L’amore (lui è l’Amore) è più forte della morte e chi lo ama, anche se muore, non muore.
È chiaro che questo vangelo va letto alla luce della resurrezione di Gesù; esso vede infatti, nel ritorno in vita di Lazzaro, un preannuncio di quello che poi succederà a Gesù, anche se la risurrezione di quest’ultimo avverrà su un piano esistenziale totalmente diverso, comporterà conseguenze diametralmente opposte: infatti, mentre il Lazzaro “risorto” torna a vivere la sua vita di prima, ancorché “nuova”, potendo acquisire nuove esperienze, nuovi sentimenti, nuovi legami, nuova spiritualità, Gesù invece non riprenderà le sue sembianze umane, ma continuerà il suo esistere in un altro mondo, in un'altra forma; riprenderà cioè esclusivamente la sua esistenza divina.
Quando dunque Gesù giunge a Betania – come il vangelo si preoccupa di sottolineare - la salma di Lazzaro già “manda odore, poiché è di quattro giorni”. Presso gli Ebrei il funerale e la sepoltura avvenivano nello stesso giorno della morte; si credeva però che lo spirito rimanesse nel corpo fina a quando il cadavere era ancora riconoscibile. Il quarto giorno, quando il processo di decomposizione era ormai avanzato, lo spirito abbandonava il corpo del defunto e scendeva per sempre nella dimora dei morti, lo sheol, nel quale rimaneva in attesa della resurrezione.
Cosa vuol dire allora che uno di “quattro giorni” - cioè certamente e definitivamente morto - ritorna in vita? Vuol dire: “Anche quando uno è ormai morto, con l’anima che ha lasciato definitivamente il corpo... anche quando ogni barlume di speranza è perduta... anche quando ormai tutto sembra impossibile... Gesù, il Dio della Vita, dimostra di essere più forte, più potente di ogni morte”. In altre parole la risurrezione di Lazzaro ci dice che per Gesù non c'è “morte o sepolcro” dal quale Egli non possa farci uscire (“Esci fuori!”); che non esiste legame mortale (“piedi e mani avvolte da bende”) dal quale poterci sciogliere; che non esiste maschera o camuffamento (“Volto coperto da un sudario”) che non possa toglierci.
Ci sono poi, nell’ultima parte del vangelo di oggi, altre sfumature da cogliere, altre frasi di rara bellezza da meditare. Per esempio:
Dove l'avete posto?”; cioè, che ne avete fatto di lui? Dove l'avete messo? Traduco in vita pratica: che ne abbiamo fatto della nostra voglia di vivere, del nostro impegno, del nostro entusiasmo? Che ne abbiamo fatto dei sorrisi che regalavamo? Che ne abbiamo fatto dei nostri sogni? Che ne abbiamo fatto di ciò che eravamo? Che ne abbiamo fatto della nostra voglia di aiutare gli altri? Che ne abbiamo fatto delle doti che avevamo? Dove li abbiamo sepolti? Perché siamo morti? Sì, perché quando seppelliamo ciò che siamo, noi moriamo. Avevamo dei doni, dei talenti, ma per paura, per conformismo, per non crearci “rogne”, li nascondiamo: e allora moriamo, preferiamo la morte. Dio invece è Vita: in Lui e con Lui viviamo al massimo di noi stessi. Se sopravviviamo, se trasciniamo stancamente e inutilmente i nostri giorni, vanifichiamo il dono di Dio. Dio ci ha fatto un dono meraviglioso: la vita. Viviamola come suo dono; viviamola come un dono che Lui continua a regalarci ogni volta che noi cadiamo e ci allontaniamo da lui.
“Togliete la pietra”. Quante volte abbiamo “coperto” le nostre vere intenzioni, quante volte abbiamo messo una pietra sopra la nostra coscienza! Non vogliamo vederci “dentro”: non vogliamo che il nostro intimo, la nostra anima, abbandonata e stagnante, riveli all’esterno il suo olezzo nauseabondo. Ma togliamo dunque la pietra! Tiriamo fuori i nostri segreti! Tiriamo fuori la vergogna, gli scheletri dall’armadio! Tiriamo fuori l'odio, la sofferenza! Come possiamo pensare di vivere se continuiamo a custodire dentro di noi la morte? Non ci può essere “vita” per chi vive nella morte. Apriamoci, spalanchiamo il nostro cuore. Facciamo entrare Dio: Lui è perdono; Lui non si vergogna di noi. Lui ci ama veramente. Non temiamo: perché con Lui tutto può essere riportato alla luce, tutto può essere riportato in vita.
Scioglietelo e lasciatelo andare”. Rimanere legati, uccide; sciogliamo allora tutti i lacci che ci costringono, tutti i nodi che ci limitano. Lasciamoci andare a Lui! Lasciamo “libero” l’altro: perché questo è amore. Ognuno ha la sua strada e la sua missione. L'amore è permettere a ciascuno di compiere il suo viaggio. Se il nostro cammino coincide con il suo, bene. Se non è così, pazienza, ma noi dobbiamo lasciarlo andare. Se abbiamo fatto del bene a qualcuno, lasciamolo andare: non pretendiamo che ci dimostri riconoscenza per tutta la vita: ci ha già detto “grazie”; non rinfacciamogli ad ogni occasione quel poco di bene che gli abbiamo fatto. Lasciamolo libero!
Vieni fuori”. Vogliamo smetterla di nasconderci? Ci sentiamo rinchiusi in una prigione? Veniamone fuori! Siamo in una situazione, in una relazione, che ci fa morire? Veniamone fuori! Siamo convinti di non valere, di non farcela? Veniamone fuori! abbiamo sempre paura di fare brutta figura, di sbagliare e ce ne stiamo sempre in disparte, in un angolo? Veniamone fuori! Abbiamo paura di osare perché poi tutti ci vedono? Veniamo fuori! Abbiamo delle doti, delle capacità, ma temiamo l'opposizione degli altri? Veniamo fuori! Smettiamola di giustificarci: “Io sono umile; io non ho le capacità; io non sono adatto”; diciamoci piuttosto la verità: “Io ho paura”; non abbiamo il coraggio di venire fuori. Dio infatti vuole che noi emergiamo, che ci realizziamo, che brilliamo. Dimostriamo a tutti, proprio attraverso i doni immeritati che Lui riserva di continuo alla nostra persona, che Dio è Amore. Assolutamente da provare. Amen.

venerdì 28 marzo 2014

30 Marzo 2014 – IV Domenica di Quaresima – “Laetare”

«Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi» (Gv 9,1-41).
Un vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo che pone in primo piano molti personaggi: i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, gli amici che lo conoscevano, e infine Gesù; un vangelo in cui Giovanni si diverte a dipingere con grande ricchezza di particolari, l’ottusità dei farisei e soprattutto la loro disonestà mentale; un vangelo di luce e tenebre, di chi vede e di chi non vede.
Tutto ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai farisei saputoni, agli interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i protagonisti si interessano ad ogni cosa, vogliono conoscere ogni particolare dell’accaduto; ma nessuno, tranne Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue difficoltà, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue esigenze: a nessuno insomma interessa la persona del cieco: tutti lo guardano - tutti lo guardavano da sempre - ma nessuno lo “vede”, nessuno si è mai “accorto” di lui; sono tutti preoccupati di loro stessi.
Innanzitutto ci sono i discepoli: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Gli ebrei dicevano: “Se uno è malato, lui o i suoi predecessori devono aver peccato”. Punto. “Sbagliano i tuoi antenati? Paghi tu!”. Questo è il principio, non si scappa. Quindi il problema dei discepoli è: “Chi è il colpevole della cecità di quest’uomo? Dov'è l'errore? Chi ha sbagliato?”. Essi vogliono un colpevole, una causa prima, un responsabile: non vogliono in ogni caso essere coinvolti personalmente nella vicissitudini dell’uomo: “È colpa sua, noi non c'entriamo, non ci riguarda, non dobbiamo fare niente per lui”.
È una mentalità molto diffusa; anche oggi: è sufficiente vedere come ci poniamo di fronte ai fatti di cronaca: corruzione, distrazione di capitali, montagne di rifiuti abbandonati per strada, delinquenza diffusa, genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, immigrati che creano problemi sociali, criminalità minorile in aumento esponenziale. L'unica preoccupazione è quella di scaricare le colpe su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo. Così, poi, tutti ci sentiamo più a posto, più tranquilli, con la nostra coscienza in pace. Trovato il “nostro” colpevole, ci buttiamo in fretta tutto alle spalle. Ma è giusto fare così?
Ci sono poi gli amici, i conoscenti del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui quello che era cieco”; altri, “no”; altri, “gli assomiglia”. Sono quelle persone per le quali noi non possiamo cambiare. Dicono di amarci, ma in realtà non accettano la possibilità che noi diventiamo migliori, di essere “altri”, soprattutto se questo cambiamento altera in qualche modo il nostro rapporto con loro. “Ma come: era cieco ed ora ci vede? Impossibile: com'è successo?” Per loro nessun cambiamento è possibile: ci hanno etichettato in un certo modo, hanno già deciso a priori chi siamo o non siamo, cosa possiamo fare o non fare, cosa poter dire, cosa poter rispondere.
Ci sono i genitori. A quel tempo la scomunica della sinagoga era una morte sociale. Essere scomunicati equivaleva a morire socialmente. Chiamati dunque a testimoniare, quei genitori hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “È abbastanza grande, può dire tutto di sé lui stesso! Che c’entriamo noi? È un problema suo!”. Un comportamento frequente anche oggi: e purtroppo, per un figlio, non c'è peggior tradimento che sentirsi abbandonato, per paura del giudizio della gente, dai suoi stessi genitori, le persone a lui più care, più vicine, di cui lui si fida ciecamente; chi lo deve difendere e proteggere, lo abbandona, lo tradisce. Oppure, peggio ancora, lo denigra, lo svergogna, lo rifiuta. È una situazione fin troppo usuale: il figlio si sente solo, perso, abbandonato, disperato, ma soprattutto tradito. Sente che il genitore pensa più a se stesso (paura di sfigurare, di non esser all’altezza, ecc.) che a lui, e ciò innesca comportamenti spesso tragici.
Poi ancora ci sono i farisei. I farisei qui sono semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza negano: “Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo figli di Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la saliva con la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può operare per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. I farisei si barricano dietro alla legge, alle regole perché hanno paura di ammettere che le cose sono diverse da come le vedono loro; che sono cambiate; per cui sono terrorizzati dalla prospettiva che essi stessi devono cambiare atteggiamento, devono cambiare cuore; sono maturati altri tempi. Ma per loro è inammissibile: piuttosto di cambiare, negano la realtà. Sono troppo preoccupati di salvare la loro immagine, di essere considerati i discepoli autentici di Mosè; più che la verità, preferiscono difendere il proprio ruolo esteriore.
Ecco, i farisei rappresentano tutti quelli che negano la verità: è sufficiente che si discosti dalle loro convinzioni, e per principio non la vogliono vedere, non la accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza del negativo che c'è in loro, dovrebbero rivedere i loro giudizi, le loro rabbie, le loro paure, i loro attaccamenti; ma preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere tutto. Perché, in pratica, “vedere” comporta necessariamente “cambiare”: meglio quindi non vedere, ignorare a tutti i costi.
Infine, per fortuna c'è anche Gesù. Gesù non deve difendere nulla: egli è libero. Libero come colui che accetta di poter fare brutta figura, di poter essere deriso, rifiutato, umiliato, malmenato, percosso, pur di difendere la verità, la propria coscienza. Gesù non si deve preoccupare degli altri, non gli interessa cosa diranno, e neppure deve salvare la faccia. Poiché non deve preoccuparsi di sé, si preoccupa dell'altro. Gesù è colui che ci “vede”, ci scorge, nota noi e i nostri problemi, perché non ha nessun interesse personale da difendere. Chi invece è occupato dai suoi problemi, non può occuparsi degli altri.
Ebbene: capita che spesso ci ritroviamo in tutte queste “persone”: i loro pregi e difetti sono i nostri. Sono i nostri “io” interiori. Apriamo allora per bene i nostri occhi: scrutiamo attentamente il nostro intimo; ma soprattutto “vediamo” e di conseguenza traiamo le nostre regole di vita. Non facciamo l’errore di fossilizzarci sui nostri lati negativi: su ciò che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, su come avremmo dovuto essere e non siamo, sulle troppe difficoltà che incontriamo nella ricerca di ottenere risultati soddisfacenti. Perché se concentriamo la nostra attenzione soltanto sui fallimenti, sulle sconfitte, l’immagine di noi che ne ricaviamo sarà decisamente negativa e fallimentare. Concentriamoci invece su quello che facciamo, anche se è poco; lavoriamo sempre sul positivo, su quello che possiamo costruire: così quando guardiamo il nostro prossimo, mettiamo in luce le sue doti, le cose belle, le sue capacità: in questo modo si sentirà valorizzato, amato, importante: si sentirà incoraggiato a fare sempre meglio. Ricordate le nostre pagelle di scuola? Tutti 7 e 8, e magari solo un 5. Qual'era il commento immancabile di nostro padre? “Perché quel 5? Sei proprio un somaro!”. Invece di spronarci, apprezzarci e incoraggiarci per gli altri bei voti, ci faceva sentire in colpa, disprezzati, falliti: una cosa che ci distruggeva, ci buttava a terra.
Al contrario è l'amore, il “vedere” positivo, la fiducia riposta nelle persone, che le fa cambiare; non il giudizio, non le accuse, non la considerazione del solo negativo.
Il vero peccato – ci dice il vangelo -non è il “non vedere”: è il non “voler” vedere, l’ostinarsi nel rimanere ciechi a tutti i costi. È un avvertimento che va preso molto sul serio: non dobbiamo addolcirlo, minimizzarlo, ammorbidirlo; è una frase tremenda: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». Che significa? Che il peccato di tantissima gente è quello di essere convinta di “vedere”, di sapere cioè cosa sia la verità (magari la insegna anche agli altri); gente che si propone come esempio da seguire, gente che crede di sapere chi è Dio, e cosa fare per seguirlo; gente convinta di essere dei bravi genitori, bravi cristiani, bravi preti, ecc. Gente convinta di non aver alcun bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione: perché essi sono i depositari della verità.
Brutta cosa! Gesù a tutti questi illusi continua a ripetere: “Siete dei ciechi. Il vostro dramma è di vivere nell’oscurità, nel buio totale; e nonostante ciò vi promuovete come guide esperte per gli altri”. Impossibile: “può un cieco guidare un altro cieco?”. Eppure quanti uomini, con una trave nell'occhio, passano la vita divertendosi ad osservare soltanto “la pagliuzza nell'occhio degli altri?”.
Chiariamoci le idee: luce, illuminazione, risveglio, occhi aperti, occhi che vedono bene, significa una sola cosa: “conversione”; significa cioè diventare i figli della luce, quelli che “vedono”, che si rendono conto sul da farsi, che non dormono sulle proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i figli delle tenebre, preferiscono vivere nell’oscurità, nel peccato, nella notte dell'ignoranza. Quindi: il grande peccato, l'unico, è rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi” per principio, ad ogni costo, per paura.
La grande domanda che Gesù ci rivolge, allora, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei disposto ad accettare ciò che vedrai”?. In altre parole: “Vuoi conoscermi veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità di seguirmi? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti eri fatto di me, il Cristo, della Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee personali, alle tue convinzioni errate, alla tua fede addomesticata, alla tua vita irregolare?”. Se amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, la gioia, l’amore, la nostra risposta sarà sicuramente “si”. Cessiamo allora di essere ciechi, di amare le tenebre. “Dio”, in sanscrito, vuol dire appunto “luce”: viviamo in Dio, e godremo dello splendore della Luce, nel caldo luminoso del suo Amore. E saremo felici. Amen.
 

venerdì 21 marzo 2014

23 Marzo 2014 – III Domenica di Quaresima

«Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua…» (Gv 4,5-42).
Il vangelo di oggi propone alla nostra meditazione l’incontro e il colloquio stupendo tra Gesù e la donna samaritana, avvenuto appunto nella terra pagana di Samaria, durante il suo viaggio di ritorno in Galilea. Ora, per capire bene il comportamento di Gesù, che è giudeo, e quindi “nemico” storico dei samaritani, dobbiamo entrare nella logica e nella mentalità di quel tempo. Egli va infatti contro ogni regola: rivolge cioè la parola ad una samaritana, che era “diversa” per razza, nazionalità e religione (era impensabile e improponibile per i giudei!); oltretutto si ferma a parlare fuori casa con una donna, cosa che equivaleva a farle delle proposte indecenti. Un comportamento che scandalizza anche i suoi stessi discepoli!
Ma Gesù è un uomo libero, e non sono certo i pregiudizi e le maldicenze che lo condizionano nel suo rapportarsi con le persone: lui incontra chiunque ne abbia bisogno, a prescindere da tutto e da tutti: in tutta la sua vita non ha mai detto “Questo si perché è ricco, nobile, potente; questo no perché dicono che è un disonesto (Zaccheo), una donna di malaffare, (l'adultera), un ladro patentato (Matteo Levi); no. Gesù non ha mai fatto questo: egli è fuori da ogni schema: è decisamente agli antipodi di questa mentalità, è scomodo e inopportuno, e soprattutto non rispetta tutte quelle regole rigide, frutto della mentalità ristretta della gente del suo tempo.
Gesù dunque giunge a Sicar. Il viaggio è stato lungo, sotto il sole, ed ha sete: si siede quindi presso il famoso pozzo di Giacobbe, appena fuori della città, per abbeverarsi e trovare un po’ di ristoro.
In quel mentre sopraggiunge una donna, diretta al pozzo per attingere acqua: e qui avviene l'incontro straordinario tra queste due persone, entrambe profondamente assetate: Gesù dell’acqua del pozzo (“Dami da bere”) e la donna dell’acqua soprannaturale dell’amore (“Signore, dammi di quest'acqua”).
I preamboli si svolgono su due piani diversi: la donna che rimane colpita per l’atteggiamento insolito di Gesù, decisamente contrario alle usanze, e Gesù che in pratica le risponde “Tu non sai chi sono io e che genere di acqua straordinaria io posso darti”. La donna ovviamente non comprende, e rimane interdetta: “Ma come, questo giudeo spossato dal caldo e dall’arsura, sprovvisto di qualunque attrezzo per poter attingere l’acqua, lui che chiede a me di dargli dell’acqua per dissetarsi, improvvisamente si dice in grado di “dissetarmi” con un’acqua miracolosa! Mi sta prendendo in giro?”
Ma poi, via via che il dialogo procede, la donna capisce di trovarsi di fronte ad un uomo fuori dal comune: Gesù la porta progressivamente da un punto di vista basato sul materiale, sul pratico, sulla vita vissuta, ad un altro più nobile, basato sul mistero, sul soprannaturale, rappresentato dalla sua stessa persona divina.
Non a caso questo colloquio tra i due avviene in prossimità di un pozzo: il pozzo è infatti simbolo di profondità, costringe a scavare, ad andare dentro a noi stessi per tirare fuori ciò che c'è sotto, ciò che c'è di nascosto. Gesù infatti non fa sconti sulla nostra vita; non ci giudica, non ci condanna: ma vuole che andiamo dentro di noi e che tiriamo fuori dal profondo della nostra anima le cose per come stanno veramente.
D’altro canto la samaritana è una donna decisa: una donna che di suo vuole andare fino in fondo alle cose, tant’è che preferisce essere esclusa, rifiutata dalla società per il suo comportamento anormale, pur di trovare la soluzione al suo malessere interiore, alla sua sete. Lo stesso coraggio che la porta a peccare, adesso l'aiuta a dialogare con quel forestiero, e per giunta giudeo. E proprio in quel dialogo penetra finalmente la Luce: in quella donna - una prostituta senza prezzo, con una lunga lista di uomini alle spalle, alla quale apparentemente non importa assolutamente nulla di Dio, di religione, di preghiera, di adorazione - un raggio improvviso illumina la sua mente, facendole capire in maniera chiara ciò di cui il suo cuore ha veramente bisogno. Sì, perché nel suo cuore, pur impantanato nel peccato, lei è alla ricerca del perché, del come, di cosa sia esattamente ciò che la rende così inquieta! Delle domande senza risposta appesantiscono da tanto tempo la sua anima. Ed ecco, incontrando Gesù, parlando con Lui, la sua mente si spalanca, e Lei scopre finalmente se stessa.
A questo punto si rende conto di essere alla presenza di un uomo eccezionale, perché solo un Profeta, un inviato da Dio, poteva rispondere alle domande più intime del suo cuore: domande che nessun altro, oltre lei, poteva conoscere. Quell’uomo si rivela al suo cuore per quello che Lui è veramente: il Soccorritore, il Salvatore, il Messia, che Dio ha mandato su questa terra in nostro aiuto.
Gesù con lei non fa il moralista: semplicemente la mette di fronte alla sua vita, alla sua verità; la costringe a dirsi tutta la verità, anche se è dura e difficile: “Non ho marito; ho avuto tanti uomini, ma nessuno mi ha mai soddisfatto “dentro”; non mi è mai bastato nessuno, perché nessuno è mai riuscito a placare la mia sete”.
Ecco il primo insegnamento per noi: incontrare il Signore significa dirsi la verità, tutta la verità; significa non mentirsi, non illudersi, non raccontarsi “frottole”.
Succede anche a noi, a volte, di capire che dietro alle nostre convinzioni, al nostro modo di pensare e di agire, c'è qualcosa che non va bene, che ha bisogno di essere esaminato, tirato fuori, portato a galla, per essere corretto, rivisto. In genere però noi non ci spingiamo oltre, perché “è meglio non farsi troppi problemi”. Ma così sopravviviamo; così sfuggiamo alla verità, all'incontro con noi stessi; così sfuggiamo al nostro cuore e a tutto ciò che c'è dentro.
Facendo così viviamo una vita falsa, mascherata, una vita non nostra: esibiamo all’esterno una verità costruita, illudendoci che sia invece quella autentica! Fuggiamo da noi stessi pur di avere una “bella facciata” da mostrare agli altri. Ma vivere una vita non nostra non può che portare inevitabilmente all'insoddisfazione e all'infelicità.
La verità, la sincerità, la retta intenzione, è invece l'unica strada che conduce a Dio; dirsi la verità significa infatti calarci nel profondo di noi stessi, dove Dio vive in noi, e metterci faccia a faccia con lui. Se la donna samaritana infatti non si fosse detta la verità (“sì ho avuto sei uomini ma in realtà sono ancora affamata d'amore”) non avrebbe mai potuto incontrare l'Amore vero, il Signore, colui che sfama ogni sete.
È chiaro che se noi siamo interessati solo al presente, se dobbiamo “difendere” ad ogni costo la nostra posizione sociale, allora è molto difficile, se non impossibile, dirci certe verità. Se la nostra famiglia “deve” essere perfetta, non possiamo ammettere che ci siano dei gravi problemi in casa nostra: e se ci sono, li sminuiamo, li nascondiamo, li seppelliamo. Se dobbiamo difendere la nostra immagine di “brav’uomini” non possiamo certo far capire che siamo in crisi, non possiamo chiedere aiuto, non possiamo ammettere di fare degli errori, non possiamo vederci e farci vedere imperfetti.
Purtroppo, nella vita, le relazioni umane sono sempre imperfette e parziali: noi chiediamo agli altri una comprensione, un’amicizia, un amore, “infiniti”, assoluti, perché abbiamo fame e desiderio di Dio, amore “infinito”; la nostra domanda è sì di “infinito”, ma la risposta che otteniamo è sempre “finita”, limitata, imperfetta. Ci illudiamo che l'altro ci riempia del “tutto”, ma il “poco” che riceviamo ci lascia sempre delusi, scontenti. Il rischio che corriamo, se non ci rivolgiamo al Signore per ottenere il dono dell'acqua viva, è quello di “morire di sete”; ma se egli ci concede questo dono, allora capiamo improvvisamente quanto sia sublime, quanto sia meraviglioso “morire d'amore” per lui. La storia della samaritana è quindi la storia dell’umanità: è la storia di ciascuno di noi. Nel cuore dell’uomo manca infatti un qualcosa che continuamente egli si affanna a cercare: ricordate Agostino? “Il nostro cuore è inquieto, fino a quando non riposa in Te, Signore”. Nel nostro cuore, anche se lontano da Dio, anche se dimentico di Lui, c’è sempre un vuoto a forma di Dio: un vuoto che solo Lui può colmare. Un Dio che ci aspetta pazientemente al nostro “pozzo”: che ci osserva durante il corso della nostra vita; pur essendo nel più alto dei cieli egli continua a guardarci, a seguirci, ad aspettarci. E noi, per quanto insensibili, per quanto distratti, per quanto “uomini duri”, ad un certo punto ci accorgeremo di Lui, capiremo che Lui, nonostante tutto, è sempre stato qui, al nostro fianco; Egli vuole incontrarci personalmente, vuole aiutarci, soccorrerci, dissetarci, perdonarci; è venuto insomma a salvarci.
Non facciamolo “stancare”. Non lasciamolo solo, assetato di noi, seduto ad aspettarci accanto al “pozzo”. Egli, Dio infinito amore, ancora una volta come sulla croce, non si vergogna di manifestarci la sua sete di noi, di chiederci da bere; non si vergogna di essere stanco a causa della nostra “arsura”; non si vergogna di chiederci un po' di sollievo d’amore.
E allora preghiamo: Signore Gesù, se non ti pensassimo, seduto accanto a quel pozzo, stanco per la fatica e per il caldo, forse non avremmo il coraggio di credere in te. Se tu fossi vissuto fra noi sempre fresco e pimpante come i personaggi della pubblicità, con un perenne sorriso “a trentadue denti” stampato sul volto, forse non avremmo il coraggio di accostarci a te, di credere in te. Perché anche noi siamo spesso stanchi: dello studio, del lavoro, degli amici e dei nemici, di chi si comporta male e di chi si comporta bene ma ce lo fa pesare; siamo stanchi di quelli che non sono mai stanchi e di quelli che sono sempre stanchi. Di quelli che ci devono ubbidire, e di quelli che ci comandano. Siamo stanchi, anche se non lo vogliamo ammettere. Per questo, Signore Gesù, noi spesso veniamo vicino a te, vicino a quel tuo “pozzo” e, stanchi, ci sediamo accanto a te sotto il sole di mezzogiorno. E ci sentiamo finalmente rinfrancati, tranquilli, amati.
Signore Gesù, non sappiamo imitarti quando sei in piena forma; ma vicino a quel pozzo, ci sentiamo come te: dacci da bere allora la tua acqua. Amen.

venerdì 14 marzo 2014

16 Marzo 2014 – II Domenica di Quaresima

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro» (Mt 17,1-9)
Pietro e gli altri discepoli non hanno ancora capito chi sia realmente Gesù. Essi continuano a vedere in lui il Messia forte e potente, il Messia giunto finalmente a sollevare le sorti del loro popolo, schiavizzato dalle grandi potenze dell’epoca; un uomo che - ancora non sanno come, ma sicuramente con grande impiego della forza – li affrancherà dall’oppressione romana in atto, riportando finalmente giustizia ed equità in quel loro paese martoriato. Questo essi vedono in Gesù: ma questo non è Gesù. Eppure Egli ha cercato in tutti i modi di spiegare loro la vera natura della sua missione: anche soltanto pochi giorni prima era stato molto chiaro in proposito: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”: parole che lasciano ben poco spazio a visioni fantapolitiche. Ma niente e nessuno poteva scuotere le convinzioni profondamente radicate in questi ruvidi lavoratori: serviva una “catechesi” forte, immediata, di sicuro impatto emotivo. Per questo egli “prende con sé” Pietro, Giacomo e Giovanni. Perché loro? Perché erano i più “agguerriti”, quelli più vicini e attenti. Pietro era il portavoce del gruppo, un tipo sanguigno che prima agiva e poi pensava: uno che vedeva in Gesù il Messia politico di cui era accanito sostenitore; i due fratelli Giacomo e Giovanni, erano due tipi molto ambiziosi, convinti anch’essi del suo ruolo politico; erano soprannominati entrambi “Boanèrghes”, “figli del tuono”, per il loro carattere impulsivo, “fumino” e spesso collerico. Un trio decisamente di punta, emergente e trascinatore.
L’esperienza a cui Gesù vuole renderli partecipi, è una di quelle importanti, che deve durare nel tempo, che deve essere documentata seriamente: per questo servono dei testimoni attendibili, gente che si sappia imporre, gente persuasiva, con carattere.
Con essi dunque Gesù sale su “un alto monte”. E qui, mentre sono lontani dagli altri, “in disparte”, egli si “trasfigura”; le sue sembianze di uomo, si trasformano in sembianze divine: si riprende cioè le sue sembianze vere, quelle che gli appartengono, quelle della sua natura divina, rivelandosi per quello che Lui realmente è: il Dio amore e vittima sacrificale che, nella sua “kenosis”, nello “svuotamento” cioè della sua divinità, ha accettato di assumere la nostra natura umana per riscattare e riportare al Padre l’intera umanità mediante il sacrificio della croce.
È un evento difficile da capire e da descrivere nella sua realtà: i tre evangelisti che ne parlano riflettono infatti l’inadeguatezza delle loro parole: il volto di Gesù brilla “come il sole”, le sue vesti diventano candide “come la luce, sfolgoranti, splendenti, bianchissime”. Sicuramente si rifanno ai testi delle Scritture che parlano di Dio come creatore della luce, sorgente di luce eterna, avvolto in un mantello di luce (cfr. Sal 104,2).
In questa esplosione di luce, con gli occhi abbacinati da tanto splendore, improvvisamente essi scorgono Mosè ed Elia, intenti a conversare con Gesù. Si tratta di due personaggi biblici fondamentali per la storia di Israele: Mosè che rappresenta la Legge, Elia che rappresenta i profeti: non si rivolgono ai discepoli, ma dialogano direttamente con il Cristo. Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, non hanno più niente da dire al popolo, se non attraverso Gesù. Perché è con Gesù che viene abolita l'antica alleanza; per cui tutto ciò che Dio deve dire, da questo momento lo dirà attraverso di Lui.
«Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». È Pietro che parla: è preso dall’entusiasmo e dall’eccezionalità del momento: vorrebbe che quella esperienza non finisse mai: l’idea delle “capanne” gli viene naturale, è una prassi che lui conosce molto bene, poiché ogni anno, nella festa delle capanne, ci si accampava in capanne per sette giorni, facendo memoria della miracolosa liberazione dall’Egitto, guidata appunto da Mosè. Ed è proprio Mosè che Pietro, nella sua proposta, colloca al centro, non Gesù; la sua grande aspettativa era infatti che Gesù, il nuovo Mosè, avrebbe seguito le orme dell’antico, liberando con la forza il popolo dalla schiavitù dei Romani e dall'ingiustizia religiosa dei farisei.
Ma Mosè ed Elia ignorano i tre; dialogano direttamente con Gesù; e come se non bastasse, una voce tuona dall’alto: “Questo è il figlio mio… ascoltatelo!”.
I tre, già in preda ad una fortissima emozione, “caddero a terra” e furono presi da “grande timore”. Cadere a terra è segno di totale disfatta: a questo punto infatti essi si sentono sconfitti, delusi; i loro sogni di restaurazione, le loro pretese e aspettative politiche, si infrangono contro questa nuova realtà. “Abbiamo creduto che tu fossi qualcuno che non sei”: si rendono conto di essersi sbagliati: improvvisamente diventano consapevoli di trovarsi di fronte ad una autentica manifestazione divina, e il timore li assale; hanno il terrore di morire, perché ricordano la Scrittura che dice “Chi vede Dio faccia a faccia, muore”. Ma Gesù è lì accanto, li tocca, li rassicura, li rialza. Fa cioè lo stesso gesto (toccare e rialzare), dice le stesse parole che usa nelle guarigioni (“non abbiate paura”). E i tre immediatamente guariscono: guariscono dalla falsa visione che avevano su di Lui.
Adesso lo vedono per quello che è veramente: infatti, riavutisi dallo spavento, vedono soltanto Gesù. Non c'è più né Mosè, né Elia: Gesù è solo; Gesù è soltanto Gesù. Pietro, Giacomo e Giovanni non proiettano più su Gesù le loro speranze e le loro aspettative; si sono finalmente spogliati delle loro idee, delle loro previsioni su di lui.
Questo del “proiettare” sugli altri le nostre convinzioni, del “costruire” sugli altri il verificarsi dei nostri sogni, è un fenomeno molto comune: in pratica mettiamo addosso agli altri dei vestiti, delle maschere, dei ruoli, che non sono loro, per cui li vediamo non per quello che sono ma per quello che decidiamo che siano.
La “proiezione” vede solo quello che vuol vedere. Quando poi scopriamo che l'altro non è così, rimaniamo delusi: “Non sei come pensavo!”. Non lo è, e non lo è mai stato: eravamo noi che vedevamo in lui uno che non c'era. Per questo motivo la proiezione ci impedisce di amare l’altro: perché non è lui che noi amiamo, ma la corrispondenza della sua immagine alla nostra idea.
Noi abbiamo ben chiara nella nostra testa l’idea di capo, di amico, di prete: quando capitano delle new entry, noi proiettiamo sul nuovo arrivato questa nostra idea: e poiché difficilmente questi corrisponde al nostro standard, al cliché da noi vagheggiato, ne rimaniamo delusi. E allora diciamo: “Non ci piaci!”. E lo rifiutiamo.
Quante unioni, quante vocazioni, quanti matrimoni nascono e muoiono così! Lei sposa lui perché lo vede forte, vede in lui il suo paladino, colui che le garantisce sicurezza e forza. Ma questo è il “tipo” di cui lei ha bisogno, non l’uomo che lei ha scelto. Quando infatti, poco dopo, lui si rivela per uno che non parla, uno che più che forte è violento, uno che non sa essere affettivo, lei si lamenta: “Non sei più quello di una volta; non sei quello che ho sposato; non eri così prima di sposarci!”. E invece no; lui è sempre stato così; è che lei vedeva un altro; vedeva quello che aveva bisogno di vedere, quello che le “serviva” di vedere.
D’altro canto, nella stessa lettura del vangelo noi siamo portati a “proiettare”: l’immagine cioè che noi abbiamo di Dio spesso non è quella reale, ma quella che noi, in quel momento, gli attribuiamo. Dio infatti, non è il burbero, forte, severo “padrone” del mondo: non è l’intransigente giudice che gode nel punirci appena ci allontaniamo un attimo dai suoi precetti. Lui non è così, non incute assolutamente il terrore; non abbiamo alcun motivo per temerlo, ma innumerevoli per amarlo; eppure per tanti secoli abbiamo proiettato su di lui le nostre immagini di padre/padrone colte dalla vita sociale e dalla mentalità di allora. Così ne è nato un Dio da temere, un Dio che pretende sacrifici continui, ubbidienza ferrea dai suoi sudditi, un Dio che si arrabbia e che inesorabilmente ci punisce (ci manda all'inferno) se non facciamo come dice lui.
Ma Dio non è venuto a rinnovare la società esistente; Dio è venuto ad annunciare la novità del suo regno, che è un'altra cosa: seguire Dio, diventare cristiani, nel primo caso corrisponderebbe semplicemente al farsi battezzare e frequentare la Chiesa; aderire al regno di Dio significa invece vivere la libertà, la verità, l’amore che stanno al centro del nostro cuore: farne il nostro stile di vita. È un'altra cosa.
Il vangelo dice che Gesù “fu trasfigurato” davanti a loro e che il suo volto “brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”. Cos'avranno visto i tre accompagnatori? Cosa significa vedere Gesù “trasfigurato”? Come si possono “vedere” queste cose? Ebbene: la “trasfigurazione” è vedere appunto cose che non possiamo in alcun modo vedere con gli occhi fisici; significa vedere cose che si possono percepire soltanto con il cuore. E siccome molti non hanno gli occhi del cuore, non potranno mai avere queste “estasi”. “Trasfigurazione” significa rivelare nei tratti esteriori del nostro volto la gioia, la beatitudine incontenibile, prorompente, di quando ci sentiamo rapiti in cielo, di quando cioè il nostro cuore è stracolmo di felicità perché si sente al centro dell’amicizia con Dio, percepisce la sua presenza in lui, si sente abitato, invaso, inondato dal suo amore.
Siamo mai stati veramente innamorati? Se abbiamo perso la testa, se abbiamo fatto cose pazze per qualcuno, se ci è capitato, almeno una volta, di vedere il mondo come un paradiso celestiale, perché qualcuno ci ha dichiarato il suo amore, allora, forse, riusciremo a capire questo brano del vangelo.
Se non ci siamo mai innamorati, se non ci siamo mai lasciati andare, se non conosciamo cosa voglia dire abbandonarsi completamente alle emozioni del cuore, agli slanci dell'anima, non potremo mai conoscere il messaggio di Cristo: perché lui su questa terra fu così: un innamorato, un passionale, un fuoco che divampava, che bruciava, che incendiava chiunque lo incontrasse.
Dio è Amore, dice l'evangelista Giovanni. Cioè: solo chi sa aprirsi e vivere l'amore può capire Dio. Tutti quelli che non sanno spalancare il loro cuore all’amore, potranno sì avere un’idea di Dio, ma non lo potranno mai “sentire”; tutti quelli che sono freddi, che vivono nell’isolamento del proprio io, incapaci di commuoversi, di esaltarsi, non potranno mai percepire la grandezza del suo cuore, la quantità del suo amore; tutti quelli che non sanno abbandonarsi ai sentimenti, continueranno a cercarlo invano.
Ci succede mai di commuoverci davanti alla dolcezza del volto di una donna, di un bimbo, alla serenità di un silenzioso tramonto in montagna? Ci sentiamo mai così pieni di gioia, da commuoverci, da sussultare, da non poter più trattenere la gioia delle lacrime?
Ebbene, quando vinciamo delle battaglie, quando facciamo delle conquiste o superiamo delle paure, delle prove, delle barriere che sembravano insormontabili; quando ci succedono cose impensabili ma meravigliose, quando nell’anima si aprono improvvisamente spiragli inattesi, quando guariamo dalle gravi malattie dell'anima e del fisico, non possiamo non commuoverci fino alle lacrime; non possiamo non piangere di felicità, di gioia; non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla forza, alla bellezza, all'intensità della vita che ci invade il cuore.
Una volta pensavo che commuoversi significasse essere deboli. Ma oggi so che provare emozioni forti,vuol dire essere vivi, vuol dire “sentire” ciò che viviamo, facendone partecipi anche gli altri; vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi coinvolgere da ciò che succede, significa non essere gelidi come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo. Perché questi sono i nostri momenti di “trasfigurazione”; sono i momenti in cui percepiamo con assoluta chiarezza che vale la pena di vivere; sono i momenti in cui ci sentiamo riconoscenti a Dio per essere in questo mondo, per aver avuto il grande dono di esistere. Sono i momenti che ci danno l'energia, la fiducia, la forza, il coraggio, di andare sempre avanti, affrontando se necessario le cadute, le croci, le crocifissioni di ogni giorno; sì, perché senza questi sprazzi di gioia, di felicità, di infinito, senza questi “momenti di Dio”, non riusciremmo mai a trovare la forza per rialzarci e continuare il cammino.
E concludo: se vogliamo “trasfigurarci”, dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita irrompi in noi, dobbiamo lasciare che la vita viva in noi, che sussulti, che si sviluppi, che l’amore nasca, si espanda, si irrobustisca.
Perché è quando ci innamoriamo che noi facciamo esperienza di “trasfigurazione”. Vediamo cioè nell'altra persona, cose che soltanto noi riusciamo a vedere. Quando nel buio di una situazione facciamo entrare la luce, quando da smarriti che eravamo, ci ritroviamo, noi facciamo esperienza di trasfigurazione. Quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini che lo abitano, ha un suo senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di trasfigurazione. Quando riusciamo a vedere, a scorgere, a percepire la bellezza, la forza, la sensibilità, la ricchezza d’animo di una persona, anche se da fuori non si vede, questa è trasfigurazione.
Trasfigurazione è vedere le persone per quello che realmente sono; è vedere la loro vera faccia, il loro vero volto, la loro figura integra, come è stata creata da Dio: non deformata dai giorni, dalle paure, dal dolore, dalle ansie e dalle angosce della vita.
Se ci capita di piangere di gioia, di sentirci così felici da toccare il cielo; se ci capita di essere così pieni d’amore, così ricchi da sentirci rapiti in cielo, così immensi da sentirci caldi come il sole o profondi come il mare, beh questa è trasfigurazione.
Il mondo ci dirà che siamo matti: non ci capirà mai; ma mentre lui continuerà ad essere infelice, noi saremo davvero tanto, tanto felici. Amen.