mercoledì 27 marzo 2013

31 Marzo 2013 – Pasqua: Risurrezione del Signore

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (Gv 20,1-9)
Gesù è risorto. Nessuno ha trafugato il suo corpo, cara Maddalena. Egli ha semplicemente e definitivamente sconfitto la morte! Come?
Cerchiamo di rivivere con la memoria gli eventi tumultuosi di questi ultimi giorni.
Quando Gesù viene arrestato, una cocente delusione assale tutti quelli che lo hanno seguito fin là. I più fuggono, si disperdono; tornano alle loro case, in Galilea. Pensano: “È tutto finito! È stato bello, meraviglioso, ma adesso… che fallimento!”. Si sentono a pezzi, morti dentro. Solo alcune donne trovano il coraggio di seguirlo, anche se da lontano, fin lassù sul Golgota, per assistere alla sua straziante morte. Compiuto l’irreparabile, insieme a Giuseppe d’Arimatea, curano la deposizione nel sepolcro di quel corpo così barbaramente martoriato. Devono fare in fretta: l’indomani infatti è già la Parasceve, giorno dedicato ai preparativi per la festa del Sabato.
Giunta poi la domenica, al mattino presto, vogliono completare con calma il rito della sepoltura, e si avviano al sepolcro portando oli profumati e unguenti.
Ma si trovano improvvisamente di fronte all’impensabile, all’imprevedibile: il sepolcro è vuoto! La pesante pietra posta a chiusura dell’ingresso - che così tanto le preoccupava - è rimossa; la tomba è vuota. Qualcuno ha sicuramente rubato il corpo di Gesù! Corrono allora ad avvisare Pietro e gli altri, i quali, giunti affannosamente sul luogo, non possono far altro che constatare la realtà. Ma non è così, non è questa la realtà. E nel loro cuore se ne rendono poi conto, perché quel Gesù che credevano morto, davvero finito, davvero sepolto, improvvisamente lo sentono vivo: la sua è una presenza così potente, così inequivocabile, così indiscutibile, da escludere ogni possibilità di errore. E non è finita: a questo miracolo se ne aggiunge un altro, un miracolo ancora più sensazionale; questa volta constatabile da tutti, visibile a tutti: quegli stessi discepoli, cioè, che il venerdì erano disperati ed erano fuggiti in preda alla paura e al terrore, alcune settimane dopo, a Pentecoste, annunciano senza più paure, che quel Gesù dato per morto, è effettivamente e realmente risorto.
E per lui vanno in prigione, per lui accettano derisioni, umiliazioni, percosse; ma nulla riesce a fermarli più. Per Lui possono anche morire, e molti di loro vengono davvero giustiziati: ma nulla li ferma. C'è in loro un fuoco che non si spegne mai.
Ebbene, fratelli, tutto questo è successo e ne siamo certi; anche se umanamente non riusciamo a spiegare come abbia potuto succedere in loro - in un tempo tanto breve - un cambiamento così radicale, così profondo, così decisivo; ora sono esattamente l’opposto di come erano prima, sono completamente cambiati, non sono più loro, dimostrano di essere guidati interiormente da una forza divina inarrestabile, dirompente, e sono convintissimi di quel che dicono: “Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è dentro di noi, vive in noi e con noi”.
Ecco, la “resurrezione” degli apostoli è tutta qui: è questa esperienza inaspettata e incredibile che essi hanno fatto proprio quella domenica mattina, esattamente come ce la descrive il vangelo di Giovanni.
Lui, molto più giovane, e Pietro, si fanno una bella corsa. Giovanni descrive nei minimi particolari il fatto: chi arriva prima e non entra, e chi arriva dopo ed entra. E dice anche che il primo, in questo caso lui stesso, vede e crede; mentre il secondo, Pietro, no.
Pietro, infatti, (Cefa, significa appunto “pietra”, duro, ostinato), nel vangelo è colui che vuol capire con la testa, è solo razionalità. Giovanni, che nel suo vangelo si definisce semplicemente “quello che Gesù amava” è, come dice il nome, amore, intuizione, sentimento, interiorità, vibrazione.
La mente razionale controlla il sentimento, cerca di contenerlo, perché il sentimento è come un'onda d'urto molto forte. La mente serve per capire (è Pietro che entra per primo!), per spiegare, per interpretare. Ma l'organo della vita è il cuore, è l’anima; se la mente arriva a percepire la vitalità, lo stupore, la fede, la conoscenza di Dio, ciò che fa “capire” è il cuore; serve l’anima.
Gesù risorto, Cristo resurrezione, Fede, Vita, Amore, è una persona di cui inebriarsi, appassionarsi, innamorarsi. Appartiene al cuore.
Così Pietro, la mente, la durezza, quando non vuol far spazio alla vita che c'è in lui, non vede nulla. E anche se vede, quello che vede non provoca niente in lui.
Giovanni al contrario, Giovanni l'amore, l'interiorità, il sentimento profondo, non solo vede ma immediatamente capisce tutto.
È questo che dobbiamo imparare, fratelli. Quando parliamo con una persona che amiamo, guardiamola negli occhi, entriamole dentro. Ascoltiamo non tanto cosa ci dice ma le vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua tristezza, la sua gioia, il suo slancio, la sua meraviglia, il suo amore. Così quando cantiamo o preghiamo, fermiamoci, e ascoltiamo il nostro cuore dentro di noi: le sue vibrazioni provocano emozioni profonde, fanno risuonare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte ogni pensiero e ascoltiamoci. Allora potremo percepire forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi. Impariamo a farlo spesso: ogni tanto fermiamoci e ascoltiamoci. All'inizio magari, dal nostro cuore usciranno demoni e mostri. Ma se avremo pazienza, con calma, nel silenzio, nel tempo, scopriremo dentro di noi una musica celestiale, una sorgente inesauribile di vita e di luce.
La nostra “Resurrezione” è infatti questo poter cogliere l'invisibile nel visibile. Il soprannaturale nel naturale, nella vita di ogni giorno.
Ma ci servono degli “occhi speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che oltrepassano la soglia della materia, che colgono la vera realtà delle cose. Con la resurrezione di Gesù di Nazaret, noi “risorti” possiamo affermare: “Dio è qui”. L'Invisibile è entrato nel visibile. Dobbiamo solo cercarlo, dobbiamo solo conoscerlo, dobbiamo solo scovarlo.
Il vangelo ci dice che Maria di Magdala si reca di buon mattino quand'è ancora buio. Sono due situazioni opposte: “di buon mattino” vuol dire “luce”; “quand'era ancora buio” vuol dire invece “notte”. Apparentemente sono una contraddizione, ma in realtà esprimono due aspetti di uno stesso, unico evento: nel cuore di quella donna e dei discepoli, tutto è finito, tutto è ancora buio, notte. Ma sta per accadere qualcosa di unico: la luce, la Vita, la vitalità, sta per sorgere.
Ogni volta che diciamo: “È tutto finito”, dobbiamo essere convinti invece che sta nascendo qualcosa. Un qualcosa però che si pone su un altro livello, più in alto. Un qualcosa che ci chiede di fare un salto di qualità, un salto di fede, un salto evolutivo.
La fede infatti significa potersi fidare, perché in tutto ciò che succede, noi siamo sempre sostenuti; in tutto ciò che ci succede, c'è Dio che tenta di plasmarci, di forgiarci, di purificarci, di migliorarci. Tutto ciò che ci succede è un bene per noi. Certo, a volte è doloroso, a volte è duro, a volte non è piacevole, ma è comunque necessario, perché ogni cosa che ci succede, ogni evento della nostra vita, tutto tenta di farci andare proprio dove dobbiamo andare.
Se rimaniamo a livello di storia, come è successo per gli apostoli, diciamo: “Che disastro! Tutto è finito! Gesù è morto”. Ma se riusciamo a compiere il “salto” di fede esclamiamo: “Che bello! Gesù è risorto, tutto ha un senso! Grazie!”.
Ogni fatto grave, per quanto grave sia, se noi riusciamo a fare questo salto di fede, di evoluzione, da buio pesto diventa “luce” sfolgorante; diventa vita, resurrezione.
L’ostrica contiene la perla: ma per prenderla dobbiamo aprirla. Ogni scrigno può racchiudere un tesoro, ma dobbiamo guardare bene dentro. Così ogni morte racchiude una vita, e ogni notte è preludio di un’alba.
Se quindi noi rimaniamo allo stesso livello e non facciamo il salto, tutto ciò che succede è buio, notte, morte. Al contrario se facciamo quel salto, tutto diventa prezioso, grazia, benedizione, gratitudine. Ma quel salto, fratelli miei, non lo può fare nessuno al posto nostro, dobbiamo farlo noi stessi!
Noi spesso ci arrabbiamo perché succede quello o quell'altro, perché il collega, l’amico ci ha fatto questo, la moglie, il marito, il confratello, quello; ci irritiamo perché i figli non fanno quello che vogliamo noi, perché il mondo non va come vorremmo. Ma vivere così non serve. Dobbiamo fare il salto di resurrezione, il salto che ci trasporta dalla materia allo spirito.
Qual è il tesoro racchiuso in questa situazione? Qual è la perla per noi? Che cosa ci spinge a migliorare? Qual è il valore che dobbiamo imparare?
Facciamolo questo nostro salto; non rimandiamo, non ragioniamo, non sottilizziamo sempre e tutto. Non accusiamo il mondo, non accusiamo sempre gli altri. Il mondo non ha nulla di male e gli altri non sono noi. Troviamo la perla, il tesoro, il dono per noi. Allora tutto è accettabile; magari difficile, ma con un nuovo significato.
Poi, un giorno, la morte ci comparirà improvvisamente davanti e noi diremo: “Oddio! È già ora?”. Magari urleremo: “No, non vogliamo. No, non è giusto!”. Certo, avremo tanta paura. Ma se saremo allenati a guardare con gli occhi della fede, allora potremo serenamente dire: “Suvvia, torniamo a Casa! Andiamo incontro alla Vita!”. Ebbene: anche quella sarà la nostra resurrezione. Amen
 
 

mercoledì 20 marzo 2013

24 Marzo 2013 – Domenica delle Palme

«Passione di nostro Signore Gesù Cristo, secondo Luca» (Lc 23,1-49).
Ogni evangelista, nel raccontare la passione di Gesù, ci mostra di lui un volto diverso. È lo stesso racconto, ma ognuno ne sottolinea un suo punto di vista, una immagine “sua” di Gesù. Questo ci ricorda che i racconti della passione, oltre che verità storiche, sono esperienze, racconti con cui chi ha scritto voleva dirci chi era Gesù, secondo il suo punto di vista.

a) Per Marco Gesù è l'abbandonato. Tutti lo abbandonano, ma proprio tutti. I discepoli dal monte degli Ulivi in poi lo abbandonano: mentre Gesù prega si addormentano per ben tre volte; Pietro impreca e nega di conoscerlo, Giuda addirittura lo tradisce.
Tutti fuggono: uno perfino lascia lì la veste pur di allontanarsi da Gesù. Romani e Giudei sono cinici: lo lasciano appeso alla croce sei ore e durante tutto questo periodo lo prendono in giro e lo deridono. Perfino quando Gesù muore: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” lo deridono. Eppure il velo del tempio si squarcia e il centurione afferma: “Veramente quest'uomo era figlio di Dio”. Sono due segni chiari che attestano che, nonostante l'abbandono in cui Gesù è lasciato, Gesù non è un falso profeta.
La passione di Marco ci aiuta quando ci sentiamo soli, quando tutti ci sono contro, quando noi stessi crediamo di aver sbagliato tutto o di essere noi stessi sbagliati.
Guardiamo Gesù e lo vediamo amareggiato: perfino i suoi amici più cari, quelli più intimi, quelli con i quali aveva condiviso le gioie e le fatiche, quelli che avevano detto: “Noi, non ti abbandoneremo mai; noi ci saremo sempre per te; su di noi puoi contare”, perfino quelli adesso se ne sono andati.
Ma ciò che è più drammatico è che perfino il suo Dio non parla, è in silenzio, tace. Forse anche lui lo ha abbandonato? Forse Gesù ha davvero sbagliato tutto?
In certi momenti della vita ci capiterà di credere di aver sbagliato tutto. Ci capiterà di aver voglia di farla finita, di toglierci di mezzo; ci capiterà di sentirci soli, abbandonati e traditi. Ci capiterà di essere additati, ridicolizzati, presi in giro, beffeggiati e umiliati.
Eppure Gesù non si sbagliò. Guardando a Lui, che credette in ciò che aveva dentro al di là di tutto e di tutti, voglio credere in me e in ciò che abbiamo dentro. Guardando a Lui andiamo avanti.
Quando leggiamo il vangelo di Marco osserviamo cosa può produrre la paura nelle persone: le fa abbandonare, tradire, negare chi amano. Nessuno si schierò con Gesù; nessuno prese le sue parti, nessuno si espose. Tutti ritennero più opportuno rimanerne fuori, non impicciarsi, non cercarsi rogne. Magari lo amavano; magari lo sentivano veramente come la loro vita, ma la paura li portò a negare i loro sentimenti d'amore.

b) Matteo, che in parte ricalca Marco, si pone una grande domanda: chi è il colpevole della morte di Gesù?
Per Matteo tutti contribuiscono a loro modo alla morte del Signore. Tutti ne hanno una parte: chi direttamente, chi indirettamente; chi agendo, chi non agendo.
Giuda? Giuda s'impicca perché si rende conto di essere stato un burattino in mano ai sommi sacerdoti. Giuda è nient'altro che una piccola pedina di uno scacchiere molto più grande. È un fantoccio che per denaro, per opportunità, vende il Signore e tutto sommato se stesso. Poi schiacciato dal senso di colpa, non regge e si uccide.
Giuda sono tutti quegli uomini che vendono ciò che hanno di più bello alla causa del lavoro, del denaro e dei soldi. Lavorano sempre, fanno orari impossibili, perché così “otterranno”. Ma non si accorgono che in questo modo stanno vendendo l'anima; non si accorgono che mettono sempre qualcos'altro prima dello spirito e dell'anima. Poi un giorno si svegliano e si accorgono di essere vuoti, insoddisfatti, senza niente, e si lasciano andare alla deriva, come se fossero già morti.
Pietro? Pietro è l'uomo del grande entusiasmo: “Io non ti rinnegherò mai”. Pietro fa grandi proclami, che poi si sciolgono come neve al sole e per ben tre volte tradirà il suo maestro e amico. Pietro, sono tutti coloro che non si conoscono, ma che credono di spaccare il mondo. Fanno grandi proclami, si augurano amore eterno, si giurano che saranno sempre fedeli e ne sono convinti. Ma in loro o c'è tanta innocenza o troppa presunzione o semplicemente tanta ignoranza: non si conoscono. Non conosco le esigenze e le difficoltà della fedeltà.
Pilato? Pilato se ne lava le mani e con questo gesto crede di tirarsi fuori, di essere esente da responsabilità. La sua stessa moglie lo aveva pregato di non avere a che fare con quell'uomo. Pilato, sono tutti quelli che dicono: “Io non c'entro”, e si credono a posto, si sentono tranquilli. Se c'è un problema, ma non mi riguarda direttamente, meglio lavarsene la mani. Se c'è chi soffre cosa c'entro io? Che ci pensino quelli delegati e preposti a questo!
E la folla? La folla è “il popolo bue” che si lascia condizionare dall'ultima moda e dalle tendenze. I sacerdoti e gli anziani la persuadono ad urlare: “Barabba”. E così quando Pilato chiede: “Chi dei due volete che vi rilasci?”, la folla in maniera imbecille e inconsapevole urla: “Barabba!”. La folla rappresenta tutte le persone che si lasciano condizionare, influenzare. Sono tutti quelli che non hanno un pensiero proprio, che vivono di frasi fatte, preconfezionate o di quello che sentono dire in giro. Sono quelli che non riescono a difendere una posizione o un'idea. Sono tutte quelle persone che credono ingenuamente che tutto il mondo sia Amici, il Grande Fratello, Uomini e donne ecc. Sono tutte quelle persone che corrono dietro all'ultima moda o all'ultimo prodotto.
La folla non ha personalità: vive solo come insieme, ma non come singolo. Nessuno di loro è il diretto responsabile della morte di Gesù, eppure proprio loro lo hanno condannato a morte. Matteo attraverso i suoi personaggi dice: “Siete tutti colpevoli, direttamente o no, perché tutti per paura o per interesse l'avete tradito e non avete preso le sue parti”.

c) Luca mostra invece Gesù come colui che perdona tutti.
Luca attenua le responsabilità dei vari personaggi: i discepoli sono rimasti fedeli a Gesù nelle prove; nel Getsemani si addormentano solo una volta e non tre ed è un sonno di tristezza; i nemici non presentano falsi testimoni come negli altri vangeli; Pilato per ben tre volte tenta di liberarlo perché è innocente; il popolo è addolorato per ciò che succede e perfino uno dei due ladroni è buono.
In Luca Gesù si preoccupa di tutti: guarisce l'orecchio del servo durante l'arresto, si preoccupa per la sorte delle donne mentre sale sul Calvario, perdona i suoi crocifissori e promette il paradiso al ladrone pentito. Gesù in Luca è colui che capisce i suoi nemici: fanno così perché vivono nel buio e nelle tenebre, altrimenti non potrebbero agire così.
Questo vale sempre: la gente è cattiva non perché sia cattiva, ma perché dentro è arrabbiata; la gente è nervosa, suscettibile, perché dentro è inquieta e non riesce a dar voce ai turbamenti interni; la gente giudica perché non conosce la misericordia con sé, non conosce la tenerezza, non conosce l'amore; la gente disprezza gli altri e umilia perché non sa andare dentro il cuore degli uomini.
Gesù li perdona non perché sia giusto ciò che fanno. Gesù li perdona perché sono ciechi, non ci vedono, scambiano il male per il bene e il bene per il male; credono di essere religiosi e invece sono atei; credono di rendere omaggio a Dio e uccidono suo Figlio; credono nelle regole perché non hanno coscienza; credono di sapere e vivono nell'ignoranza totale.
Quanta gente vive così! Credono di essere liberi e, invece, sono così condizionati che neppure se ne accorgono. Credono di essere i padroni della loro vita e invece sono seduti su di un treno. Dicono: “Io faccio la mia vita”, e non si accorgono che è il treno che li porta. Credono di conoscersi, ma non sanno dire cosa sono; credono di conoscere Dio perché hanno letto qualche libro o visto qualche documentario o trasmissione, per cui basta un libro di Dan Brown per metterli in confusione. Dio li perdonerà un giorno. Ma nessuno si giustifichi perché l'ignoranza (soprattutto quella “vestita” da sapere) uccide, distrugge, umilia e compie le peggiori atrocità.

d) Per Giovanni, invece, Gesù è l'uomo consapevole che va incontro volontariamente al suo destino. Anche se viene giustiziato in realtà è Lui il vero re.
È sovrano di se stesso e lancia una sfida: “Io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie”.
I soldati romani e le guardie del tempio che vanno ad arrestare Gesù cadono a terra tramortiti quando Gesù dice la frase: “Sono io”. Nel Getsemani Gesù non prega di essere liberato dall'ora della prova e della morte, come negli altri vangeli, perché quell'ora costituisce lo scopo di tutta la sua vita. Gesù è così sicuro di sé che il sommo sacerdote si sente offeso. Pilato ha paura di fronte al Figlio di Dio che gli dice: “Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse dato dall'alto”. Giovanni non parla di Simone il Cireneo: è Gesù stesso che porta la propria croce. La sua regalità è confermata in tre lingue. Gesù non è solo, perché con lui, ai piedi della croce, c'è sua madre e il discepolo che egli amava. Gesù non grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, perché il Padre è sempre con lui; le sue ultime parole esprimono, invece, una decisione solenne: “Tutto è compiuto”. Perfino la sua morte è fonte di vita perché da lui sgorga acqua viva. La sua sepoltura non è improvvisata, come negli altri vangeli; grazie a Nicodemo, il corpo è cosparso di cento libbre di mirra e aloe, come si conviene ad un re.
Il Gesù di Giovanni è l'uomo che è pienamente consapevole di ciò che succede. Per questo è il vero re. È il vero re perché è lui che domina la scena, è lui che “vuole” la sua morte. Non che Gesù voglia morire, ma non si vuole sottrarre alla fedeltà di ciò che crede e di ciò che sente. Per questo va fino in fondo, con grande dignità e regalità.
Il Gesù di Giovanni smaschera i falsi re di questo mondo: i politici, i calciatori, i potenti, gli uomini di successo, le attricette. Come Pilato e i sommi sacerdoti, credono di gestire e di dominare il mondo. Si sentono forti e chissà chi. Ma la vera regalità non è mai legata a ciò che fai o a ciò che hai; la vera regalità è legata alla persona che sei. Regalità è lottare per ciò che si crede e rimanere fedeli a ciò che si dice di credere. Regalità è andare fino in fondo e pagare di persona.
Perché quattro storie della passione? Non c'è stata un'unica passione?
Certo, ma ciascun evangelista ha “visto” con i propri occhi quanto accaduto e tutto questo ha parlato al cuore di ognuno in maniera diversa. Come succede anche a noi.

Anche quest'anno ci accostiamo alla lettura della passione: non siamo gli stessi dell'anno scorso, né saremo così l'anno prossimo. Quest'anno la passione ci parlerà in maniera diversa, quest'anno ci identificheremo di più in un personaggio piuttosto che in un altro; quest'anno emergerà più forte un sentimento piuttosto che un altro.
In silenzio, nel silenzio del nostro cuore, leggiamo e ascoltiamoci.
In silenzio, nel silenzio di chi sa di trovarsi di fronte alla vicenda del Figlio di Dio, ma anche alla vicenda di ogni uomo, lasciamo che queste parole ci entrino nell'anima.
In silenzio, nel silenzio della nostra anima, leggiamo questa vicenda e cerchiamo di capire dove noi siamo esattamente. Amen.
 

giovedì 14 marzo 2013

17 Marzo 2013 – V Domenica di Quaresima

«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (Gv 8,1-11).
Gesù si trova nel tempio. Ciò che avviene è sconcertante: siamo nella casa di Dio e quelli che si ritengono gli esperti della legge divina vogliono uccidere una donna. Gli scribi e i farisei irrompono in gruppo nel tempio; interrompono la catechesi di Gesù per condurgli una donna colta in flagrante adulterio. Essi l’hanno già condannata, hanno le pietre in mano per lapidarla, appena fuori città, perché questo era il tipo di morte prevista dalla legge; ma volevano comunque mettere alla prova Gesù. E Gesù le salva la vita.
Osserviamo meglio la scena: scribi e farisei vanno dunque da Gesù in gruppo, in massa. Gesù, invece è solo. La massa, pur avendo un potere enorme, è incapace di assumersi le responsabilità individuali. Nel branco, nel gruppo, ognuno perde la propria identità. Tutti si sentono autorizzati a fare di tutto, a compiere anche ciò che, da soli, non farebbero mai.
Gesù però li blocca, li mette ciascuno di fronte alle proprie responsabilità; e quando capiscono di dover rispondere alla propria coscienza per tale esecuzione mortale, ognuno si defila, e se ne va in silenzio. Nessuno ha più il coraggio di scagliare anche una sola pietra.
Ma, come ho detto, ai farisei e agli scribi, in realtà, non interessa fare “giustizia”, non interessa punire quella donna: è Gesù il loro vero obiettivo. Se Gesù infatti si schiera a favore della donna, automaticamente si mette contro la legge, ed essi hanno un valido motivo per combatterlo; Lui, infatti, che si dichiara il Messia, paladino della rettitudine, deve dimostrarsi coerente; non può certo opporsi così apertamente alla legge dei suoi Padri. Se invece si schiera contro la donna, condannandola a morte, cade comunque in contraddizione, poiché soltanto i Romani potevano condannare qualcuno alla pena capitale. Quindi in entrambi i casi hanno dei buoni motivi per poi accusarlo alle autorità.
Ma prima di tutto questo, prima di armare tanto scompiglio, come mai nessuno di loro si è chiesto quali fossero i veri motivi che hanno spinto la donna a comportarsi in tale maniera? Cosa cercava? Chissà: forse il marito la picchiava; forse il marito la respingeva; forse il marito la umiliava; forse il marito la teneva come una schiava; forse il marito aveva un'altra. Nessuno si è fermato a riflettere sul perché sia successo tutto questo: è successo, quindi, deve morire! Sembra di assistere a tante situazioni di oggi!
E poi, perché nessuno si è chiesto: “Dov’è l’uomo che giaceva con lei? Perché non abbiamo preso anche lui? Perché solo la donna deve essere condannata? Perché?”.
Ma niente di tutto ciò: i farisei ( e solo loro?) hanno il paraocchi: si riempiono la bocca della legge mosaica, si rifanno ciecamente a ciò che è prescritto nei codici e nei manuali di teologia; essi non hanno cuore; e neppure cervello: sono dei semplici esecutori, agiscono in malafede, sono dei maniaci della forma. L’unico criterio di giudizio è la “loro” legge. Però “la legge” non giustifica, dice san Paolo. È troppo semplice appoggiarsi “a terzi”. Un bambino lo può fare: “Me l’ha detto mamma! Papà mi ha detto che si fa così!”. Ma in età adulta non possiamo fare soltanto le cose che ci dicono di fare. Dobbiamo prenderci le nostre responsabilità, dobbiamo cioè farle o non farle perché ci crediamo o non ci crediamo.
“Tutti fanno così”: non è una giustificazione valida e razionale. Siamo noi gli unici responsabili di ciò che facciamo.
E Gesù nel tempio ci dà una solenne lezione: mette tutti di fronte alla propria coscienza, alle proprie responsabilità: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Ovviamente nessuno lo fa: perché, nonostante siano considerati dalla gente dei “giusti”, in cuor loro, nell’intimità della loro coscienza, sanno perfettamente di non esserlo: e pertanto non rischiano, preferiscono non esporsi personalmente.
Pure noi: ci è capitato di esprimere un giudizio tagliente, una valutazione totalmente negativa? Prendiamocene apertamente la responsabilità! “Ma no... sai... io non volevo... io pensavo…”. La prossima volta, fratelli miei, prima di parlare, pensiamoci. Quante persone, purtroppo, amano parlare di nascosto, dietro le spalle, gettare fango, insinuare, malignare! Non hanno dignità, non hanno personalità.
Sono come quei farisei: chiacchierano, spettegolano, malignano, accusano, insinuano, arrivando a svergognare completamente la donna. Non vedono l'ora di mettere in piazza il suo peccato, l'errore, la sua colpa. La etichettano immediatamente: “Adultera!”. E godono nell’inscenare la tragedia di lapidarla!
Gesù, di fronte a tanta falsità, non dice assolutamente nulla; ignora del tutto quel gruppo di scalmanati; non guarda neppure la donna; china solo il capo e pensa: “Quanto starà soffrendo questa poveretta! Chi sono questi buzzurri senza cuore, che sbraitano tanto? Come si fa a trattare così una persona?”. Gesù in cuor suo rispetta quella donna, comprende la sua debolezza, capisce la sua vergogna, il grande imbarazzo, per essere tacciata come una puttana davanti a tutti, famigliari, conoscenti, amici; l’essere additata come la peggiore e la più detestabile delle persone.
La calunnia: uno sport ritenuto sconsideratamente innocuo da chi lo pratica. Un gioco. Quante volte capita anche a noi, fratelli miei, di divertirci a malignare, a ricamare sulle disgrazie altrui! “Hai sentito di quello? E di quell'altro? Te lo dicevo io che non era come voleva far credere!” e giù, ci divertiamo a spettegolare, a calpestare e a volte distruggere il privato degli altri. È storia dei nostri giorni: il gossip è il passatempo più ambito e più seguito dalla massa: sembra che non ci interessi nulla all’infuori dello scoop, della notizia esplosiva, scandalistica; sempre all’erta, sempre pronti a denigrare: basta una piccola illazione, un cenno, una semplice supposizione, e noi partiamo!
È chiaro, pertanto, che una società impegnata costantemente a rincorrere l'ultimo “scandalo”, è una società che, non avendo vitalità in sé, cerca motivazioni, sussulti, emozioni all’esterno, ai margini della vita e dell’onestà, nel torbido del quotidiano; è il segnale d’allarme che preannuncia la disfatta e la morte dello spirito. È una società vuota, le cui persone, completamente vuote di loro, cercano pienezza e stimoli rovistando nella vita altrui: per questo giornali e riviste scandalistiche incontrano cotanta diffusione!
La società poi è abituata a generalizzare: lo psicologo e il medico parlano di “pazienti”; il prete parla di “parrocchiani”; l'assistente sociale di “utenti”; per lo Stato siamo il “numero” di codice fiscale, per la banca un “debitore”. Eppure nella vita noi tutti abbiamo un nome, siamo delle entità ben distinte, siamo persone che amano, che soffrono, che vivono e sperano.
I farisei dunque trattano quella donna come un oggetto. Per loro è nessuno, una delle tante donne del popolo. Niente di che. Non si rendono conto che dietro a quella malcapitata c'è forse una tragedia; comunque una storia, un volto, una vicenda, una persona ben precisa, con i suoi sentimenti, con le sue difficoltà, con i suoi problemi, con la sua dignità.
E Gesù tace. Essi lo incalzano. Pretendono una risposta chiara, una lettura forte della legge: vogliono comunque scaricarsi da ogni responsabilità individuale: “Noi siamo a posto, ce l’ha confermato anche lui, doveva essere uccisa!”.
Ma Gesù non si esprime; al contrario, scrive per terra. Continua a prendere tempo. Loro vogliono una risposta immediata e lui non gliela dà. Sente il suo cuore pieno di rabbia, e cerca di scaricarla scrivendo: questo gli permette di continuare ad essere obiettivo, di pesare bene le parole, di non rispondere d’impulso, senza la lucidità e la padronanza richieste dal caso.
Anche noi, quando siamo arrabbiati, dobbiamo fare altrettanto, fratelli; dobbiamo trovare il modo per calmarci. Perché altrimenti ci graffiamo reciprocamente, ci facciamo del male, ci feriamo fino all'inverosimile. Prendiamoci cinque minuti; andiamo in un'altra stanza; occupiamoci di qualcos’altro; andiamo a farci un giro fuori e poi, quando rientriamo scaricati, possiamo affrontare il problema con le dovute calma e lucidità.
I farisei però insistono: “Guarda cos'ha fatto quella donna lì? Perché non ti decidi?”.
E finalmente Gesù risponde: “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra”. In altre parole: “Voi, siete proprio sicuri di essere innocenti? Di essere completamente in regola? Di non avere qualche scheletro nell’armadio? Ne siete proprio certi? Pensateci un po’!”.
Ecco: quando stiamo per puntare il dito contro qualcuno, pensiamo per un istante che in quel preciso momento almeno tre persone lo stanno puntando contro di noi. “Anche se non hai tradito materialmente tua moglie, sei proprio sicuro di non pensare ad altre donne? Sei proprio sicuro di non desiderarle? Sei proprio a posto con la tua sessualità?”. In questo modo Gesù li mette di fronte alla loro coscienza, li lega alla loro percezione intima della verità: “Chi di voi può dirsi completamente immune dal peccato, in particolare da questo peccato?”.
Gesù poi si rivolge alla donna: non la giustifica, non le dice: “Brava, hai fatto bene!”. Le dice: “Và e d'ora in poi non peccare più”. “Forse hai sbagliato, forse hai fatto qualcosa di cui neppure tu ora sei contenta. È successo, rialzati, non condannarti più, lascia stare, volta pagina, perdonati; soprattutto ricordati che se vuoi, puoi essere diversa, nuova!”.
Capite? Non è meraviglioso? Gesù non fa paternali, non fa tremende lavate di testa; fa soltanto leva sulla forza del cuore, sui sentimenti nascosti e profondi della donna, della persona. Questo è amore, fratelli. Non si ferma a rimarcare il peccato in sé, che probabilmente c'era ed era vero. Egli sottolinea semplicemente la possibilità di uscirne fuori, le indica la possibilità di costruirsi una vita migliore, di essere diversa. Le dice: “Tu puoi. Non è vero che sei così e che sarai sempre così: non crederci. Tu puoi essere diversa, puoi essere migliore; insomma tu puoi cambiare: io lo so, ne sono convinto”.
Gesù dunque non sottolinea l'errore: lei sapeva bene di aver sbagliato! Gesù sottolinea solo un cambiamento in positivo. Gesù ci insegna che dobbiamo avere fiducia nei fratelli. Ma la fiducia non si può fingere: dobbiamo crederci per davvero! Quando dobbiamo aiutare un fratello che è caduto, fare coraggio a qualcuno che è in difficoltà, dobbiamo essere convinti che lui ce la può veramente fare, che nel suo cuore egli dispone di altre forze nascoste e impensabili, con le quali egli può uscirne, egli può rialzarsi e guardare avanti essendo migliore.
Cerchiamo di guardare nei fratelli sempre il lato positivo. Cerchiamo di dir loro: “Nella vita tu farai senz’altro qualcosa di grande!” e crediamoci noi per primi. Perché, fratelli, sentire che qualcuno crede in noi, nelle nostre forze, nelle nostre possibilità, in ciò che siamo, è in assoluto la cosa più bella, la cosa che maggiormente ci sprona ad agire.
L'amore infatti dà fiducia. Perché le persone guariscono facendo certi percorsi? Cos'è che le fa guarire o cambiare o diventare se stesse? La competenza di chi le guida? No! Il percorso fatto bene? No! Ciò che le fa guarire è l’aver trovato qualcuno che crede in loro e che ha fiducia in ciò che possono diventare.
Frasi come: “Tu puoi; ci riesci di sicuro; ce la farai sicuramente; osa; prova; sperimenta; dai! ecc.”, dovrebbero far parte nel nostro vocabolario quotidiano.
Ripeto: l'amore ci conforta e ci sprona; anche se non siamo come gli altri ci vedono, il loro amore ci fa comunque sentire come dovremmo essere e come potremmo diventare; dobbiamo solo esserne convinti, noi per primi.
Tu, Gesù, credi in me; lo capisco, lo sento. Non posso deludere tanta fiducia; voglio anch’io credere maggiormente in me; voglio darmi fiducia, voglio essere come tu mi vuoi, voglio risorgere, e amarti sempre più, come meriti. Amen.
 

mercoledì 6 marzo 2013

10 Marzo 2013 – IV Domenica di Quaresima

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto» (Lc 15,1-3.11-32).
 
“Un vangelo nel vangelo”, potremmo definire quello di oggi. Un brano che ci mette in contatto con l’universo della bontà di Dio: perché è chiaro, la figura del “padre” è la sua. È la storia di un Dio “padre”, che accoglie a braccia aperte ogni figlio smarrito. Ma il testo ci offre anche altre chiavi di lettura: quella della nostra storia personale, la storia dei rapporti umani, la storia di tutti i figli di questo mondo che, per vivere, devono rompere con la “casa” e con “il padre”, per poter trovare se stessi, la propria vita, la propria missione, il proprio posto nella società: perché per vivere è fondamentale fare esperienza, capire, percepire la vera portata delle potenzialità che tutti abbiamo, ma di cui non ce ne rendiamo conto.
È la storia di come possiamo fare tante “cavolate” nella vita, ma è anche l’avvertimento che non è mai troppo tardi per rimediare. Possiamo anche finire con i porci, condurre una vita dissoluta, priva di qualunque valore, ma abbiamo sempre la possibilità di redimerci, recuperando la nostra vita e la nostra dignità.
È la storia dell'amore vero, che rimane: l’amore di quel padre di famiglia che ama al di là di tutto, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là del rifiuto ricevuto dal figlio.
È la storia del rifiuto “per amore”: il figlio che dice di no, che vuole slegarsi, che vuole andarsene, lo fa perché ama la vita, perché cerca nuove possibilità su cui costruire il suo domani: per vivere, infatti, tutti dobbiamo affrontare il nostro “viaggio” personale; per crescere, per maturare, per responsabilizzarci, dobbiamo affrancarci dal legame infantile che ci lega ai genitori, e prendere in mano razionalmente la nostra vita e il nostro domani.
È la storia di chi ha paura di crescere, di dover cambiare qualcosa nella vita: continua a starsene nel suo guscio protettivo, con le sue solite idee, con il suo solito mondo: e non si accorge di essere invece un “morto” in casa, corroso e paralizzato dalla paura di crescere.
È la storia di come non sia possibile alcun “ritorno”, se prima non “rientriamo in noi”: se non ci ascoltiamo, se non ci guardiamo dentro, se continuiamo a vivere proiettati soltanto all’esterno, all’effimero, facendo dipendere la nostra felicità esclusivamente dalle cose esteriori (i soldi, i divertimenti); oppure pensando che “gli altri”, e non noi, debbano darci il senso della vita.
Ecco, fratelli, queste sono tante altre possibili letture, altri spunti di approfondimento di questo vangelo.
Un vangelo, dicevo, che ripropone la nostra crescita umana e spirituale, mediante un progressivo cambiamento dei nostri rapporti con le persone, col mondo e con le cose.
Un brano, quello di oggi, che ci presenta in particolare tre personaggi, ciascuno dei quali deve fare i conti con le proprie problematiche relazionali: è pertanto il significato dei loro rapporti reciproci che va approfondito, preso in considerazione: primariamente quello dei figli col loro padre; un padre che è visto da entrambi soltanto dal punto di vista egoistico: è colui cioè “che dà”, che “deve dare”; il suo ruolo è soltanto quello di soddisfare le loro richieste; il figlio minore infatti gli dice “Dammi la mia parte di eredità”; il maggiore gli rinfaccia “Non mi hai mai dato un capretto per far festa con gli amici”. A nessuno dei due figli sta a cuore l’amore paterno; per loro vale soltanto l’utile, il proprio tornaconto.
C’è poi il rapporto tra i due fratelli: come si relazionano tra loro? Non si relazionano! C’è solo indifferenza: non si rivolgono la parola, non si dicono nulla, non s'incontrano mai! E perché? Semplice: perché volutamente non ne vogliono sapere; tra loro hanno costruito un muro di incomprensione, di egoismo, di invidia. Motivo scatenante di tale contrasto? Il comportamento del padre: sì, il loro conflitto poggia proprio sul comportamento paterno, ritenuto a torto o a ragione, discriminante, di parte. Il minore percepisce la maggior considerazione del padre per il primogenito, il prescelto, il primo in tutto; capisce di essere considerato solo come rincalzo e di non avere alcuna possibilità di competere alla pari con il fratello; quindi pianta ogni cosa e se ne va di casa. Vuole staccarsi dal padre; meglio, da quell’immagine di padre che egli si era auto costruito, un padre carente di imparzialità. Se continuava a stare in casa, non avrebbe mai potuto cambiare idea. Per farlo ha dovuto allontanarsi, intraprendere un lungo viaggio, visitare molti paesi, godersi la propria autonomia, la propria “libertà”; un cammino che finirà poi per portarlo “dentro di sé”: “Rientrò in se stesso”.
Anche il padre ha dovuto fare un suo viaggio personale: al ritorno del figlio minore lo troviamo infatti premuroso, fuori di casa, ad aspettarlo. Si è dovuto distaccare dall’idea classica di un padre, di un genitore, che ha, apertamente o implicitamente, delle pretese nei confronti del figlio: io ti do qualcosa (la vita, un nome, sicurezza, benessere) e tu mi devi qualcosa (seguirmi, rispettarmi, prenderti cura di me, farmi felice, non abbandonarmi, ecc).
Il terzo personaggio, il figlio maggiore, al contrario non ha fatto nessun viaggio: per lui suo padre rimarrà sempre quello che “deve dare”, e suo fratello continuerà ad essere quello “inferiore in tutto”, il depravato, il dissipatore, “con le prostitute”, del patrimonio familiare. Egli giudica suo fratello per rabbia: non sopporta che il “minore”, quello meno di lui, sia accolto in casa dal padre con la stessa dignità riservata a lui, che ha sempre rigato dritto; che questo sfaccendato sia trattato dal padre allo stesso modo con cui tratta lui, come se fosse suo pari; per questo egli distrugge la sua immagine, lo infanga, lo scredita. Non accetta di aver perso la sua superiorità assoluta.
Il suo problema sta proprio qui: nel fatto che è sempre rimasto in casa; non è mai uscito.
Quanti di noi, fratelli, continuano a passare la loro vita “in casa”, con le loro solite quattro idee, con i soliti pensieri, le solite persone, il solito modo di pensare, le solite cose da fare.
Non capiscono che uscire significa conoscere; vuol dire mettersi in discussione, scoprire cose incredibili, rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più grandi delle proprie piccole e sclerotizzate convinzioni. Ma uscire fa paura: è meglio rimanere in casa.
Il figlio minore, uscendo dalla propria immaturità, pur facendo delle scelte nefaste, ma pagando a caro prezzo le amare conseguenze, è comunque diventato un uomo, ha trovato la vita, ha fatto esperienza, si è messo in gioco in prima persona; il maggiore, al contrario, è rimasto un immaturo, un uomo morto, trincerato nei suoi vecchi schemi e pregiudizi; il vangelo non ci dice che fine farà, ma l’immagine che ne esce è quella di un uomo fallito. Se non si deciderà a “uscire” anche lui, a cambiare, continuerà per sempre a trascinarsi nella sua mediocrità.
Al loro “ritorno”, invece, sia il figlio minore che il padre, sono diversi. Il padre non è più quello “che dà”, e il figlio non è più quello “che prende”. Hanno fatto entrambi la loro strada, e le loro posizioni si sono invertite: il padre, che aveva dato, ora riceve; e il figlio che aveva preso, ora dà. Ma cosa dà questo “prodigo” a suo padre? La paternità: quell'uomo adesso sente che, per il figlio, lui non è più questione di soldi, di eredità, ma di amore, di affetto, di presenza. Tutto è stato superato, cambiato, maturato. Rimane un’unica nota stonata, in questo quadretto familiare: il figlio maggiore, che è ancora lì a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e di soldi buttati: è il figlio che non ha ancora capito, che non è ancora passato, che non ha fatto nessun viaggio, che non ha ancora cambiato nulla.
Nella vita c’è un dato di fatto imprescindibile: i rapporti interpersonali sono destinati a cambiare; e se non cambiano, intristiscono, languiscono, muoiono. Ecco perché noi stessi dobbiamo cambiare, uscire, maturare continuamente, adattarci alle nuove situazioni: nei confronti dei figli, del nostro partner, dei fratelli, di quanti ci circondano. Dobbiamo trovare continuamente nuovi motivi, altre funzioni, nuovi equilibri: quelli di una volta, con il passare del tempo e dell’età, non vanno più bene. Dobbiamo rinnovarci. Dobbiamo abbandonare la nostra “immagine” per trovarne un'altra più vera, rivista e corretta; più coerente con i nostri sentimenti, con la nostra anima, col nostro cuore.
Ecco, fratelli: il Vangelo di oggi ci mette di fronte a questa tremenda alternativa: o uscire da noi stessi, che vuol dire rinascere, vivere, maturare, godere della pienezza dell’amore paterno, rischiando magari di cadere ma trovando la forza di rialzarci immediatamente; oppure rimanere immobili, morire, soffocati dalla paura e dall'indolenza, insoddisfatti della nostra vita e corrosi dall’invidia verso gli altri; sempre pronti a giudicare e a prendersela col mondo intero; oppressi dal rimorso e dall’amarezza di non aver saputo guardare oltre l’orizzonte del nostro io.
Dalla scelta che andremo a fare dipenderà ciò che ciascuno di noi sarà. Amen.
 

mercoledì 27 febbraio 2013

3 Marzo 2013 – III Domenica di Quaresima

«Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-9).
Nel vangelo di questa domenica Gesù, nella sua predicazione, fa riferimento a due fatti di cronaca straordinari avvenuti in quel tempo: l’uccisione da parte di Pilato di una moltitudine di giudei che si erano recati a Gerusalemme per offrire i loro sacrifici nel tempio, e la morte accidentale di altre persone coinvolte nel crollo della “torre di Siloe”. I commenti della gente a tali notizie rivelano la mentalità predominante di allora, secondo cui le disgrazie, le malattie, la morte, sarebbero la giusta punizione per delle colpe commesse o direttamente dai malcapitati oppure dai loro antenati. Ebbene, Gesù sconfessa decisamente queste convinzioni: “Quelli che sono morti non erano assolutamente più colpevoli di quanto non lo siate voi!”. Come a dire: “Non è vero che quei poveretti sono morti per espiare le loro colpe personali, né tantomeno quelle dei loro antenati; voi, poi, che state bene e siete illesi, non crediate di essere così fortunati solo perché pensate di essere più giusti di loro”. In altre parole la sfortuna, le disgrazie, le malattie, i lutti, insomma tutti gli eventi negativi che la vita ci riserva, non dipendono in alcun modo dalla volontà di Dio, come castigo per la nostra condotta morale. Non è questo che Dio vuole; Dio non ce l’ha in modo particolare con noi, non ci ha preso di mira, non si comporta come se non ne potesse più di noi. Bestemmiamo gravemente quando ci lasciamo andare ad esclamazioni del genere: “Ma che male ho fatto io perché Dio mi castighi in questo modo?”. È una esclamazione sbagliata: eppure, fratelli, quante volte ci siamo espressi e continuiamo ad esprimerci in questo modo!
Gesù oggi ci ricorda che la vita ha una sua logica, una sua libertà, una sua verità.
Non è più un mistero, per esempio, che le stesse malattie sono legate in qualche modo al genere di vita che conduciamo, ai nostri vissuti profondi, ai nostri schemi mentali, ai nostri eccessi: cancro, leucemia, sclerosi, allergie, intolleranze, malattie della pelle e tanto altro ancora, trovano terreno fertile proprio nel modo in cui ci poniamo di fronte alla vita sia materiale che morale. Non sono mai una punizione divina, non sono un “virus” che si prende a caso, un contagio che “se siamo bravi” non ci tocca. Le disgrazie avvengono sempre per una somma di concause, di cui il più delle volte siamo noi stessi l’origine scatenante.
Non è Dio quindi che condiziona la nostra vita. Siamo noi che ce la gestiamo come vogliamo. Siamo noi che decidiamo liberamente di fare o non fare certe cose. Egli, nel suo immenso amore, ci lascia completamente liberi nelle nostre scelte. Di conseguenza ognuno riceverà, quando sarà ora, il premio o il castigo che ha meritato. Ognuno è l’artefice della propria felicità o infelicità: in completa libertà. Dio non sta dietro l’angolo con il pungolo del castigo, pronto ad intervenire ad ogni nostra mossa negativa. Egli al contrario è il padre amoroso che ci segue con amore, disponibile a darci una mano solo se noi glielo chiediamo.
Per cui dell’azione di Dio, ai nostri ragazzi, non dobbiamo inculcare soltanto l’aspetto negativo “errore = castigo; colpa = punizione”, descrivendo Dio come un arcigno giudice, attento e vigile per reprimere anche il più piccolo sgarro: dobbiamo invece preoccuparci di inculcare loro la visione di un Dio che è soprattutto Amore; perché Lui questo solo ci dimostra; Lui ci ama veramente, e chi ama non si diverte a punire, a fare del male, a procurare dolori materiali o morali a quanti ama. Il punto è proprio questo: che noi, al suo amore, dobbiamo rispondere con altrettanto amore; e se noi ricambiamo veramente il suo amore, ci sarà impossibile rinnegarlo, umiliarlo, mancargli di rispetto, addolorarlo conducendo una vita dissoluta.
Con le parole di oggi Gesù, dunque, annulla definitivamente la visione di un Dio vendicatore, sterminatore dei peccatori.
“Pensate che quelli [i morti] fossero più peccatori di voi? No vi dico”.
Immediatamente dopo tale affermazione, però, Gesù sembra affermare il suo contrario: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Cioè: “se non cambierete vita, farete tutti la stessa fine di quei Giudei”. Cosa vuol dire Gesù con queste parole? Per caso si rimangia tutto quello che aveva detto prima? È una frase intimidatoria? Vuol dire che Dio ci punirà comunque? Assolutamente no: Dio non punisce mai di sua iniziativa. Vuol semplicemente dire: “Fate attenzione, perché di tutto quello che fate, delle scelte operate, siete solo voi i responsabili, e solo voi ne dovrete giustamente sopportare le conseguenze, le ripercussioni; ricordatevi che se fate questo, in cambio avrete quello! Se vivete nel male e non “cambiate vita”, accadrà anche a voi una “morte” simile: non è una condanna la sua; è semplicemente un avvertimento. Vuol ricordarci molto paternamente che siamo noi gli unici responsabili di noi stessi. La vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte. Pertanto, se tutto dipende da noi, dobbiamo stare molto accorti, se abbiamo sbagliato, dobbiamo correre ai ripari. In altre parole dobbiamo “convertirci”.
“Convertirsi”, come ho detto all’inizio della quaresima, vuol dire cambiare direzione (shub in ebraico indica proprio un cambio radicale di rotta): cioè, se stiamo andando in una direzione, e ci accorgiamo che è sbagliata, dobbiamo cambiare strada: dobbiamo convertirci.
Molti dei nostri comportamenti ci portano decisamente a morire dentro... alla superficialità... ad allontanarci sempre più dal nostro cuore e da noi stessi. Il fatto grave è che non ce ne rendiamo conto; e quando poi succede il “colpaccio”, quando il nostro comportamento ci si ritorce contro, ci meravigliamo, non accettiamo la situazione: “Com'è possibile? Come mai è successo questo proprio a me?”. Beh, fratelli, il motivo c’è; solo che noi non l’abbiamo visto o non abbiamo voluto vederlo. Perché allora rimandare ancora? Convertiamoci finché siamo in tempo: convertiamoci, svegliamoci, accorgiamoci, perché verrà il giorno in cui sarà troppo tardi. Non sottovalutiamo i “segni”; non giustifichiamo sempre e comunque i nostri comportamenti. Non perdiamo la nostra lucidità, non offuschiamo la nostra sensibilità.
Non prendiamocela con Dio nei momenti di dolore e di sofferenza: come se Lui non sapesse fare il suo mestiere di Dio! Convertiamoci piuttosto: perché “convertirsi” vuol dire aprire gli occhi, smettere di dormire, accorgersi, farsi aiutare, riconoscere, rendersi conto, vedere ciò che dobbiamo vedere; un atteggiamento che all'inizio può riuscirci molto difficile. Ma solo se vediamo, se riconosciamo, se evitiamo, riusciremo a troncare certe spirali che ci portano a morire dentro e fuori.
“Responsabilità” (da respondeo, rispondere, risposta) vuol dire che noi “rispondiamo” in prima persona della nostra vita, che non deleghiamo, che non scarichiamo le colpe della nostra vita sulla società, sugli altri, sul prossimo, sul mondo, che è “cattivo” e ce l'ha con noi. “Responsabilità” significa accettare che siamo noi al comando dell'auto della nostra vita; e che essa va esattamente nella direzione che noi le diamo.
Il riferimento all’albero del fico infruttuoso, infine, conferma e completa ciò che Gesù vuole insegnarci. Nei vigneti della Palestina questi alberi da frutto sono molto comuni: si piantano, si lasciano crescere; non hanno bisogno di cure particolari; dopo tre anni, iniziano a portare i primi frutti. Ma l'albero della parabola, che ha già sei anni, non ha ancora portato alcun frutto. Per questo il vignaiolo chiede al padrone di pazientare, di consentire quei trattamenti “speciali” che normalmente non si fanno; tenta insomma un'ultima possibilità.
L’allusione è chiara: quel fico della parabola siamo noi. Noi possiamo portare frutto; noi possiamo vivere in maniera feconda, possiamo essere felici, possiamo svilupparci e realizzarci. Noi possiamo farlo tranquillamente: come il fico possiamo crescere e portare frutto. Ma al momento siamo una nullità. Nella parabola, il vignaiolo si prende cura in maniera speciale di questo fico: in questo senso, la vita offre anche a noi dei “trattamenti” speciali, delle occasioni particolari, ci fa incontrare situazioni uniche che ci maturano e ci portano ad essere fertili.
È la stessa vita infatti che in modi diversi, e in certi momenti, offre a tutti la possibilità di portare il loro frutto. Pensiamoci: tutti noi abbiamo avuto degli incontri determinanti; tutti noi abbiamo incontrato persone che ci hanno fatto respirare un'altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni qui; provaci; dai che ce la puoi fare!”. Tutti noi, ad esempio, abbiamo vissuto esperienze - come la morte di un familiare, di una persona cara; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc. - che ci hanno ispirato a cambiare stile di vita. Ebbene: noi cos'abbiamo fatto in tali situazioni? Le abbiamo accolte, oppure come al nostro solito le abbiamo accantonate, disattese, rimandate? Una cosa, fratelli, dobbiamo una buona volta chiarire in noi: che a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriveremo prima o poi al punto di “non ritorno”; verrà cioè un giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”, non potremo fare più nulla: il nostro albero verrà inesorabilmente tagliato, perché dentro è già morto, arido, secco. È così, fratelli: se rifiutiamo qualunque “linfa”, qualunque proposta di Vita, verrà un momento in cui saremo talmente vuoti, talmente interiormente rinsecchiti, così morti nell'anima, così incapaci di guardarci dentro, che qualunque disperato tentativo di rianimazione risulterà vano. Nessuna condanna, nessuna vendetta, nessun castigo da parte di Dio: i responsabili siamo soltanto noi e le nostre scelte: troppo lente, troppo tardive, assolutamente inefficaci.
Che questa nostra quaresima, allora, sia una quaresima straordinaria, fratelli miei: in cui riscoprirci, in cui convertirci, da cui ripartire per raggiungere il Dio di Gesù. Amen.
 

mercoledì 20 febbraio 2013

24 Febbraio 2013 – II Domenica di Quaresima

«Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc 9,28-36).
I discepoli non possono assolutamente accettare le parole che Gesù, poco prima del vangelo di oggi, aveva loro detto: “Amici miei, guardate che mi prenderanno e mi uccideranno. E a farlo saranno proprio gli scribi, i sommi sacerdoti e gli anziani. Ma non preoccupatevi perché io, poi, risorgerò”. Non possono condividere una tale prospettiva, proprio perché le loro aspettative si concentrano su un Gesù-Messia potente, trionfale, giusto, liberatore.
Preannunciare la propria morte, significa per loro evocare lo spettro della fine di ogni aspettativa riposta in lui, decretare il fallimento totale del suo programma.
Di fronte a tanto smarrimento cosa fa Gesù? Prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta in un luogo appartato, su un alto monte. Gesù non è nuovo a tale esperienza: “appartato” in un monte alto, c'era già stato nell'episodio delle tentazioni di domenica scorsa: allora ad isolarlo era stato satana, per tentarlo; ora invece la tentazione gli viene direttamente dai discepoli, che non lo capiscono.
Gesù quindi, volendo smontare qualunque tipo di “tentazione”, approfitta appunto dell’intimità di un luogo solitario e impervio, per chiarire un po’ le idee a questi suoi collaboratori più stretti. E qui essi hanno una visione straordinaria: Gesù è in compagnia di Mosè ed Elia, le due personalità della Scrittura che ogni ebreo di allora considerava come figure di “riferimento” per il futuro Messia. E come se non bastasse, discorrendo familiarmente con Gesù, essi dimostrano di smontare questo loro convincimento, riconoscendo invece a lui importanza e superiorità.
I tre ovviamente rimangono colpiti, rapiti; al punto che Pietro esclama: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia”. Nella foga dell’entusiasmo, Pietro inconsciamente ribadisce il suo convincimento: egli infatti pone Mosè e non a Gesù al centro del trio, posizione riservata di diritto alla figura più importante. Egli rimane cioè della sua idea: “Gesù, tu devi essere come Mosè, è lui il grande riferimento”. Ma la voce di Dio scioglie ogni possibilità di dubbio. Gesù non è il Messia storico, quello tanto atteso da Israele. Gesù non è così: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”.
È Gesù che va ascoltato e non Mosè o Elia, grandi personaggi certo, ma niente in confronto a Lui. È Gesù il criterio di discernimento: Mosè, Elia, Legge e Profeti hanno un senso solo se passano attraverso Gesù. Tutto ciò che non è in sintonia con il messaggio del Cristo non ha alcun valore per la vita del credente.
Gesù in questo modo demolisce le aspettative dei discepoli e della gente: Lui non è come lo volevano; non è il Messia trionfale e forte; Gesù è sì il Messia, ma sofferente e debole. Egli non sterminerà gli operatori di iniquità, non ha vendette da sanare o conquiste da ristabilire; Gesù sarà solo se stesso, sarà Gesù e basta! Non ha paura di esser se stesso, anche se ne conosce bene il costo: l'impopolarità. Ma il beneficio che egli introduce con questo comportamento è la conquista di autenticità, l'essere felici di ciò che si è, la forza di vivere la propria missione dovunque porti, perché questa in definitiva è la nostra chiamata: è di essere noi stessi, di vivere noi stessi; perché è questo che ci dà una vitalità e una forza impagabili. È questo il nostro grande compito. Dobbiamo essere, come Gesù, noi stessi; dobbiamo semplicemente vivere come Lui la nostra parentesi terrena, la nostra vocazione, la nostra missione.
È questo l’unico criterio della nostra realizzazione personale: vivere la nostra “originalità”.
Sì, perché noi siamo unici. È per questo che esistiamo. Se non fosse così non saremmo a questo mondo, perché in tal caso il nostro esserci non avrebbe alcun senso. Le fotocopie umane non esistono; Dio fa nascere solo pezzi unici, il resto non serve.
Purtroppo però la maggior parte di noi tende a conformarsi agli altri, a fare e a pensare come tutti. Il pretesto è comprensibile anche se non condivisibile: “Solo se mi comporto come tutti gli altri sarò rispettato e accettato; in caso contrario sarò emarginato, estromesso dal gruppo”.
È il classico comportamento degli insicuri, dei bambini. Un bambino non può permettersi di essere cacciato dalla propria famiglia, dalla propria mamma: ne morirebbe. Quindi non gli rimane che adeguarsi. Ma noi, fratelli,non siamo più bambini. Siamo grandi, siamo adulti e siamo qui in questo mondo per vivere convintamente il nostro “mandato”, per compiere la nostra missione e far emergere la nostra originalità, la nostra unicità: sul modello di Gesù, che fu davvero unico, diverso da tutti, “fuori” da ogni schema umano: perché chi segue Dio, non segue nient’altro.
Gesù dunque, sul monte della trasfigurazione, prende ufficialmente coscienza di avere una missione grande: più grande di quelle di Mosè e di Elia. Gesù capisce di avere la forza di Mosè e l'ardore di Elia; sente di non essere come loro, pur avendo qualcosa in comune come loro.
I Vangeli pongono tutti la trasfigurazione tra il primo e il secondo annuncio della passione. Non è un caso. Chiediamoci allora: “Perché Gesù è andato comunque a Gerusalemme?”. Egli sapeva benissimo cosa lo aspettava lì; se rimaneva in Galilea, invece, non avrebbe rischiato nulla. Perché “ha dovuto” andare a Gerusalemme? La risposta è una soltanto: “Era la sua missione. Lui doveva andare a Gerusalemme perché doveva annunciare proprio lì, nel centro religioso del suo tempo, quel Dio diverso che Lui viveva dentro di sé”. Ha seguito la sua Voce, la sua “vocazione”, ed è andato lì dove doveva andare.
Ora, di fronte alla lettura e alla meditazione del vangelo di oggi, noi possiamo porci e reagire in tanti modi. Il primo: “Ma perché a me? Ma cos'ho fatto per trovarmi coinvolto in questa storia di scelta, di vocazione, di elezione, per cui devo trasfigurarmi mio malgrado? Mi rifiuto!”
Oppure: “Cosa devo imparare da questa pagina? Cosa vuol dirmi Dio, la Vita, attraverso la “trasfigurazione” di Gesù?”. Beh, questa volta andiamo meglio, È già una buona domanda quella che ci facciamo, perché nulla è privo di senso e di significato: tutto è un messaggio per noi.
Sicuramente però ci aiuta molto di più, chiederci: “Ma questa prova, questa sfida, questa trasfigurazione che devo affrontare, riferita alla mia persona, che scopo finale ha? Che cosa pretende Dio da me? per quale motivo devo scombussolare tanto la tranquillità della mia esistenza? Perché una cosa è chiara: Egli mi sta in qualche modo “allenando”, mi sta affinando; le prove della vita, gli ostacoli quotidiani da superare, non sono altro che “esercizi” che servono a plasmarmi, a rendermi “unico” davanti a Lui e rispondere in maniera “unica” alla sua chiamata». In quest’ottica, allora, la nostra vita, tutto ciò che in essa ci succede, non è più questione di fortuna o di sfortuna, ma è un modo amoroso con cui Egli cerca di aiutarmi, con cui mi allena a tirar fuori le mie capacità, la mia personalità, ciò che realmente sono.
Quando arriveremo a capire che tutto ciò che è capitato nella nostra vita ci riguarda in prima persona, che tutto doveva essere così, e che è bene sia stato così, e che non poteva essere altrimenti, allora la nostra vita diventerà luminosa, chiara, tutto verrà integrato, compreso; perché capiremo finalmente che tutto viene da Dio: il bene e il male.
Allora soffrire l'ingiustizia diventa un allenamento per sviluppare la verità. Soffrire l'oppressione diventa un allenamento per sviluppare la libertà. Soffrire la maldicenza e il giudizio spietato degli altri, diventa allenamento per sviluppare l'umiltà. Soffrire di solitudine diventa un allenamento per sviluppare la comunione e la condivisione. Soffrire infine di paura diventa un allenamento per sviluppare la fede in Dio, l'abbandono e la totale fiducia in Lui. Allora tutto ciò che ci succede acquista un suo significato, un senso per la nostra vita. Tutto ci riguarda, tutto serve per la nostra missione terrena, in vista della vera “trasfigurazione” finale, nella contemplazione di Dio faccia a faccia.
Dobbiamo allora smetterla di lamentarci, fratelli; dobbiamo invece ringraziare Dio per tutto quello che la sua Provvidenza ci riserva in questa Vita.
Molti di noi, poi, sono convinti che la felicità sia impossibile in questa vita; alcuni si sentono addirittura in colpa se capita talvolta di essere felici; altri invece, senza accorgersene, arrivano perfino a sabotare la propria vita pur di non essere felici: sono degli eterni scontenti, per definizione; devono trovare sempre e comunque qualcosa che non va bene, qualche motivo per dolersene. Sbagliano di grosso, fratelli: perché tutti abbiamo il diritto e il dovere di essere felici. Si tratta solo di scegliere quale tipologia di felicità. E la trasfigurazione ce lo insegna: in essa, cioè, Gesù ha la totale e immediata visione di sé: Gesù vede chiaramente dentro di sé, ha l’esatta percezione della propria missione. Ecco, la felicità è tutta qui: vedere dentro di noi, vedere la vera faccia di noi stessi, delle cose, del presente, del futuro; non fermarsi tanto all’involucro esteriore, all’apparenza, ma a quello che c’è all’interno, all'essenza. Trasfigurazione è quando riusciamo a percepiamo la presenza di Dio oltre i limiti e della nostra umana debolezza; quando capiamo finalmente chi siamo e in cosa consiste la nostra vita. È andare all'essenza, al centro delle cose; è la visione della realtà. Dobbiamo andare oltre la “nube”, ossia la quotidianità, la forma, la materia, che ci nascondono l’essenza della vita: dobbiamo insistere, perché prima o poi uno sprazzo di luce la penetra, e noi finalmente possiamo vederla.
Nella vita un fiore sbocciato, un tramonto sul mare, uno stormire di fronde, un battito d’ali, il sorriso di un bimbo, possono non dirci nulla di particolare: ma se noi guardiamo bene, entriamo dentro, allora possiamo veramente emozionarci per ciò che vediamo. Non siamo matti, né infantili o femminucce: è trasfigurazione. Così, se ci capita di piangere a dirotto, senza parole, perché qualcuno ci ha detto: “Ti amo!”, oppure: “Mi sposi?”, oppure: “Sono incinta, aspettiamo un figlio”, tranquilli, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di prendere in braccio nostro figlio appena nato e di guardarlo e di chiederci: “Ma viene proprio da me? L'ho fatto io?” e di essere incredulo e di non volerci staccare da lui, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di piangere solo perché eravamo felici e per nessun altro motivo, non meravigliamoci, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di innamorarci, di perdere la testa per qualcuno, di provare emozioni che ci fanno battere il cuore, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di appassionarci per la musica, per la poesia, per la verità, e vogliamo vivere solo per loro, forse il mondo ci dirà che siamo “matti, scemi, fuori di testa”, ma anche questa è trasfigurazione.
Se ci è capitato di essere in mezzo al caos più totale, di non poter far più nulla per qualcuno che sta morendo, ma di sentirci comunque sereni nelle mani di Dio e della Vita, questa è trasfigurazione, la felicità del cuore. Se ci è capitato un fatto che ci ha cambiato la vita, che ci ha salvato, al punto che anche volendolo, non riusciamo più ad essere quelli di prima, perché intimamente toccati, ebbene questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di essere attaccati e di soffrire per ciò che crediamo e per le nostre idee ma di non essere scesi a compromessi, di non aver patteggiato la nostra autenticità, questa è trasfigurazione, perché possiamo guardarci allo specchio con la dignità di un uomo e il coraggio di un guerriero.
Sul Tabor, il monte della Trasfigurazione, ci viene comunicato l'essenziale; che è: “L’uomo ha il diritto-dovere di essere felice”; di una felicità che non è avere, ma vivere la luce, vivere la missione, la vita, i carismi: tutte cose che sono già dentro di noi, ma che aspettano di essere “trasfigurate”. Dobbiamo essere sempre ottimisti; non dobbiamo fare come il pessimista che si ferma a guardare la storia che passa; noi dobbiamo “costruire” la storia; non dobbiamo vedere in ogni opportunità offerta, solo le difficoltà; al contrario dobbiamo vedere nuove opportunità in ogni difficoltà che incontriamo nella vita. Anche questa è trasfigurazione. Un giorno un ciliegio disse ad un mandorlo: “Parlami di Dio!”. E il mandorlo immediatamente fiorì! Dio è presente in tutti noi, fratelli; chiede solo di essere rivelato. Chiede insomma la nostra “trasfigurazione”. Amen.
 

giovedì 14 febbraio 2013

17 Febbraio 2013 – I Domenica di Quaresima

«Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13).
Con il mercoledì delle ceneri abbiamo iniziato il tempo di quaresima, i quaranta giorni, cioè, che ci conducono alla Pasqua. Perché proprio quaranta giorni? Perché questo è nella Scrittura il periodo di tempo necessario per il raggiungimento di un obiettivo, di una trasformazione, di un passaggio da una situazione ad un’altra. È chiaro allora che per noi cristiani la quaresima, più che i 40 giorni che precedono la Pasqua, deve essere un sistema, uno stile di vita; per noi, “quaresima”, è quel tempo che ci serve per rialzarci, per fortificarci di fronte ad una situazione spirituale un po’ compromessa; è quel tempo in cui camminiamo, cresciamo, fatichiamo, piangiamo, lavoriamo; è il tempo di “conversione”, del ritornare sui nostri passi e del rimetterci nella giusta carreggiata facendo una inversione di marcia; è quel tempo in cui dobbiamo riconoscerci deboli, inadatti, insufficienti, non potendo prescindere da Dio. Noi spesso pecchiamo di una autostima eccessiva, ci consideriamo immuni da ogni debolezza, tetragono a qualunque tentazione: ma nel cammino della vita la verità è un’altra. Tutti dobbiamo fare i conti con le nostre debolezze, con il nostro egoismo, con la nostra superbia, tutti dobbiamo affrontare i nostri “mostri”; tutti insomma dobbiamo fare il nostro percorso quaresimale, se vogliamo ricongiungerci a Cristo nostra Pasqua. Ricordiamocelo, fratelli: chi non compie il proprio “esodo”, chi non oltrepassa il suo Mar Rosso, non potrà neppure incamminarsi verso la libertà; chi non percorre il deserto della propria quaresima non potrà mai raggiungere la Terra Promessa, le acque sorgive e limpide della Pasqua.
Anche Gesù ha percorso il cammino della quaresima, del deserto. E il vangelo di oggi, parlando appunto delle tentazioni da Lui subite, ce ne chiarisce le modalità, le caratteristiche, la tempistica. Il maligno attacca proprio in quei momenti in cui ci sentiamo più forti, più difesi, più “tranquilli”, come è successo a Gesù: Egli infatti ha appena ricevuto il battesimo, è il momento in cui si sente più amato dal Padre, in cui è “pieno di Spirito Santo”, e proprio allora arriva la tentazione di Satana: subdolo, calcolatore, sempre all’erta, sempre pronto all’azione. L’importante è non arrendersi mai, non aver paura; dobbiamo esorcizzarle queste “tentazioni”, fratelli; dobbiamo guadarle in faccia, cercare di capirne il contesto, le movenze. Se non possiamo evitarle, dobbiamo almeno combatterle a fronte alta, senza tentennamenti o indolenze. La vita, il mondo in cui viviamo, la società, è il nostro “deserto” naturale, il luogo della tentazione, la zona operativa del “serpente tentatore”, il luogo in cui veniamo messi alla prova. “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e per metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore” (Dt 8,2). Ecco questo è il punto: quaresima, deserto, tentazioni, non fanno altro che metterci di fronte alla nostra realtà, alla nostra coscienza, all’autentica nostra essenza. Nudi, senza fronzoli, maschere, infrastrutture di comodo, abbellimenti ad uso esterno.
In greco “tentare” (peirzein), significa infatti “provare”, “verificare”. La tentazione ci verifica, ci illumina, fa luce, ci rivela impietosamente la verità su di noi, su come siamo, su cosa abbiamo veramente dentro il nostro cuore; ci dice, insomma, chi siamo noi di fronte a Dio e al prossimo.
Tutti i grandi profeti e i grandi personaggi biblici sono stati tentati; come pure tutti i santi di questo mondo: la tentazione non è quindi un incoraggiamento a fare del male, ma la verifica delle nostre forze, l’autenticazione della nostra vera identità, della nostra personalità.
Una certa morale restrittiva del passato ci ordinava: “Attenzione, dovete evitare assolutamente le tentazioni!”. E così la gente si sentiva in colpa anche solo se veniva sfiorata dal pensare ad un'altra donna, se provava qualche naturale impulso cattivo di odio o di rabbia. “Sono cose gravi che non si devono fare”, ci diceva, “e guai a chi le fa!”. Ma le tentazioni, fratelli, non dipendono da noi, non le possiamo evitare. L’importante è non aderirvi. Del resto tutta la vita è una tentazione: è un banco di prova, un tester, che ci rivela impietosamente la tenuta delle nostre convinzioni, la profondità delle nostre radici; ci segnala i valori sui quali possiamo contare con sicurezza; ci documenta sulla sincerità e autenticità della nostra fede.
Le tentazioni pertanto devono tenerci umili, devono fugare tutte quelle velleità del nostro ego, basate sulla eccessiva considerazione di noi stessi. Il vero male è la nostra innata superbia, non le tentazioni. Assecondarle, criticando gli altri con supponenza, sparando giudizi velenosi, facendo paragoni antipatici, significa assecondare il nostro orgoglio, significa minare alla base non solo la nostra fede, ma anche quella di chi ci sta vicino. Sono situazioni con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente. Ci sentiamo delusi dai nostri preti, dai nostri superiori, in famiglia? Non ci sentiamo valorizzati, considerati, compresi? Immediatamente una voce ci suggerisce: “A che serve credere, a che serve frequentare questa comunità, a che serve darsi da fare, essere fedele, se poi chi ci dovrebbe insegnare, chi dovrebbe guidarci con il buon esempio, chi dovrebbe aiutarci, confortarci, capirci, si comporta così male con noi?” Oppure: “Quel prete non ci piace; inutile andare in quella chiesa; non ci andiamo più e basta! Preferiamo, per un maggior profitto spirituale, andare in quell’altra Chiesa, frequentare quell’altra parrocchia; perché lì troviamo tanta pace, c’è un prete veramente in gamba!”. Eccola la tentazione: è veramente il “profitto spirituale” che ci fa muovere, o il nostro orgoglio “ferito”? Perché, fratelli, a monte di tutto, c’è sempre il nostro “ego”: noi valiamo, siamo i più preparati, potremmo fare cose eccelse, potremmo far resuscitare una comunità “moribonda”, solo se “qualcuno” ci desse credito! e ci convinciamo, ci illudiamo, ci caschiamo dentro in pieno. Vale la pena allora, nel nostro “deserto”, domandarci sinceramente: “tutta qui la grande fede in Dio che mi pavoneggio di ostentare davanti a tutti”? Inganno: è bastata una semplice contrarietà per farci scappare, un piccolo disappunto per farci abbandonare tutto; è bastato che uno non ci piacesse, che uno non facesse come noi avremmo voluto, per abbandonare la nostra vocazione, la nostra missione, piantare tutto. Che fine hanno fatto la preghiera, la sopportazione, la sofferenza, la carità? Un bagno di umiltà ci aspetta, fratelli: percorriamo con grande compostezza e obiettività il nostro “deserto” quaresimale! Dicevamo di avere una solida fede, ma poi si è rivelata una montatura a beneficio degli altri: non fede profonda, convinta, ma orgoglio travestito da religiosità. Ecco, fratelli; la “quaresima” della vita, con le sue prove, con le sue tentazioni, deve farci capire cosa abbiamo veramente dentro di noi: perché il tempo passa, lo scorrere vertiginoso dei giorni non si arresta: è necessario quindi percorrere ancora una volta questo nostro cammino quaresimale. Non possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo agire.
Il vangelo dice che Gesù fu spinto nel deserto e non mangiò in quei 40 giorni: Gesù dunque è spinto dalla Spirito nel “deserto”. Perché? Perché nel deserto si è soli, non c'è nessuno e niente altro. Nel deserto siamo solo noi, di fronte a noi stessi, con la nostra coscienza, con ciò che siamo veramente. Ed è proprio lì che dobbiamo riprendere la nostra vita in mano, è lì che dobbiamo fortificare la nostra fede, le nostre decisioni. Come? “Digiunando”.
Purtroppo oggi non capiamo più il senso profondo del digiuno: per questo non lo pratichiamo. Pensiamo che digiunare corrisponda solo a limitarci nel cibo. Ma il digiuno, quello autentico, non consiste tanto nell’astenerci dal mangiare carne o in alternativa nel sacrificarci per chissà quale iniziativa filantropica, o nel privarci di qualche soddisfazione materiale. Certo, sono cose buone anche quelle. Ma “digiunare” vuol dire “fare verità” su noi stessi. Vuol dire scrutarci dentro, riesumare la nostra autenticità, specchiarci con serenità e sincerità nella nostra anima, e individuare le vere tentazioni della vita. Noi abbiamo paura di guardarci dentro: siamo pieni, zeppi di “anestetici” che smorzano le nostre voci interiori. Come nella vita normale. Se non dormiamo prendiamo i tranquillanti. Se andiamo facilmente in ansia, assumiamo “alcune gocce” per calmarci. Se siamo “troppo eccitati”, con dei tranquillanti torniamo a poterci gestire. Ci droghiamo o eccediamo nell’alcool per eliminare il disagio che proviamo dentro, pensando in tal modo di calmare le nostre tensioni. Perché la cocaina è così diffusa e in continuo aumento? Perché aumenta sempre più il numero di quelli che cercano di dare una parvenza di felicità alla loro esistenza infelice, disperata. Ci rimpinziamo di cibo per non percepire la fame d'amore che bussa dentro di noi. Ci buttiamo nel lavoro per dare importanza e senso ad un'esistenza che altrimenti non avrebbe senso. Abbiamo bisogno ogni giorno di cambiamenti, di novità, di sesso, di provocazioni, per eccitare una vita evidentemente sterile e piatta. Abbiamo bisogno di parlare sempre, siamo dei parolai, dei logorroici, un fiume in piena, che cerca di affogare nelle parole le urla disperate del nostro cuore.
Cosa succede quando dobbiamo “digiunare”, fare silenzio, quando dobbiamo stare soli con noi stessi, senza chiasso, senza rumori, senza radio né televisione? Succede che tutto quello che cerchiamo di nascondere, improvvisamente esce fuori! Tutti i mostri che abbiamo dentro escono allo scoperto e sembrano sbranarci. Ci vediamo finalmente nella nostra più completa nudità. E questo non ci piace. Non vogliamo vederci così. Niente “deserto”, niente “digiuno”, niente “quaresima”.
Eppure, fratelli miei, quella è la strada; di là dobbiamo andare; è là che dobbiamo necessariamente fare i conti con noi stessi. È Dio che lo vuole. Se non affrontiamo i nostri demoni interiori, continueremo ad essere sempre in loro balìa. È una questione di libertà. È inutile che ci illudiamo pensando: “Io sono tranquillo! Non ho di questi problemi; non ho rabbia dentro di me. Sono felice, soddisfatto delle mia vita, in pace con me stesso”. No, amici miei; se pensiamo questo vuol dire che non ci conosciamo! È Satana che si diverte a crearci queste illusioni; il suo mestiere è quello di distoglierci dalla realtà, di farci evadere da noi stessi e dalla nostra coscienza. Cerca di insinuarci il miraggio dell’essere “diversi”, del non essere come tutti gli altri: ci fa vedere quello che non esiste, ciò che è irrealizzabile. Ma a noi tutto questo piace, ci piace così tanto da crederlo vero: siamo stregati da questa illusione, la ammiriamo, la inseguiamo, orientiamo tutta la nostra vita nella sua direzione. E poi quando ci accorgiamo che è solo una chimera diabolica, che non esiste nulla di ciò, che con tanto impegno abbiamo vanamente inseguito, allora ci sentiamo falliti.
Ecco: la quaresima ci insegna ad evitare proprio questo.
Il vangelo si conclude infine con l'annotazione che “esaurita ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù per tornare al tempo fissato”. Qual è questo “tempo fissato”? È l’oggi, ovviamente; è il tempo in cui viviamo; la prova, la tentazione non si è fermata a Gesù; è ritornata, ritorna e ritornerà ancora, continuamente, finché ci saranno uomini su questa terra. Sarebbe infatti troppo bello dire: “Abbiamo superato la prova, ora finalmente siamo a posto”. Non lo siamo proprio per niente: a livelli sempre diversi, con intensità e difficoltà variabili, per tutta la vita saremo sempre messi alla prova. Ed è bene che sia così; perché ogni prova, se superata, contribuisce a radicarci sempre più nell’amore di Dio.
La più grande tentazione dell’uomo è quella di ignorare la “tentazione”; evita cioè di misurarsi continuamente con le difficoltà e le avversità della vita, rincorrendo l’effimero, il superficiale. Potrebbe sembrare una soluzione, ma non lo è. Purtroppo, fratelli, il deserto è lì davanti a noi e non può essere evitato: dobbiamo attraversarlo, combattendo e “digiunando” per tutto il tempo che serve.
Un pensiero deve però consolarci e darci fiducia: nessuna “tentazione” diabolica in sé può farci male: potrà farci soffrire, questo sì, ma gli unici artefici del nostro male siamo noi, quando acconsentiamo alle sue lusinghe. Ma “si nobiscum Deus, quis contra nos?” Se Dio è con noi, chi potrà mai sopraffarci? Radichiamoci dunque nel mistero di Dio, affidiamoci alla sua onnipotente bontà. E affrontiamo fiduciosi e convinti la nostra “quaresima”. Amen.