giovedì 12 settembre 2013

15 Settembre 2013 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze…»
(Lc 15,1-32).
Questo brano del vangelo ha molte chiavi di lettura: è la storia di Dio Padre che aspetta il ritorno a casa di ogni figlio smarrito, e lo accoglie sempre a braccia aperte. È la storia di quei giovani in procinto di affacciarsi nel mondo: per poter trovare se stessi, la propria vita, la propria collocazione nella società, devono prima “uscire” da una mentalità ristretta, chiusa, infantile. È la storia di ogni uomo, di tutti noi, che a volte possediamo le cose ma non ce ne rendiamo conto; da qui la necessità di capire, di apprezzare e riconoscere quello che già possediamo: ci sono differenze infatti che non potremo mai cogliere stando rintanati in noi stessi, ma solo “uscendo” da noi, vivendo, magari sbagliando, ma provando e riprovando. È la storia di come possiamo fare tante “cavolate” nella vita; ma anche di come non sia mai troppo tardi per rimediarvi: possiamo finire con i porci, condurre una vita depravata, razzolare tra i rifiuti, ma abbiamo sempre la possibilità di redimerci, di recuperare la nostra vita e soprattutto riacquistare la nostra dignità. È la storia dell'amore che rimane, che vince su tutto: è la storia di quel padre che, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là del rifiuto ricevuto dal figlio, al di là di tutto, continua a rimanere un padre affettuoso, un padre innamorato del figlio. È la storia di chi ha paura di crescere, di cambiare: di chi se ne sta chiuso in se stesso, con le sue solite idee, con il suo solito lavoro, nel suo solito mondo, e muore: muore perché la sua non è vita, vivere non è questo: non è vita quella del figlio maggiore che dichiara un depravato, un morto, suo fratello, e non si accorge che sta parlando di sé; è lui che è un morto in casa, è lui che è corroso e paralizzato dalla paura; e cosa fa? Giudica! Giudica il fratello perché non riesce a vivere come lui, e ciò lo infastidisce profondamente. Il giudizio è sempre la voce della morte: attacchiamo l’altro, perché noi non siamo in grado di imitarlo e vivere la vita come fa lui.
Ecco, queste sono alcune possibili chiavi di lettura di questo vangelo. Più in generale esso ci propone la storia dell’uomo, l’evolversi della vita: ci descrive, ci mostra con mano, come le nostre relazioni interpersonali, durante l’esistenza, siano destinate a cambiare.
Guardiamo meglio cosa succede. C'è un padre con due figli, e quindi, essendo in tre, ci vengono descritte tre relazioni: quella tra il padre e il figlio minore; quella tra il padre e il maggiore, e infine quella tra i due fratelli, il minore e il maggiore.
Per entrambi i figli il padre è colui “che dà”. Il figlio minore gli dice infatti: «Dammi la parte di eredità che mi spetta». Quel “dammi” rivela chiaramente come lui consideri suo padre: suo padre è colui che gli deve “dare”. Anche il figlio maggiore la vede in questo modo, e gli rimprovera: «Tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con gli amici».
Tutti i figli, in fondo, vedono il padre e la madre in questo modo: come coloro cioè che devono “dare” sempre: il cibo, i vestiti, la casa, i soldi per i libri, per mangiare la pizza con gli amici, per uscire e divertirsi. Del resto, guai se non facessero così: guai se i genitori non assicurassero ai loro figli sostentamento e nutrimento: è la loro stessa funzione naturale quella di “dare”, fin dai primi anni di vita: sono lì esattamente per quello.
E la relazione tra i due fratelli? Non si rivolgono mai la parola. Non si diranno mai niente: i due fratelli non s'incontreranno mai! Perché? Semplice: non “vogliono” incontrarsi; entrambi sono in conflitto per il padre, un conflitto che però li divide: vince il maggiore (il prescelto), perde il minore che se ne deve andare.
Si capisce allora perché egli si rivolga al padre in maniera così dura e perentoria: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Non a caso si rivolge così; non perché abbia un caratteraccio, non perché sia un depravato. Si rivolge così perché il padre ha scelto il maggiore (com'era normale e ovvio a quel tempo e, per certi aspetti, in ogni tempo) e lui si sente rifiutato. Non è il preferito; il padre ha scelto l'altro: e non essere scelti, non essere i primi, fa sempre molto male!
Tra i due fratelli c'è relazione, ma è una relazione di odio, di competizione, di conflitto. Non si dicono niente ma si odiano “a sangue”: e risulta particolarmente evidente quando il maggiore, rivolgendosi al padre, allude al fratello chiamandolo “questo tuo figlio”: non lo vuol riconoscere come fratello, per lui è soltanto un estraneo, uno che ha divorato i “tuoi averi con le prostitute”, uno che merita solo odio e disprezzo. Egli si sente più forte: è l'erede legittimo, e si sente quindi personalmente “defraudato”.
Il minore invece, geloso del legame speciale esistente tra il fratello e suo padre, si sente in netto svantaggio, e non può fare altro che andarsene. Anche se la differenza che lamenta in fondo rientra nella normalità. Da che mondo è mondo, infatti, i genitori non hanno mai trattato due fratelli esattamente allo stesso modo; mai, in nessuna epoca, i figli hanno avuto da loro un trattamento assolutamente paritario. Quando diciamo che i figli sono per noi tutti uguali, ci illudiamo, facciamo solo della teoria. Non è così. Pensiamoci un attimo: il primogenito, essendo il primo figlio, quello “atteso”, quello “desiderato”, quello “cercato” e “voluto”, ha dai genitori un amore e una sollecitudine del tutto particolare. Li ha tutti per lui. Il secondo non sarà mai come il “primo”, perché non sarà più una novità, non procurerà più lo stesso impatto emotivo, non richiederà lo stesso investimento di energie, né la stessa pianificazione del primo. Il primo, poi, rispetto al secondo, è sempre “più avanti” nella scala delle attese dei genitori: arriva prima a correre, a scrivere, a leggere, a fare le cose; gode di maggior fiducia da parte della mamma, che lo ritiene più bravo e responsabile, e gli da qualche piccolo incarico, a volte anche di badare al fratello minore.
È ovvio quindi che, agli occhi di quest’ultimo, sia lui il più bravo, lui il più affidabile, e quindi anche, sia lui il preferito; è tutto ovvio e naturale. Ma vedere uno che è sempre e comunque “più” di noi, essere costretti a dover lottare continuamente per dimostrare che noi valiamo di più, sappiamo “di più”, possiamo fare “di più”, beh, a lungo andare, distrugge anche i più forti.
Ebbene: quello che il vangelo riporta è nient'altro che questo: il maggiore sa di essere il primo, e il minore sa di essere il secondo.
Questa perlomeno era la situazione iniziale, ma poi c'è stato un distacco, una lontananza. C’è stato un viaggio salutare, che ha ridimensionato le cose: il minore si è staccato dal padre, cioè dall’immagine di colui che deve solo “cedere” il suo patrimonio, ed ha intrapreso quel lungo viaggio che l’avrebbe riportato dentro di sé, sui suoi passi, sulle sue valutazioni (rientrò in se stesso). Anche il padre ha dovuto fare un viaggio analogo, anche lui ha dovuto superare una immagine distorta, rancorosa: quella di avere un figlio ingrato, ribelle, egoista, che dopo aver ricevuto i soldi, invece di ringraziare, di dimostrargli riconoscenza e amore, fa perdere le sue tracce; è cambiato al punto che lo troviamo in ansia, fuori di casa, mentre attende angosciato il suo ritorno.
L’unico che non ha fatto nessun viaggio è il figlio maggiore. Per lui suo padre è rimasto “quello che dà”, e suo fratello continua ad essere per lui “quello inferiore”, il depravato, il “porco”, quello che ha dissipato tutto con le prostitute. Egli è spinto da invidia e da livore: non tollera che suo fratello, il “minore”, quello che è sempre stato meno di lui, sia accolto in casa dal padre con una dignità e con onori tali che neppure a lui, il fedele, gli erano mai stati riconosciuti: per questo reagisce distruggendo il fratello, distruggendo la sua immagine, infangandola, screditandola. Questo palese affronto alla sua superiorità, al suo primato indiscusso, scatena in lui collera, rabbia, rancore. Il suo vero problema è appunto non essersi mai mosso da casa; non essere uscito da se stesso, non aver fatto alcun “viaggio” purificatore. Quante persone, rimaste sempre ferme, tappate “in casa”, rivelano per questo tutti i loro limiti, la loro chiusura mentale, le loro solite quattro idee, il solito modo di pensare, le stesse cose e le stesse tradizioni di sempre. Per conoscere, per imparare, per cambiare, bisogna uscire dal nostro microcosmo chiuso e limitato, bisogna mettersi in discussione; uscire è scoprire immagini nuove, nuove cose incredibili; uscire è rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più grandi della nostra piccola e sclerotizzata testa. Ma uscire fa paura, è pericoloso, ci mette in balia di forze avverse: non è forse meglio rimanere in casa, al sicuro, soli e protetti dalle nostre personali certezze?
In questo modo il minore, uscendo, rischiando, è cresciuto, è diventato uomo, ha trovato la sua vita vera; il maggiore invece, trincerato nei suoi vecchi schemi e pregiudizi, è diventato un uomo morto.
Al ritorno del minore, dunque, sia lui che il padre sono completamente diversi: il padre non è più “colui che dà” e lui non è più “colui che prende”, ma uno che a sua volta “dà”.
E questo figlio, coperto di stracci, senza più nulla, ma vinto dal dolore e dal rimorso, cosa può dare ora al padre? Gli dà la gioia di esprimere la sua nuova vera paternità: gli conferma cioè che essere padre non è più questione di soldi (patrimonio), ma di amore, di affetto, di presenza (paternità). Il viaggio che lo ha portato dal “patrimonio” (ti do le mie cose) alla “paternità” (ti do l'amore), è stato determinante: essere padri non è dare cose, posizioni, uno status sociale; paternità è dare qualcosa di sé, è poter essere una casa che rimane aperta ogni volta che i figli vorranno tornare: e il “far festa con il vitello grasso”, altro non è che una espressione di questo nuovo amore.
Sullo sfondo, invece, il figlio maggiore sarà ancora lì, a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e soldi scialacquati: non ha capito la loro trasformazione; lui non è ancora “passato”, non ha fatto ancora nessun viaggio, per lui l’immagine del padre è sempre la stessa, quella di prima: e per questo si sente rifiutato. Improvvisamente percepisce che il padre è radicalmente cambiato (“ama mio fratello quanto me”), non accetta questo cambiamento, si scontra con questa novità (“io non sono più il suo preferito”). E sempre per questo lo rifiuta e lo attacca. Non ha capito che i rapporti nella vita devono cambiare; se non cambiano muoiono o finiscono (che è la stessa cosa).
Le relazioni non finiscono perché viene meno l'amore. Le relazioni finiscono perché noi non vogliamo cambiare, ci irrigidiamo sulle nostre posizioni, ci ostiniamo a rimanere fermi, ci opponiamo con tutte le forze a far “evolvere” il nostro rapporto, farlo crescere, renderlo adulto.
Ma questo, lo ripeto, non è vivere.
Le scelte che la vita ci propone sono pertanto due: o uscire dalle nostre certezze, rischiare di perderci, ma vivere poi nella felicità; oppure non muoverci, non cambiare, fare cioè come il figlio maggiore, che dall’alto del suo legalismo statico giudica e disprezza tutti, ma è infelice. A noi la scelta dunque, ben sapendo che la nostra vita sarà condizionata da ciò che scegliamo. Amen.
 

venerdì 6 settembre 2013

8 Settembre 2013 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,25-33).
Di fronte alla grande folla che lo segue, Gesù se ne esce anche questa volta con delle parole molto dure. Per lo meno sembrano dure a noi che siamo abituati a fermarci in superficie, senza curarci di approfondire, di capire in tutte le sue sfumature il senso autentico dei suoi discorsi.
Gesù dunque sembra freddare, scoraggiare la folla che lo segue. Ora, se ad una importante manifestazione si verifica una folta partecipazione di pubblico, è umano, naturale, che chi l’ha organizzata provi grande soddisfazione; infatti, il massimo per chiunque abbia un messaggio da trasmettere, è sicuramente la presenza di una folla che gli dimostra curiosità, interesse, ammirazione.
Gesù però non la pensa in questo modo: la gente con cui ha a che fare, è eterogenea, spesso distratta, un po’ chiassosa; una folla che lo segue non perché attratta dal suo messaggio “rivoluzionario”, ma per emulazione, per fanatismo, per curiosità; tanto per fare qualcosa di nuovo, perché tutti fanno così.
Egli non ama le folle sterminate di questo tipo: Egli preferisce al suo seguito magari poca gente, ma che sia convinta, motivata, che sappia quello che fa e quello che vuole; gente che per seguirlo sia pronta a rinunciare anche agli affetti più cari: «Chi non odia il padre, la madre, il figlio, le sorelle non può essere mio discepolo».
Un messaggio forte e chiaro: anche se in cuor nostro pensiamo che qui Gesù sia andato un po’ oltre, che ci chieda veramente l’impossibile. Non ci aveva sempre detto il contrario? Come possiamo “odiare” le persone più care al mondo?
Le parole di Gesù, però, vanno oltre il loro significato immediato: Egli vuole dirci che nella vita esistono due tipi di amore: uno buono, da coltivare, e uno cattivo da evitare; un amore che ci rende liberi e un amore che ci rende schiavi. C'è un amore che ci affranca, che ci redime, un amore che ci ridona a noi stessi, alla nostra esistenza; e c’è un amore al contrario che ci ingabbia, ci tarpa le ali, ci mortifica, ci imprigiona, un amore che ci lega indissolubilmente a sé. Il primo ci libera, ci salva; il secondo ci uccide!
Viene spontaneo allora chiederci: “Cosa c’entra tutto questo con l’amore per i propri genitori? Se non è buono quello di amore, quale altro mai lo sarà?!”. Ma andiamo per gradi: cerchiamo prima di tutto di scoprire e di capire con quale amore noi amiamo, con quale amore veniamo amati, o come siamo stati amati nel passato. Allora capiremo che non tutto quello che definiamo amore è “vero” amore: possiamo infatti definire amore quello di chi ci obbliga a fare solo ciò che vuole lui? Quello di chi condiziona una qualche dimostrazione di affetto, di amore, alla perfetta esecuzione dei suoi ordini? Possiamo chiamare amore per il prossimo, per il proprio compagno, per i fratelli, quello di chi tradisce la loro fiducia, di chi si comporta in maniera disonesta, mirando solo al proprio tornaconto? Purtroppo, il più delle volte, quello che noi chiamiamo amore, altro non è che un travestimento dell’egoismo, dell’ingordigia, dell’avarizia, della nostra avidità, del nostro amor proprio.
Ebbene: in questi casi – dice Gesù - come pure in tutte quelle pseudo dimostrazioni d’amore che sviliscono la nostra dignità di persone, che si frappongono cioè tra noi e ciò che Dio vuole da noi, dobbiamo lasciare, dobbiamo distaccarci, dobbiamo separarci, dobbiamo prendere un’altra strada. Anche se ciò coinvolgesse persone a noi carissime, come i nostri genitori, i nostri cari.
Gesù usa qui la parola “odiare” perché sa bene quanti sacrifici costi diventare figli unici di Dio, diventare cioè “liberi”. Cosa c’è di più doloroso del dire un “no” secco a chi amiamo, a nostro padre e nostra madre, pur di non tradire noi stessi, la nostra vita, la nostra chiamata? Non fa forse paura l’abbandonare una strada conosciuta, quella che in famiglia molti hanno già percorso prima di noi, per seguire quella nuova, quella “nostra”, quella che Dio ci ha chiesto di seguire in esclusiva, una strada completamente sconosciuta? È forse semplice compiere il nostro viaggio in solitario, uscendo dalla massa, dal gregge? È piacevole sentirci addosso la disapprovazione della gente, il loro biasimo, perché non ci adattiamo come loro, non facciamo come loro, perché noi vogliamo il meglio? Non sarebbe molto più semplice fare come fanno tutti, essere accettati dalla comunità, dalla società, dagli altri, piuttosto che esporsi, avviarsi per una strada sconosciuta, pur di realizzare noi stessi fino in fondo, nella nostra unicità di figli di Dio, seguendo la Sua chiamata?
È vero: noi per natura cerchiamo di assomigliare agli altri, di essere in tutto come loro; ma Gesù ci ricorda qui che tutti noi, ciascuno di noi, siamo intimamente diversi dagli altri: per cui se non abbiamo il coraggio di marcare questa differenza, di “separarci” dagli altri, se non abbiamo il coraggio di vincere la paura dell'abbandono, della solitudine, dell'impopolarità, dell'essere giudicati, se abbiamo insomma paura di realizzare a fondo noi stessi, se siamo in qualche modo attratti dalla mediocrità di un amore senza valore, non siamo degni di Lui, non possiamo seguirlo, non possiamo incamminarci su quella strada, unica, esclusiva, che Lui ha pensato e voluto solo per noi.
A parlarne sembra un’impresa facile quella di seguire Gesù, ma non lo è! Perché seguirlo, vuol dire percorrere quella stessa strada che lo ha portato al Calvario, alla morte di croce. Ora capiamo finalmente perché Egli smonti con tanta crudezza i facili entusiasmi di quelle persone che prendono tutto alla leggera, che considerano la salvezza eterna come un diritto acquisito per il semplice fatto di chiamarsi “cristiani”; di quelli che pensano di andare avanti per tutta la vita senza troppi scossoni, mantenendo il piede su più staffe, dimostrando di essere senza testa e senza cuore.
Nossignori: nella vita per differenziarci, per distaccarci, per separarci, per vivere la “nostra” esistenza, dobbiamo esporci, dobbiamo correre dei rischi notevoli; altrimenti non ci sarà “vita” in noi; e il nostro spirito, la nostra anima, inesorabilmente moriranno. Vivere la Vita di Dio, comporta il rinascere a noi stessi, l’essere autonomi, protagonisti, l’essere unici: in una parola, riscoprire la nostra vera fisionomia che ci “differenzia” dagli altri.
Purtroppo la società in cui viviamo non ci è di alcun aiuto in questo: una società di persone anestetizzate, drogate, smidollate, che vivono adagiate le une sulle altre, che rinunciano a qualunque tratto identificativo della persona; anzi, una società che calpesta impunemente lo stesso nobile concetto di “persona”, di “famiglia”. E noi non ce ne accorgiamo! Non ci rendiamo conto che chi vive “attaccato” a queste ideologie, chi è in simbiosi con esse, con la mentalità imposta da certo mondo, è soltanto un parassita: perché vive questa sua squallida esistenza, succhiando il sangue dai buoni, succhiando la vita da quelli che, nonostante tutto, perseverano e faticosamente procedono nel loro cammino sulla retta via. «Chi non odia il padre, la madre, il figlio, le sorelle non può essere mio discepolo».
Certo, sentirsi amati è una cosa bella; godere di una posizione sociale invidiabile è una cosa buona; come pure essere stimati, rispettati, essere belli e attraenti, sentirsi in grazia; essere efficienti, organizzati, sapersi ben programmare: sono sicuramente tutte cose buone, cose belle. Ma quando queste cose cominciano a condizionarci, a mancarci troppo, ad essere indispensabili, allora diventano una droga mortale. Allora ci attacchiamo ad esse con tutte le nostre forze, ci leghiamo indissolubilmente ad esse, senza di loro non possiamo più vivere, abbiamo il terrore di perderle. In quel momento non siamo più noi che dominiamo le cose che ci servono, ma sono le cose che ci dominano, siamo praticamente schiavizzati dalle cose. Non amiamo più le persone, anche se sentiamo un bisogno assoluto di essere amati. In quel momento perdiamo la nostra libertà. Per questo Gesù ci dice: “Staccati, separati da tutto questo. Se vivi così non potrai mai essere te stesso, non troverai mai l’amore, ma rovinerai la tua vita per sempre”.
Una medaglia ha sempre due facce: l'amore è una faccia; l'altra è la libertà. Non c'è amore senza libertà. L'amore è la faccia benevola, la faccia sorridente della vita; la libertà è la faccia seria, esigente, quella del “dovere”. L'amore crea “unioni”, la libertà crea “persone”. L'amore senza la libertà crea solo legami di fusione apparente, di confusione, di paura. È come essere ancora attaccati al cordone ombelicale. Non ci siamo sciolti,non ci siamo slegati, non siamo indipendenti, autonomi. L'amore con la libertà crea invece persone vere, complete, autentiche, persone che non marciano al ritmo dei tamburi della società, ma che seguono la danza, il ritmo, la musica che sgorga dal loro cuore. Chi è libero può seguire il Dio dell’Amore; chi è dominato riuscirà a seguire al massimo quegli idoli “patacca”, che lui stesso si è auto costruito.
In buona sostanza, Gesù oggi, con le sue parole, non intende dire che per seguirlo dobbiamo “a priori” rinnegare il padre, la madre, i figli, gli amici. Ma vuol dire: facciamo in modo che tutti i nostri legami con le persone e le cose siano “liberanti”, siano cioè vivi, affrancati da zavorre inutili e pesanti che ostacolerebbero il nostro cammino verso Dio. Perché chi rimane impastoiato nei valori, nei legami di questo mondo, non riuscirà a librarsi in alto, non potrà mai raggiungere quella libertà interiore che gli permette di seguire fedelmente le orme di Cristo…
Liberiamoci quindi da tutti quei legami che ci imprigionano, che ci condizionano, da tutte le camicie di forza di questa società alienante. Rimaniamo liberi! Teniamo per noi solo quello che ci serve per il cammino, senza farci trattenere o rallentare da tutto ciò che uccide la nostra anima.
Ci attende un grande compito nella nostra vita: diventare figli di Dio. Noi tutti geneticamente proveniamo da una madre e da un padre. Ci piaccia o no, è così. Noi siamo i loro figli. Non solo abbiamo in noi le loro somiglianze fisiche, ma “prendiamo” dai nostri genitori anche le somiglianze caratteriali, emotive, interiori. Siamo un miscuglio di nostro padre e di nostra madre. Ma il grande compito della vita non è quello di diventare identici ai nostri genitori, ma di diventare figli di Dio, perché è Dio il nostro vero Padre, e Dio-Vita, la nostra vera madre. È la sua quella “somiglianza” perfetta che dobbiamo raggiungere, quella stessa con cui siamo stati creati.
Se ci fermeremo per diventare uguali a nostro padre e a nostra madre, avremo sicuramente la loro stima, ma mancheremo l'obiettivo della nostra vita. Quando avremo esaudito le aspettative dei nostri cari, del nostro parroco, del nostro capo, dei nostri superiori, dei nostri amici, diventando esattamente come loro ci volevano, avremo forse la loro ammirazione, ma mancheremo all'appuntamento con la nostra vita e con il progetto che Dio ha sempre avuto per noi. Incontreremo forse il loro riconoscimento, ma perderemo l’essenza di noi stessi, l’impronta originaria impressa da Dio nel nostro cuore e nella nostra anima.
Per questo Gesù, più avanti, ci mette in guardia anche dai facili entusiasmi; ci dice praticamente che non dobbiamo illuderci, ma al contrario essere concreti, di fare i conti con la realtà; dobbiamo cioè essere previdenti; dobbiamo agire e fare le cose pianificandole, con cervello. Dobbiamo soprattutto valutare bene le nostre forze, le nostre possibilità, e agire di conseguenza.
Per non prendere cantonate dalla vita, nell’inseguire quelle che sono le nostre aspirazioni, quello che vorremmo fare od essere, dobbiamo prefiggerci solo ciò che obiettivamente possiamo fare ed essere, in base alle nostre reali possibilità ed energie. Alcune persone continuano a fallire nella vita perché si pongono obiettivi troppo alti, richiedono troppo da sé, non calcolano chi sono realmente, cosa possono dare e di quanto possono disporre.
Dobbiamo invece fare sempre i conti con la realtà, con la dura e cruda legge della realtà. Perché la realtà è l'unica cosa che esiste, il resto è fantasia della nostra testa. Noi vorremmo essere più semplici, più simpatici, più intelligenti, meno ansiosi; vorremmo non aver detto quel “sì” o quel “no”; vorremmo non aver fatto certi incontri; vorremmo che le persone che ci sono vicine fossero diverse, che ci aiutassero di più, che si accorgessero di quanto bisogno abbiamo del loro amore; vorremmo che la gente ci apprezzasse di più e sparlasse meno di noi; vorremmo che nel mondo non ci fossero tutte queste guerre e tutto questo odio; vorremmo avere meno impegni e costrizioni sociali, e più tempo per vivere, più tempo per i nostri figli, per i nostri cari, per noi, per ciò che ci appassiona. Ma la realtà, purtroppo, è ciò che viviamo, non ciò che noi vorremmo.
Noi siamo quel che siamo; viviamo in questo mondo, non in un altro. Questa è la nostra unica esistenza, la nostra unica storia, la nostra unica possibilità di realizzarci, di distenderci, di divenire. Tutto il resto, tutti i “Vorrei”, tutti gli “Oh come sarebbe bello”, sono solo aspirazioni, sogni della nostra fantasia. Diceva un vecchio monaco: “È stolto colui che avendo messo il piede su di un serpente, chiude gli occhi per non vederlo, per cancellare la sua presenza: perché, anche così facendo, il serpente lo morderà comunque!”. Svegliamoci, apriamo gli occhi, guardiamo dove mettiamo i piedi, e viviamo senza farci false illusioni. Amen.
 

venerdì 30 agosto 2013

1 Settembre 2013 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te… Invece va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,1.7-14).
Per l’insegnamento di oggi Gesù trae lo spunto dalla vita vissuta, dal comportamento normale della gente: nello specifico, da come si comportano in genere gli invitati ad un pranzo di nozze. Non appena si apre la sala del banchetto, si assiste ad un balzo collettivo in avanti per la conquista dei primi posti, quelli più in vista, quelli più vicini agli sposi, quelli normalmente riservati alle persone che contano: ovviamente, lo scopo è quello di mettersi in evidenza, di dimostrare agli altri commensali la propria superiorità, la propria familiarità con gli sposi; una volta occupato questo posto prestigioso, poi, si guardano bene dal cederlo; salvo poi – in presenza di qualche invitato veramente importante -  su invito del padrone di casa, subire l’umiliazione di dover arretrare agli ultimi posti, tra lo scherno e la commiserazione dei presenti.
Quante volte sarà capitato anche a noi di notare una cosa del genere! Un comportamento quasi irrazionale, un bisogno irresistibile, vitale, quello dell’apparire, quello del dimostrare agli altri il proprio prestigio: una mentalità che fin dall’infanzia ci viene inculcata dalla società consumistica e arrivista in cui viviamo. La nostra società in particolare è una società illusoria, menzognera: fin da piccoli ci spinge a inseguire sogni impossibili, irrealizzabili, a rivestirci di panni che non sono nostri, a raggiungere posizioni per noi sproporzionate, nelle quali non potremo mai essere noi stessi.
Gesù nota questa tendenza umana, e la stigmatizza: del resto, se vogliamo a tutti i costi posizionarci ai primi posti senza averne i requisiti, per pura ambizione, dimostriamo di non essere obiettivi con noi stessi, di non apprezzare la posizione che ci compete naturalmente; dimostriamo di vivere una realtà, una dimensione, che non è la nostra; dimostriamo di non amare la nostra vita vera, di non capire quello che effettivamente siamo e rappresentiamo nella società. Dimostriamo insomma una grande immaturità, che è sistematicamente causa di una profonda infelicità.
Vale allora la pena di spendere una vita intera alla ricerca continua di false illusioni? Struggersi in un costante logorio interiore, nella rabbia e nell’invidia per quanti sono più fortunati, più in alto di noi? Ricordiamoci che nella vita ognuno ha ricevuto dei precisi “talenti”, e ciascuno è tenuto a farli fruttare sapientemente, con ogni cura possibile; ma sarebbe stupido quel tale che, avendone avuti due soltanto, pretendesse risultati pari o maggiori di coloro che ne hanno ricevuti cento. Sarebbe doppiamente un perdente: per non aver apprezzato il suo massimo risultato personale, e per la frustrazione e la delusione continua di non poter raggiungere un traguardo per lui comunque irraggiungibile.
Ognuno rivela il suo carattere con i fatti. Per capire chi abbiamo di fronte, per capire chi egli sia, cosa consideri importante, e soprattutto cosa pensi e cosa conservi dentro, è sufficiente guardarlo come parla, cosa dice, come si muove, come si relaziona, come si comporta.
Legare la nostra felicità semplicemente al sentirci superiori agli altri, al saperci più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo apparire, è pura immagine. Inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, perché in realtà, dentro di noi, ci sentiamo delle nullità.
Il dramma, purtroppo, è che nessun travestimento, nessun apparire, nessuna immagine esteriore, per quanto grandiosa, può farci felici. Non lo può per definizione. Perché la felicità nasce solo dalla nostra vita concreta, dalla sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa nostra vitalità, dal percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore. Al contrario, più l'immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità e i nostri sentimenti interiori ci appaiono sfocati, scontornati, eliminati, distrutti. E la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento.
Allora che fare? Come dobbiamo reagire? Semplice: dobbiamo imparare a raggiungere già in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo convogliare tutte le nostre energie. Ma in che cosa consiste esattamente questo “regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità senza fine, di quell’amore senza confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa terra ed è morto sulla croce?
Nulla di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata.
Regno dei cieli, oltre che sentire le sensazioni più intime, le vibrazioni più personali del nostro cuore che riflette l’amore di Dio, è provare anche la paura, l'angoscia, la tristezza: perché esse ci rendono umili e vicini a tutti gli uomini nostri fratelli. Regno dei cieli è sentire e soffrire per l'ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è percepire l'amore che danza dentro di noi e che trasmettiamo in quanti incontriamo. Regno dei cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei cieli sono gli occhi pieni di passione di chi ci ama, occhi che ci penetrano e che raggiungono l'anima. Regno dei cieli è dispensare amore, affetto e presenza ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza giudicare, poter toccare senza prendere, poter ammirare senza voler possedere. Regno dei cieli è sentirsi vivi, così vivi da sentire completamente piena e traboccante la nostra vita; così vivi da poter anche morire soddisfatti, perché abbiamo vissuto abbastanza, seminando in questo mondo sincerità, speranza e amore. Regno dei cieli è poter ammirare l’innocenza di un bambino, l'eccitazione nei suoi occhi quando vede la mamma, o quando salta di gioia godendo del suo amore. Regno dei cieli è sentirsi noi tra le braccia del Padre, ed essere certi che lì, tutto sommato, non c’è proprio nulla da temere. Regno dei cieli è smettere di preoccuparci per cose inutili e anche per quelle utili. Regno dei cieli è sentirci parte importante ed essenziale di questo mondo; sentirci come si sente un figlio, parte integrante di una vera famiglia, voluto, benedetto, aspettato, da un padre e da una madre.
Tutto questo è normalità. Quando nasciamo, tutto questo lo conosciamo già. È invece crescendo che la società ci insegna ad abbandonare questo “regno dei cieli”. La maggior parte della gente crede che tutto ciò sia solo una grande “balla”, frottole per bambini, illusioni per preti e squilibrati.
Lo sapeva anche Gesù: tant’è che solo in pochi credettero al suo Regno dei cieli. Però quei pochi che gli credettero e lo sperimentarono, lasciarono tutto quello che avevano per seguirlo, e non furono mai più gli stessi. Gli altri, quelli che non gli credettero, lo uccisero perché era un “eretico”, uno che diceva falsità, che illudeva la povera gente.
«Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». È proprio così.
Per chi cerca sempre e solo di salire in alto, per sentirsi superiore agli altri, “umiliarsi” è una esperienza terribile, improponibile. Umiliarsi (che poi significa entrare in contatto con la propria “umanità”) è davvero tragico per tutti, ci fa davvero male. Perché, una volta che ci togliamo la nostra bella maschera, non troviamo più nulla di noi stessi: di quel grande personaggio che pensavamo di essere non troviamo più traccia. La maschera in qualche modo ci dava sicurezza. Non eravamo noi, ma per gli altri eravamo sicuramente “qualcuno”. Ora, senza camuffamenti, ci rendiamo conto che, nella nostra goffaggine, non siamo nessuno. O al più, peggiori di tanti altri.
È un momento difficile, duro, ma è un passaggio obbligato per ritrovare la nostra vita autentica, la strada verso noi stessi. È la conversione: cesseremo cioè di vivere una vita non nostra, a beneficio della gente, ostentando un qualcuno che non siamo; inizieremo umilmente a ricostruirci una nuova esistenza partendo dal nostro interno, da ciò che siamo veramente dentro, dalla nostra coscienza; ricomporremo pezzo dopo pezzo la nostra identità, ripartendo dal basso, dagli ultimi posti.
Del resto - il Vangelo lo sottolinea espressamente - se non ci mettiamo all'ultimo posto, se non iniziamo dalle fondamenta nascoste, dall’umiltà più convinta, non potremo mai costruire nulla, e non potremo neppure accogliere, ospitare, invitare chi a sua volta è anche lui “ultimo”.
Ecco: questo significa seguire il richiamo del “regno dei cieli”. Un “regno dei cieli” che è comunque un problema serio. Se infatti ci guardiamo allo specchio della nostra anima, se siamo onesti con noi stessi, noi che pensiamo di essere già veri cristiani, cosa vediamo in fondo, in fondo? Le nostre debolezze: che cioè anche a noi, discepoli convinti, piace stare ai primi posti; che ci piace trattare soprattutto con le persone belle, affascinanti, amabili, mentre cerchiamo di evitare quelle meno gradevoli, i poveri, i miseri; che ci piace aver a che fare con chi ha una posizione prestigiosa; che ci sentiamo onorati della loro amicizia e compagnia; che con tutto l’amore che predichiamo, se potessimo, elimineremmo volentieri quelle persone che ci stanno di traverso, o almeno faremmo loro, con grande piacere, un po' di male. Non ci vediamo forse così? No!? Se diciamo di no, non siamo sinceri con noi stessi: e sappiamo di mentire!
Certo, non è bello scoprirsi così! Ma questa è purtroppo la nostra natura umana! È la base su cui dobbiamo innalzare il nostro “regno dei cieli”. Guai a chi non si vede così. Guai a chi crede di essere superiore a queste miserie, a chi crede che tutto questo non gli appartenga. Vederci così fragili, al contrario, ci fa bene. Ci fa bene perché ci rende umili, ci ricorda la nostra debolezza umana: ci ricorda che, quando vediamo qualcuno che cade, non lo dobbiamo giudicare; perché sappiamo che ciò che è capitato a lui, può capitare in peggio anche a noi.
E concludo: solo se ascolteremo attentamente la nostra anima e conosceremo a fondo il nostro cuore, saremo in grado di ascoltare e conoscere il cuore degli altri. Solo se saremo sinceri con noi stessi, se non ci mentiremo, potremo essere sinceri e onesti con gli altri. Chi non si accetta così com’è, chi non sa stare umilmente al proprio posto, non accetterà mai nessuno altro alla pari! Perché chi si ritiene “primo”, guarderà gli altri sempre e solo come “secondi”. Amen.
 

giovedì 22 agosto 2013

25 Agosto 2013 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme… “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”» (Lc 13,22-30).
Gesù continua il suo cammino verso Gerusalemme. Una annotazione, questa del camminare di Gesù, che ci viene sottolineata, non a caso, con una certa insistenza. Ciò che ci deve far meditare non è tanto il fatto materiale del muoversi, quanto il riferimento ad una necessaria e irrinunciabile progressione spirituale dell'anima. Se spiritualmente non siamo in cammino, se non ci muoviamo, siamo fermi. Se siamo fermi, non andiamo da nessuna parte. Le persone “vive”, camminano, si muovono, cambiano, divengono, si trasformano, scelgono. Le persone “morte” rimangono fisse, stabili, si irrigidiscono, si intestardiscono, si impuntano.
Ci siamo mai chiesto perché il Signore dice ai suoi: “Seguimi”? Perché il “seguire” comporta necessariamente un avanzamento progressivo. Non si può seguire il Signore e rimanere fermi, rimanere gli stessi, fossilizzarsi sulle stesse idee, sugli stessi schemi mentali, sugli stessi punti di vista.
Chi si giustifica dicendo: “Hanno sempre fatto tutti così!”, vuol dire che nella sua vita non si è mai posto alcuna domanda, non ha mai cercato soluzioni diverse, più appropriate, più attinenti al suo personale stato di vita, più convenienti al suo particolare percorso di sequela.
Vuoto immobilismo: è questo il motivo per cui la gente è triste e insoddisfatta: perché è ripiegata su se stessa, non ha idee, ripete continuamente senza alcun entusiasmo, passivamente, le stesse cose; non si sforza di rinnovarsi, di andare al massimo, di trarre il meglio da se stessa; non costruisce il suo percorso: il suo massimo impegno è quello di adeguarsi alla mediocrità altrui. Ma così facendo rinuncia ad essere se stessa, si lascia trascinare supinamente dal pensiero della massa, senza alcun discernimento critico, senza alcun apporto individuale.
Vogliamo fare una verifica sulla nostra situazione personale a questo riguardo? Vogliamo sapere se siamo veri discepoli del Signore, in continua tensione? È molto semplice: è sufficiente controllare se le nostre preghiere, la nostra fede, il nostro credere, il nostro comportamento nei confronti di Dio e del prossimo, sono gli stessi della nostra infanzia: se è così, vuol dire che il nostro cammino cristiano è rimasto allo stadio infantile; non siamo cresciuti, siamo rimasti fermi ai primi passi; vuol dire che gran parte della nostra vita è passata inutilmente. Se a quarant'anni la nostra coscienza ci rimprovera ancora: “Bugie... parolacce... preghiere dimenticate... mormorazioni”, vuol dire che siamo ancora ai nostri otto anni, alla prima comunione! Dal punto di vista spirituale siamo rimasti immobili, immaturi; non siamo cresciuti per nulla.
Seguire il Signore vuol dire non trovarsi mai allo stesso punto del giorno prima; vuol dire immettersi in un processo di cambiamento continuo, di continua trasformazione, di continua conversione. L’anima è vitale. E la caratteristica essenziale della vita, è quella di crescere, cambiare, evolvere, andare avanti, camminare.
Mentre Gesù dunque percorre la sua strada, un uomo gli pone una domanda: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una domanda chiaramente superficiale, da curioso, di uno che parla tanto per dire qualcosa, per far notare la sua presenza; una domanda sul tipo di quelle poste nelle interviste da tanti cronisti di oggi, fatte con l’intenzione di ricavarne magari uno “scoop” da dare in pasto allo “spettegolare” quotidiano. Ma Gesù non gli risponde, non gli interessa soddisfare questo tipo di curiosità. Non è questo il punto! A Lui preme piuttosto sottolineare l’impegno che ciascuno deve mettere per raggiungere la propria salvezza: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti non ci riusciranno...; allora comincerete a bussare... e vi risponderà... allontanatevi da me...». L’importante non è sapere quanti sono quelli che si salvano, bensì se noi abbiamo le prerogative per essere tra quelli!
Pensiamo quindi a noi stessi; concentriamoci piuttosto sulla nostra di salvezza. Più parliamo a vuoto, più spettegoliamo sulla vita degli altri, meno riusciremo a concentrarci sul come vivere correttamente la nostra di vita. Il problema non è se gli altri si salveranno o no: il problema vero siamo noi, è la nostra possibile salvezza.
Un problema serio. Anche perché la situazione che Gesù ci presenta qui è molto dura, forte, decisa. Non vengono ammessi sconti, non vengono fatte preferenze. Il Dio che ci viene presentato oggi è decisamente l’opposto del Padre buono, del Padre che ama alla follia, del buon samaritano, del Padre che aspetta il ritorno del figlio prodigo, del Padre che ci cerca, che ci perdona ogni cosa, che accoglie tutti a braccia aperte. C'è quasi da aver paura di questo Dio “intransigente”. Quando quelli rimasti “fuori” gli dicono: «Signore aprici!», Egli non ha dubbi o ripensamenti: «Non vi conosco, non so di dove siete… Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità!». Capito bene? «Operatori di iniquità!». Ma come è possibile? Noi che siamo convinti di essere perfettamente in regola! Noi, i “grandi”, i “saputoni”, gli esperti di chiesa, di fede, di vangelo; noi, gli autentici cattolici “adulti”, impegnati nel sociale e nelle catechesi; ebbene, proprio noi, “fuori!”, “esclusi!”. Altro che premio e accoglienza gloriosa: noi, i “discepoli puri e duri”, siamo destinati al “pianto e stridore di denti”. Quelli invece che noi deridiamo, quelli che disprezziamo, quelli che giudichiamo insignificanti, una nullità, delle “mezze tacche”, sono loro ad essere accolti nell’Amore e nella gloria di Dio. Beh, dev'esserci per forza qualche spiegazione che è sfuggita al nostro ottuso egocentrismo!
Diciamo pure che qui l’autore, dovendo esprimere un concetto molto importante, un concetto che tutti dovevano capire alla perfezione, si è servito di immagini particolarmente dure, di forte impatto emotivo, tipiche dello stile e della cultura del tempo. Immagini comunque che non devono farci erroneamente pensare ad un Dio prepotente e crudele, incline alla condanna facile; un Dio irremovibile, che decide in maniera drastica: “O fate come dico io, oppure la condanna è assicurata!”. Nossignori: Dio non è vendicativo. Non è che se talvolta ci comportiamo male, se non seguiamo alla lettera le sue regole, Lui, per vendetta, ce la faccia pagare. Quello che vuol sottolineare qui il testo è che la condanna non dipende da Dio, ma è semplicemente il risultato di certe nostre premesse, una conseguenza logica del nostro comportamento; c’è insomma un rapporto di causa-effetto: nel senso che siamo noi gli unici artefici della nostra sorte finale; tutto quello che facciamo ha delle conseguenze: ecco perché dobbiamo stare attenti; ecco perché dobbiamo evitare di fare scelte di “non scegliere”, di condurre un certo vivere senza farsi domande, un vegetare soltanto, un appiattirsi acriticamente alla massa; perché alla fine, tutto ciò ha come diretta conseguenza un giudizio negativo.
Le facce della medaglia sono sempre due: da un lato c’è Dio che è grande, misericordia infinita, pronto ad accogliere ogni creatura; un Dio innamorato che tende le sue mani verso di noi. Dall’altro ci siamo noi, ci sono le nostre mani; anche noi dobbiamo tendere le nostre di mani verso di Lui. Se noi non lo facciamo, per quanto Lui si protenda, non potrà mai esserci un incontro, non ci sarà mai quella “presa” che ci salva. Se manchiamo questa “presa” la colpa non è di Dio: è solo nostra, dei nostri movimenti disordinati. Non è di Dio che dobbiamo aver paura. È di noi stessi: è di noi che non dobbiamo fidarci, del nostro agire fuori regola, dei ritardi delle nostre risposte, delle nostre mancate reazioni, della nostra eccessiva sicurezza, della nostra irrazionale incoscienza. Solo noi siamo gli unici responsabili di noi stessi, della nostra salvezza. Nessun altro. Ecco perché dobbiamo “camminare”, dobbiamo “crescere”.
La dinamica di questo cammino viene qui spiegata attraverso l’immagine della porta.
La porta, in tutte le culture, indica un passaggio dal fuori al dentro, dall'esterno all'interno. Indica un cambiamento di situazione, un passaggio dal mondo profano a quello sacro, una netta evoluzione spirituale. La porta aperta evoca accoglienza, calore, libertà, accesso; la porta chiusa evoca rifiuto, esclusione, imprigionamento.
Cosa vuol dire allora quest'immagine? Che nella vita è indispensabile oltrepassare questo passaggio obbligato, per non rimanere tagliati fuori: dobbiamo cioè fare di tutto per varcare la soglia di questa porta. Per questo dobbiamo fare necessariamente delle scelte, entrare in certe situazioni, affrontare certe paure. E dobbiamo farlo per tempo, perché ci sarà un momento in cui sarà troppo tardi, un momento in cui non potremo più fare nulla. Allora non Dio, ma sarà la nostra stessa vita a dirci: “Dovevi pensarci prima! Adesso è troppo tardi, sei irriconoscibile, impresentabile!”. E anche in questo caso non è una punizione della vita in quanto tale, non è un accanimento del “destino”: è semplicemente la conseguenza delle nostre libere scelte, del nostro agire.
“Sforzarsi”, in greco agon°zomai, significa letteralmente “lottare, combattere, gareggiare”. Indica cioè una difficoltà. Nessuno dice infatti che queste iniziative siano facili; ma è giocoforza affrontarle, dobbiamo passarci dentro, perché per varcare quella porta dobbiamo risolverle. Talvolta fanno anche paura; forse ci faranno anche piangere, creeranno tensioni, vere lacerazioni interiori. Ma se le ignoriamo, se le lasciamo lì, se facciamo finta di niente, verrà un giorno in cui sarà troppo tardi, in cui non potremo farci più niente. Nessuno ha mai detto che crescere spiritualmente sia semplice: ma dobbiamo comunque entrare “dentro” in quel cammino, dobbiamo oltrepassare quella strettoia determinante.
Molti diranno: “Quanti paroloni inutili in questo commento! A che servono? Io sono già cristiano: io prego; io vado in chiesa quasi tutte le domeniche; io non ho mai fatto male a nessuno; io mi sono sempre comportato bene; sono sensibile e amo la natura; non rubo a nessuno, faccio le mie elemosine, non sono disonesto”. Giusto: ma è evidente che tutto questo non basta: ricordate il vangelo di oggi? «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze...». Che vuol dire: “Come mai proprio noi siamo rimasti fuori? Eravamo là con te, abbiamo ascoltato le prediche dei tuoi preti, abbiamo mangiato il Pane tutti insieme!”. Evidentemente questo solo non basta. Vuol dire che, nonostante ciò, siamo rimasti “fuori” della nostra anima; non siamo cioè “entrati dentro” di noi; e da fuori non abbiamo udito la voce di Colui che ci aspettava all’interno, nella nostra coscienza, non abbiamo percepito i suoi richiami, la sua voce paterna, l’offerta della sua amicizia: ci siamo accontentati dell’esteriorità, dell’apparire, lasciandolo nella più completa solitudine. Non abbiamo voluto attraversare quella porta che ci introduceva alla fonte vera della Vita, quella porta che ci metteva a stretto contatto con Dio. Non abbiamo ascoltato la sua voce e non abbiamo agito di conseguenza.
Se continueremo a seguire la mentalità del mondo, purtroppo continueremo ad ignorare la nostra crescita spirituale; e continuando a vivere fuori di noi, fuori dalla “nostra” casa, finiremo col perdere anche la “casa” stessa! È una eventualità che non va sottovalutata!
In conclusione, che ci piaccia o no, che sia doloroso o no, il punto importante è uno solo: c'è questa benedetta porta da passare, da entrarci dentro. O ci decidiamo a farlo in fretta, o rimarremo per sempre esclusi, fuori da una porta per noi irrimediabilmente chiusa. Tocca soltanto a noi scegliere! Amen!
 

giovedì 15 agosto 2013

18 Agosto 2013 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!... Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. (Lc 12, 49-57).
Il vangelo di Luca pone oggi in bocca a Gesù delle espressioni particolarmente dure. È un linguaggio drastico, estremo, denso di previsioni drammatiche: i concetti di “fuoco”, di “divisione”, di “tutti contro tutti!” decisamente non sembrano appartenere al suo stile. Cosa significa tutto questo? Gesù, come al solito, è chiaro: chi lo vuol seguire deve sottoporsi a scelte radicali, risolutive, contrastanti: scelte che comportano una vita completamente “nuova”, diversa da quella di prima; la sua sequela richiede la morte dell'uomo vecchio, quello incentrato su se stessi, e la nascita dell’uomo nuovo, quello che ci fa vivere da figli di Dio.
Un cambiamento che, prima per i discepoli e poi a seguire per tutta la Chiesa, è stato sempre motivo di una profonda discriminazione da parte del mondo. I cristiani di ogni tempo sono sempre stati considerati all’opposizione, “dall’altra parte”, incompresi, osteggiati... Anche oggi, coloro che fanno scelte radicali per il vangelo, continuano ad essere apertamente derisi; il mondo, con la sua logica edonistica, si diverte a dimostrare in tutti i modi l’insensatezza delle loro scelte, anche se talvolta sono eroiche: le svilisce, le disprezza, le ridicolizza. Un comportamento, questo del mondo, che non ci deve né meravigliare né abbattere: Gesù l’aveva previsto; e le parole del vangelo di oggi anticipano proprio questa situazione di ostracismo e di divisione.
Scegliere di vivere coerentemente il vangelo non è mai stata, e non lo sarà mai, una decisione facile, capita e condivisa dai più; lo abbiamo già visto: quando Gesù stesso ha cominciato a parlare chiaro, quando ha cominciato a fare sul serio, tutti sono scappati; le folle, così numerose nello sfamarsi gratuitamente, improvvisamente si sono diradate. Non dobbiamo quindi meravigliarci se anche noi, quando facciamo sul serio, quando seguiamo letteralmente i suoi insegnamenti, facciamo terra bruciata intorno a noi: diventiamo automaticamente “pietra d’inciampo”, segno di “contraddizione”; in una società dell'immagine e del consumismo come quella in cui viviamo, il vangelo con i suoi precetti non può che essere ostico, difficile da seguire, in quanto spezza sul nascere ogni logica di profitto, di successo personale, di carrierismo; è insomma decisamente “scandaloso”!
Le parole di Gesù sono esplicite, solari: “non sono venuto a portare la pace, ma la divisione”. Egli non è venuto a portare il quieto vivere, il sonno tranquillo delle coscienze; non è venuto a giustificare una storia umana che continua a rotolarsi nelle ingiustizie e nelle perversità di sempre; Egli è venuto a portare piuttosto “guerra”, “divisione”, un “distacco” obbligato dal male; ha portato un “conflitto” interiore; una chiara presa di coscienza di tutto ciò che non va bene, di ciò che ferisce l'uomo, la sua anima, il suo cuore; una “scelta” necessaria tra ciò che dobbiamo mettere al primo posto (Dio) e ciò che, per quanto importante, deve comunque rimanere secondario (tutti gli altri valori).
Le persecuzioni subite dai profeti (come Geremia), ci insegnano solo questo; questo ci insegna la lettera agli Ebrei, quando dice: “Pensate attentamente a Cristo che ha sopportato da parte dei peccatori una così grande ostilità contro la sua persona, proprio perché voi non vi stanchiate perdendovi d'animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato…”. È chiaro? “Resistere fino al sangue”, fino al martirio: questo praticavano i primi cristiani, altro che stancarsi e accantonare tutto, come succede a noi!
La Parola di oggi, insomma, ci pone di fronte ad una prospettiva decisamente lontana dal nostro stile di vita: noi, con tutta la nostra cultura, non siamo ancora in grado di stabilire ciò che è in assoluto bene o male; ciò che è giusto o ingiusto: oppure lo sappiamo anche ma, per quieto vivere, ci comportiamo come se non lo sapessimo, non ci esprimiamo. Preferiamo stare dietro le quinte. Abbiamo timore di quello che potrebbe pensare la gente! Lasciamo volentieri che sia chiunque altro, ma non noi, a parlare con impegno e convinzione a questo nostro tempo, di “salvezza ultima”, di “testimonianza religiosa”, di “fede in Dio e nella Chiesa”, di “principi morali inalienabili”. Ci nascondiamo: un po’ come vediamo fare certi preti, certi frati, certi religiosi che si “mimetizzano” tra la folla, vergognandosi di indossare una veste, “una divisa”, che li distingue dagli altri, li identifica, costringendoli a mantenere di fronte a tutti un comportamento “superiore”, “convinto”, da “consacrati”, luminosamente “coerente” con la fede che predicano. Meglio l’anonimato, molto meno impegnativo…
Ma non è questo che Gesù vuole da noi: perché noi, come tutti gli uomini, siamo i “chiamati”. Ciascuno di noi, singolarmente, deve impegnarsi: ciascuno di noi, in prima persona, senza paura, deve trasformarsi in “scandalo” della Verità: proprio perché la verità non piace al mondo, riesce inopportuna, indigesta. Ci sono verità, lo sappiamo, delle quali la nostra società contemporanea si scandalizza: e per questo le contrasta, le combatte. E allora? Non tacciamole queste verità, affrontiamole, parliamone, ripetiamole all’infinito, continuamente, in forme diverse, umilmente ma fermamente, con la semplicità e la convinzione che Lui, Verità assoluta, ci suggerisce. Diciamole in pubblico e in privato. Diciamole tutti, indistintamente: sacerdoti, educatori, professori di religione, catechisti, teologi, vescovi, padri di famiglia. Scandalizziamo sul serio la nostra distratta società con le verità fondamentali della nostra fede e della morale cattolica! E in questo modo la verità ci farà liberi.
In un ambiente sociale, in cui la verità è causa di schiavitù e di servitù, perché ignora o disprezza sia la sua stessa natura, che quanti la professano, noi cristiani dobbiamo essere convinti che è la verità, particolarmente la verità della nostra fede, che ci affranca, che ci rende assolutamente liberi.
L'uomo non è libero di essere “ciò che vuole”, ma è libero di essere la verità del suo essere. La libertà non è un assoluto: fa riferimento alla verità, che di per se stessa ci attrae e ci affascina. Laddove c'è verità c'è libertà, e dove non c'è verità, c'è inevitabilmente qualche forma di schiavitù. Cerchiamo la verità? Viviamo la verità? Amiamo la verità? Custodiamo la verità? Difendiamo la verità? Allora possiamo dire di essere autenticamente liberi: anche se siamo rinchiusi tra le quattro mura di una prigione o se siamo considerati “materiale inutile” dalla società in cui viviamo. O forse abbiamo paura della verità, della sua forza soggiogante? In un mondo dominato dal relativismo, le verità assolute fanno paura, è vero. Ma noi non dobbiamo correre il rischio di fare di questo relativismo un principio assoluto. Perché aver paura della verità, è aver paura di essere se stessi, è aver paura di essere coerenti, è lasciarsi dominare dalla legge della maggioranza, è perdere la propria dignità umana, la propria personalità. La verità ci farà liberi. Non dubitiamone. È l'esperienza degli uomini grandi.
Il Vangelo nasce dunque sotto il segno della contraddizione: e sotto il segno della contraddizione cresce e si diffonde. È questo il dramma dell'alleanza fra Dio e il suo popolo, dramma che continua a riproporsi nella storia: Dio si racconta, si svela, si avvicina all'uomo, si offre di aiutarlo; ma l'uomo sistematicamente gli risponde “no, grazie”.
Siamo discepoli di un Dio che crea divisione, di un Dio che non ci lascia tranquilli, indifferenti, adagiati nelle nostre certezze, trincerati dietro le nostre tiepide devozioni, soddisfatti di appartenere ai nostri gruppi esclusivi di spiritualità; siamo discepoli di un Dio che ci scuote, che ci infiamma, che ci brucia dentro, che ci spinge fuori, nel mondo.
Chiediamoci allora: veramente sentiamo dentro di noi questo Dio che brucia il nostro cuore, la nostra anima? Ci brucia sul serio, al punto da non poter fare a meno di annunciarlo, di parlare di Lui a tutti quelli che avviciniamo? Lo difendiamo nelle discussioni con quanti lo negano? Di conseguenza: siamo mai stati derisi per le nostre convinzioni? No? Allora i casi sono due: o viviamo segregati in un limbo virtuale, tagliati fuori, avulsi dalla realtà, oppure viviamo molto poco da autentici cristiani: la nostra testimonianza è talmente insignificante e priva di mordente che nessuno si accorge di noi. Viviamo da “tiepidi”; ma proprio per questo nostro essere “né caldi né freddi” rischiamo di essere “vomitati” da Dio, come scrive l’Apocalisse.
Noi siamo discepoli di Cristo: non dimentichiamolo mai! E come tali siamo chiamati da Lui per essere dei rivoluzionari, degli incendiari: gente che scuote, che infiamma tutto il mondo; gente che predica e professa apertamente l’Amore di Dio per le sue creature. Amen.
 

giovedì 8 agosto 2013

11 Agosto 2013 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

«Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito» (Lc 12,35-40).
Ci sono cose che nessuno può portarci via: la serenità di una vita spesa bene, un ideale per cui combattiamo, soffriamo, resistiamo; la commozione provata nei momenti più importanti e toccanti della vita, come la nascita di un figlio; la risposta d’amore che scorgiamo negli occhi delle persone che amiamo; i colori della natura, il profumo dell'erba appena tagliata, il suono del vento, il canto degli uccelli; la gioia del nostro cuore, quando ci sentiamo vivi, vita in mezzo alla Vita. Questo nessuno ce lo potrà mai portare via. Tutto questo rimarrà sempre in noi. Ma ci sono anche tante cose inutili, zavorra che ci rallenta nel cammino. Cose superflue, a ben vedere nocive, deleterie, cose che abbiamo stoltamente raccolto lungo il corso della nostra vita. Ebbene, liberiamocene, buttiamole via: stiamo soprattutto attenti a non attaccarci ad esse; non facciamo di esse il nostro “tesoro”, il nostro riferimento, l'oggetto dei nostri pensieri quotidiani.
Riempiamo le nostre “borse” di cose vere, procuriamoci beni che non passano, che durano, che non invecchiano, ai quali la ruggine, i ladri e le tarme non possono arrivare.
Il denaro può esserci rubato. Le ricchezze possiamo perderle. L'auto può essere distrutta in un attimo. Gli oggetti più belli e preziosi si possono rompere. Le persone più care possono morire improvvisamente. Tutto ciò che è “materiale” passa. Solo i tesori dell'anima, del cuore, quelli spirituali, celesti, nessuno ce li potrà mai sottrarre. Impariamo a tenere tutto nella nostra anima e non avremo più bisogno di possedere altro. Impariamo ad arricchire la nostra anima, e non avremo più bisogno di ricchezze. Tutto ciò che è temporale, aleatorio, prima o poi lo perderemo. Tutto ciò che non appartiene a questa vita provvisoria (Dio, l’anima), deve costituire la nostra vita piena, adesso e in futuro.
Perché dov’è il nostro “tesoro”, là c’è anche il nostro cuore.
Noi cristiani, proprio perché ci chiamano con questo nome, siamo convinti che Dio sia il centro della nostra vita: come pure l'amore, la famiglia, la vita dei nostri cari, i valori morali e sociali, la ricerca costante del bene. Ma è veramente così? Facciamo una piccola prova. Analizziamo bene ciò che durante il giorno assorbe di più la nostra attenzione: perché è quello che costituisce il nostro “tesoro”. Se il nostro esame sarà onesto, ci renderemo conto che non Dio è il nostro polo di attrazione, ma tanto altro: i soldi? i beni materiali? le ricchezze? il sesso? la voglia di emergere? il pregiudizio sugli altri? l'odio? la vendetta? Ecco: noi siamo esattamente ciò che interessa la nostra mente. Se la nostra mente è pervasa sempre da pensieri negativi, da paura, da una critica distruttiva; se vediamo intorno a noi solo dei nemici da combattere, un mondo disgustoso da dominare; se ignoriamo tutto e tutti e affoghiamo i nostri giorni nei piaceri, nei godimenti della vita, nell’egoismo, nella sopraffazione, vuol dire che noi siamo diventati tutto questo. Vuol dire che siamo diventati così, perché dov'è il nostro “tesoro” (i pensieri, i nostri interessi) lì è anche il nostro cuore (noi stessi). Altro che pensare a Dio!
Non possiamo quindi continuare così: dobbiamo pensare seriamente a cambiare, a disciplinarci, a sostituire quello che è il “nucleo” della nostra vita, il centro dei nostri pensieri.
“Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese…”. Il tempo a nostra disposizione è limitato. Non facciamo l’errore di pensare che il presente sia eterno. Le parole di Gesù hanno un senso ben preciso: “Siate svegli, non dormite, siate consapevoli, state attenti a non prendere sonno”, perché il sonno della ragione genera mostri, perché il sonno dell'anima genera solo morte.
Purtroppo nell’uomo vi sono due tendenze contrastanti: quella del soprassedere, del rimandare, dell’adattarsi, del fermarsi, e quella al contrario dell’andare sempre avanti, del progredire, dell’evolversi, del perfezionarsi. Quante volte capita anche a noi di pensare: “Va bene così; sono abbastanza religioso, amo il prossimo più di tanti altri, faccio le mie elemosine, vado in chiesa la domenica; insomma, penso di essere un buon cristiano e quindi mi fermo qui; che mi serve crescere ancora, continuare a sacrificarmi: in fin dei conti non sono un prete, un frate, una monaca”. Nulla di più sbagliato: la strada da percorrere è in costante salita, pericolosamente sdrucciolevole; fermarsi, significa scivolare giù. Il tempo della vita è sempre mutevole, un costante divenire: il domani non sarà mai uguale all’oggi. Solo ciò che è morto rimane immobile, smette di andare avanti, di crescere, di svilupparsi. Tutte le nostre crisi esistenziali sono causate proprio dallo scontro tra queste due inclinazioni. In pratica una ci dice: “Basta, sta qui; fermati, lascia fare; è difficile; è doloroso; dopo tutto anche così non stai affatto male!”. L'altra, invece, ci sprona: “Non fermarti qui, la vita ti chiama ad una nuova tappa, ad una nuova avventura, devi affrontare anche questo nuovo ostacolo, va avanti, devi progredire”. Ed è quanto praticamente ci insegna il vangelo di oggi. Non dobbiamo dormire sugli allori: nella vita o si va avanti o si torna indietro; o si progredisce o si regredisce. Non esiste una posizione di compromesso.
Quelli che pensano di essere svegli, quando invece dormono, avranno un risveglio molto duro. Sarà una sberla in faccia, un pugno allo stomaco: dovranno fare i conti con una nuova impostazione della vita; dovranno affrontare quella che si chiama “conversione”, cioè il cambiare strada, cambiare vita; si renderanno conto che quella che pensavano fosse vita era invece un letargo, una sterile sopravvivenza, un brancolare nel buio; era solo illusione e falsità.
A proposito del dover prendere in mano la propria vita, c'è una storiella che racconta di un padre che al mattino bussa alla porta del figlio: “Antonio, svegliati, devi andare a scuola”; e Antonio: “Non voglio alzarmi papà; non voglio andare a scuola”. “E perché mai?” esclama il padre. “Per tre motivi”, risponde Antonio. “Prima di tutto, è una noia; secondo, i ragazzi mi prendono in giro; terzo, odio la scuola”. E il padre di rimando: “Bene, adesso ti dico io tre ragioni per cui devi invece andare a scuola: primo, perché è tuo dovere; secondo, perché hai quarantacinque anni, e terzo perché sei il preside”.
Una storiella che farebbe sorridere, se non riflettesse in pieno la voglia che tutti abbiamo di scrollarci di dosso le nostre responsabilità, la realtà della nostra vita, i nostri doveri: una tentazione comune fin troppo frequente.
Dunque, svegliamoci, fratelli; apriamo gli occhi, prendiamo coscienza di chi siamo, da dove veniamo, dove siamo diretti, come viviamo; affrontiamo la realtà che ci circonda. Molte persone purtroppo continuano a trastullarsi con i loro giocattoli (soldi, auto, vestiti, fama, il sentirsi importanti). Dicono che hanno intenzione di crescere, di avere un serio desiderio di Dio, di volere, insomma, uscire definitivamente dall'asilo nido in cui si trovano; ma poi nei fatti non dimostrano alcuna affidabilità, non sono credibili. Vogliono procurarsi invece sempre nuovi “giocattoli”: “Voglio un'altra moglie; voglio altri soldi; voglio divertirmi, voglio solo comodità e benessere; non voglio soffrire, non voglio cose mortificanti e impegnative!”. È una malattia molto frequente. Le persone non accettano di sottoporsi a cure radicali e risolutive: preferiscono un palliativo, un sollievo temporaneo, provvisorio. Meglio qualche compressa, qualche soluzione facile facile, già “pronta all'uso”.
Se durante la nostra vita, invece di vegliare, abbiamo preferito dormire, è questa l’ora di svegliarci sul serio. Certo, svegliarci da un sonno comatoso e invalidante, è sempre doloroso: perché improvvisamente tutte le nostre illusioni svaniscono, tutto ciò in cui credevamo, quello che pensavamo fosse vita e verità, quello che era il nostro riferimento, il nostro appoggio, tutto si dissolve nel nulla. In quell’istante ci accorgiamo di non avere più nulla di concreto; non abbiamo più strade conosciute, ci troviamo completamente spogli di tutto, nudi con noi stessi. Unica consolazione è pensare al grave pericolo scampato: potevamo continuare a vivere la nostra non vita, potevamo impastoiarci sempre più nelle nostre illusioni; invece ci siamo svegliati appena in tempo dallo stato di catalessi in cui vivevamo; ed è stata la nostra salvezza.
Ora, completamente svegli, dobbiamo vedere le cose per come sono, nella loro realtà; perché tutto ciò che esiste è realtà, tutto ha un valore di cui siamo chiamati a rispondere: desideri, sentimenti, pregiudizi, ricordi, traumi, complessi, idee giuste e sbagliate; guerra e amore; vita e morte; potere e impotenza. Dobbiamo cioè responsabilizzarci, essere finalmente “consapevoli” di noi stessi, poter chiamare tutte le cose per nome, guardandole in faccia; significa classificare, individuare la vera natura di tutto ciò che c'è in noi e fuori di noi: “Tu sei violenza: questo è il tuo nome. Tu sei trauma: questo è il tuo nome. Tu sei paura, terrore, soffocamento: questo è il tuo nome. Tu sei fallimento, abbandono, tradimento: questo è il tuo nome. Tu sei energia, forza, possibilità: questo è il tuo nome”. Chiamare ogni cosa per nome, come faceva l'uomo all'inizio della creazione, è la forza della vita. Perché chiamare per nome, significa far esistere una cosa, renderla reale, dirle: “Mi piaccia o no, tu ci sei”.
Allora con i termini “vegliare, consapevolezza, lucerna accesa”, il Vangelo oggi ci raccomanda di vedere bene tutto ciò che c'è da vedere, di stare all’erta, di non nasconderci nulla, di chiamare tutto per nome, con il suo nome.
La nostra deve essere un’attesa vigile: non sappiamo quando verremo chiamati all’appello. Sicuramente quando meno ce l'aspettiamo. E allora perché aspettare senza far nulla? Perché sprecare il tempo dell’attesa?
È vero, noi siamo per le comodità. Minimo sforzo, massimo rendimento. Vorremmo poter programmare la nostra fede, sapere in anticipo quanto tempo ancora ci rimane, per poter gestire la nostra vita spirituale con tutto comodo, con calma; per poter camminare senza affanno, avendo davanti a noi, si una salita, ma molto lieve, con gli ostacoli, il percorso, il traguardo, sempre bene in vista. Ma non è così! Noi non sapremo mai come sarà il nostro viaggio, il modo in cui finirà, quale la data esatta della sua fine. È un dono di Dio e Dio non è controllabile.
Tutti noi siamo semplici “amministratori” della nostra vita; il tempo non è nostro, ne abbiamo solo una piccola quantità da gestire. E di come lo avremo impiegato, saremo chiamati a darne conto a Lui. Inutile illuderci. Se dicessimo in cuor nostro: “Beh, sicuramente il padrone non arriverà oggi!”, e ci dessimo alla pazza gioia, a mangiare, a bere e a ubriacarci, saremmo degli emeriti stolti. Come potremmo giustificarci se il padrone arrivasse proprio allora? Sarebbe comunque troppo tardi per piangere sulla nostra infedeltà, sulla nostra stoltezza!
Allora, lo ripeto, non perdiamo altro tempo, fratelli. Siamo vigili. Trattiamo ogni cosa, ogni essere, ogni creatura, con tutto l'amore e il rispetto di cui siamo capaci. Iniziamo soprattutto da noi stessi, dal nostro mondo interiore, dalle persone che ci circondano, dai più vicini, da quelli che in qualche modo “ci abitano”. Stiamo attenti a non addormentarci; non viviamo di sogni, non dissipiamo il nostro tempo, “fregandocene” di tutto e di  tutti. Stiamone certi, il padrone verrà. Non è un monito, una minaccia. È la constatazione di una realtà. Un ricordarci, se mai ce ne fosse bisogno, che prima o poi anche noi dovremo rendere conto di quanto abbiamo avuto in consegna. Amen.
 

giovedì 1 agosto 2013

4 Agosto 2013 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario

«E Gesù disse loro: Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,13-21).
Gesù sta parlando a una grande quantità di persone: una “folla” precisa il vangelo. Forse centinaia, migliaia di persone. Sta parlando di cose molto serie, importanti, dell’essenza del vivere: dice che chi lo seguirà, non deve pensare di ottenere onori, gloria, considerazione, riconoscenza; sarà invece “rinnegato, portato davanti ai tribunali; tuttavia non deve temere di nulla, perché Dio ha cura di lui, pensa personalmente a lui; a Dio nulla sfugge di quello che lo riguarda; perfino i suoi capelli sono contati!
Sono considerazioni profonde: ma improvvisamente un tale lo interrompe e gli pone un problema personale, specifico, che riguarda solo lui, di nessun interesse per gli altri. Un problema di divisione ereditaria. Poveri noi! Ma questo tizio, stava veramente ascoltando Gesù, oppure pensava solo ai fatti propri? Certo, doveva essere parecchio concentrato, ripiegato su se stesso, se di fronte a migliaia di persone e nel bel mezzo di un discorso tanto profondo, se ne esce con una questione così banale, così terra terra! Evidentemente gli insegnamenti di Gesù non lo toccavano per niente: ciò che lo assorbiva totalmente erano i suoi problemi, le sue proprietà, i suoi utili, il suo futuro economico: pensava al raccolto eccezionale, ai magazzini troppo piccoli, insufficienti a custodirlo; alla necessità di doverli ampliare, per poter espandere i suoi commerci, incrementare i suoi utili, e darsi finalmente alla bella vita; ma c’era un problema: suo fratello non gli cedeva quella parte di eredità comune, necessaria all’ampliamento.
Egli quindi, incurante degli altri, cerca di “appropriarsi” di Gesù: “Mio fratello sta commettendo un'ingiustizia, come puoi non darmi ragione?”. Ma Gesù gli legge dentro: “Amico, tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché sei attaccato ai soldi, perché sei avido, perché invidi chi ne ha più di te, perché li brami. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi, non sequestrarmi per i tuoi interessi. Ammesso anche che tu abbia la tua parte di eredità, che i tuoi magazzini diventino ancor più capienti, che il tuo raccolto superi qualunque rosea aspettativa, sono tutte cose che non ti servono a nulla se il tuo cuore non è libero; non ti servono a nulla, perché tu vivi solo per i soldi, vivi solo per accumulare, vivi schiavo dell’avere”.
Attenzione: Gesù non dice “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Dice: “Tu, tuo fratello e tutti quelli che pensano come te solo ad arricchirsi, perderanno la vita; perderanno la parte più feconda, più creativa, più vera della vita; perdono cioè l'anima”.
Gesù va oltre la distinzione giusto/sbagliato che gli era stata proposta, e praticamente dice: “Tutti quelli che vivono così, moriranno così”. Non è possibile infatti che uno completamente preso dalla smania della crescita esteriore, della sua immagine, del suo potere, della sua fama, delle sue ricchezze, possa trovare interesse anche per il suo interno, per la sua anima, per le sue relazioni con Dio.
La parabola con cui Gesù spiega il concetto, sembra addirittura una maledizione divina: “Visto che tu hai accumulato tanto, io ti tolgo tutto!”. Sembra quasi che Dio se la rida di noi, si prenda gioco di noi, ma il significato della parabola non è questo. È una triste considerazione, una anticipazione di quanto accadrà a tutti quelli che durante la loro vita non pensano di “arricchirsi” anche e soprattutto di Dio, a tutti quelli che non hanno nessun interesse per la propria anima, che svendono la propria esistenza soltanto per le ricchezze, per i “magazzini”, per l'avere, per il riempirsi di cose materiali: “Chi vive così, finirà così!” dice Gesù. Le illusioni passeggere devono fare i conti con il futuro, con la realtà che non conosciamo, con le certezze che non vogliamo prendere in considerazione.
Ci è stata regalata una pianta bellissima. Ma ce la siamo dimenticata, non le abbiamo dato acqua per troppo tempo ed è morta. Poi però ci lamentiamo, pretendiamo, rivendichiamo “giustizia”; ma cosa possiamo pretendere? Con chi prendercela se non con noi stessi?
L'uomo della parabola, interessato solo al possedere, come tutti i ricchi del vangelo, non ha un nome. È anonimo, perché ha perso la sua vera identità, la sua personalità. Non ha più un nome perché tutta la sua attenzione è concentrata fuori da sé, all’esterno, lontano da ciò che di più importante egli possiede, l'anima; il suo interesse esclusivo è rivolto all’effimero, alle ricchezze, a tutto ciò che ancora non possiede, e che forse non potrà mai possedere, ma che egli vuole comunque a tutti i costi. E in questa affannosa ricerca finisce col perdere l'unica cosa preziosa che già possiede: se stesso. Gesù l’ha detto chiaramente: “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?”. Già, a che ci servono le ricchezze, le montagne di denaro, se perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra indipendenza, la nostra creatività, la nostra serenità in famiglia, la pace, la presenza rassicurante di chi amiamo, la graduale crescita dei nostri figli, la forza trainante della vera amicizia? Si vive, come quell’uomo, in una situazione tragicamente fittizia: il suo rapporto con lo spazio e il tempo è del tutto sfasato. Parla e pensa sempre al futuro: “Che farò, farò così, demolirò, costruirò, vi raccoglierò”. Non si pone il problema “tempo”; per lui non esiste il presente, vive fuori dalla storia. Non si rende conto che prima o poi tutto finirà, che tutto passerà, che tutto ha un inizio e una fine. Nessuno di noi è eterno, nessuno di noi vive sempre. Ogni cosa ha un suo spazio temporale: inizia, si svolge, finisce. Ciò che abbiamo perso, lo abbiamo perso per sempre. Ciò che è passato, è passato e non torna mai più. Ciò che non abbiamo gustato allora, non lo potremo gustare mai più. Anche quell'uomo si illudeva: “Eh sì, verrà un giorno in cui finalmente mi riposerò, mangerò, mi darò alla pazza gioia”. Quante persone, anche tra i nostri amici, hanno sempre “rimandato” le occasioni per “vivere” serenamente, in libertà, con se stessi e con i loro cari: c’era il lavoro, l’affermarsi, la carriera, la promozione ad un livello superiore…; aspettavano tempi migliori, aspettavano una maggior disponibilità economica, la liquidazione, la pensione, aspettavano che i figli crescessero, aspettavano, aspettavano…; poi in un attimo, tutto si è rivelato solo una illusione! Una malattia imprevista, dalla sera alla mattina, ha azzerato ogni loro programma, ha infranto ogni loro sogno.
Ricordo di un giornalista e commentatore televisivo che, alle soglie della pensione, colpito da un tumore incurabile, diceva: “Il cancro ci ricorda che siamo legati ad un guinzaglio corto, molto corto. Volete far ridere Dio? Parlategli dei vostri progetti accantonati per il futuro”.
Noi, per natura, siamo portati ad  attaccarci a tutto ciò che non abbiamo: “Devo diventare come lui, devo raggiungere questo, devo arrivare a quello...” e così lottiamo, combattiamo, spendiamo tutto il nostro tempo per ottenere queste cose: ma una volta raggiunte, ci accorgiamo che non ci bastano più, che non sappiamo più che farcene, in quanto già attratti da altre più grandi; c'è sempre un nuovo traguardo più ambizioso da raggiungere.
Non ci rendiamo conto della realtà: che cioè in noi abbiamo già tutto quello che possiamo desiderare, abbiamo già “il nostro tesoro” più grande; l’abbiamo al nostro interno, siamo noi stessi, la nostra anima. Niente all’esterno può farci sentire più importanti, se non sentiamo l’importanza di noi stessi; nulla può farci sentire sicuri se non siamo sicuri di noi stessi; nessun Dio può farci sentire più vivi se non riusciamo a vivere quella “vita” che già ci ha dato. Questa è la differenza tra chi “tesorizza” per il mondo (ammassa ricchezze e tesori esteriori) e chi “tesorizza” per Dio (rinforza la presenza di Dio in Lui, nella propria anima).
Ebbene: questo vangelo ci interroga in particolare sul nostro rapporto con il denaro, con le ricchezze. Quante volte sentiamo dire: “I soldi sono del diavolo!” Eppure quanti di noi vivono solo per i soldi! Il denaro in sé non è né buono né cattivo: ci offre la percezione della realtà. Come uno si rapporta con il denaro, così egli è. Ciò che facciamo con il denaro, riflette esattamente i valori con i quali viviamo. Il denaro non è la realtà: ma da come lo usiamo, ci diranno chi siamo realmente. È vero, il denaro cancella in qualche modo l'angoscia della nostra fragilità umana, il pensiero della morte: con i soldi pensiamo di non invecchiare: cure cosmetiche, lifting, gioielli, vestiti; il denaro ci dà fama, ci protegge dalla paura di essere dimenticati, di cadere nell’anonimato, nella massa; ci dà insomma l’illusione di essere immortali. Se è vero che il denaro ci toglie dall'angoscia immediata della fine, è altrettanto vero che ci priva della possibilità di una vita aperta, sensata, vera, vissuta serenamente nella piena fiducia in Dio. Talvolta siamo noi ad usare i soldi per vivere, ma più spesso sono i soldi che abusano di noi e della nostra vita; possiamo dominarli, ma il più delle volte siamo noi ad essere loro schiavi: è infatti il nostro rapporto con loro che decreta il nostro grado di libertà interiore.
Tutto quello che possediamo, infatti, non aumenta di un centesimo quelli che siamo.
“Abbà, cosa pensi del denaro?”, chiede un giovane monaco al suo anziano abate. “Guarda dalla finestra” - gli risponde questi - “cosa vedi?”. “Vedo tanta gente, uomini e donne che camminano, bambini che giocano”. “Ora guarda allo specchio. Cosa vedi?”. “Cosa vuoi che veda? Vedo me stesso, naturalmente!”. Al che il maestro di rimando: “Bene, ora pensa: sia la finestra che lo specchio sono entrambi fatti di vetro. Basta però l’aggiunta di un sottilissimo strato d'argento sul vetro, perché chiunque guarda non veda nient’altro che se stesso. Morale: il di più permette solo la visione di noi stessi, impedendo totalmente quella degli altri”.
Ecco, è anche su questo che Gesù oggi vuole attirare la nostra attenzione. Amen.