martedì 10 luglio 2012

15 Luglio 2012 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche»(Mc 6,7-13).
Gesù finora aveva agito da solo; adesso manda i suoi apostoli. Li manda “due a due” perché questo permette di difendersi meglio da eventuali pericoli. A due a due perché per l’antichità la testimonianza era valida sulla base di almeno due persone. Gesù fa fare un tirocinio ai suoi apostoli. Nella vita c’è la teoria, c’è l’apprendimento, ma ciò che è decisivo è la pratica, l’esperienza. Dobbiamo sperimentare in prima persona ciò che abbiamo imparato. Dobbiamo provarci. Dobbiamo provare a metterci in gioco, ad uscire, a credere in noi, nelle nostre risorse, nelle nostre possibilità. Sappiamo da altri vangeli che spesso gli apostoli sbagliarono e fallirono: questo non importa, l’importante è che impararono. Perché anche l’errore, se riconosciuto, diventa fonte di crescita. Provarci vuol dire darsi fiducia, credere nella forza e nel potenziale che c’è in noi.
Che cosa avranno pensato gli apostoli quando Gesù li ha mandati a guarire? Quanto meno saranno rimasti allibiti, sorpresi, interdetti: “Ma come facciamo? Noi non siamo mica te! Cosa diciamo? No, non è cosa per noi!”. Quanta gente si autolimita da sola e dice: “Io non ce la faccio; io ho paura”. C’è chi ha paura di volare, di stare da solo in casa, di guidare in montagna o in autostrada, di parlare in pubblico, di prendere l’ascensore; c’è chi ha paura di fare certe scelte o di dire certi “no”. “Provateci! Prima di dire di no, provateci una, due, tre volte”.
I discepoli hanno soprattutto paura della reazione degli altri: ma Gesù è perentorio; li invia senza esitazioni: “Ora ci andate voi. Siete in grado di farlo. Nonostante le vostre paure, potete farlo anche voi!”.
Questa è fiducia; questo è dare credito; questo è amore, fratelli: invitare le persone a prendere coscienza di ciò che sono, di ciò che possono fare, di ciò che possono essere, diventare, significa amare queste persone. La perversione è, invece, quando il nostro presunto “amore” impedisce alle persone di fare e di essere quello che potrebbero; quando pretendiamo di fare sempre e tutto noi, perché non ci fidiamo degli altri, non li riteniamo all’altezza: ebbene, questo non è amore ma, ripeto, sopraffazione, egoismo!
Quello che Gesù raccomanda in pratica agli apostoli è di essere privi di zavorra, leggeri, essenziali; non solo materialmente ma anche mentalmente. Noi crediamo invece che il “sapere” sia decisivo. Più sappiamo e più siamo garantiti. Ma sappiamo anche che non è così.
A questo proposito permettetemi una confidenza: quando dovevo tenere una relazione, una conferenza o un incontro, mi preparavo scrupolosamente, studiavo tutto nei minimi particolari, immagazzinavo un sacco di nozioni, ero pieno di idee, di concetti: ero convinto in questo modo di essermi “garantito”, di ottenere un risultato sicuro. Poi col tempo, con la pratica, mi sono accorto che non è il “conoscere”, il “sapere”, non sono le belle parole, una fluente e appropriata esposizione, quello che rimane, quello che fa presa in chi ascolta, quello che arriva al cuore delle persone; al contrario è la coerenza dell’oratore, la sua convinzione, il suo vivere nella pratica ciò che espone; ciò in cui crede e soprattutto come lo crede, come lo vive, come lo sente. La preparazione, più che sui libri, va fatta sulla propria vita, su come adattare coerentemente quello che si dice a quello che si fa.
Ecco perché, fratelli, dobbiamo prima di tutto preoccuparci del nostro agire, della nostra condotta, del nostro “essere”, piuttosto di come devono comportarsi gli altri, di quello che gli altri devono o non devono fare. Certo, lo studio, la preparazione, i corsi di aggiornamento, sono tutte cose necessarie, indispensabili, fondamentali, ma se non sono suffragate da una vita coerente, sono zavorra, sono soltanto un fardello inutile e pesante. Se trascuriamo la nostra vita cristiana, la nostra vita spirituale, tutto il nostro sapere diventa superfluo, ingombrante, si riduce ad una questione tecnica e sterile, senz’anima e cuore.
È anche in questo senso che Gesù, con le sue parole, raccomanda: “Non caricatevi di troppe cose. Siate essenziali, leggeri, liberi. E abbiate soprattutto sempre in mente il vostro obiettivo: andate e guarite”. Nella vita è fondamentale non perdere mai di vista i propri obiettivi. Tanti di noi, fratelli, viviamo alla giornata, siamo spenti, senza idee. Non sappiamo perché facciamo le cose, sopravviviamo.
In questo modo però, procediamo a casaccio, non andiamo da nessuna parte, non abbiamo nessuna direzione da seguire. È vero, non sempre riusciremo a raggiungere le nostre mete, ma almeno poniamocele! Avere un obiettivo ci aiuta a scegliere, a sapere cosa vogliamo, dove vogliamo andare. Senza obiettivi tutto diventa sfuocato, ci va bene tutto, indistintamente; e non ci rendiamo conto che così facendo, inseguendo tutto e niente, saremo perennemente degli inconcludenti.
Oggi, assistiamo alla tendenza diffusa di fare un sacco di cose, di cimentarci in tutto: facciamo ginnastica, gli sport più disparati, abbiamo mille hobby; seguiamo qualunque corrente spirituale, proviamo tutto ciò che dettano le mode, ci impegniamo nel volontariato, nella caritas; ma siamo discontinui, cambiamo interesse con estrema facilità, in continuazione. Ci interessiamo a tutto perché non abbiamo un obiettivo chiaro. Soltanto sapendo bene cosa vogliamo dalla nostra vita, conoscendo esattamente dove vogliamo andare, cosa dobbiamo fare per seguire la nostra vocazione, solo allora, fratelli, le nostre scelte saranno valide per la nostra crescita spirituale e umana. Perché il vero obiettivo da raggiungere è proprio quello che riguarda noi stessi: ed è anche quello che è più difficile da raggiungere, perché non consiste nel fare qualcosa ma nell’essere qualcosa; non è tanto rivolto all’esterno come comprarsi un vestito, una casa, un’auto o una moto, ma all’interno, al nostro cuore, alla nostra mente, saper cambiare, saper lottare per qualcosa, saper investire le proprie risorse per migliorarsi spiritualmente…, saper incanalare correttamente la passione che si ha dentro, ecc.
Gesù invita pertanto i discepoli a portare con sé solo due cose: bastone e sandali. Il bastone serve per camminare meglio, per appoggiarsi e per difendersi dai pericoli e dagli animali. I sandali erano necessari per camminare nelle strade sassose della Palestina. Tutto il resto contribuiva ad appesantirli. Niente denaro. Il denaro ci dà false sicurezze: abbiamo i soldi, possiamo permetterci qualunque cosa; ma a che pro? Avere soldi ci fa sentire potenti, ma è una magra sicurezza, perché non è legata al “noi”. Più abbiamo denaro e più ne vorremmo e il perché è ovvio: tanto denaro, tanto potere. Ma per quanto denaro riusciamo ad avere, saremo sempre insoddisfatti, perché il potere vero risiede solo nella forza interiore, nella nostra anima. Se il nostro potere si chiama denaro, e non Dio, dobbiamo difenderlo, dobbiamo proteggerlo, dobbiamo moltiplicarlo, vorremmo averne sempre più degli altri, ecc. Spendiamo la nostra vita non per andare avanti, per progredire, ma per difendere ciò che abbiamo, per non perderlo. Più abbiamo il potere legato al denaro e meno abbiamo il potere legato alla persona.
Non due tuniche. Una tunica è ciò che ci serve: tutti sono vestiti, tutti hanno bisogno di qualcosa con cui coprirsi dal freddo, dagli animali, dal sole e dagli sguardi. Ma non dobbiamo avere più di quello che ci serve. Guardiamo un po’ nelle nostre case: abbiamo gli armadi stracolmi di vestiti; i nostri frigoriferi sono pieni di cibo; i nostri figli sono zeppi di giocattoli, di mille cose; ma siamo davvero felici? Che fine fanno poi tutte queste cose? La gran parte finisce nei rifiuti, vengono gettate via. Ci accorgiamo che sono inutili.
Così pure le nostre vite: sono invase dai mezzi di comunicazione, Pc, Tv, telefonini e quant’altro: dubito però che riescano a farci comunicare con noi stessi, con la nostra coscienza. Riusciamo almeno a parlare con gli altri, a farli entrare nel nostro mondo, nel nostro cuore? Siamo convinti che disporre, l’avere tante cose, ci riempia la vita. Ma essere pieni di cose sicuramente non ci aumenta la felicità; non ci dà la sensazione di essere vivi nell’anima. Perché così diventiamo schiavi delle cose, servi di quello che non serve, diventiamo dipendenti, non ne possiamo più fare a meno, diamo valore e potere a cose che non lo meritano, che non sono determinanti per il nostro benessere.
La bisaccia, il nostro zaino, ci serve per portare con noi solo l’indispensabile per il viaggio. Non si può andare in montagna con zaini pesanti, strapieni, dobbiamo limitarci all’essenziale, e se poi possiamo fare a meno anche di questo, tanto meglio. Invece quanti pesi ci portiamo dietro! Quanti ricordi non digeriti, quante lacrime non versate e quanti conti in sospeso continuano a pesarci. Ma noi facciamo finta di niente e andiamo avanti coi nostri pesi. Poi però ci sentiamo stanchi, privi di energie, ci sentiamo schiacciare, non abbiamo più forze per reagire. Per forza! Quante cose dovremmo lasciare andare, e invece ce le teniamo strette e continuiamo a trascinarcele dietro, sprecando inutilmente preziose energie! Vivere in questo modo diventa veramente faticoso. Allora, perché vivere con questi pesi che ci opprimono? Proviamo ad abbandonare questi macigni inutili, queste zavorre, e vedrete come sarà più agevole spiccare il volo, librarsi lassù in alto, nel cielo della vita.
Dalle parole di Gesù possiamo ricavare un altro grande insegnamento: “Non preoccupatevi del risultato”. Spesso oggi sentiamo dire: “Non c’è più gente in chiesa! Le chiese sono vuote Non c’è più fede! Ci stiamo scristianizzando!”. Non dobbiamo preoccuparci più di tanto, fratelli; chiediamoci invece cosa stiamo facendo noi in concreto per risolvere questo problema. In altre parole, il nostro annuncio è fatto con forza, con passione, con convinzione? Lo viviamo coerentemente? Questo è importante; non tocca a noi salvare il mondo, ci pensa già Dio. Non dobbiamo avere ansie. Non dobbiamo crearci patemi. Se gli altri non vogliono accettare l’annuncio, personalmente non possiamo farci niente. Non distruggiamoci per questo. Se non ci accolgono, non preoccupiamoci, non arrabbiamoci, non sentiamoci umiliati o falliti e non abbattiamoci; non pretendiamo di essere onnipotenti!
Ciò che dobbiamo annunciare è la possibilità di migliorare nella sequela di Cristo; ognuno è libero di condividerla. Per questo non facciamoci prendere dall’ansia; se siamo in ansia è perché pretendiamo risultati personali, vogliamo dimostrare a noi e agli altri che siamo i più bravi. Se non ci accolgono, scuotiamo la polvere dai nostri sandali, come facevano gli Ebrei prima di entrare in Terra Santa: un gesto per gettarci alle spalle ciò che è negativo. Vale a dire: “Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo, ma voi avete risposto “no”; assumetevi dunque la responsabilità del vostro “no”. Noi di più non possiamo fare”. Ognuno è responsabile davanti a Dio della propria vita. Alla fine, quando arriveremo al dunque, non sono ammesse scuse, né giustificazioni. Dio a noi chiederà conto della nostra vita; agli altri chiederà conto della loro.
Dal vangelo di oggi emergono inoltre due elementi fondamentali dell’evangelizzazione: l’andare (la strada) e il rimanere (la casa). I Dodici che sono stati invitati ad andare, vanno lungo le strade, fermandosi in quelle case in cui vengono accolti. Strade e case dunque: i due elementi che coordinano l’annuncio di Gesù, il suo stile. Strada significa “Io cammino con te, cammino al tuo fianco, ti incoraggio, ti aiuto, ti aspetto, ti concedo tutto il tempo che ti serve. Non pretendere però che io percorra la strada al tuo posto. Non posso toglierti le difficoltà. Non posso dispensarti dal camminare con le tue gambe, perché è la tua di strada, di nessun altro!”. Casa invece sta per “io ci sono, sono qui e puoi sempre tornare; qualunque cosa succeda, io ci sarò”. Strada è: “Devi andare”. Casa è: “Rimani qui”. Il pericolo della strada è di diventare vagabondi; il pericolo della casa è di rimanere fermi, inattivi.
La “strada” è l’amore che si fa tempo.
Camminare con Gesù significa, come abbiamo detto, avere riconosciuti i nostri tempi, le nostre fragilità, le nostre difficoltà. Egli ci trova dove siamo e ci prende al suo fianco come siamo. Gesù è paziente, sa che ogni cosa ha i suoi tempi e che il nostro tempo è diverso dal suo. Gesù non guarda se una persona è lontana da Lui, peccatrice, ammalata; Gesù guarda il cuore. È il compagno di viaggio ideale (Lc 24,31: i discepoli di Emmaus). Lui ci sta vicino, risolvendo i nostri dubbi, le nostre incertezze.
Ognuno dunque ha i suoi tempi: e dobbiamo rispettare anche noi quelli dei nostri fratelli. “Educare” significa accompagnare nel suo viaggio i fratelli che ci sono stati affidati. È sapere che il nostro viaggio non è il loro; che i loro tempi non sono i nostri; che il loro traguardo non coincide con il nostro. Se pretendiamo da loro qualcosa che non ci possono dare, non li aiutiamo, ma li affondiamo nei sensi di colpa. Se pretendiamo da loro quello che vogliamo noi, sostituiamo la loro vita con la nostra.
Se andiamo troppo in fretta per anticipare i tempi, li collassiamo! Ogni cosa al momento giusto con la durata giusta. L’amore ha il suo tempo. Il progresso ha il suo tempo. La crescita ha il suo tempo. La preghiera ha bisogno del suo tempo. L’ascolto ha bisogno di tempo.
Il tempo è infatti quella “dimensione” che ci fa vivere le cose, i sentimenti, la vita. Il tempo non si può sintetizzare; non si può condensare; non si possono bruciare le sue tappe. Il tempo è crescita, è strada: e strada vuol dire anche: “Cammina, cresci, cambia, guarisci”. È dire ai fratelli che hanno un loro cammino da fare, che non devono lamentarsi o piangersi addosso. Gesù diceva: “Segui la strada e percorri la tua via dovunque ti porti”. E quando le persone obbedivano, guarivano immediatamente, cambiavano vita e capivano che Gesù era Dio, era la loro stessa Vita.
La “casa” è l’amore che si fa spazio.
Amare significa rispettare gli spazi altrui, non essere invasivi, dirompenti, dilaganti, non voler sapere tutto di tutti… non entrare mai senza bussare… senza chiedere permesso…; casa significa stare, sostare, rimanere; casa è: “Io ci sono; io rimango; Io per te ci sono sempre”. Casa vuol dire “rimanere” con i nostri fratelli, sempre; vuol dire: “Se tu non riesci a cambiare, nonostante tutti i tentativi che abbiamo fatto insieme, io rimango comunque con te. Quando cadi e ti fai male, - e io te l’avevo detto!- rimango con te. Da me tu puoi sempre venire, anche se non hai fatto come ti avevo detto o come io speravo. Quando tu non ti accetti, ti detesti, ti odi, a casa mia c’è spazio e ospitalità. Da me troverai sempre accettazione…”.
E concludo: casa e strada devono essere le dimensioni della nostra missione, del nostro amore: noi siamo casa; proprio noi, fratelli, noi gli “inviati”, quelli che sono partiti, quelli che hanno accolto positivamente la chiamata alla missione. Strada è l’altro, il fratello ancora in cammino; il fratello che dobbiamo rassicurare, accogliere; il fratello che accetterà di camminare con noi, solo se lui lo vorrà, quando vorrà. L’essenziale è che noi continuiamo ad essere casa: per aspettarlo pazientemente, pronti a dirgli: “eccomi, ci sono, ti accolgo, vieni pure con fiducia!”. Amen

mercoledì 4 luglio 2012

8 Luglio 2012 – XIV Domenica del Tempo Ordinario

«Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6,1-6).
Sacrosanta verità! Ma cosa è successo a Gesù per fargli esclamare questa frase tremenda? Gesù, ci dice oggi il vangelo, nel suo peregrinare lungo le strade della Palestina, giunge nella sua città, continuando a comportarsi esattamente come altrove: nel giorno di sabato, cioè, entra nella sinagoga, legge e spiega la Scrittura, predica. Come tutti, i suoi concittadini lo ascoltano e rimangono all’inizio stupiti, meravigliati; capiscono che le sue parole contengono qualcosa di grande, di nuovo, di rivoluzionario; riconoscono che sono parole di vita, che risvegliano nel loro cuore sentimenti nuovi, parole che toccano le corde più sensibili della loro anima; ma poi, resisi conto che l’uomo che le pronuncia è uno di loro, un loro concittadino, improvvisamente scuotono il capo, si tirano indietro, preferiscono rimanere nelle loro idee, nelle loro convinzioni, nelle loro tradizioni, nelle loro sicurezze. Come mai? Sappiamo che Gesù era franco, diretto nel suo parlare; non si preoccupava se le sue parole potevano urtare qualcuno; non era diplomatico, non era un politico; diceva esattamente quello che riteneva giusto davanti a Dio: diceva cioè ai signori farisei che la loro religione era tutta una falsità; diceva ai nobili sadducei che dietro la loro religione c’erano solo interessi di potere e che quindi molte loro pratiche religiose, erano stupide, inutili, prive di vita. Beh, fratelli, proviamo a metterci noi nei panni di chi ci credeva in quelle pratiche, di chi le osservava scrupolosamente! Immaginate l’imbarazzo? È quindi naturale che tutta questa gente sia entrata in crisi, sentendosi esaminata, criticata, toccata in prima persona; ed è naturale che abbiano avuto una duplice reazione: o di ravvedersi, accettando l’invito di Gesù di cambiare radicalmente, mettendo quindi in discussione tutta la loro vita, oppure di attaccarlo frontalmente, facendolo passare per pazzo, sparlando di lui, diffondendo sul suo conto chiacchiere velenose, arrivando anche, se necessario, alla sua soppressione: cosa che poi è stata fatta puntualmente.
Negli altri villaggi della Palestina, il fatto che Gesù fosse uno sconosciuto, giocava certamente a suo favore. Ma qui, a “casa sua”, è conosciuto bene, i suoi compaesani lo considerano uno di loro; non è uno straniero venuto da chissà dove, conoscono la sua famiglia, i suoi parenti, la sua infanzia; per cui di fronte all’innegabile saggezza che trasuda dai suoi discorsi, è abbastanza comprensibile la loro reazione, mossa soprattutto dall’invidia: “Chi si crede di essere? Ha studiato qui con noi; non è laureato, non ha titoli accademici, come fanno ad essere vere tutte queste cose che ci dice? Da chi le ha imparate? Chi gliel’ha messe in testa? Ti ricordi? Era in banco con te, con me, neppure era tanto bravo a scuola. Anche la sua famiglia è sempre stata un po’ strana, ricordi? Evidentemente anche lui ha preso da loro!”. Gesù insomma, come dice il vangelo, “era per loro motivo di scandalo”: non possono cioè neppure immaginare che Dio possa manifestarsi tramite un tizio come lui, uno qualunque, uno che essi conoscono da sempre molto bene, e che non si è mai distinto per qualcosa di speciale. E decidono che, proprio lui, non poteva essere l’inviato da Dio, e quindi non era affidabile.
Inutile discutere, fratelli, è una cosa che succede anche oggi: per quelli che ci conoscono, noi saremo sempre i “figli di tizio, i figli di caio”; qualunque sia la nostra carriera professionale, noi rimarremo sempre, per tutta la vita, gli stessi “ragazzi” di una volta: siamo ormai etichettati: siamo stati “definiti” una volta per tutte, in maniera rigida. Il guaio è che così facendo essi rinunciano a conoscerci veramente. Pensano di conoscerci a puntino, ma in realtà ci vedono e ci giudicano non per quello che siamo diventati, ma per quello che eravamo.
Cambiare opinione, è sempre difficile, significa abbandonare vecchie e radicate posizioni.
Ed è esattamente quello che è successo a Nazareth: gli abitanti hanno rifiutato Dio, convinti di conoscere Gesù molto bene. Ma in realtà, questa gente lo conosceva veramente, o conosceva solo la sua immagine lontana, remota, la sua “etichetta”?
E questo vale anche per noi: conosciamo veramente Dio o conosciamo la nostra idea di Dio (l’etichetta), l’immagine che ci siamo fatti di Lui, alla quale siamo tanto attaccati? Come pure: conosciamo realmente nostro marito, nostra moglie, i nostri amici, coloro che ci stanno vicini, o conosciamo solo l’idea che per convenienza ci siamo fatti di loro? Sentite questa: un avvocato riceve la fattura dell’idraulico per dei lavori; poiché gli sembra decisamente troppo cara, lo chiama e gli dice: “Ehi, ma tu mi sei costato duecento euro all’ora. Non li prendo neppure io che sono avvocato!”. E l’idraulico: “Nemmeno io li prendevo quando facevo l’avvocato!”. Ecco: al di là della battuta, la realtà, le persone, la vita sono spesso più grandi dei nostri pensieri, delle nostre etichette, delle nostre valutazioni. Giudicare è sempre difficile. È una facoltà, il giudicare, il giudizio, che ha origini molto lontane nella nostra vita, di quando eravamo bambini: allora era tutto più semplice, dividevamo ogni cosa in “buono” o “cattivo”; era “buono” quello che non era pericoloso, quello che ci piaceva, che non ci faceva male; “cattivo” era quello che ci faceva piangere, che ci creava problemi, quello che non potevamo gestire. Ma poi abbiamo dovuto fare i conti con la realtà, e abbiamo imparato che stabilire cosa sia “buono”, ossia vero, lecito, meritevole, è molto più complesso. Non sempre il giudizio è facile; anzi, in ogni caso, è traumatico, poiché spezza, divide, distrugge le persone (in greco krino, “giudicare”, vuol dire proprio dividere). Giudicare è il tentativo dell’uomo di controllare, di possedere la realtà perché gli fa paura. Quando una persona giudica molto, spara giudizi ovunque, vuol dire che è piena di paure. Tenta in quel modo di fissare delle etichette, dei ragionamenti; cerca cioè di rendere più semplice la realtà, classificandola. Ma “giudicare” con rettitudine, garantito, non è impresa semplice! È un po’ come voler far passare tutta l’acqua del mare per il tubo del lavandino. Ricordate il mito del “letto di Procuste”? Procuste era un bandito malvagio che rapiva i passanti e li faceva prigionieri. Poi li stendeva su di un letto e se il prigioniero era troppo piccolo gli tirava le gambe, allungandolo fino a raggiungere la lunghezza del letto; se invece era troppo alto e andava fuori misura, gliele accorciava tagliandole. Bene: il “letto di Procuste” rappresenta tutte quelle persone che si rifiutano di accettare la realtà per quella che è, devono giudicarla, “allungarla”, “tagliarla”, accorciarla, cambiarla, deformarla, per farla rientrare nei loro rigidi schemi mentali.
Nel vangelo leggiamo di persone che, incontrando Gesù, si trasformano, cambiano radicalmente, non sono più loro, diventavano totalmente nuove; ma anche di altre che, ancorate nei loro giudizi e nei loro schemi, non si lasciano scalfire neppure di una virgola. Rimangono del tutto indifferenti, anzi si infastidiscono, sono estranee, totalmente “fuori”. Per alcuni Gesù è luminoso, chiaro, lampante, perché in Lui è presente Dio; per altri invece è completamente oscuro, opaco.
Questo ci dice, fratelli miei, quanto sia decisiva la fede per la nostra vita cristiana. La fede è la capacità di vedere, di riconoscere, di percepire che Lui vive, agisce, è presente e si manifesta nella nostra vita. Dio non può fare nulla se noi non lo riconosciamo. Dio è assente, se per noi è assente. Se non ci apriamo alla fede, non possiamo fare nulla, nulla ci sarà mai possibile, la nostra vita sarà un continuo tormento, un vagabondare senza meta. La fede non è capire, fratelli: la fede è sperimentare, incontrare, accettare incondizionatamente, Lui vivo. Ma se non siamo noi a lasciarci coinvolgere, se non gli permettiamo noi di tirarci dentro, di farci cambiare, di essere un tutt’uno con Lui, state sicuri, fratelli miei, che neppure Dio può sostituirsi in questo a noi. In teoria, a parole, tutti vogliamo Dio, tutti lo amiamo, tutti diciamo di volerlo accogliere. Ma poi, in pratica, riconoscere che Dio ci salva solo se noi lo vogliamo; che Dio ci ama solo se noi ci apriamo; che Dio ci cambia solo se noi glielo permettiamo; che Dio ci porta al centro della sua Vita, solo se noi camminiamo al suo fianco, è molto difficile, perché richiede da parte nostra molta responsabilità e applicazione. È proprio vero, fratelli miei: senza di noi, Dio non può far nulla per noi.
Abbiamo detto dunque che i suoi concittadini “si scandalizzavano di lui”. Il verbo è molto forte; indica l’indignazione verso Gesù. Non riescono ad accettare che uno di loro, uno che conoscono, sia diverso. In quel verbo c’è tutto il loro rifiuto; c’è lo sdegno, la rabbia, il disprezzo, il rifiuto, l’odio per Gesù. Certo, Gesù in tutta la sua vita non è mai stato indifferente, per nessuno: i suoi contemporanei o erano con Lui o contro di Lui. E lo stesso vale anche per noi oggi: o lo amiamo o lo odiamo; o lo lasciamo entrarci dentro o gli chiudiamo la porta in faccia e lo lasciamo fuori. Non ci sono alternative. La storia di Gesù continua ad essere quella di un uomo che è molto accettato e amato; ma è anche la storia di un uomo che dai più è categoricamente rifiutato.
Brutta cosa il rifiuto, fratelli. Non cerchiamo mai il rifiuto, la lotta, il conflitto, per il gusto di sentirci delle vittime, per sentirci dei martiri. Saremmo dei masochisti, dei malati: ci sono persone che più sono avversate, rifiutate, contestate, emarginate, più si sentono sante, più godono: è anche questa una forma di malattia: “Guardate come soffro, guardate quanto è crudele il mondo con me, ma io sopporto tutto stoicamente”.
È altrettanto vero però che il rifiuto, la “persecuzione” degli altri, se non è da noi cercato ma accettato umilmente, può costituire un motivo di ascesi, di grande crescita spirituale. Perché di fronte ad esso, viene fuori chi siamo realmente; emerge l’autenticità della nostra vocazione, l’autenticità delle nostre scelte; facciamo vedere cioè quanto noi realmente vogliamo queste nostre scelte, queste nostre convinzioni. Se alla prima contrarietà abbandoniamo subito, che radici potranno mai avere? Quanto saranno profonde? Ecco allora che l’ostilità ci fa capire se crediamo realmente in ciò che diciamo. Dobbiamo pagare in prima persona per verificare se si tratta semplicemente di parole o di fatti.
Quante persone sentiamo dire: “Io credo in Gesù, ma è troppo difficile…”. No, fratelli, non credono; semmai credono di credere. Credere vuol dire aderire con tutta la nostra mente alla Verità, vuol dire essere disposti a mettersi in gioco direttamente, a pagare sempre di persona. Altrimenti sono solo parole. Dicevano i saggi: “Se l’uomo non paga di persona per ciò che crede, o non vale nulla l’uomo o sono le sue idee a non valere”.
E concludo. “Nessuno è profeta in patria”, decreta il vangelo: è un’amara constatazione, che è diventata anche un proverbio. Ma sappiamo che in realtà è la storia di un popolo, Israele, che non ha mai dato ascolto ai profeti. Sono parole che indicano la rassegnazione di Gesù per il rifiuto della sua persona; esprimono il dolore e l’impotenza di fronte al pregiudizio dei suoi concittadini: e allora meglio non insistere, meglio andare altrove. Meglio cambiare. “Neanche se Dio scendesse, voi credereste”, ebbe a dire in altra occasione. Ed è proprio così, fratelli. Gesù a volte anche con noi è costretto a girar pagina, a tirare i remi in barca. La nostra ottusità, la nostra testardaggine, è irremovibile. Gesù ne è profondamente amareggiato; non sa capacitarsi della nostra incredulità: “Come fate a mettere in discussione ciò che faccio per voi? Come fate a non percepire l’amore, l’apertura, la misericordia che trasuda da ogni mia parola, da ogni mio gesto, da ogni mio sguardo? Come fate a non capire che vi amo? Che con me potreste essere diversi, vivere in maniera più umana, intensa, divina? Come fate a non riconoscere la vostra stoltezza, i vostri attaccamenti preconcetti, le vostre chiusure totali?”. Ecco, fratelli: è proprio qui tutta la delusione di Gesù. Il verbo greco thaumatizo, “meravigliarsi”, acquista in questo caso un valore ben più profondo della semplice meraviglia. Gesù, di fronte alla nostra cecità, alla nostra cocciutaggine, al nostro irrigidimento, rimane letteralmente costernato, incredulo, traumatizzato, senza parole. Non ci fidiamo di lui, siamo prevenuti! Einstein – che se ne intendeva di queste cose – diceva: “È più facile spezzare l’atomo che il pregiudizio!”.
Il dramma di Gesù, lo ripeto fratelli, è stato di non venire accolto da tutti a causa di un puntiglioso pregiudizio; è stato anche il dramma di tutti i profeti, di tutti quelli che lo hanno seguito e di quanti lo seguono; è il dramma di chiunque vive Dio; è il nostro dramma. Tutti noi, infatti, vorremmo essere accolti e amati dai nostri vicini, dai nostri concittadini per il nostro impegno nella Chiesa, per la nostra fede, per il nostro volontariato: vorremmo che ci riconoscessero subito, che ci salutassero per strada, che parlassero sempre bene di noi, che ci ammirassero per quello che, scioccamente, siamo convinti di essere e di meritare. Ebbene, fratelli, se è questo ciò che noi desideriamo, cerchiamo almeno di non essere noi per primi ad alimentare pregiudizi nei confronti dei nostri fratelli. Amen.

giovedì 28 giugno 2012

1 Luglio 2012 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla…”La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”… “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”… e sentì nel suo corpo che era guarita dal male» (Mc 5,21-43).
Nel vangelo di oggi sono tre gli elementi che desidero sottolineare. Prima di tutto il passaggio di Gesù da una parte all’altra del lago di Genezaret; poi le due figure di donne, due situazioni di vita completamente diverse: la giovane figlia di Giairo e la donna sofferente di abbondanti perdite di sangue.
Gesù nel suo peregrinare passa dunque da un luogo all’altro, compie continui spostamenti; e il suo non è solo un passaggio materiale, uno spostamento fisico, ma è un affrontare e risolvere questioni nuove, lasciare nuovi insegnamenti adeguati alle nuove situazioni. La vita infatti è fatta di distacchi, di passaggi, di cambiamenti: si lascia un posto per andare verso un altro, verso nuovi contesti. E quando ciò avviene, in noi si scontrano due forze diametralmente opposte: la forza conservatrice e quella progressista. Una prima dice: “Sta fermo qui, non muoverti. Qui sei al sicuro, perché andare a rischiare? Perché metterti in pericolo? Qui conosci già tutto: il tuo territorio, il tuo spazio, le persone che ami; cercare, cambiare, conoscere, andare verso l’ignoto è pericoloso”. E così ci convinciamo di rimanere fermi, di non crearci problemi, difficoltà, di stare nel nostro nido. Abbiamo praticamente tutto; perché mai dovremmo cercare qualcos’altro? Ma nessun vivente che si apre alla vita rimane sempre nel suo nido, nessuno si rifiuta di imparare a muoversi da solo, a fare le proprie esperienze, nessuno ignora i suoi desideri, nessuno lascia le proprie aspirazioni disattese. Quello che andava bene prima, ad un certo momento non ci soddisfa più, sentiamo che ci manca qualcosa, che dobbiamo aprirci ad altri bisogni, ad altri spazi. È il richiamo della Vita, fratelli, una Vita che ci vuole sempre più noi stessi, che ci immergiamo sempre di più in lei. Allora dobbiamo andare oltre. E allora ecco l’altra forza che ci spinge ad uscire, che ci dice: “Fuori, cerca, costruisci, divieni, diventa te stesso, diventa ciò che la Vita vuole per te”. E Gesù, in questo suo uscire, in questo suo passare oltre, ci insegna che ci sono delle difficoltà, che ci sono degli elementi duri e ostici da affrontare, ci sono degli imprevisti. È la tempesta che lo ha colto improvvisamente nel lago (il vangelo di domenica scorsa). La vita non è tutta rose e fiori; è un luogo dove tempeste, eventi duri, scontri, lotte, accadono continuamente. Eppure sono proprio le difficoltà che ci fanno scoprire la nostra forza e la nostra fiducia. Dobbiamo imparare non a evitare le tempeste perché altrimenti saremo sempre in fuga dalla realtà, dal mondo e dagli altri.
Quante volte parlando con gli altri noi diciamo di noi stessi: “Io non riesco ad essere cattivo”; dove per “cattivo”, intendiamo uno che sa farsi rispettare, uno che fa valere con decisione le sue ragioni. E ne siamo tutto sommato soddisfatti. Ora, da una parte è anche comprensibile, ma così facendo rimaniamo in balia di tutto e di tutti. Se la carità e l’amore ci guidano nei rapporti col prossimo, per il resto non dobbiamo rimanere passivi, insensibili e comunque perdenti: abbiamo il dovere di realizzare e valorizzare il capolavoro che Dio ha immaginato in noi, la nostra dignità di Figli. È questo l’insegnamento di Gesù: dobbiamo cioè prendere coscienza di ciò che siamo, dobbiamo custodire tutto il bello e il buono che ci è stato dato, e lavorare su di noi per buttare via ciò che fa male, ciò che è negativo, così da costruire saldamente la nostra personalità. La “nostra” vita, fratelli, non dipende dagli altri: è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, nelle nostre decisioni responsabili. Questo vuol dire essere adulti: è il passaggio dal bambino istintivo all’adulto razionale. Il “noi”-bambino si aspetta tutto dagli altri: “La parrocchia… il governo… il comune… la Chiesa… dovrebbero fare così e così… spetta a loro”. L’adulto, invece, è lui che fa in prima persona.
E arriviamo alle due figure femminili: la prima è la figlia dell’uomo, Giairo, descritto nella prima parte del vangelo di oggi. Lui è il capo della sinagoga, è una persona importante in paese e sua figlia deve essere l’orgoglio del papà. Perché, si sa, un figlio è sempre lo specchio dei genitori. Siamo avvocati, medici, laureati, professori? ebbene, noi che sappiamo di essere gente superiore, non possiamo avere un figlio come tutti gli altri. Il nostro deve essere un “modello”, deve essere assolutamente “più” degli altri: nostro figlio è sempre il più bravo, il più bello, il più educato, il più intelligente, il più sportivo, quello che eccelle in tutto, ecc. Ma nostro figlio è solo un bambino, un bambino come tutti. Quanti genitori dicono: “Mio figlio è già un ometto, un adulto. Parla e si comporta come un grande!”. E ne sono fieri, magari causando uno stravolgimento della realtà: è un dramma infatti assistere in TV a certi scimmiottamenti di divi o dive imposti ai loro piccoli da genitori obnubilati dall’orgoglio! Dovremmo proprio chiederci: “dov’è finito il bambino che era vostro figlio?” Hanno costruito un palazzo distruggendo le fondamenta!
Giairo parla di sua figlia e la chiama “figlioletta”; ma sua figlia ha già dodici anni e a quell’età in Israele si era adulti. La tratta ancora come la sua bimbetta, ma non lo è più, non è più il suo “giocattolo”. Quante volte sentiamo dire: “Sono così belli da piccoli!”: certo, ma attenzione: non sono dei giocattoli con cui ci divertiamo. E poi, sono belli perché fanno quello che vogliamo noi o sono belli perché sono “unici”?
Gesù, a differenza del padre, tratta questa fanciulla da adulta: dopo averla “svegliata”, ordina di darle da mangiare. Il cibo è la vita, il nutrimento, la voglia di vivere. Questa ragazza probabilmente non aveva più voglia di mangiare, non aveva più voglia di vivere perché soffocata dai legami familiari troppo intrusivi (noi oggi la definiremmo “anoressica”). Che in tale situazione ci fosse la responsabilità dei genitori, ci viene suggerito dal fatto che Gesù per entrare nella stanza dove giaceva la ragazza, prenda con sé non solo il padre, ma anche la madre. Questa figlia (in genere avviene così per tutte le anoressiche) respingeva oltre il padre anche la madre, non voleva il loro “nutrimento”. Ma Gesù la chiamerà per quella che è: “Talità, ragazza, donna. Non sei più bambina, cresci, divieni, fiorisci; hai dodici anni”.
Altre parole che sentiamo spesso: “Godetevi i figli finché sono piccoli, perché poi, da grandi, sono solo problemi”. Per forza: da piccoli ce li godiamo perché fanno come diciamo noi, ci obbediscono! Ma poi crescono e vogliono dire la loro e vogliono fare le loro scelte, le loro esperienze. Allora non li controlliamo più, allora ci sfuggono. E a questo punto emerge nella sua autenticità il nostro stile educativo: quello oppressivo, tirannico che dice: “Finora mi ha sempre obbedito, e gli è andata bene; adesso vuol fare di testa sua? che si arrangi!”; un comportamento deleterio e diseducativo che fa crescere nei figli dipendenza e paura, sottomissione e ribellione. L’altro stile invece, quello del colloquio e della condivisione, dice: “Ora sei grande, possiamo finalmente discutere; parliamone, confrontiamoci!”; uno stile che fa crescere nei figli fiducia e amore. Ovviamente, fratelli, ciò è possibile solo se noi stessi siamo genitori maturi e adulti. Quanti padri, invece, quando la figlia arriva all’adolescenza la rinnegano. Fino a quel momento era la “loro bambina”; ma improvvisamente la “loro” bambina preferisce i ragazzi suoi coetanei, si scontra con il padre, rifiuta quello che prima accettava, non vuole più il “bacetto” della buona notte. Se prima il padre era il suo mito adesso non lo è più. Se prima la madre era la sua confidente, ora è un’antagonista. Allora i genitori, che in qualche modo si sentono rifiutati, adottano generalmente due comportamenti, entrambi negativi: o la lasciano sola, disinteressandosi completamente di quello che lei fa e di come lo fa, oppure non accettano che diventi grande: diventano succubi delle loro paure, delle loro difficoltà di adattarsi alla nuova situazione: non è più soltanto “nostra” figlia; sta diventando una donna, appartiene al mondo! La ragazza del Vangelo vuole crescere, vuole diventare donna, adulta, grande, autonoma. I suoi invece la stanno uccidendo, la stanno soffocando, non la vogliono lasciare, non sono preparati a perderla. Per questo non si regge sulle proprie gambe, non sta in piedi, non può confidare in se stessa, perché suo padre la soffoca: decide tutto lui (è il capo della sinagoga, lui sa!); la dirige, perché solo lui sa quali scelte sono buone per lei. È chiaro che questa figlia deve staccarsi da casa sua, deve tagliare il cordone ombelicale per poter crescere. È chiaro che per lei è difficile, perché ama suo padre. Vuole andarsene ma non vorrebbe procurargli troppo dolore.
Abbiamo mai pensato, fratelli miei, quanto sia difficile per i nostri adolescenti dirci di no, mettersi contro di noi, opporsi a noi? Ci vogliono bene, non vogliono deluderci, sentono di aver bisogno di noi. E se noi ci intromettiamo prepotentemente in tutto, potrebbero anche non affrancarsi mai. È chiaro allora che la figlia ha tutti i buoni motivi per mettere da parte suo padre, altrimenti non arriverà mai a realizzare la sua autonomia, non potrà mai trovare nessun altro uomo, né potrà vivere la sua vita. Ma è ancor più chiaro che Giairo deve lasciarla andare. Per lui, lasciarla andare, è come vederla morire. E sua figlia, come avviene nel vangelo, effettivamente muore. Giairo ricorre a Gesù: ma sua figlia potrà guarire, potrà rivivere, solo a condizione che lui accetti il fatto che sua figlia non è più una bambina ma una donna: e lo riconosce, inginocchiandosi davanti a Gesù; riconosce, cioè, di essere lui, in prima persona, il maggior responsabile della malattia della figlia, di essere lui la vera causa di questo disagio; e gli chiede aiuto. Ma Gesù non fa sconti a Giairo; la guarigione arriva soltanto dopo che la figlia è morta. Egli deve prima “distaccarsi” da sua figlia. Questo deve avvenire e avverrà. Giairo deve accettare questa “morte” dentro di sé. Persa la figlia, la bambina, deve accettare la donna, una donna che cammina con le sue gambe, che “è passata” ad un altro stile di vita. Amare è far diventare grandi, adulti, indipendenti, autonomi. Amarsi è diventare grandi, adulti, autonomi, responsabili della propria vita senza delegarla più a nessuno.
L’altra donna del vangelo, invece, è già adulta, ed è gravemente ammalata: soffre cioè di continue e dolorose perdite di sangue. Questa donna ha dei seri problemi con la sessualità, con la sua femminilità. La stessa religione ebraica le impedisce di guarire: lei impura non può toccare nessuna persona, tanto meno un maestro come Gesù: renderebbe impuro anche lui. È una donna che vive isolata perché rende impuro qualunque cosa o persona le capiti di toccare.
C’è una religione che guarisce e c’è una religione che invece ammala. Per esempio tutto ciò che era sessualità, fino a qualche tempo fa, era peccato. La donna dopo il parto poteva entrare in chiesa soltanto dopo quaranta giorni; avere rapporti sessuali prima del matrimonio era peccato gravissimo e se la donna rimaneva incinta, e non era sposata, il matrimonio riparatore doveva essere celebrato alle cinque o alle sei di mattina; se si guardava con ammirazione una donna era peccato; se si pensava intensamente ad una donna era peccato; qualche confessore si preoccupava soprattutto di “quei peccati”, tutto il resto era secondario. Parlare di sessualità era tabù; se uno aveva un qualsiasi problema sessuale doveva gestirselo da solo. La sessualità non era un piacere ma un dovere (coniugale) e l’unico scopo per viverla era fare figli. Una religione con tali convinzioni ha sicuramente contribuito a iniettare terribili sensi di colpa nelle coscienze di tanti fedeli. E le donne subivano! Certo non era così dappertutto e per tutti, ma quasi!
Oggi, come fede, come chiesa, dobbiamo avere il coraggio di parlarne apertamente, non soltanto per stabilire se la sessualità va praticata prima o dopo il matrimonio. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che la sessualità è la forza, l’energia più forte che come uomini, come donne, possediamo. Un’energia dirompente, intensa, passionale, esplosiva; un’energia che fa paura, e proprio per questo, deve essere gestita bene. È energia di vita. Dobbiamo capire cosa accade, cosa c’è in gioco, dobbiamo entrare in quest’argomento così vitale per l’uomo e per le donne: è nella relazione sessuale che nasce la vita: ora, se non c’è Dio qui, in quale altro posto c’è? Nella sessualità noi sperimentiamo infatti la forza creatrice di Dio, l’intensità e l’unione più grande di un rapporto; nella sessualità si innescano le paure più grandi: di essere dominati, rifiutati, traditi, di non lasciarsi andare, di non essere all’altezza, di essere vulnerabili; emergono la nostra aggressività, le nostre ossessioni e perversioni: ebbene, se non c’è bisogno di Dio, di guarigione, di comunicazione, di aprirsi qui, dove mai? Nella sessualità si vivono le unioni più profonde e le divisioni più grandi: per questo c’è bisogno di confronto, di relazione umana ed evangelica, di potersi esprimere, comprendere, donare.
L’oscurantismo e la paura di una volta erano sicuramente riflesso della paura della sessualità. Una paura, però, che ha portato per reazione all’attuale esaltazione insensata e delirante della sessualità: dal nulla, oggi navighiamo impunemente nel troppo!
A ben vedere, la donna del vangelo che soffre di emorragie è dissanguata non solo perché perde sangue ma perché ha perso tutti i suoi averi nella ricerca della guarigione. È una donna umile, una donna che dà, una che fa un sacco di cose per gli altri, che si “fa in quattro per gli altri”.
Il sangue è la forza vitale dell’uomo: senza sangue si muore! Il suo sangue è la sua affettività, i suoi sentimenti, che offre a tutti; ma dai quali non riceve niente. Il suo sangue versato è il simbolo di tutto quello che lei spende, dà, versa agli altri, ma che non crea e non fa nascere nulla. Questa donna ha dato la sua vitalità a tante persone ma non è felice, anzi è ammalata, triste, insoddisfatta e sola. E ciò perché ha sempre dato per ricevere. Dà per avere amore, per avere attenzioni, per essere riconosciuta, per “guarire”. Dà molto, ma lo fa per ricevere anche molto.
Ci sono due modi di dare: c’è chi dà perché è pieno di amore e c’è chi dà per ricevere qualcosa in cambio. Chi dà perché è ricolmo d’amore, lo fa con passione, con un entusiasmo che nasce dalla ricchezza del suo cuore. Non chiede niente, quindi non ha pretese, non colpevolizza gli altri se non fanno altrettanto e non fa la vittima se gli altri non lo ricambiano. Lui dà perché si sente sovrabbondante. Chi dà per ricevere, invece, ha bisogno di affetto, di attenzioni, di riconoscimento. E siccome non è in grado di chiedere, fa qualunque cosa, si distrugge, “si disfa”, pur di avere un ritorno. Siccome il suo cuore è vuoto, egli deve in ogni caso ricevere; ma non è mai pago: gli altri non lo fanno mai bene, non basta mai, non fanno come vuole lui, ha sempre da ridire.
Ciò che colpisce comunque di questa donna è il suo coraggio: infrange le regole e fa ciò che non si poteva fare: tocca Gesù. Ciò che fa è sfrontato, ardito, pericoloso; è una donna che vuole vivere ad ogni costo. Ciò che colpisce è la sua convinzione di poter guarire, il suo non adattarsi alla sua attuale condizione. Gesù le dirà alla fine: “La tua fede ti ha salvato”. Cioè: “è per questo coraggio, per questo credere al di là di tutte le tue sconfitte e le tue delusioni, che tu sei guarita. Tu hai dato fiducia alla vita che c’era in te, e non alle regole che invece la bloccavano; ecco, sei guarita”.
Questo è Gesù, fratelli. Gesù le dà esattamente ciò di cui ha bisogno: una forza che da lui passa a lei. Finalmente, forse per la prima volta, questa donna trova accoglienza, trova qualcuno da cui ricevere, qualcuno che non le chiede più soltanto di dare ma dal quale può finalmente ricevere amore e riconoscimento. Ma ad una condizione: Gesù chiede: “Chi mi ha toccato?”. Chiede cioè di uscire allo scoperto, di legittimare il suo bisogno di amore, i suoi impulsi e i suoi desideri. Ella deve venir fuori davanti a tutti e affrontare il giudizio della gente. Se prima gli si è avvicinata da dietro, di nascosto, adesso deve farlo davanti e davanti a tutti. Solo in questo modo la vita torna a circolare dentro di lei, e possiamo esserne sicuri, anche fuori di lei.
Ebbene fratelli, noi siamo vita: la vita vuole circolare liberamente in noi. La vita vuole uscire ed esprimersi da noi. Mettiamo allora in circolazione la vita che abbiamo dentro. Siamo vita che vuol vivere. Sì, fratelli: noi abbiamo bisogno di amare; abbiamo bisogno di dire a qualcuno: “Ti amo, ti voglio bene, sei importante per me”. Noi abbiamo bisogno di essere amati, abbiamo bisogno che qualcuno ci dica: “Ti amo, ti voglio bene, sei luce per i miei occhi”. Noi abbiamo bisogno di affetto: abbiamo bisogno di accarezzare e di essere accarezzati, abbiamo bisogno che l’amore che vive in noi esca attraverso le nostre mani, il nostro corpo, i nostri gesti, le nostre parole. Noi esistiamo e abbiamo bisogno di esprimerci. Abbiamo bisogno di sentire che ci siamo, che possiamo esprimerci, che possiamo scegliere, che possiamo plasmare la nostra vita. Abbiamo dentro di noi sentimenti ed emozioni che non possiamo lasciar languire. Tutto in noi è vita. Vita è il nostro pianto: abbiamo bisogno che le lacrime solchino il nostro volto perché in certi giorni soffriamo. Vita è la nostra rabbia: abbiamo bisogno che la rabbia, il nostro “no” a ciò che non ci va bene, esca fuori. Vita è lo stupore che portiamo dentro: abbiamo bisogno di fermarci e di congiungere le mani quando l’invisibile si fa visibile, quando la bellezza si dipana davanti ai nostri occhi, quando la tenerezza tocca il nostro cuore. Vita è la felicità che abbiamo dentro: abbiamo bisogno di cantare, di danzare, di ballare, di ridere e di sorridere. Vita è creare: abbiamo bisogno di fare di noi qualcosa di utile, abbiamo bisogno che la nostra vita produca altra vita. Vita è chiedere aiuto: abbiamo bisogno di sentire la presenza, la vicinanza, l’accompagnamento e l’amore di qualcuno per noi. La vita ci abita ma non può vivere se non la esprimiamo. Dobbiamo avere, come questa donna del vangelo, la forza di legittimarci, di tirare fuori tutta la vita che c’è dentro di noi e che vuol vivere. La vita per sua natura vuol espandersi, uscire, nascere. Bloccarla, è morire.
Fede è far vivere la vita che c’è in noi. Peccato, è seppellire e lasciar morire la vitalità che Dio ha messo in noi. La qualità essenziale della vita è la “vitalità”. Senza vitalità siamo come un mare senz’acqua o un campo senza terra. Senza vitalità siamo come un ramo secco attaccato all’albero: si aspetta soltanto che cada. Vitalità è amare sempre, con perseveranza, ad ogni costo, oltre ogni avversità. A volte pensiamo che i grandi amori siano come gli alberi secolari, destinati a sfidare qualunque tempesta, e soprattutto a lottare contro il tempo, senza mai venir meno, senza mai morire. Invece non è così, fratelli; anche un grande albero può perdere lentamente i suoi rami e diventare secco. I grandi amori, come gli alberi, non muoiono per un colpo di vento o per un po’ d’acqua in meno. Muoiono se li facciamo morire dentro. Pensiamo che vivano anche senza linfa vitale. Ma non è possibile. Due vecchietti sposati da tempo immemorabile sono seduti in stazione e aspettano il treno. Sulla panchina di fronte, siedono due giovani innamorati. I due anziani osservano la giovane coppia in silenzio. La ragazza abbraccia il ragazzo con tenerezza e lo bacia teneramente. L’uomo anziano, con gli occhi che brillano, sfiora la moglie con la mano e le sussurra: “Potresti farlo anche tu!”. L’anziana donna lo guarda sdegnato: “Ma se non lo conosco neppure!”. Non le era neppure sfiorato il pensiero che lui parlasse di loro due e non della giovane coppia. Ecco, questo è arrivare a non vivere fino in fondo la vita; questo è rimanere senza linfa e far morire la vita dentro. Amen.
 

giovedì 21 giugno 2012

24 Giugno 2012 – Natività di San Giovanni Battista

«Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei» (Lc 1,57-66.80).
Il calendario liturgico, quest'anno, ci propone una delle feste più significative della cristianità: la nascita del Battista. Giovanni è una figura straordinaria all'interno della fede: Gesù stesso lo indica come il più grande uomo mai vissuto, “il più grande tra i nati di donna” (Mt 11,11) ed è l'unico santo di cui ricordiamo sia la nascita (24 giugno) che la morte (29 agosto).
È definito “profeta”: una figura speciale, uno cioè che in forza del suo nome indica un'azione di Dio, il “chinarsi” di Dio, l'irradiarsi di Dio sul suo popolo. I profeti non predicono il futuro (quelli sono gli indovini!), ma sono amici di Dio che, animati dallo Spirito Santo, indicano al popolo l'interpretazione degli eventi, ammoniscono, scuotono, a volte con metodi piuttosto inusuali e rudi. E fra questi profeti spicca appunto, come un gigante, Giovanni Battista. Un austero asceta del deserto, tagliente predicatore, profeta disposto a morire pur di mantenere fede alla sua missione di verità. Un Giovanni che prepara e dispone il popolo all'accoglienza del Messia ma che, teneramente, resta anche lui spiazzato dall'originalità di questo Messia. Come biasimarlo?
Impregnato completamente di Antico testamento, egli invita il popolo alla conversione predicando la venuta di un Messia giusto giudice, portatore di vendette e punizioni; al contrario, di fronte al comportamento del Messia Gesù, ispirato ad una inaudita tenerezza, ad un amore senza limiti, rimane inizialmente spiazzato, per venire poi ammaliato e completamente assorbito dalla disarmante novità introdotta da Gesù.
Uomo e profeta straordinario. Ma per capire la sua straordinarietà, abbiamo bisogno di silenzio: lo stesso silenzio di Zaccaria che riflette sulla vera natura di questo suo figlio, “inviato” da Dio ad Israele come un dono speciale. Un “inviato”, peraltro, che ha molto da dire anche a noi, sia come uomo che come testimone di Cristo.
Sappiamo dalla Bibbia che Dio “segna” fin dalla nascita, con speciali interventi, quelli che lui sceglie per sé, i grandi re, i suoi rappresentanti, i condottieri, i profeti.
È questo il caso del Battista: figlio di una donna sterile, resa feconda per dono di Dio, la sua nascita è accompagnata da strane circostanze: singolare e sorprendente è la determinazione dei genitori di imporgli proprio quel determinato nome, “Giovanni è il suo nome”; un nome che non rientra assolutamente nella tradizione familiare, come invece era d’obbligo in quei tempi; come pure singolari sono i salti gi gioia, pieno di Spirito santo, che il bimbo compie nel grembo materno allorquando Maria fa visita alla cugina Elisabetta; e, una volta nato, “tutti furono meravigliati” per l’improvviso riacquisto della parola da parte del padre Zaccaria, tanto da farli esclamare: “Chi sarà mai questo bambino?”. È quindi evidente che Dio ha scelto e preparato il suo uomo: “Davvero la mano del Signore stava con lui”.
È naturale quindi che la sua austera e severa preparazione per poter continuare la missione di Elia, per diventare come Lui un grande profeta, anzi per diventare il più grande dei profeti, avvenga nel deserto: si tratta infatti della stessa preparazione e dello stesso luogo scelto da Dio per educare il popolo di Israele. La missione del Battista costituisce infatti lo sbocco naturale di quella tensione messianica presente in tutto l'Antico Testamento, quella tensione verso l'evento straordinario, atteso da millenni, del Gesù di Nazaret, il Cristo Messia.
E proprio Gesù fa di lui un elogio molto grande: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? E allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano vesti sontuose e vivono nella lussuria stanno nei palazzi dei re. Allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco io mando davanti a te il mio messaggero, egli preparerà la via davanti a te”» (Lc 7,24-27).
Giovanni è un uomo coerente, irremovibile nei suoi principi, integro fino al martirio, di una intransigenza morale che riassumeva tutta l'anima veterotestamentaria. La sua predicazione e il battesimo che lui dava al Giordano “per il perdono dei peccati” (Lc 3,3), segnano il passaggio definitivo da una realtà ad un’altra completamente nuova, il superamento della linea di demarcazione tra l’antica Legge e i Profeti e il Regno di Dio rappresentato da Cristo; Giovanni è il traghettatore dell’uomo verso questa novità cristiana, ben superiore all'antica Legge. Una novità così sconvolgente che riuscirà a disorientare la sua stessa fede messianica, per la quale a questo punto ha bisogno di esplicite rassicurazioni: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11,3) manderà infatti a chiedere a Gesù. Egli ha bisogno di conferme, anche se è consapevole di dipendere completamente da Gesù, di essere il testimone umile e preciso della Sua divinità e in particolare della Sua specifica missione di salvatore: «Io non sono ciò che voi pensate che io sia! Ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di sciogliere i sandali” (Mc 1,1-13). E ancora: “Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele” (Gv 1,30-31). Si sentiva non lo sposo, ma l'amico dello sposo, colui che aveva solo la funzione di presentarlo: “Non sono io il Cristo, ma sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,20-30). E lo indicherà non soltanto come Messia, ma anche come Figlio di Dio, l’agnello sacrificale che si offre spontaneamente per la salvezza di tutti: “Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29).
In sostanza, dunque, Giovanni è uno che, venuto dal Primo Testamento, si è inoltrato nel Nuovo diventando pienamente discepolo di Gesù, suo primo testimone e missionario.
E questa, fratelli, è esattamente la strada che Giovanni ci indica per essere anche noi dei veri testimoni di Cristo: fare prima di tutto una seria esperienza personale di Gesù, indicarlo agli altri come unico Maestro, e quindi metterci da parte, perché sia solo Lui a crescere nel cuore di quanti gli abbiamo condotto. La sua testimonianza fino al martirio, ci svela inoltre la sua libertà interiore, di uomo senza compromessi, che consiste in quella rettitudine del cuore (“puri di cuore”) che fa di un uomo un docile strumento di Dio.
Questo è Giovanni. E noi, fratelli miei, dobbiamo essere come lui; noi, i nuovi Giovanni, diventati figli di Dio per mezzo del Battesimo - non voluto da noi, ma voluto dall'Alto - siamo infatti chiamati come lui a tener fede alle Sue parole, impegnandoci a vivere veramente da suoi figli, da risorti, da obbedienti alla volontà del Padre. E lo siamo soprattutto quando non ci teniamo aggrappati ai nostri privilegi, quando siamo obbedienti alla volontà di Dio, quando ci veniamo incontro l'un l'altro, quando non ci scoraggiamo se gli altri non valutano positivamente quanto facciamo.
Ecco, fratelli, in questo modo anche noi saremo altrettanti profeti; saremo come le migliaia di nuovi profeti che vivono nella Chiesa di oggi: sì perché i profeti, quelli veri, esistono ancora, sono veramente presenti in mezzo a noi; sono tutti quegli uomini e donne che vivono il Vangelo con semplicità e fedeltà, diventando motivo di conversione per gli altri. Non sono persone straordinarie, non fanno miracoli; sono semplicemente persone che vivono il Vangelo con amore, con tenacia, con convinzione: sono coniugi che aprono il loro cuore e la loro casa per alleviare le sofferenze di tanti bimbi feriti gravemente nell'anima; sono giovani che si impegnano ad educare alla vita i loro coetanei, e che spendono il loro tempo libero nel volontariato o nella “caritas”; sono quei preti che non si negano mai, per nessun motivo, a quanti cercano e bussano alla loro porta; sono quelle sorelle consacrate che consumano giorni e salute per dare speranza ai disperati, conforto ai malati, luce ai moribondi… Siamo circondati da questi silenziosi testimoni di Dio; viviamo tra migliaia di questi profeti che danno testimonianza al Signore, anche senza vestire con peli di cammello! Ringraziamo Dio, fratelli, per i tanti profeti che ancora incrociamo giorno per giorno, che ci spronano ad imitarli, che ci invitano a leggere il presente alla luce della fede.
Purtroppo la società contemporanea è immersa nel pessimismo; anche nella Chiesa prevale una logica mondana piccina e rissosa. Ma non deve essere così: la figura del Battista, e dei tanti che cercano di vivere la sua stessa esperienza, ci deve aiutare a cogliere i segnali di luce che, nonostante tutto, ci raggiungono nella quotidianità.
Riconoscere e accogliere questi profeti significa allora scrutare, interrogarsi, non dare per scontata e acquisita la vita di fede e la fedeltà al Vangelo. Tempi nuovi richiedono modi nuovi di vivere e di annunciare il Vangelo.
Ecco, fratelli miei; così devono essere le nostre comunità cristiane: comunità di profeti, chiamati a leggere il presente alla luce del Vangelo, per dare speranza a questo nostro mondo tanto inquieto. È urgente e vitale che noi, Chiesa, ci riappropriamo di questo ruolo profetico; anche se si tratta di una scelta scomoda. Guai a noi, fratelli, se pensiamo di appartenere ad una Chiesa che è dalla parte dei potenti, dei ricchi, dei più forti! Noi, come Giovanni, non siamo chiamati per blandirli; la nostra missione è invece di vivere e di promuovere la conversione dei cuori; di far accogliere il Dio che viene continuamente tra noi; di denunciare il sopruso e l'ingiustizia sia dentro che fuori della Chiesa, con mitezza e senza “personalismi”, ma con estrema determinazione. Ciascuno di noi deve essere quindi un “segno” luminoso nell’ambiente in cui vive; deve essere, il più possibile, la vera trasparenza di Dio. Amen.
 

giovedì 14 giugno 2012

17 Giugno 2012 – XI Domenica del Tempo Ordinario

«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-34).
Leggiamolo attentamente il vangelo di oggi, fratelli: soprattutto noi che siamo convinti di essere il motore trainante del Regno, quelli che reggono le sorti della Chiesa, quelli che hanno sempre un soluzione migliore per ogni cosa, quelli che, se dessero retta a noi, le cose andrebbero sicuramente meglio.
Tranquilli: non è il nostro efficientismo né la nostra esperienza, né la nostra super dedizione che concorrono a fare grande il Regno di Dio. Il Regno, ci dice oggi il vangelo, è come il seme: ha solo bisogno di essere piantato alla giusta profondità per germogliare e dare frutto; non ha certo bisogno dell’assistenza o della consulenza del seminatore! Il comportamento del contadino ci suggerisce al contrario una verità importante: che seminare è sempre doloroso; prima di tutto perché significa donare un qualcosa che ci appartiene, che abbiamo acquistato con fatica e sacrificio, e da cui dobbiamo separarci: «nell'andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare…» (Sal 125). Seminare è quindi impegnativo, è gravoso; ma soprattutto è una scommessa, poiché è un lavoro che mette in discussione le nostre sicurezze.
Nei confronti della nostra semina, dobbiamo pertanto tener presente tre cose. La prima è che il seme cresce spontaneamente; il suo processo di sviluppo è automatico, sfugge all'azione del seminatore, tant’è che avviene anche quando lui dorme, anche quando lui è assente. La seconda è che questo sviluppo spontaneo risponde alle caratteristiche naturali del seme, alle sue proprietà, che lo stesso Creatore gli ha predisposto. La terza è che il risultato finale deve essere sempre un frutto di gran lunga più abbondante e più nutriente del seme originario.
Ebbene, fratelli: sono questi gli insegnamenti che dobbiamo fare nostri nel lavoro di semina.
Noi oggi viviamo in un’epoca in cui i simboli sacri hanno perso completamente la loro importanza; gli insegnamenti religiosi sono ampiamente ignorati e contestati; siamo in un'epoca che possiamo definire post cristiana, un’epoca cioè in cui il Cristo e la sua Parola sono stati banditi dalla società. Questo però è il nostro terreno, questo è il terreno in cui dobbiamo seminare il Regno di Dio: un terreno certamente inospitale, arido, una pietraia. Ma ciò non deve scoraggiarci; non deve smorzare il nostro impegno di cristiani; anzi ciò deve renderci più reattivi ed entusiasti. Non si tratta di essere dei “superman”, degli spaccamontagne, dei faccio tutto io, come siamo inclini a pensarci, ma soltanto degli autentici “cristiani”, dei fedeli annunciatori della Parola: perché questo deve essere il nostro metodo di “seminatori”, qualunque sia il terreno su cui siamo mandati a seminare. Con umiltà e costanza. Dobbiamo farlo con lo stile di Dio. Sia Ezechiele che il Vangelo sottolineano oggi che lo stile di Dio è fatto soprattutto di pazienza, di amore, di fiducia; uno stile che rispecchia in qualche modo quello del contadino: egli non può modificare i tempi delle stagioni di questo mondo, e quindi aspetta paziente e fiducioso la stagione del suo raccolto; noi dobbiamo fare altrettanto, dobbiamo anche noi aspettare pazientemente che i frutti del nostro lavoro giungano a compimento, dobbiamo aspettare con fede l'ora della carità di Dio, quella carità assoluta che ha la sua radice nella nostra speranza.
Questo, fratelli, ci insegna oggi il Vangelo. Un vangelo in cui l'ottimismo di Gesù è evidente. Egli ha fiducia nel suo lavoro, crede nella forza delle idee e sa che quelle racchiuse nella Parola di Dio hanno una potenza divina che supera tutte le altre: egli sa per certo che la parola uscita dalla bocca di Dio non tornerà mai senza effetto, senza aver operato ciò che egli desidera e senza aver compiuto ciò per cui egli l'ha mandata (cfr Is 55,11). Lavorare con una tale semente ci deve solo che tranquillizzare; perché essa, la Parola, produca frutto, dobbiamo soltanto seminarla; dobbiamo cioè annunciarla, dobbiamo fare la nostra evangelizzazione: tutto il resto viene da sé; non dipende da noi; dipende da Dio e da chi accoglie la Sua Parola; il nostro non è un lavoro individualistico, è un lavoro da équipe, collettivo, a più mani, diretto e coordinato però da un'unica mano, magistrale e risolutiva, che controlla e soprassiede a tutto; come dice giustamente Paolo alla comunità cristiana di Corinto: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1Cor 3,6).
Non è quindi l'azione dell'uomo che produce il Regno, ma è la potenza stessa di Dio, nascosta nel seme della sua Parola. In quest'ottica, tutte le nostre ansie, tutte le nostre preoccupazioni non solo non servono a nulla, ma sono dannose. Sono inquietudini che non vengono da Dio, che ci ha comandato di non affannarci (cfr Mt 6,25-34), ma dalla nostra mancanza di fede.
L'efficacia del vangelo è su un altro piano, è all'opposto dell'efficienza mondana. Il regno di Dio è di Dio. Quindi non è l'uomo che può farlo, ingrandirlo o addirittura impedirlo. Semmai, con il suo comportamento dissennato, a volte può soltanto ritardarlo un po', come succede con una instabile barriera di fango e rifiuti che contrasta il corso impetuoso dell'acqua del fiume.
Gesù dunque ha seminato in ciascuno di noi la sua Parola, e ci ha incaricati di gettare anche noi questo suo seme: è Lui stesso, infatti, il seme di Dio che dobbiamo spargere nel terreno della storia. E aspettare con la paziente fiducia di chi sa attendere.
Gesù ha detto: «Il regno di Dio è vicino» (Mc 1,5); ma quanto vicino?  Non ne abbiamo la percezione; apparentemente nulla è cambiato da allora: la gente ha continuato a vivere, a soffrire e a morire. Di nuovo c'è stato semplicemente un uomo che predicava in un luogo poco importante dell'impero e i suoi ascoltatori erano malati, analfabeti, squattrinati: quelli che non contavano niente. Tanto che ancora oggi ci chiediamo: è tutto qui il regno di Dio? Sì, fratelli, è tutto qui! Grande come un granello di senapa. Proprio perché Dio è grande non ha paura di farsi piccolo; proprio perché il suo regno è potente, può fare a meno di ogni apparato esterno grandioso: non ha bisogno di terrorizzare per affermarsi.
Non gli servono eserciti; nonostante Il mondo lo combatta con tutti i mezzi; nonostante opponga al Suo Regno le sue attraenti seduzioni: il denaro, il possesso, il piacere; nonostante esibisca tutte le sue forze destinate a incutere timore: la persecuzione, le tribolazioni, la morte violenta... Ecco perché le parabole ci dicono che il Regno viene attraverso lotte e opposizioni. E che, nonostante gli ostacoli, esso avrà la meglio. Ma gli ostacoli a volte sono posti non tanto dalla malvagità dei cattivi, ma proprio dalla stupidità dei buoni; la più grande alleata del nemico è proprio la nostra ignoranza spirituale; è il nostro assecondare il diavolo, che ci mette volentieri a disposizione quei mezzi che il Signore scartò come tentazioni: il successo, la pubblicità, l'efficienza e la grandezza.
Soltanto Gesù, fratelli miei, è la grandezza di Dio: Gesù che per noi si è fatto “piccolo” fino alla morte di croce; e grazie a questo “annientamento” è diventato il grande albero sotto l'ombra del quale tutti possono trovare accoglienza. E noi, i discepoli, dobbiamo rispecchiare esattamente questo Suo spirito di piccolezza e di servizio; perché solo così riusciremo a vincere il male del mondo, con il suo imperativo di grandezza e di potere. Al contrario chi ama veramente si fa piccolo per lasciare posto all'altro; il suo io scompare per diventare pura accoglienza dell'altro.
«Annunciava loro la parola secondo quello che potevano intendere».
Ecco, fratelli, questo è un altro insegnamento del vangelo di oggi; è un tratto importante della pedagogia di Gesù: carità, comprensione, progressività, adattamento ai fratelli e ai loro ritmi di crescita. Ecco perché, a imitazione di Gesù, dobbiamo incarnarci, immedesimarci nelle situazioni personali dei più deboli, di chi non capisce o di chi non riesce a convertirsi in fretta, o di chi non riesce a reggersi con i suoi piedi, ricordandoci che un tempo eravamo anche noi nelle loro stesse condizioni; e forse lo siamo ancora.
Dobbiamo comportarci come Gesù ci ha insegnato. Misericordioso e compassionevole, Egli vuole la conversione di tutti: Egli si rivolge a tutti, buoni e cattivi, disposti e indisposti, preparati e impreparati, perché vuole che tutti, indistintamente, siano salvati. E soprattutto dobbiamo ricordarci che il Regno di Dio non è un nostro prodotto, non è il risultato di un nostro sforzo titanico; è un dono Suo. Un dono sottratto alle logiche di efficienza e di visibilità che spesso condizionano la nostra spolmonante frenesia.
Ebbene, fratelli, noi discepoli di ogni tempo, che viviamo nel dubbio e nella paura che il seme della Parola faccia cilecca, e che il Regno di Dio diventi soltanto un promettente miraggio nel deserto della crisi attuale, noi discepoli dunque, siamo invitati seriamente a rinforzare, a irrobustire la nostra fede, la nostra fiducia, la nostra umiltà. Dobbiamo essere certi che il seme di Dio, una volta che lo abbiamo seminato, porterà comunque il suo frutto. Senza di noi. Non ci sono dubbi. Amen.

giovedì 7 giugno 2012

10 Giugno 2012 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo

«Prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti”»( Mc 14,12-16.22-26).
Oggi celebriamo la festa del “Corpo e del Sangue” del Signore: una festa nata a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, piccolo centro non lontano da Roma. Un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino; durante una messa, al momento dello “spezzare il pane”, dalla piccola ostia zampilla del sangue, che macchia vistosamente il corporale steso sull’altare; ancora oggi quella tovaglietta macchiata è esposta alla venerazione dei fedeli nel Duomo di Orvieto. L’autenticità del miracolo è immediatamente confermata da due eminenti teologi, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura da Bagnoregio, inviati sul luogo dal Papa, insieme al vescovo di Orvieto, per le verifiche del caso. Dal 1264 questa festa è estesa a tutta la chiesa.
Originariamente però, già nel primo millennio, con il nome “Corpo del Signore” non si intendeva l’eucarestia, ma l’assemblea che si riuniva per celebrarla, ossia gli uomini e le donne che costituivano la nascente Chiesa (tant’è che ancora oggi ricordiamo questa antichissima tradizione mediante l’incensazione durante la messa: si incensa infatti Dio rappresentato oltre che dall’altare, dal Vangelo, dal Pane consacrato, anche dall’assemblea dei fedeli). Erano pertanto le persone il “verum corpus Christi”; l’eucarestia era il “corpus mysticum”. Poi, nei secoli, le cose si sono invertite.
Ora, amare un pezzo di pane può essere anche facile; credere che in questo pane ci sia Dio, anche se più impegnativo, non è che ci stravolga concretamente la vita. Ma, fratelli miei, amare le persone che ci stanno intorno, vedendo in esse Dio, beh questa è tutta un’altra cosa. Vedere e credere, che anche in “certi” volti, in certi personaggi, spesso antipatici e insopportabili, ci sia veramente Dio, è decisamente impegnativo, coinvolgente e sconcertante. Non lo sarà per i santi, ma sicuramente lo è per noi. Madre Teresa infatti era solita dire: “Mi è particolarmente difficile pensare che chi riesce a vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di pane, non riesca poi a vederlo nelle persone, negli uomini e nei volti del prossimo”. E un santo predicatore le faceva eco: “Non so se chi ama Dio ami anche l’uomo. Ma so che chi ama l’uomo, ama sicuramente Dio”.
Nel Vangelo di oggi Gesù in pratica ci dice: “non solo io vivo, ma voglio fare di questa mia vita un dono d’amore per voi e per il mondo intero”. Ecco, fratelli, questo è il punto. Per cui, noi che ci professiamo discepoli, fratelli di Cristo, non solo viviamo, ma dobbiamo anche mettere questa nostra vita a servizio degli altri. Questa deve essere per noi una necessità, un bisogno imprescindibile della nostra esistenza. Altrimenti, che ci stiamo a fare in questo mondo? perché vivere? Se la nostra vita non serve a nessuno, se non è utile per qualcuno o per qualcosa, che significato ha vivere? A questo punto esserci o non esserci, è la stessa cosa.
Ricordo che per la mia Cresima, da ragazzo, mi regalarono un orologio: una volta era il massimo, era un oggetto da “grandi”; e la Cresima sanciva proprio l’ingresso del ragazzo tra i cristiani “adulti”. Era così bello, quell’orologio, che i miei genitori decisero di non farmelo portare perché avrei potuto perderlo. Non lo portai e cadde nel dimenticatoio. Quando anni dopo lo ritrovammo, non funzionava più. Ora, che senso aveva avuto metterlo via? Non era servito a niente. Ebbene, fratelli, molte vite sono proprio così: per paura di osare, di perdersi, di rischiare, di sbagliare, vivono sulla difensiva, sull’indecisione, sulla eccessiva prudenza, sul non esporsi più di tanto; vite che passano e non lasciano segno; vite che non servono a nessuno, che si trascinano in giornate tristi, vuote, buie.
Chi segue Cristo, invece, ha bisogno di sentire che la sua esistenza è dono, che lui è un servo utile, che è come il grano che si frantuma per diventare alimento per gli altri. Questo dobbiamo essere noi: pane e vino; dobbiamo infondere forza, dobbiamo placare la sete, dobbiamo offrire agli altri gusto, saggezza, sapore. Solo così, per noi e per il mondo, vivere avrà veramente un senso; solo così la nostra vita avrà dato i suoi frutti. Quante persone muoiono invece con il rimorso di non aver vissuto! Quanti si rendono conto troppo tardi che la loro vita non è mai stata “dono”; non sono serviti a nulla, sono stati inutili, completamente insignificanti per il mondo intero! È come se non avessero mai vissuto.
Gesù in pratica ci dice: “Io voglio che la mia vita sia un pane che vi nutre”. Vuole cioè che la sua vita ci offra sostentamento, ci dia forza e lucidità, ci faccia crescere, ci renda maturi.
Purtroppo la vita passa, fratelli miei. Non illudiamoci di rimanere qui per l’eternità, di vivere per sempre. Anche per noi arriverà il “nostro giorno”, lo sappiamo: allora non facciamoci trovare a mani vuote, offriamo con gioia i frutti del nostro amore: perché solo se saremo stati “vita che dà vita”, solo se nel nostro vivere quotidiano ci saremo “consumati”, non avremo motivo di temere, nulla potrà turbarci: allora potremo serenamente passare la mano. Chi vive in pieno, non teme di morire.
Facciamo allora, fratelli, il punto della situazione e chiediamoci seriamente: la nostra vita è “pane” che nutre qualcuno? È vino che disseta e corrobora? Oppure è soltanto un tempo che scorre inutilmente? C’è tanta gente che non si dà mai, che non si concede mai; se parliamo con loro non ci fanno mai vedere quello che hanno dentro, gente che ha troppa paura di impegnarsi per qualcosa di vero, di bello. E si giustificano dicendo: “È troppo difficile”. Non riescono a donarsi. Per paura di perdersi, di sbagliare, non si danno, e non capiscono che è proprio facendo così che si perdono. Noi invece, con i nostri fratelli, con la nostra famiglia, con le nostre comunità con cui abitiamo, come la mettiamo? Ci siamo mai chiesto a che serve condividere una stessa casa, se poi neppure ci si parla? Che senso ha? Nessuno: perché se non c’è comunicazione tra noi, se le nostre anime non si incontrano, non si toccano, non si parlano, se i nostri occhi non si penetrano, noi “stiamo” insieme solo perché “facciamo” insieme tante cose; ma non possiamo certo dire che “siamo” insieme. Il dono più importante che possiamo fare agli altri non sono i nostri soldi, offrire le cose più belle e varie di questo mondo; il vero dono è donare ciò che siamo, ciò che abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda: la nostra anima, i nostri dubbi, le nostre paure, i nostri slanci. Solo donandoci agli altri così, senza riserve, gli altri potranno averci, potranno conoscerci, potranno averci nel loro cuore e nella loro anima.
Gesù non ci ha lasciato nulla di questo mondo in eredità: non ricchezze, non una casa, non un libro, non una dottrina e neppure una regola. Gesù ci ha lasciato solo se stesso, attraverso un po’ di pane e di vino: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”. Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono, è questo il grande mistero che la Chiesa oggi medita. Gesù è venuto su questa terra, si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è fatto carico di tutte le nostre colpe, si è fatto carne, ha assunto un corpo da offrire in sacrificio sulla croce, pagando così il prezzo per il nostro riscatto: un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando una costante opera di mediazione tra noi e il Padre: è vero: noi possiamo arrivare a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso un paesaggio, un tramonto, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le lacrime di chi è felice… Anche queste sono “mediazioni”. Ma, fratelli miei, l’autentica, la più grande mediazione, è quella di Cristo: Dio continua a darsi a noi in un rapporto di amicizia e di grazia, attraverso il pane della domenica, attraverso appunto il corpo di Gesù; e questo rapporto con Dio continua anche attraverso il “nostro” corpo, trasformato con Cristo in Cristo; e continua ancora attraverso il corpo dei “nostri” fratelli, nei quali vediamo Cristo.
Possiamo definire il Cristianesimo la “religione del corpo”. Per secoli si è fatta una netta distinzione tra ciò che è materiale (e quindi il corpo, tutto ciò che è umano) e ciò che è spirituale. E si diceva: “Tutto ciò che è materia è destinato a morire, è indegno, spregevole. Tutto ciò che è spirito è invece elevato e sublime. Quindi umiliamo il più possibile la materia, perché solo così emergerà lo spirito”. Con tali premesse, seguire Dio significava “crocifiggere” in suo nome il proprio corpo, vivere nella fuga e nel disprezzo del mondo. La via della santità, fino a qualche decennio fa, passava solo attraverso la completa rinuncia ad ogni piacere, di qualunque natura (cibo, sesso, affetti, amicizie, divertimento, allegria). Così, andare al cinema era “peccato”, andare a ballare era peccato: qualunque divertimento era demoniaco. Tutto ciò che era “corporale” era automaticamente sporco, diabolico, negativo, causa di perdizione.
Ma non è così, fratelli: il nostro corpo è abitazione di Dio, è tempio di Dio; il corpo dei nostri fratelli è Dio, esattamente come corpo di Dio è il “pane consacrato” della domenica che noi assumiamo. Dio è qui, in noi, nel nostro corpo. Lo Spirito di Dio, su questa terra, esiste solo attraverso un corpo: quello di Gesù, il nostro, quello dei fratelli, della Chiesa. Il corpo diventa così spirituale e lo Spirito diventa corporeo. Quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, e quando lo spirito sta bene, anche il corpo sta bene. Tante nostre malattie corporali, sono solo malattie dell’anima: possiamo infatti prendere tutte le medicine possibili, ma non arriveremo mai a star bene; perché non è il nostro corpo ad essere ammalato, è il nostro spirito. Il corpo non è altro che la visualizzazione, il “monitor”, lo schermo del nostro spirito. Chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio, perché il nostro corpo è a pieno titolo inabitazione dello Spirito.
Il corpo ha dunque bisogno della nostra anima, come l’anima ha bisogno del nostro corpo: se il nostro corpo ha bisogno di carezze e di contatto, è perché la nostra anima ha bisogno di amore, di essere riconosciuta e accarezzata. Se il nostro corpo ha bisogno di coccole, di abbracci e di gesti affettivi è perché lo spirito esige concretezza: è lui che ha bisogno di contatti veri, profondi, perché lui vuole incontrarci là dove non abbiamo paura, dove gli altri non possono intromettersi, dove gli altri non possono sedurci (se-durre: attirare sé); là dove siamo veramente noi, dove nessuno può “cambiarci” in qualcos’altro. Se il nostro corpo ha bisogno di piacere, è perché il nostro spirito aspira a tutto ciò che è bello, buono e divino. Curare quindi il nostro corpo significa curare anche la nostra anima. Tenerlo in forma, significa “tenere in forma” l’anima. Se ci ingolfiamo di cibo, di alcolici e di droghe, se amiamo gli eccessi estremi di qualunque natura, vuol dire che la nostra anima è gravemente ammalata; ed ha bisogno di disintossicarsi dal “troppo”, ha bisogno di pause salutari per eliminare quella “sazietà mortale” che le impedisce di ascoltare lo “Spirito che parla ai nostri cuori”. È proprio vero, fratelli: il nostro corpo ha bisogno di silenzio, di meditazione, di solitarie occasioni di preghiera, per potersi integrare completamente nel Corpo di Dio; perché, come dicevo, il Cristianesimo è la religione del corpo.
Ogniqualvolta ci accostiamo alla Comunione, il Corpo di Cristo viene dentro di noi, viene ad abitare in casa nostra; nonostante quel che siamo, nonostante tutto, Lui non si vergogna di noi, viene anzi per amarci, è felice di incontrarci, di diventare un tutt’uno con noi, di immedesimarsi in noi: Corpo nel corpo. Allora, fratelli miei, in quel prodigioso momento, alle parole “Corpo di Cristo”, e alla nostra conferma “Amen, Sì”, esprimiamo umilmente in cuor nostro: “Signore, questo è il “mio” di corpo…” e sentiremo Gesù che a sua volta ci dirà “Amen, Sì, lo so”. Capite? Noi diciamo “sì “ a Lui, e Lui risponde “sì” a noi; una accettazione totale. Un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro, che ci deve seriamente impegnare nella vita, sintonizzandoci sulle importanti parole di Paolo: «Voi che avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede…» (Col 2,6); pertanto «vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, come vostro culto spirituale» (Rom 12,1); poiché «se vivete secondo la carne, morirete; se invece uccidete con lo Spirito le azioni del corpo, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio» (Rom 8,13s)». Amen.