mercoledì 30 maggio 2012

3 Giugno 2012 – Santissima Trinità

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 16-20).
Oggi è la festa della Trinità. Una solennità in cui la Chiesa celebra un Dio che è comunione, amore, relazione, famiglia. Dio non è un’entità solitaria, ma una realtà dinamica, viva e “relazionale”. Sì, fratelli, Dio è “relazione”: Dio è amore e comunione. Relazione, amore, comunione, sono concetti che tutti conosciamo, che tutti sperimentiamo nella nostra vita. Nell’amore, infatti, ciò che conta è l’essere uniti, legati insieme dalla condivisione, essere all’unisono, senza per questo perdere la propria identità: è importante donarci senza perderci; è importante essere uniti senza annullarci, è importante rimanere divisi senza separarci. È da questi concetti che noi possiamo trarre un’idea di Dio Trinità, dell’amore trinitario: un Dio unito ma non uniforme; separato ma non diviso. La Trinità, prima di essere dogma, è quindi per noi esperienza: quella stessa esperienza che fecero i primi cristiani e i primi discepoli. Sperimentarono cioè che Dio è amore, che Dio è relazione, che in Dio c’è unione ma non fusione, diversità ma non separazione. Capirono che il Padre, suo Figlio Gesù e lo Spirito, da una parte erano tre esperienze diverse, tre persone, ma contemporaneamente erano lo stesso Dio, erano la stessa esperienza. E per esprimere queste verità, utilizzarono l’immagine che tutti conosciamo: la famiglia. Sì, la famiglia è come Dio: è comunione, amore, relazione, un rapporto di stretta unione tra persone distinte… Ci sono tanti invece che dicono di sapere chi è Dio, ma non vogliono fare esperienza di Dio; e non capiscono che senza “provarlo” non arriveranno mai a capirlo. Non capiranno mai che Dio è relazione, amicizia, amore, incontro, comunione.
“La Trinità è relazione tra un Io, un Tu e un Noi” scriveva Papa Benedetto XVI: una magistrale definizione che esprime appunto l’esistenza di una relazione fondante, di un dialogo d’amore intimo: in Dio c’è un Padre che ama il Figlio e che è amato dal Figlio. Il loro amore è lo Spirito.
Questo fratelli è Dio-famiglia. Questa deve essere esattamente anche la nostra di famiglia: la vera forza della famiglia non sta tanto nel fatto che due persone stanno insieme, che convivono, quanto invece nella profonda e sacra relazione d’amore che si instaura tra loro. Più ciascuno di loro è se stesso (persona), più c’è profondità e maggiore è lo scambio, l’apertura verso l’altro; più c’è amore (spirito), più c’è complicità, confidenza, fiducia. Ecco perché ogni vera relazione deve essere in qualche modo trinitaria, deve cioè essere composta da tre elementi: l’io, il tu e il noi.
Lio significa che io sono io, che io ci sono, che io sto in piedi con le mie gambe, che sono persona. Io sono io e non te. Io sono unico (unus) e non posso confondermi con te. Molti pensano che fare le stesse cose significhi unione: sì, può aiutare, ma non è questa l’unità di due entità distinte. Molti pensano che stando insieme, alla pari, arriverà anche l’intimità. Ma non funziona così. Molti credono che vivendo in due i problemi personali di ciascuno passeranno. Ma non è così. L’unione, l’intimità, l’affiatamento si raggiungono soltanto attraverso l’accettazione dell’altro come persona, nella sua singolarità. Molti pensano di raggiungere un rapporto ideale mediante una totale “fusione” con il partner, mediante l’annientamento della propria personalità, nel non poter più vivere senza di lui, nel dipendere totalmente da lui, nell’attendere da lui qualunque cosa, ogni attenzione. Ma è una fusione destinata a frantumarsi. Ogni rapporto è così come siamo noi. Se noi siamo entità mature, consapevoli, aperte, lo saranno altrettanto anche i nostri rapporti, altrimenti no.
Lo stesso vale per il secondo elemento, il tu: vuol dire che tu devi essere te stesso; che tu non sei me e io non sono te. Per cui nella famiglia non dobbiamo fare necessariamente le stesse identiche cose; non dobbiamo pensarla esattamente alla stesa maniera; non dobbiamo essere “fusi”; ma uniti; due entità distinte, con tutte le loro caratteristiche e peculiarità, ma unite. Le coppie che fanno rigorosamente sempre e tutto insieme, nascondono la paura dell’individualità. Sembrano coppie romantiche, di grande amore, ma nel loro guscio c’è tanta paura. Tu sei tu e io sono io: non facciamo confusione. Unità non è uni-formità o uni-direzionalità. Se tu non sei tu, non accetterai neppure che io sia io. Perché prima o poi mi vorrai cambiare; perché vorrai che io faccia ad ogni costo esattamente come te; perché non accetterai la mia diversità, poiché non accetti la tua. Ciò che trasforma il rapporto in vera unità, in vera unione, è invece il terzo elemento, il noi. La vera forza della famiglia sta proprio nella relazione reciproca; è il rapporto fra l’io e il tu, che forma il noi. Nient’altro. È quello che costruiamo insieme, tu ed io, la nostra “coesione”, la nostra unità. È quello che c’è fra me e te che ci tiene uniti. Se non c’è niente tra noi, non può esserci rapporto, è normale. Magari staremo anche insieme, ma solo per convenienza, per abitudine; forse anche per paura di iniziare a vivere veramente, preferendo piuttosto tirare avanti.
È il noi che dice quanto ci amiamo. È lo spirito che c’è fra me e te che dice com’è il nostro rapporto: un rapporto vero, intenso, è infatti dato dalla capacità che due persone hanno di uscire individualmente da sé stesse (senza perdersi) per creare un noi, uno spazio in cui possono esprimersi e accogliersi.
La relazione è quindi l’elemento universale indispensabile per ogni rapporto, ne è lo stile. In questo senso l’amore deve essere relazionale: deve cioè dare e ricevere, altrimenti non è amore. Il parlarsi deve essere relazionale: altrimenti diventa monologo, autoritarismo, imposizione. Se non accetto le posizioni dell’altro, se non lo ascolto, se non cambio io stesso, non c’è relazione. Relazionarsi vuol dire sentire, ascoltare l’altro, cercare di capire chi è, cosa gli piace, cosa desidera. Senza la relazione, le persone sono solo oggetti. Anche l’educare deve essere relazionale; come pure il lavoro, il gioco, l’amicizia, la preghiera. Tutto deve essere improntato alla “relazione”, tutto deve corrispondere al nostro “stile” di vita: e vivere in uno stile relazionale vuol dire appunto vivere secondo il modello trinitario. E tanto basta; perché per noi cristiani è il massimo.
Proprio per questo, fratelli miei, dobbiamo lavorare sodo sul nostro relazionarci: è infatti la qualità delle nostre relazioni che ci qualifica come cristiani; sono le nostre relazioni che, ci piaccia o no, danno un valore e un senso alla nostra esistenza.
A volte ci lamentiamo e diciamo: “Nessuno mi ama! Sono solo!”. È vero; ma dovremmo anche chiederci: “Ma io, in che maniera mi pongo?”. Perché se è vero che abbiamo il diritto di essere amati, è altrettanto vero che abbiamo il dovere di renderci amabili. Se gli altri ci rifiutano, spesso lo fanno perché hanno ottimi motivi per farlo. Se nessuno ci ama, per prima cosa dobbiamo verificare se non dipenda proprio da noi. Non meravigliamoci. Noi tutti sappiamo infatti che la bontà della nostra vita, la nostra maturità, la nostra serenità, l’amore, l’armonia, la preghiera, la fede, dipendono semplicemente dalla nostra capacità di intessere relazioni positive, sane, profonde e durature. E oggi, cari fratelli, la Trinità ci ricorda appunto questo: che tutto è “relazione”; che il Tutto è “relazione”; che Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, sono in perenne “relazione”; e che pertanto anche noi, creature mortali, dobbiamo vivere sempre in “relazione”. È questo il nostro DNA trinitario. Amen.


giovedì 24 maggio 2012

27 Maggio 2012 – Solennità di Pentecoste

«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 15,26-27; 16,12-15).
Con la Pentecoste il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni termina: si apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, il tempo della Chiesa, dello Spirito.
Cos’è successo nel frattempo? Dopo la morte di Gesù, gli apostoli vengono presi da un profondo sconforto, dalla paura, dalla delusione. Si sono rinchiusi nel Cenacolo, stanno tutti insieme, hanno una paura folle. Il Cenacolo, in cui tutto ricorda ancora la presenza di Gesù, è per loro come un grembo materno, si sentono avvolti, protetti: lì si sentono al sicuro, nascosti. I cinquanta giorni, che sono trascorsi dalla Pasqua, sono stati per loro un tempo di forte crisi, di forte scelta, di ridiscussione della loro vita.
Poi scoppia questo terremoto: un uragano, uno scossone elettrizzante. Lo Spirito è sceso nei loro cuori, nelle loro menti. Ed ha letteralmente scombussolato la loro esistenza. I loro pensieri, le loro incertezze, la loro vita che prima andava in un senso, ora improvvisamente cambiano direzione. Da timorosi, dimessi e spaventati, diventano forti, intrepidi, battaglieri: diventano “altri”. Si sono lasciati “scombussolare” dallo Spirito: perché, fratelli miei, lo Spirito scombussola, e noi dobbiamo lasciarlo fare: perché mai, nessuno Spirito, potrà mai scendere in chi non accetta di lasciarsi scombussolare. Certo, non è una cosa da nulla; si tratta di prendere o lasciare; all’istante. Perché lo Spirito è impetuoso, distrugge all’istante le nostre sicurezze, i nostri progetti, i nostri rifugi mentali, i nidi della nostra tiepidezza.
Quando invochiamo lo Spirito, fratelli, ricordiamoci bene delle conseguenze: il nostro radicale cambiamento di punto in bianco non potrà più essere rimandato, non avremo più scuse, deve essere affrontato. Subito. Con generosità, senza calcoli o sconti.
Quanti cristiani invece pensano a vanvera dello Spirito: non sanno cosa significhi. Non sanno cosa comporti. Vogliono lo Spirito, ma non vogliono cambiare: stanno bene così come sono; ma non capiscono che così facendo rifiutano lo Spirito!
L’irruzione dello Spirito è accompagnato da una crisi. La parola greca “crisi” vuol dire separare, distinguere, dividere: la crisi è quindi un punto di svolta, di separazione, un momento in cui è necessario distinguere ciò che dobbiamo tenere e ciò che dobbiamo lasciare; riconoscere il nuovo e avere il coraggio di lasciare il vecchio. È pertanto impossibile crescere, evolvere, rinascere, sfuggendo le crisi. Tutte le nostre crisi; che sono tante: ci sono le crisi della vita: gli anni che corrono inesorabilmente; il passaggio dalla giovinezza all’età matura; i sessant’anni; la morte delle persone che amiamo; una persona amata che ci lascia, che si allontana da noi; le disavventure e le difficoltà economiche, la perdita del lavoro. Ci sono le crisi mentali e spirituali: la nostra fede non ci soddisfa più; abbiamo bisogno di maggiori certezze; le nostre sicurezze non ci servono più; le nostre convinzioni vengono scalzate. Ci sono le crisi affettive: il nostro modo di amare non va più bene, richiede nuovi impulsi, maggiore profondità; emergono paure, blocchi o cose che ignoravamo; ci accorgiamo di non essere poi così tanto liberi.
Ogni crisi è una sofferenza, un travaglio, un conflitto; ma ci matura, ci fa più forti, ci scuote.
La crisi è pertanto il momento della discesa dello Spirito, il momento in cui ci purifichiamo, in cui lasciamo spazio perché la Vita ci faccia più veri, più maturi, più liberi e più trasparenti; il momento in cui Dio ci modella e ci plasma, ci forgia e ci rende come Lui vuole: ecco perché chi evita la crisi, rimane infantile, involuto.
La festa di Pentecoste esprime dunque questa verità: Dio abita dentro di noi. Dio non è più presente fisicamente in mezzo a noi, ma è presente in noi con il suo Spirito.
Quando noi sentiamo questa affermazione pur registrandola con la mente e sapendola ripetere a memoria, in pratica rimaniamo interdetti: “Cosa vuol dire? Io non sento nulla! Cos’è questo Spirito?”. In effetti, se chiediamo alle persone cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. E se non sa risponderci, è perché non lo conosce, non l’ha mai sperimentato, non l’ha mai vissuto. Molti pensano che lo Spirito sia un di più, un qualcosa che si aggiunge a quello che già siamo. Per cui ne possono fare anche a meno. Stanno benone così come sono. Ma lo Spirito, fratelli, non è un’aggiunta, non è un qualcosa di appiccicaticcio; è qualcosa che noi già abbiamo, già siamo, senza saperlo né averlo mai saputo.
Lo Spirito non decide un bel giorno della nostra vita di scendere dentro di noi, ma abita già in noi (ricordate il “soffio di vita” della creazione?). Lo Spirito pertanto altro non è che il modo con cui Dio abita in noi. Essere dello Spirito, spirituali, non vuol dire pregare molto, o fare cose pie e religiose, frequentare la chiesa o andare in pellegrinaggi. Essere spirituali vuol dire essere dello Spirito, vivere dimostrando a tutti chi abbiamo dentro, chi è la nostra guida che ci abita dentro. È uno stile di vita.

I mistici cristiani (Eckhart) dicevano: “Tutte le creature sono orme di Dio... Dio ha creato tutte le cose; non che le abbia fatte divenire, e poi se ne sia andato per la sua strada, ma è rimasto in esse”. Eppure se noi guardiamo una persona, non vediamo Dio, vediamo solo una persona. Che cosa invece vedevano i santi? Madre Teresa è chiara. Un giorno disse ad un giornalista: “Vede, io Dio lo vedo chiaramente. È qui in questo uomo che soffre o in quello lì, in quel letto, abbandonato da tutti. Dio è in me, è in lei. Io lo vedo. Se lei non lo vede purtroppo non dipende da me, ma solo da lei. Per me lui è evidente!”. Che cosa vedeva questa donna? Che occhi aveva per vedere Dio presente in ogni creatura? Era una santa; e i Santi, si sa, quando guardavano le persone, non vedevano il corpo, la materialità, ma la luce, lo Spirito che abitava in esse.
Ora cosa c’entra questo con la festa di Pentecoste? C’entra, fratelli, eccome: perché lo Spirito abita ogni cosa, è ogni cosa. Si tratta di andare oltre le apparenze. Gesù fu precisamente l’uomo del guardare oltre le apparenze, del guardare dentro la realtà. Questa cosa Lui la chiamava “Regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il Regno di Dio non è un paradiso lontano, ma è qui, oggi, adesso. Dipende dai tuoi occhi”. Gesù vedeva un fiore e vedeva Dio (vedeva la luce, lo Spirito del fiore). Gesù vedeva gli uccelli del cielo ed esclamava: “Che meraviglia; chi può vestire come loro? Come sono liberi!”. Gesù vedeva i fatti che accadevano e vi leggeva la mano di Dio che insegnava. Gesù vedeva i sofferenti, i poveracci, i bisognosi e mentre tutti cercavano di evitarli, Lui li abbracciava, li incontrava, li baciava, li accarezzava e coglieva il loro bisogno d’amore, donando amore. Gesù vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano all’apparenza (“Siete peccatori, avete sbagliato, lontani da Dio!”), Lui andava dentro. Sapeva cogliere la luce che li abitava dentro; sapeva vedere la forza e il desiderio di vita nascosti dentro di loro. Lui vedeva un pescatore qualsiasi e vi coglieva i desideri profondi del suo animo. Lui era vicino in croce ad un assassino, un omicida e, mentre tutti vedevano il malfattore, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Fu condannato a morte e, mentre noi non proviamo che rabbia verso coloro che lo condannarono, Lui vide la luce che si nascondeva nel profondo delle loro tenebre e disse: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Gesù non vedeva la materia; Gesù vedeva lo Spirito, la luce che c’è dentro ad ogni essere.
E noi? Ci sarà capitato di passare qualche volta davanti ad un albero secolare. Sta lì da tanto tempo, prima di noi; e chissà quanto tempo rimarrà lì, anche dopo di noi. Ma noi non ci siamo mai resi conto che c’è, che sta lì; non ci siamo mai fermati ad ammirarlo veramente, non ci siamo mai seduti alla sua ombra, insomma non lo abbiamo mai “visto” per quello che realmente è. Per noi è solo un tronco di legno; non ci siamo mai fermati ad “ascoltarlo”, a “parlargli”; non abbiamo mai imparato nulla da lui. Non abbiamo colto il suo Spirito, non lo abbiamo mai considerato come un essere vivente, che parla attraverso lo stormire delle sue fronde, non abbiamo mai provato ad entrare nella sua luce che cattura dal sole. Siamo troppo distratti, indifferenti: e come facciamo con quell’albero, così purtroppo facciamo anche con i nostri fratelli. E questo non va.
Abbiamo un sacco di cose da fare, e questo ci tiene tesi, ci assilla: ma non ci chiediamo mai il vero perché della nostra irrequietezza e del nostro nervosismo. Nel nostro intimo siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente felici. Cerchiamo di farcene una ragione: “pazienza, bisogna accontentarsi; è così per tutti”; ma la verità è che non riusciamo a capire cosa sia quello che non va in noi. E continuiamo a correre, a fare, a produrre, e non ci accorgiamo di essere fermi, concentrati sul materiale. Non riusciamo ad entrare nello Spirito che c’è in ogni cosa. Questo è il problema, fratelli. Non riusciamo a vedere il divino, vedere Dio, che si nasconde dentro le persone e la vita stessa.
Ci siamo mai chiesto perché sbattiamo le porte così forte? Perché urliamo sempre quando parliamo? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché non c’è luce nel nostro volto? Perché non sappiamo esprimere un sentimento che sia uno? Perché, se possiamo “fregare” gli altri, lo facciamo volentieri? Perché niente ci intenerisce? Perché non sappiamo dire “grazie”? Perché non sappiamo pregare? È chiaro: siamo fermi al materiale. Purtroppo viviamo in una società che è incapace di guardare allo spirituale, e questo non ci aiuta. È una vera malattia. Suo unico interesse è l’avere: “Quanto costa? Quanti soldi hai? Quanti soldi servono? Quanti soldi ti danno?”; come pure la centralità dell’io, l’egocentrismo: “Io…, io…; Io faccio così; se non ci fossi io; ti dico io cosa fare; io di qua, io di là; parlo io; io so; io non ho bisogno…”. Noi ci scandalizziamo per ciò che succede nel mondo, per le notizie dei telegiornali; ma dimentichiamo che siamo noi a comportarci così, è la società che noi stessi formiamo.
Perché, quando il valore che conta è vincere sempre, eccellere, essere sempre i primi in tutto, è naturale che lo Spirito passa in seconda linea; è in questo modo che lo perdiamo, che perdiamo l’anima dello “stare” insieme. Quando giudichiamo o valutiamo le persone in base al vestito; quando ammiriamo le auto e le case della gente, invidiandole; quando il nostro unico pensiero è il conto in banca; quando il divertimento viene prima di ogni cosa; quando tutto viene monetizzato; quando ragioniamo in base alla logica del “do ut des”; quando non sappiamo più pregare, non troviamo più il tempo per congiungere le mani, per fare silenzio, per metterci in contatto con la nostra anima, ebbene, fratelli, siamo già al capolinea: ci siamo sganciati dallo Spirito, abbiamo fatto del materialismo il centro della nostra vita. Siamo materia quando dovremmo essere Spirito: così siamo materia quando alla domenica vediamo sull’altare il pane, e siamo invece Spirito quando vediamo in quel pane, il Pane divino, il Cristo. Siamo materia quando vediamo nell’amico, nella persona che incontriamo, soltanto uno che ci importuna, che ci scoccia, che ci dà fastidio; siamo Spirito quando iniziamo a vedere il lui uno che soffre, che vive un dramma, uno che ha un cuore e un’anima. Siamo materia quando al mattino vediamo soltanto un altro giorno pesante da superare; siamo Spirito quando vediamo un’altra opportunità donatami da Dio per sperimentare la sua infinita bontà e misericordia. Siamo materia quando qualunque cosa ci fa innervosire; siamo Spirito quando iniziamo a chiederci il perché di questo nervosismo, cosa dobbiamo imparare e fare, cosa dobbiamo cambiare del nostro comportamento o del nostro modo di pensare. Siamo materia quando guardiamo alla nostra vita in termini di successi, di conquiste, di cose raggiunte, di posizione sociale, di quale immagine diamo agli altri; siamo Spirito quando finalmente iniziamo a percepire i movimenti del nostro cuore e della nostra anima. Così, materia è mangiare, Spirito è gustare; materia è respirare, Spirito è essere consapevoli del soffio di Vita che inspiriamo per noi ed espiriamo per gli altri. La nostra vita può essere insieme terribilmente materiale o divinamente Spirituale, può essere piena di buio o di luce. Tutto per noi può essere materia, o tutto può essere Spirito: dipende solo da noi; da come noi ci poniamo e guardiamo.
Ben venga allora, fratelli, questo uragano dello Spirito! Scenda nei nostri cuori quella scintilla divina che rianimi il nostro fuoco che langue. Perché a noi serve veramente una Pentecoste, una crisi, uno scossone, uno Spirito che distrugga i nostri nascondigli e ci butti fuori; che ci costringa ad uscire dai nostri cenacoli di paura. Uno Spirito che ci costringa a camminare a testa alta, sulle vie della vita, incuranti del mondo, impassibili di fronte alle sue insidiose lusinghe. Dio è con noi, fratelli; Dio è in noi! Ascoltiamolo! Amen.

giovedì 17 maggio 2012

20 Maggio 2012 – Ascensione del Signore

Fino al V secolo la festa della Resurrezione di Gesù, comprendeva anche l’Ascensione e la Pentecoste. Solo successivamente sono nate tre feste: Gesù è vivo? Sì, Gesù non è rimasto nella morte (Resurrezione); e dov’è adesso Gesù? È salito al cielo, cioè è in Dio (Ascensione) e lascia a noi il compito di proseguire la sua opera. E ci lascia soli? No, perché è presente in mezzo a noi con il suo Spirito (Pentecoste). Dunque «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto» (Mc 16, 15-20). 
La duplice sottolineatura fatta dal vangelo dell’andare e del predicare, non è casuale ma voluta. All’ordine impartito, segue puntualmente il suo compimento. Viene cioè rimarcata l’importanza della missione: non siamo invitati ad andare per “esibirci”, per fare gli “uomini immagine”, ma per “predicare”, per far “conoscere” e testimoniare il vangelo a tutti, ovunque.
Chi c’era prima che andava dappertutto? Chi era prima il maestro e predicatore? Gesù, ovvio. Ma adesso Lui non c’è più, è asceso in cielo, e manda noi suoi discepoli. Noi dunque siamo i nuovi Gesù. E notiamo bene: “In tutto il mondo… ad ogni creatura… dappertutto”: il vangelo, (eu-anghelion=buona/bella notizia), l’annuncio, infatti, è per tutti, indistintamente; la chiamata alla salvezza e alla santità è universale, fratelli, per cui dobbiamo essere noi a renderla possibile a tutti, anche se sappiamo che salvezza e santità non sono riservate automaticamente a “tutti”, ma soltanto a quei “molti” che liberamente accetteranno il messaggio e lo vivranno fedelmente. Del resto cosa ha fatto Gesù qui in terra? Mentre i religiosi ebrei dicevano: “Questi sì e quelli no; questi sono buoni e quelli cattivi; questi sono degni e quelli no; questi in paradiso perché puri, quelli all’inferno perché impuri (donne, peccatori, pubblicani, pastori, pescatori, lebbrosi, ammalati, usurai, ecc.)”, Gesù invece diceva: “Io vado da tutti. Io non guardo in faccia nessuno, non guardo la carta d’identità, io guardo il cuore. Io ho un messaggio da proporre al vostro cuore, un messaggio di luce, di vita, di amore, di riconciliazione, di pace, di verità. E vengo da voi. Se mi accogliete bene; se non mi accogliete vado da un’altra parte. Ma Dio è per voi e per tutti”. Una volta si leggevano queste parole pensando: “Bisogna convertire il mondo. Bisogna cristianizzare il mondo intero. Bisogna battezzare tutti”. Ma Gesù non vuole assolutamente fare proseliti o seguaci “per forza”. Gesù vuole solo che il suo vangelo, il suo messaggio d’amore arrivi proprio a tutti. In altre parole vuol dire: “Guardate che Dio è già dentro di voi! Tiratelo fuori, vivetelo, esprimetelo. Se volete la salvezza, dovete fare così. Non avete idea di quanta forza, di quanta potenza, di quanta energia voi disponiate dentro di voi. Voi potenzialmente siete già tutti di Dio: io non vengo per aggiungervi qualcosa dentro, ma solo per dimostrarvelo, per farvelo capire bene, perché possiate toccare con mano, vedere e rendervi conto, di ciò che siete e di ciò che con me potrete essere”.
Non si tratta dunque di convertire tutto il mondo, ma di annunciare che il Dio del vangelo è veramente il Dio di tutti, di quelli che credono e di quelli che non credono, di quelli vicini e di quelli lontani, dei buoni e dei non buoni, dei giusti e dei non giusti. Non si tratta di mettere Dio “dentro”, ma di farlo tirar fuori! Perché Dio è la possibilità di un incontro, di una esperienza che tutti possiamo fare, di una semplice parola, perché Dio vive già dormiente in noi.
La catechesi, la predicazione, gli esercizi spirituali, non servono per “aggiungere”: devono soltanto far “emergere”, far risplendere la grandezza di Dio che vive in noi, di quel Dio che vive “diverso” ma unico, in ogni creatura. Dio è una presenza costante. Educare a Dio vuol dire quindi mettere ogni creatura in collegamento, in relazione col Dio che già vive dentro di lei. Poi sarà lei a decidere sul da farsi. Non noi. Non gli altri. Altrimenti diventa imposizione, violenza: come se tutti dovessero avere la nostra stessa idea, condividere la nostra medesima esperienza di Dio, privata e personale, senza accorgerci che così facendo invece di avvicinare i nostri fratelli a Dio, semplicemente li allontaniamo dal “loro” Dio, dal Dio che coabita in loro, dalla loro risposta personale, una volta che noi glielo abbiamo indicato.
Siamo dunque noi i chiamati ad essere nuovi Gesù. Lui non c’è più, ci siamo noi. Gesù ha vissuto un tempo storico, circa trentatre anni. Poi se ne è andato. Ma adesso ci siamo noi. Il vangelo è chiaro: «Essi (cioè noi) partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano».
Sono le ultime parole del vangelo di Marco: la storia di Gesù finisce qui; e da qui inizia quella della Chiesa, la nostra storia. Lui non c’è più, anche se in effetti c’è sempre; perché Lui vive in noi: Egli continua a vivere attraverso le nostre mani, i nostri piedi e le nostre labbra, le nostre azioni. «Operava insieme con loro»: in greco è “sinergia”: noi agiamo e Lui è la nostra forza; con l’Ascensione, come abbiamo detto, Dio non agisce più se non attraverso di noi, solo ed esclusivamente attraverso di noi.
Purtroppo il nostro cristianesimo è ancora troppo bambino: noi siamo interessati soprattutto a chiedere; noi chiediamo tutto a Dio (che faccia questo, che ci tolga il dolore, che ci cambi la vita, che cambi il mondo e gli altri, che ci mandi il miracolo o quello che ci serve). Siamo come i bambini che chiedono, chiedono, chiedono. Ma ora, fratelli, siamo diventati grandi, e il nostro cristianesimo, la nostra fede, devono essere adulti: Dio c’è? No, se pensiamo che Lui debba fare tutto ciò che dobbiamo fare noi, fare le cose al posto nostro. Dio in questo modo non interviene più, non scende più. Non possiamo più appellarci a Lui. Dio c’è? Sì, se finalmente siamo convinti che Lui è la forza che c’è in noi, che Lui è la fiducia e la vita che abitano in noi, alle quali possiamo liberamente e continuamente attingere. Da questo punto di vista Lui è sempre con noi e lavora (sin-energia) con noi e attraverso di noi.
Poi c’è una frase da chiarire: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato». È la conseguenza finale. Il concetto di salvezza implica purtroppo quello di condanna: o ti salvi o sei condannato, perso, morto; o vai in paradiso (salvezza) o vai all’inferno (condanna). Ma prima di arrivare a tanto, urliamo a tutto il mondo cosa vuol dire “salvezza” nel vangelo di Gesù: “salvezza”, per Gesù, è vivere alla luce del vangelo, cioè una vita vibrante, appassionata, dove la gioia si esprime, l’amore fluisce e scorre, la tristezza e il pianto escono, la voglia di cantare e di vivere si sprigionano, dove si va al di là di se stessi, dove insomma ci si sente “vivi”. Questo per Gesù è “credere”: perché quando incontri veramente Dio ti infiammi, bruci di vita. Prima eri freddo, di ghiaccio, morto; improvvisamente ti riscaldi, ti sciogli e diventi meravigliosamente vivo. “Salvarsi”, per Gesù, vuol dire salvarsi dal morire di ogni giorno, dall’essere spenti, dall’essere come dei morti che vivono. “Condanna” è non credere; cioè non poter pensare o non riuscire ad essere così vivi. Vuol dire chiudersi, rifiutare l’annuncio, ignorarlo volutamente. Per questo è importantissimo che tutti lo conoscano.
E quali sono i segni che accompagneranno il nostro “andare” e “predicare”? «… nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno…».
Quando pensiamo alla vita dei Santi, diciamo: “Che uomini straordinari! Come hanno fatto a fare tutto quello che hanno fatto?”. E rimaniamo stupiti, meravigliati, come se fossero dei super-uomini, dei super-eroi. Invece è vero il contrario: non sono loro che hanno vissuto da super-eroi, siamo noi che viviamo decisamente al di sotto delle nostre possibilità. Quello che loro hanno fatto, è esattamente ciò che tutti possiamo fare, ciò che tutti possiamo vivere.
«Parlare lingue nuove». Ma, fratelli, abbiamo mai ascoltato i nostri discorsi? Di cosa parliamo noi? Del tempo, di ciò che ha fatto o detto il vicino, il collega, il capoufficio; dell’ultimo gossip; con tante chiacchiere, tante insinuazioni, tanti giudizi, con tante parole vuote, senz’anima. Per il semplice fatto che parliamo, siamo convinti di comunicare, di trasmettere, di esprimerci. Ma non è così. Però possiamo farlo con altri linguaggi, diversi dal nostro; con quelle “lingue nuove” di cui parla il vangelo: come per esempio il “linguaggio del silenzio”: ti ascolto; faccio silenzio e ti ascolto; ascolto le tue parole e il tuo cuore. Ascolto la natura, il canto degli uccelli; ascolto il mio cuore che batte o il respiro della mia anima. C’è il “linguaggio degli occhi”: fermiamoci un momento e guardiamoci negli occhi. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima; attraverso gli occhi raggiungiamo l’anima dei fratelli. Il “linguaggio del corpo”: abbracci, carezze, baci, coccole, contatto: con chi ci sta vicino, con chi amiamo e ci ama, con i figli, è un linguaggio indispensabile. Il “linguaggio del cuore”: esprimere le nostre emozioni, le nostre paure, i nostri bisogni e desideri. Il “linguaggio dell’anima”: piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi, essere felici; un linguaggio che unisce e rende compartecipi.
Ebbene, fratelli, noi siamo troppo distratti: non ci rendiamo conto di quanta vita, di quanta energia, di quanta forza, di quante vibrazioni noi possiamo comunicare con questi linguaggi, con queste parole che non sono “parole”.
«Prendere in mano i serpenti». Il serpente è pericoloso, a volte mortale. Lo sappiamo bene; quante volte infatti evitiamo le persone, perché le giudichiamo “serpenti”; quante volte fuggiamo dai nostri doveri, dalle cose che dobbiamo fare: ci fanno paura, siamo convinti di non farcela, sono troppo grandi, troppo pericolose. Invece la nostra è solo paura. “Con me puoi tutto”, dice il Signore. “Prendi in mano ciò che ti fa paura!”. Andare in chiesa, vivere da cristiani, onestamente, non ci dice più nulla? Affrontiamo la questione. Perché tirare avanti e fingere che tutto vada bene? Parliamone umilmente con la nostra guida spirituale! C’è qualcosa che non va con i fratelli? Qualcosa di segreto che ci turba? Prendiamo in mano la situazione. “È difficile, mi vergogno!”: tranquilli, abbiamo dentro di noi tutta la forza per farlo, perché Lui è con noi, Lui lavora (sinergia) con noi. C’è una questione scottante, scabrosa, un problema veramente difficile, che ci fa paura? Prendiamola in mano, Lui è con noi. Se, fratelli, ci fissiamo soltanto sul problema, non abbiamo molte possibilità di risolverlo. Ma se guardiamo anche alla Sua forza che è in noi, allora tutto sarà più semplice, tutto si potrà affrontare e superare.
«Se berranno qualche veleno, non recherà loro danno». Gli altri sparlano di noi, con cattiveria. È veleno. Veleno puro. Ma dobbiamo essere “superiori”, sapere che questo è lo scotto che tutti prima o poi devono pagare: del resto “se sei buono ti tirano le pietre”, come diceva una vecchia canzone; e se sei cattivo anche. La maldicenza fa parte della natura umana: non ci si può proteggere dal giudizio degli altri. Noi saremo sempre e continuamente sottoposti a giudizio, critica, osservazione, disapprovazione: ma possiamo imparare a disinteressarci e continuare per la nostra strada, al di là di tutto questo. È chiaro che a nessuno piace non essere apprezzato, capito, giudicato positivamente; anzi a tutti fa male il veleno della critica. Ma Dio, che è dentro di noi, è più forte delle critiche di tutte le persone; se siamo ancorati nella Vita, diventeranno innocue, sarà un gioco berle e mandarle giù.
E concludo: Lui è dunque asceso al cielo: ma ora, fratelli, al suo posto qui sulla terra ci siamo noi. Ascensione non significa “sottrazione” della persona di Gesù al nostro contatto, ma “moltiplicazione” della sua presenza attraverso noi. Beh, pensiamo, è un’impresa difficile, a volte disperata! Ma non è vero: dobbiamo solo pensare che dentro di noi c’è Lui; Lui, che continua a vivere in noi con tutta la sua forza. Quello che ha fatto Lui, lo possiamo fare anche noi. E se siamo convinti di questo, niente ci sarà impossibile, nulla potrà abbatterci. Non a caso Gesù disse: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi perché io vado al Padre” (Gv 14,12). Ecco, fratelli, questo ci dice l’Ascensione: e allora perché stiamo ancora col naso all’insù, a “guardare il cielo” (At 1,11)? Perché continuiamo a rimanere “imbambolati” e dubitiamo ancora? Muoviamoci. Tutto dipende da noi, tutti ci stanno aspettando! Amen.

martedì 8 maggio 2012

13 Maggio 2012 – VI Domenica di Pasqua

«Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore»(Gv 15,9-17).
Se ci guardiamo intorno, mentre ci vengono proclamate dall’ambone queste parole, la reazione che notiamo è soltanto quella di una totale indifferenza. Non incidono più, non colpiscono più, ci scivolano addosso, senza provocarci più alcuna emozione. Del resto sono sempre le stesse parole, sentite e risentite in tutte le salse; ci sono state bombardate nelle orecchie fin dal catechismo della prima comunione, e riascoltate poi durante gli anni in migliaia di prediche e di conferenze. Ma perché puntualmente ogni tanto ci viene riproposta questa raccomandazione? Perché non ci viene detto qualcosa di diverso? Ebbene, fratelli: non si può. Non c’è niente di diverso che sia altrettanto fondamentale, altrettanto essenziale di questo comandamento di Gesù. È il punto di partenza del cammino cristiano; è il testamento originale di Gesù; sono le parole chiave di tutto il suo Vangelo. Dobbiamo amarci; i cristiani devono amarsi. Punto.
Invece pensiamo: “Noi siamo cristiani, e quindi questo lo facciamo già”. Mah!, è davvero così scontato, così pacifico, che noi cristiani, gente che preghiamo, che andiamo a messa, che facciamo pratiche di carità... ci amiamo veramente? Una volta sicuramente: alludendo ai cristiani, la gente diceva: “Guardate come si amano!”. Ma oggi? Anche oggi dicono di noi la stessa cosa? Scusate, ma ho dei dubbi. Io perlomeno non l’ho mai sentita. Oggi ci definiscono semmai: “Quelli che vanno in chiesa”, e quasi sempre lo dicono in un tono dispregiativo. Hanno ragione? Beh, se noi prendessimo sul serio il comandamento dell’amore, questo non succederebbe; questa sarebbe un’offesa bruciante, un giudizio superficiale e limitativo, una grave carenza di obiettività: sicuramente non sarebbe un modo corretto per identificarci. Succede però, fratelli miei, che proprio noi per primi siamo convinti che, per essere buoni cristiani, sia sufficiente andare in chiesa!
E allora dobbiamo fare un piccolo esame di coscienza, dobbiamo chiederci seriamente: “In che cosa si deve contraddistinguere un cristiano? Cosa lo identifica come tale? Forse il fatto, come abbiamo detto, di andare a Messa? Il fatto di non commettere peccati? Il fatto di pregare? Di destinare l’8x1000 alla Chiesa Cattolica? Che cosa, dunque? Ebbene: la risposta ce la dà Gesù, dicendo semplicemente: “vi riconosceranno dall’amore”. Ecco: è soltanto dall’amore che si riconosce un cristiano;  un vero cristiano risalta subito per la passione, per l’entusiasmo con cui agisce, per la discrezione e la riservatezza con cui tratta le persone e le cose: si distingue cioè per l’amore che lo anima; solo per l’amore. Non dai vestiti, non dalle croci d’oro appese al collo, non dalle messe domenicali o dalle scelte politiche. Ma solo ed esclusivamente dall’amore. Non un amore qualunque, come potrebbe essere inteso dal mondo, ma un amore identico a quello che ci ha insegnato Cristo. Questo occorre ripeterlo e precisarlo, perché nulla di più ambiguo - oggi – si nasconde sotto la parola “amore”.
Dietro questa parola si celano una varietà infinita di significati: passione, attrazione, erotismo, carità, benevolenza, interesse, coinvolgimento, oblazione... Com’è, allora, l’amore cristiano che ci deve animare? Un amore dal collo torto e lo sguardo melenso, riservato estaticamente ad una qualunque immagine di Gesù e della Madonna? Nossignori: l’amore dei cristiani è un qualcosa di ben più profondo: un amore che prima di essere donato agli altri, noi stessi lo riceviamo dall’alto, lo accogliamo come un dono divino. È come in una fontana dei villaggi di montagna: riceve l’acqua dalla sorgente fino a riempirsi completamente;  e, una volta piena fino all’orlo, la lascia scorrere attraverso tanti rivoli, verso fiori, giardini, colture secche e bisognose di vita. Ecco: il nostro amore è come quest’acqua limpida e benefica; amare i fratelli, per il cristiano, non è uno sforzo, non è un lavoro, non è una rappresentazione scenica; è una cosa naturale: significa riversare spontaneamente e silenziosamente quello stesso amore che lui riceve gratuitamente da Dio; quell’amore che, una volta saturato il suo cuore, si spande a caduta sui fratelli. Noi infatti amiamo perché ci sentiamo fortemente amati. Ci scopriamo scelti, pensati, calati in un progetto meraviglioso; ci sentiamo cercati e svelati a noi stessi; ci scopriamo belli dentro, perché illuminati dal Signore; capaci di amare oltre il possibile, perché riempiti dall’amore di Dio. Scopriamo così che è l’amore, e solo l’amore, che riempie il mondo e regge l’universo. Sentiamo che è possibile superare qualunque difficoltà, che possiamo vincere qualunque rigurgito di egoismo che – talvolta – può distorcere il nostro sorriso. Si, fratelli: noi possiamo amare ed accogliere gli altri, perché Lui per primo ci ha amati e ci ama. Lo possiamo fare perché Egli, paziente e misericordioso, ci ha dato la vita intera per poter restituire agli altri il grande amore di cui ci ha privilegiati.
Certo, non è sempre tutto rose e fiori; talvolta l’amore anche tra gli stessi fratelli cristiani può essere sofferto e faticoso, può incontrare resistenze e contrasti, imporre rinunce e privazioni.
Del resto il nostro rapporto non si fonda sulla simpatia, ma sulla fraternità,  e dobbiamo avere il coraggio di perdonare presente ingratitudini, favorire sempre le ragioni dell’altro anche quando sono sfavorevoli a noi. Dobbiamo imitare Gesù, nostro Maestro, che amò i “suoi” fino alla fine, fino alle estreme conseguenze; dobbiamo amare fino al punto di trasformare la nostra vita in un donarsi spontaneo e senza calcoli, sapendo che, come dice Gesù, se uno perde la sua vita, la dona, la offre, la spende per gli altri, in definitiva la guadagna. E dobbiamo farlo senza ricorrere a falsi misticismi, senza ingenuità, ma vivendo la nostra quotidianità, disposti anche a subire qualche incomprensione e qualche fregatura, pur di mantenere, quando ci chiniamo sul prossimo, quello stesso sguardo benevolo che ebbe Gesù.
Questa è la vita cristiana, fratelli: questo è il nostro programma; e penso che dovremo tutti lavorare ancora sodo perché – almeno nelle nostre Pasque domenicali – si respiri nella Chiesa vera accoglienza e carità, e non la noiosa fatica di dover assolvere a un dovere...
Gesù è stato chiaro: chi ama deve arrivare a sacrificare anche la vita per tutti i propri fratelli. E sottolineo “per tutti”: anche per coloro che non conosciamo, che non ci sono simpatici; anche per coloro che ci crocifiggono e che preferiremmo evitare. L'amore che Gesù ci chiede è esattamente quello del samaritano. Un amore che vede, si accorge, ha compassione, si fa vicino; un amore che soprattutto interviene subito, in prima persona: fascia le ferite all'uomo dopo averle pulite con olio e vino, lo carica sul somaro, lo porta al pronto soccorso, sta con lui fino al giorno dopo. Un amore insomma che si preoccupa della soluzione completa del problema. È questo, fratelli, il comportamento che ci chiede Gesù. Non lo scarto, non le mezze misure, non i ritagli di tempo tanto per…, ma il meglio, il tutto. Con tutti. Ogni giorno. Dovunque.
Perché? perché l'amore è da Dio, l'amore è Dio stesso; e se vogliamo che Dio sia presente in noi e intorno a noi, dove viviamo, lavoriamo, dove preghiamo, dove ci muoviamo, dobbiamo semplicemente amare così. Le chiese, le pratiche di pietà, le attività pastorali, i gruppi parrocchiali, servono soltanto se sono un mezzo per praticare questo amore “speciale”. Se al contrario sono occasioni per coltivare il nostro orgoglio, i nostri personalismi, se si riducono a fonti di maldicenze, di critiche, di cattivi esempi, diamoci un taglio: facciamo una bella pulizia, rovesciamo (come ha fatto Gesù all’ingresso del Tempio) qualche bel tavolino con i suoi infedeli gestori, fosse pure quello della “Caritas”! Dobbiamo tener sempre presente che il volontariato stesso è un corollario dell’amore, un veicolo dell’amore, ma non è l’amore: dobbiamo noi trasformarlo in amore; né più né meno come succede con l’automobile: è costruita per correre, per muoversi velocemente, ma non lo farà mai se non saremo noi a metterci benzina e a guidarla.
«Amatevi gli uni gli altri». Non è un consiglio, fratelli: questo è un comandamento! È il comandamento! Per cui la messa, il volontariato, le opere parrocchiali e tutto il resto, sono soltanto un dono, la possibilità che ci viene offerta per riuscire a metterlo in pratica.
Può anche sembrarci strano che l'amore, di sua natura oblativo, ci venga imposto, comandato. Noi pensiamo infatti che non si possa coniugare imposizione e amore, obbligo e spontaneità. Invece Gesù qui condiziona l’amore all’obbedienza: dobbiamo cioè amare come risposta ad un suo ordine ben preciso.
Questo comandamento però mette in gioco due elementi: forza e amore: ci impone cioè di combattere con la forza dell'amore, l'amore per la forza. Perché, fratelli, l'amore per la forza è l'ultimo amore che resta prima di raggiungere il nulla, prima cioè della nostra autodistruzione. Invece la forza dell'amore, Gesù ce l'ha dimostrata con la sua passione e morte, foriera di gloria e risurrezione. Così adesso può dirci: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati». Non si tratta più quindi di un “comandamento” dall'esterno che ci impone l'impossibile, bensì di una esperienza di amore donata dall'interno; un amore pertanto che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. Si, fratelli, perché l'amore cresce attraverso l'amore. L'amore è “divino” perché viene da Dio e ci unisce a Dio; e mediante questo processo unificante, ci trasforma in un “Noi” che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a quando, alla fine, Dio sarà “tutto in tutti”.
Accogliamo quindi con obbedienza di figli questo amore che viene da Dio e ad esso rispondiamo con l'adesione della nostra fede e con la pratica delle buone opere, che Dio ci chiede, per essere i suoi fedeli testimoni. Torniamo alle origini, fratelli miei. Torniamo al tempo in cui dicevano di noi: “Guardate come si amano”. In questo modo, già fin d’ora, la gioia vera di Gesù sarà in noi, e questa nostra gioia sarà piena. Amen.

mercoledì 2 maggio 2012

6 Maggio 2012 – V Domenica di Pasqua

«Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla». (Gv 15,1-8)
Fino a domenica scorsa il vangelo si era preoccupato di descriverci gli eventi accaduti immediatamente dopo la risurrezione di Gesù. Dalla quarta domenica di Pasqua invece abbiamo fatto un brusco salto indietro: dalle apparizioni di Gesù risorto ai suoi, siamo passati a meditare alcuni brani particolarmente significativi, tratti dal discorso di addio pronunciato da Gesù nel cenacolo dopo la cena del giovedì santo, immediatamente prima della sua cattura e della sua morte. Un lungo discorso, che è un po’ il suo testamento spirituale (Gv 13-17), in cui Gesù apre il proprio cuore ai discepoli e parla di ciò che più gli preme; parla di sé, di loro, di ciò che li aspetterà, dell’amore e dell’odio che troveranno.
Abbiamo meditato domenica sull’immagine del buon pastore: un “pastore bello” che non ci abbandonerà; qualunque cosa accada lui veglierà sulla nostra sopravvivenza. Oggi invece ci viene proposta un’altra immagine, altrettanto carica di significato, quella della vite e dei tralci: la sopravvivenza questa volta è possibile solo se saremo noi a rimanere uniti a Lui, come tralci alla vite-Vita.
Gli apostoli e i primi cristiani concepivano in questo modo il loro rapporto con il Signore: Lui la vite, loro i tralci. Il tralcio è indipendente, un'altra cosa rispetto alla vite. Il tralcio non è la vite. Ma il tralcio, se unito alla vite, porta frutto; lontano da lei, tagliato via, dissecca e non potrà mai più portare frutto. La vite è per il tralcio la forza, il nutrimento, la vita, il suo tutto. E il tralcio, pur essendo tralcio, diverso dalla vite, è un tutt'uno con la vite.
L’immagine, molto chiara e accattivante, rende perfettamente ciò che dovrebbe essere la comunità cristiana. Tutti uniti (un’unica vite) ma ciascuno nella sua grande diversità (tralci diversi con una resa diversa). Sì perché, fratelli, pur nella nostra unicità con la vite, siamo peraltro assolutamente “diversi” tra noi, siamo tutti “entità autonome”. Guardiamoci attorno: c’è chi ama l’arte, chi il disegno, chi la musica, chi la pittura, chi lo studio, chi la letteratura, chi lo sport, chi viaggiare. Ma se non siamo per niente studiosi, o artisti, o musicisti, o sportivi, non per questo siamo inferiori agli altri: siamo tutti tralci; ma “altri”. Ogni tralcio è se stesso, siamo noi, sono io: nome e cognome.
Spesso succede, invece, di pensarci tutti uguali: e pretendiamo non di uniformarci noi agli altri, ma di uniformare gli altri a noi. Se non corrispondono al nostro modello, non ci vanno bene, li critichiamo, li giudichiamo, li condanniamo. Non sappiamo accettare la coesistenza con gli altri, l’unicità degli altri. E ci succede questo, fratelli, perché siamo noi stessi che non ci conosciamo, non accettiamo la nostra unicità, perché non ne apprezziamo il valore e la potenzialità, e quindi non la viviamo.
Se invece noi viviamo noi stessi, automaticamente accettiamo che anche gli altri vivano loro stessi, vivano cioè la loro realtà, le loro aspirazioni. Ma se noi non riusciamo a farlo, al momento dell'inevitabile confronto con l'altro, la nostra frustrazione esplode, ci provoca invidia, rabbia, malessere, cattiveria.
Ciò che conta invece, fratelli, è che ognuno deve vivere se stesso, deve potersi esprimere al massimo delle sue potenzialità, essere esattamente il tralcio che lui deve essere. Ciò che conta è che ognuno deve portare frutto secondo le sue potenzialità. Ciò che unisce una famiglia, una comunità, non è fare le stesse cose, ma è l’amore, la circolazione della linfa, il dialogo, la condivisione, l’unione profonda che si crea e che viene vissuta comunitariamente.
Molte famiglie si credono unite perché, magari, si ritrovano insieme tutte le domeniche. Ma non è questa l’unità. L’unità è essere uniti nell’anima, in profondità, sentire che anche gli altri percepiscono il nostro profondo e che noi sentiamo il loro. Come la vite con i suoi tralci. Questa è unità.
L’immagine della vite, della vigna, era molto usata al tempo di Gesù. Israele era la vigna di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nelle vigna, il luogo dell’amore, dell’estasi, della gioia nuziale. Il vino, frutto della vite, per gli antichi era il simbolo della felicità, dell’ebbrezza, dell’intensità del piacere, della vita vera. Quando a Cana, alle nozze, manca il vino la festa sembra compromessa, sembra finire; ma poi ci pensa Gesù e la festa e le danze ricominciano con maggior entusiasmo perché il vino, quello migliore, improvvisamente è ricomparso in abbondanza.
L’immagine dei tralci uniti alla vite, proposta dal vangelo di oggi, ci dice quindi gioia, felicità, frutto abbondante, vendemmia assicurata: e ciò grazie alla vita, alla linfa che scorre continuamente al loro interno. Il riferimento a noi è immediato: se perdiamo contatto con le nostre radici, con la vite, con la Vita, nessuna gioia è più possibile. Noi infatti siamo come tanti tralci: per cui non separiamoci dalla vite, dalla nostra unica fonte di Vita; non isoliamoci mai, non separiamo mai il nostro cuore dalla nostra anima, non distruggiamo la comunione profonda che li lega, non tagliamoci fuori dal nostro profondo, da ciò che abbiamo e proviamo dentro di noi, perché, in quel preciso momento, noi ci perderemo; non avremo più linfa e seccheremo, moriremo, diventeremo inutili sarmenti destinati a bruciare. È la legge inesorabile della vita, della natura.
Gesù si propone come la Vite-Vita vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto della vita, io sono l’ebbrezza della vita, io sono l’elisir della vita, io sono il vero piacere della vita”.
Ogni volta che il sacerdote nell’eucaristia pronuncia sul vino: “Questo è il mio calice, versato per voi”, ci suggerisce due cose importanti: che il sangue rappresenta la sofferenza, l’aspetto difficile della vita, l’aspetto duro, ostico, doloroso (del resto nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma ci dice anche che quel vino è Gesù stesso, quel vino è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere; è ciò che ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura.
Ecco perché la vita deve essere un piacere; vivere, deve essere bello, gustoso, appassionante, altrimenti è una pena, un peso insopportabile. Gesù non è stato e non sarà mai nemico del piacere, della gioia, del divertimento: lui è la vite, è l’origine stessa del piacere! Gesù mangiava, beveva, faceva festa, e... guarda guarda, per dare felicità non rispettava neppure il sabato. Egli amava la vita perché Lui era la vera Vita.
E allora, fratelli, che aspettiamo? Coraggio: come il vino che gustiamo ci rallegra la vita e l’anima, così non dobbiamo temere di accostarci anche ad altri piaceri della vita: come dare (e ricevere) un bacio, una tenera effusione amorosa, un lungo e carezzevole abbraccio alla persona che condivide la nostra quotidiana esistenza; non dobbiamo aver timore, farci scrupoli, di ricevere le sue tenerezze; come pure non dobbiamo temere di concederci qualche giornata di svago con gli amici, di farci una lunga passeggiata, un bel viaggio turistico, di andare al cinema o al teatro per assistere ad uno spettacolo che valga. Gesù è il vino, è il gusto, il sapore della vita; provare il piacere di vivere, gustare la gioia della vita, è un modo giusto per esprimergli riconoscenza per la Sua bontà, per prepararci a sperimentare con il poco di ora, la grande felicità eterna, il Suo gusto, il suo sapore eterno, il suo amore incontenibile e senza fine, nella visione beatifica di Dio.
Molte persone straparlano di amore, di amore di Dio: sono convinte di essere loro gli unici illuminati, gli unici destinatari, gli autentici depositari, gli esclusivi dispensatori dell'amore divino; e per essere degni di questa “alta” vocazione, conducono una vita triste, sconsolata, inerte, con scelte volutamente cariche di sacrifici, di sofferenze, di privazioni. Ma non è così, fratelli, che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi. Dio ha creato il mondo, le persone, le cose, il buon cibo, il sole, il vento, le stelle, i fiori e i colori, solo ed esclusivamente per noi; perché noi li potessimo gustare, assaggiare e assaporare; perché noi potessimo gioirne, riempiendoci il cuore e l’anima. Dio è buono, fratelli. Egli ci ama e ci vuole soddisfatti. Non dobbiamo quindi aver paura di essere felici. Il Talmud dice in proposito: “Saremo giudicati su tutti i piaceri legittimi a cui abbiamo rinunciato”. E Gesù ci ripete: “Non assolutizzate mai il piacere, non siatene dipendenti, non siatene succubi, non attaccatevi smodatamente alle cose terrene; ma gustate e godete di tutto ciò che io ho creato per voi”. Sì, fratelli: tutto ciò che esiste, il mondo intero, esiste per noi; ed esiste non perché lo possediamo, lo rapiniamo o pretendiamo di dominarlo egoisticamente, in maniera esclusiva; ma esiste perché lo godiamo serenamente, con le persone che amiamo.
Per natura, invece, noi vogliamo possedere sempre tutto: vogliamo che tutto il mondo esista soltanto per noi, sia esclusivamente al nostro servizio. E ci comportiamo così anche con le persone: noi non le godiamo, non gustiamo la gioia della loro presenza; siamo preoccupati soltanto di possederle, di sottometterle e basta. Succede un po’ anche quando guardiamo un bel paesaggio: non ci fermiamo ad ammirarlo, non ci interessa di goderlo nella sua maestosità, ma siamo preoccupati solo di fotografarlo in ogni particolare; vogliamo in qualche modo catturarlo, possederlo, tenerlo per sempre con noi, piuttosto che assaporarlo serenamente lì, sul posto, dal vivo.
Godere è lasciare che le cose esistano, che ci siano, nella loro splendida bellezza. Godere e sentirle vibrare dentro di noi, assaporarle, ma lasciarle libere dove sono, non volerle possedere, circuire, perché non sono nostre. L’amore, fratelli miei, è gioia e dà vita, sempre; il possesso invece, anche se accattivante, se soddisfa al momento, a lungo andare svilisce, perde la sua attrazione e intristisce l’anima.
L’immagine della vite ci ricorda soprattutto la legge fondamentale della sopravvivenza: se ci stacchiamo dalla linfa che ci nutre, moriamo. Ecco perché il vangelo dice: “Rimanete in me”. Lo ripete quasi ossessivamente. Perché in questo “rimanere” c’è il segreto di ogni cosa. Se ci stacchiamo dal nostro profondo per noi è la fine.
Perché molti sono infelici? Credete veramente che se avessero più soldi sarebbero più felici? Perché molti sono sempre arrabbiati? Credete che sia sempre colpa degli altri? Perché molti sono continuamente annoiati? Credete veramente che non ci sia nulla che li possa entusiasmare? No, fratelli. Purtroppo noi siamo convinti che avendo quella determinata cosa, quando raggiungeremo quella certa meta: quando avremo ottenuto la laurea o saremo sposati o avremo figli o la casa nuova, allora sì che saremo felici. Invece ci stiamo illudendo. Se crediamo che la felicità consista nell’avere, nel godere, nell’essere e basta, ci stiamo illudendo, fratelli. Per tutta la vita continueremo invano a rincorrere questo o quello, senza alcun risultato, perché ciò che noi cerchiamo non è all’esterno, ma è dentro di noi. Se noi continuiamo a cercare lontano da noi, non vedremo mai nulla di ciò che ci sta vicino. Se noi non “ci” sentiamo, non “ci” percepiamo, non potremo mai sentire né percepire nulla.
Le parole di Gesù sembrano astratte, teoriche, riservate ai grandi mistici: “Rimanete in me; io in voi; voi in me”. Sembrano difficili, ma al contrario dicono una cosa semplice e vera: l’intimità è data non da quanto facciamo, ma da quanto in profondità noi andiamo.
Marito e moglie stanno insieme da una vita; ma succede che tra loro non ci sia intimità: se due sposi non sanno parlarsi delle loro emozioni più intime, non sanno dirsi le loro paure, i loro desideri, le loro ferite, se non condividono ogni stato d’animo, se non si lasciano commuovere, se non piangono davanti all’altro, ma che intimità c’è? Non basta abitare sotto lo stesso tetto per essere intimi. E neanche andare a letto insieme. Intimità è incontrarsi in profondità, dentro l’anima, nudi e spogli, con tutti i nostri difetti e le nostre miserie, i nostri antiestetismi spirituali e corporali, e accoglierci e amarci lo stesso, per quello che siamo. Anche senza ritocchi o interventi rigeneranti di chirurgia plastica!
Intimità è dunque entrare dentro. Chi dice: “Di certe cose preferisco non parlare perché poi mi commuovo”, rimane all’esterno. E quello che dice: “Io non voglio raccontare niente di me perché mi fa star male”, rimane fuori. Come faranno ad entrare in intimità con qualcuno, se hanno paura di scendere dentro loro stessi?
Non basta venire in chiesa e riempire Dio di parole e preghiere. Molti parlano a Dio ma non con Dio. Molti, anche persone religiose e consacrate, non provano nessuna vibrazione interiore, nessuna vitalità, nessuno slancio quando sono in chiesa, quando pregano, quando cantano. Non si commuovono di fronte alle parole del vangelo; non si lasciano mettere in seria discussione da ciò che sentono; non provano l’ebbrezza del canto o l’intensità del silenzio. Insomma, non parlano con Dio; lo riempiono semplicemente di parole.
Abbiamo detto che la vita è fatta anche di cose esterne, di superficie, non solo di austerità. E che a volte fare quattro risate, bere un bicchiere di vino in compagnia, o chiacchierare “del più e del meno” (senza spettegolare!), fa proprio bene, ci riconcilia con la vita. Ma la vera felicità della vita, fratelli, il suo essere feconda e vitale, sta solo dentro, all’interno, nell’anima delle cose. Essere felici significa raggiungere il centro della vita: essere cioè “al centro”, nel luogo esatto dove palpita la vita, dove scorrono le emozioni, il pianto e le risa, il dolore e l’amore. Vuol dire percepire la linfa che scorre nei nostri tessuti vitali, esserne riempiti, saturati, sommersi. Se infatti andiamo al mare nel caldo torrido dell’estate, e non ci tuffiamo completamente dentro l’acqua, non sentiremo refrigerio, non proveremo sollievo. Per provarlo, dobbiamo andare sotto, immergerci dentro. Così anche vivere, fratelli, è “stare sotto”. Essere vitali, portare frutto, significa vivere in profondità con noi stessi, vuol dire “entrarci” dentro e conoscerci a fondo, vivere al centro di noi, nella nostra anima. Se rimaniamo lì, allora veramente “ci” sentiamo; allora veramente capiamo chi siamo, e percepiamo tutte le nostre potenzialità. Portare frutto, ripeto, significa incontrare il mistero della vita che è nascosto in noi, entrarci dentro; entrare in Lui che è Vita dentro di noi, e cercare di capirlo, di goderlo, rimanendo incantati dalla Sua grandezza, dalla Sua bellezza, dalla Sua immensità; e irradiare prepotentemente tutto questo, all’esterno; conviverlo con i fratelli nel loro intimo, nella loro anima. Portare frutto nel nostro relazionarci quotidiano, significa infatti incontrare anche l’altro nella sua parte più profonda, più interna, dove è più vero, dove è maggiormente se stesso; lì dove possiamo scorgere anche in lui il volto di Gesù. Perché il nostro prossimo, il nostro fratello, è Lui, sempre e soltanto Lui! Basta saperlo vedere.
Ecco, fratelli miei; così c’è incontro. Solo così c’è unione tra i tralci e la vite; solo così il frutto è assicurato! «Perché senza di me, voi non potete far nulla». Parole sacrosante. Vere. Meditiamole! Amen.

mercoledì 25 aprile 2012

29 Aprile 2012 – IV Domenica di Pasqua

«Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». (Gv 10,11-18)
Gesù non poteva trovare una immagine più bella per indicarci la sollecitudine con cui continua a seguirci anche dopo la sua risurrezione. Lui è il “buon Pastore”, é poimÑn kalçv, il “pastore bello”, come dice il testo greco. Il buon pastore è colui che segue le pecore, che si prende cura di loro; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi, le cerca se si perdono, le conosce una per una, per nome. Il buon pastore è colui che ha “cura” delle pecore: e “avere cura” significa dedicare tanto tempo e lavoro in abbondanza. Lo sa bene chi cerca di far germogliare, di far crescere e fiorire una pianticella: ogni giorno deve darle acqua, deve esporla al sole, proteggerla da eventuali parassiti e pericoli. Il buon pastore è soprattutto colui che trasmette sicurezza; è colui che parla con le sue pecore; che a ciascuna sussurra dolcemente: “Sono io che penso a te, io che mi prendo cura di te, che veglio su di te; perché tu mi sei cara, mi sei preziosa, sei davvero unica per me. E anche se non sei sola, perché di pecore ne ho altre 99, se ti dovessi perdere, io verrò a cercarti. Qualunque cosa succeda, tu sarai sempre nel mio cuore”.
Ecco, fratelli: questo è l’amore con cui Gesù ci tratta: questo è l’unico amore di cui possiamo veramente fidarci. È questo l’unico amore di cui abbiamo bisogno. Ma è anche l’amore che noi stessi siamo chiamati a offrire ai nostri fratelli.
Dobbiamo essere anche noi pastori “buoni” per le persone che ci stanno vicine, per i nostri figli, per gli amici, per i colleghi di lavoro. Dobbiamo imitare i primi cristiani: il Signore era il loro unico pastore, il loro punto di riferimento. Lo “sentivano” sempre vicino, lo “vivevano”. Era il loro compagno di viaggio, la loro guida, colui che si prendeva “cura” di loro. E non temevano nulla e nessuno.
Del buon pastore il Vangelo dice tre cose molto importanti: prima di tutto che “offre la sua vita per le pecore”. Al contrario del mercenario, che pensa soltanto a svolgere un lavoro, che lo fa per soldi, per interesse, per avere un profitto personale. Al mercenario non interessa nulla delle pecore, ma solo ciò che dalle pecore può ricavare. Le utilizza per se stesso. Quanti mercenari abbiamo incontrato anche noi nella nostra vita! Quanti sedicenti pastori ci hanno usato e abusato a loro piacere! Quanti mercenari ci hanno illuso per farci fare quello che volevano; quante promesse abbiamo ricevuto finché pensavamo come loro, fino a quando non siamo diventati per loro un problema! E poi? Poi più nulla. E delusi ci siamo chiesto: “Che amore era questo? Era amore o squallido interesse?” E abbiamo pianto sulle nostre ferite. Ebbene, fratelli, queste esperienze dovrebbero insegnarci molte cose. Dovrebbero farci guardare a Lui, al nostro vero Pastore, con sempre maggior riconoscenza; a Lui che non ha mai ingannato nessuno, che non è mai venuto meno alle sue promesse, che è sempre stato fedele con noi.
La seconda cosa che il vangelo ci dice del buon pastore è che “conosce le sue pecore e che le chiama ciascuna per nome”. Una prospettiva meravigliosa, non vi pare? Chi ama, infatti, vuole conoscere per davvero. Non si ferma ad una conoscenza superficiale, di comodo. Vuol sapere tutto, vuol essere coinvolto, pende dalle labbra dell’amato, previene ogni suo desiderio. Allora chiediamoci: come sono i nostri rapporti con gli altri?. Li ascoltiamo veramente quando ci parlano? Abbiamo voglia di ascoltarli sul serio? Oppure il nostro è solo un bluff: non solo non li ascoltiamo, ma non li lasciamo parlare, li interrompiamo continuamente, interpretiamo le loro parole solo come piace a noi? Ascoltiamo il loro cuore, facciamo attenzione a quello che provano dentro, oppure semplicemente fingiamo? Eppure fratelli, se amassimo veramente le nostre “pecore”, per prima cosa le ascolteremmo, non vi pare? Non le deluderemmo, dedicheremmo loro maggiore “cura” e attenzione. Impariamo da Lui: Gesù ci ha mai deluso? Egli ci ama e ci ascolta, sempre. È sempre lì, paziente e silenzioso, presente nel Tabernacolo con il suo corpo e sangue, e ci aspetta. Aspetta fiducioso che qualche volta, durante il giorno, ci ricordiamo di Lui. Ci ricordiamo che è Lui il nostro Pastore, che è Lui l’unico che può aiutarci, consigliarci, lenire i nostri dolori; che solo Lui non ci deluderà mai!
Terza cosa che il vangelo oggi ci fa notare sul Pastore, è che il Risorto - è Lui il nostro Pastore - non ha solo noi da accudire, ma ha tante “altre pecore”, di altri ovili, forse non tutte fortunate come noi; quindi, Gesù non è soltanto a nostro servizio: non è una nostra proprietà, il suo amore non è un nostro esclusivo diritto: Egli è Pastore di tutti gli uomini di tutto il mondo; tutti sono suoi figli e tutti sono dunque nostri fratelli.
Ebbene, di fronte a queste realtà, cari fratelli, dobbiamo decidere seriamente come vivere; dobbiamo finalmente prendere una decisione seria, dobbiamo scegliere se stare con Lui, se stargli vicino, se ascoltare i suoi richiami, oppure lasciarci trasportare dagli eventi, lasciarci condizionare da ciò che ci circonda, bearci egoisticamente del presente. Dobbiamo quindi deciderci di nuotare controcorrente, di imitarlo come pastore, combattendo l’indifferenza e l’apatia di chi non crede, di seguirlo per quanto ci è possibile, anche nella gestione del suo gregge, offrendogli il nostro piccolo contributo, la nostra “sofferta” collaborazione. Sì, fratelli, perché in tal caso dobbiamo considerare anche la fatica, le sofferenze, perché immedesimarci in Lui ha un suo costo, talvolta anche alto, che implica sudore e sangue: essere come tutti, seguire l’andazzo del mondo, è estremamente facile; invece essere “unici”, esattamente come Dio ci ha pensati e voluti, ve lo assicuro, non è assolutamente una passeggiata; è un cammino tutto in salita, una scelta piena di rinunce, di sacrifici. Lo dobbiamo mettere in conto; ma in ogni caso dobbiamo scegliere, fratelli. Dobbiamo prendere una decisione. Avete mai pensato che, forse, l’insoddisfazione e l’amarezza che proviamo nel profondo il nostro cuore, può derivare proprio da questo nostro continuo rimandare, dalla nostra perenne indecisione, dal lasciarci vivere così come viene, dal non avere un ideale forte per cui combattere? Allora diventiamo padroni della nostra vita, fratelli: non facciamoci trascinare dagli eventi, ma viviamo come vogliamo noi, anzi meglio, come vuole Lui; mettiamoci nelle sue mani, e vedrete che ogni inquietudine, ogni amarezza, ogni dubbio scomparirà!
Imitiamo il nostro buon Pastore, la nostra guida: Egli ha sempre vissuto da uomo libero: Lui ha offerto in dono per noi la sua vita, e lo ha fatto spontaneamente; ha accettato una morte straziante e ignominiosa: nessuno l’ha costretto, né giudei né romani. Lui è il padrone assoluto della sua vita: tant’è che appena morto, se l’è immediatamente ripresa. Non sono stati gli scribi e i farisei a ucciderlo; è Lui che ha accettato e deciso di vivere la sua missione fino alle estreme conseguenze. Gesù “ha offerto la sua vita”, sapendo bene a cosa andava incontro. Ma lo ha comunque fatto. E Dio con la risurrezione se lo è “ripreso”, ha confermato cioè la sua libertà e la bontà delle sue scelte. Ecco, fratelli, è così che Egli ci ha indicato la via della vera libertà: e noi saremo liberi solo quando decideremo di vivere come Lui, prendendoci in pieno le nostre responsabilità e le conseguenze delle nostre decisioni.
Da qui nasce anche per noi, fratelli miei, il dovere di essere dei “buoni” pastori. Pastori in qualche modo lo siamo già tutti: chi non ha infatti qualche ruolo di guida, di responsabilità: il prete con i suoi fedeli; i genitori con i figli; i dirigenti, i capireparto con i loro dipendenti; l’amico con gli altri amici; il maestro con gli alunni, e via dicendo. Tutti in qualche modo siamo già coinvolti, siamo dei pastori: ma il vangelo di oggi ci insegna soprattutto come essere dei “buoni pastori”; ci sollecita cioè a prestare la massima attenzione alle nostre “pecorelle”, a coloro cioè che per qualunque motivo sono affidati a noi. Dobbiamo stare molto attenti a chi abbiamo di fronte. Non tutti siamo uguali, ognuno ha la sua sensibilità; non dobbiamo quindi “gestirli”, come se fossero della merce; non dobbiamo usarli; non dobbiamo umiliarli, non dobbiamo accentrarli esclusivamente su di noi, creando una dipendenza negativa. Non possiamo pretendere di occuparci noi di tutto, di sapere tutto, di intrometterci su tutto. Massima sollecitudine e conoscenza, questo sì, ma dobbiamo lasciare alle “pecore” il loro respiro, i loro margini. Altrimenti la nostra guida da dolce e attenta, potrebbe diventare autoritaria e sprezzante. Non riconoscere la loro libertà e dignità alle persone che ci seguono, significa soffocarle, umiliarle. Ricordiamoci che chi pretende di controllare tutto, col tempo perderà il controllo di tutto. La fiducia non è un diritto, si merita.
Essere buoni pastori vuol dire anche “credere” nelle proprie pecore. Credere che in ognuna di esse, pur se nascosto, c’è un fondamento di bontà. Dobbiamo credere in loro, dare fiducia, coltivare il seme buono che c’è in loro: con grande discrezione e umiltà.
Molti falsi pastori (dirigenti, capi, preti, genitori, politici) abusano del loro potere. Non sentono ragioni, comandano e basta. Spesso con disprezzo e cattiveria. Trattano i loro fratelli come se fossero degli oggetti, degli strumenti utili solo per il lavoro e basta; li fanno sentire privi di ogni dignità. Credere invece nelle proprie pecore, conoscerle, averne rispetto, vuol dire valorizzarle, perché nessuna è uguale all’altra. Guidare, essere pastori, significa stimolare, incoraggiare, aiutare le persone a tirare fuori il meglio di sé. Il loro compito è quello di precedere, di andare avanti, di affrontare per primi i pericoli, di prevenire, di condurre, di servire. In questo sta l’amore, fratelli. Questo è servire gli altri. Questo ci ha insegnato Gesù.
Pensate all’amore con cui Dio ci tratta: è immenso e ci tocca il cuore: ci commuove pensare che lui è sempre pronto, fedele, sollecito, misericordioso; che veglia continuamente su di noi, i fortunati, e anche su quelli che nella loro vita vagano ancora in cerca di un approdo, su quelli che non sanno ancora dove trovare il vero conforto, sui tanti disperati sparsi sulla faccia della terra, su quelli, uomini e donne, vicini e lontani, che aspettano angosciati una consolazione che non trovano.
Rileggiamo allora con calma, cari fratelli, questo brano bellissimo del vangelo di oggi; convinciamoci a prenderlo veramente sul serio. Lasciamoci toccare; diamo finalmente il loro nome agli ideali, ai progetti, ai modelli di vita, che ispirano le nostre scelte, il nostro cammino. A chi andiamo dietro noi? Di chi e di che cosa siamo ancora alla ricerca? Verso chi sono diretti i nostri passi? In definitiva, a chi abbiamo affidato la nostra vita? Al buon pastore che ci tratta da pecorelle o ai falsi pastori, i mercenari, che ci trattano da caproni? È una verifica urgente del nostro cammino di fede, che dobbiamo assolutamente affrontare.
Oggi tutta la comunità cristiana è unita al suo Signore, a quel Gesù che ancora si commuove sulle folle di questo mondo, per chiedergli con preoccupazione che non manchino gli operai nella sua vigna. E anche noi, di fronte a Lui e “ai campi che già biondeggiano per la mietitura” (Gv 4,35) nel profondo del nostro cuore, dobbiamo generosamente ripetere con il profeta (Is 6,8): “Ecco, Signore, manda me!”. Amen.

giovedì 19 aprile 2012

22 Aprile 2012 – III Domenica di Pasqua

«Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi»: (Lc 24,35-48).
I due di Emmaus tornano a Gerusalemme e raccontano agli altri discepoli la loro incredibile esperienza, di come cioè abbiano visto e riconosciuto Gesù; anche Pietro racconta il suo incontro con il Signore, e tutti sono a conoscenza dell’incontro che con Lui ha fatto la Maddalena, la mattina di Pasqua. Ma poi, quando Gesù appare a tutto il gruppo riunito, essi rimangono senza parole; rimangono di stucco, sorpresi, sconcertati, come se non sapessero nulla delle precedenti apparizioni, come se nulla fosse mai accaduto. Beh, non ci sembra un po’ strano questo comportamento? Cosa ci vuol dire Luca con questo particolare? Una cosa molto semplice: che l’esperienza del Signore Risorto, cioè il sentirlo vivo, presente e palpitante nella propria vita, è un’esperienza personale, privata, un’esperienza che ciascuno deve fare per sé. Quello che provano gli altri non ci colpisce più di tanto. E infatti Gesù dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”; toccatemi voi, uno alla volta, rendetevi conto di persona. Si tratta cioè di toccare, di capire, di percepire, di vedere con la mente e con il cuore, di rendersi conto che davvero Lui è vivo, che Lui c’è, che è qui al nostro fianco, pronto ad intervenire. E solo noi, ciascuno di noi, e nessun altro, può e deve fare questa esperienza. Non possiamo delegare gli altri. Non basta che gli altri “ci raccontino”; non ci basta sapere che delle persone, incontrando Dio, hanno rivoluzionato la loro vita. Non ci basta vederlo con gli occhi di chi gli crede, di chi lo sente vivo in sé; non ci basta sentirlo attraverso la passione di chi lo porta già nel cuore e nell’anima. Non ci basta neppure assistere ai miracoli, vedere persone guarite dalle loro malattie, solo per avergli dato piena fiducia. Niente ci basta, se non abbiamo noi stessi il coraggio di toccare, di lasciarci coinvolgere in prima persona, di metterci noi direttamente in gioco. Dobbiamo essere sicuri di Lui, dobbiamo poter contare individualmente su di Lui, dobbiamo credergli senza ombra di dubbio. Se dubitiamo di Lui, anche per un solo momento, nessun “surrogato” ci potrà mai bastare. E quando nasce questa nostra certezza? Solo quando lo avremo toccato con mano; solo quando ci avrà cambiato la vita, quando avremo scoperto la gioia dell’amore, della vera felicità; solo quando, dopo aver vissuto come morti o come portatori di morte, torneremo a sentirci vivi, a risentire la vita pulsare dentro di noi. Solo allora, fratelli, non avremo più dubbi; solo allora sapremo per certo che “Lui è vivo”.
La fede è un’esperienza, un incontro. Un incontro personale e diretto. Altrimenti la nostra fede è teoria, ipotesi, possibilità; soprattutto rimane dubbio. Un dubbio che non nasce per caso, ma che è radicato in noi, nelle nostre paure ancestrali, nella nostra diffidenza. Credere è un po’ come trovarsi per la prima volta di fronte al mare. Per capire cosa sia quella enorme distesa d’acqua che si apre davanti a noi, dobbiamo buttarci dentro, dobbiamo immergerci totalmente, sentirci “coperti”, avvolti dall’elemento acqua. Soltanto così la “sentiremo”, sentiremo l’effetto che ci fa'; e allora scopriremo che il mare è bello, scopriremo i suoi pericoli ma soprattutto il suo fascino e le sue potenzialità; scopriremo insomma che ci piace: un po’ alla volta, sperimentandolo di persona, passo dopo passo, ci diventerà familiare, amico. Ecco, credere è un pò come questo: se vogliamo sapere cos’è il mare, dobbiamo immergerci, bagnarci; se vogliamo sapere cos’è la vita, dobbiamo viverla attivamente, non trascinarla; se vogliamo sapere chi è Dio, dobbiamo toccarlo, sperimentarlo, viverlo. Altrimenti continueremo ad avere sempre e solo delle meravigliose idee su Dio, sulla vita e sul mare. Ma solo semplici idee. Che non possono bastarci. L’idea del cibo, fratelli, l’immagine di una tavola imbandita con opulenza, non ci potrà mai saziare: se non mangiamo sul serio, moriamo di fame!
Il dubbio non trascina, non coinvolge. Perché il dubbio è pigrizia, è paura. Al contrario vivere, sperimentare, mettersi in gioco richiede fatica, coraggio, un nostro personale volere; e forse per questo preferiamo dubitare. Perché, fratelli, fino a quando dubitiamo, finché ci trastulliamo con le più affascinanti “teorie” di questo mondo, non ci muoviamo, non facciamo nulla, non facciamo fatica, soprattutto non ci compromettiamo. Dubitare vuol dire avere tanti bei progetti, tante belle intuizioni, tanti pensieri nobili, per poi, al dunque, lasciarli così come sono, delle semplici idee. E questo, fratelli, significa in pratica non lasciarci “toccare”, non voler “toccare” Gesù; è il nostro modo di esprimere la nostra indisponibilità ad aprire a Gesù il nostro cuore. Tanta teoria, nessuna pratica. Comodo e indolore.
Anche gli apostoli del resto facevano fatica a credere: non credevano ai loro compagni di missione, ai loro amici di sempre; ma quel che è peggio non credevano che Gesù fosse risorto, pur avendolo lì davanti! Non gli credevano dopo aver visto le sue ferite, dopo che egli aveva mangiato nuovamente con loro; non gli credevano neppure quando Lui pazientemente cercava di spiegare loro il significato di quanto era successo, il senso degli avvenimenti, del perché fosse necessario che accadessero. Niente! La loro testa era chiusa ermeticamente. E, ripeto, loro lo avevano lì, di fronte ai loro occhi! Noi almeno, che non abbiamo avuto una tale fortuna, possiamo anche avere qualche attenuante in più per la nostra mancanza di fede;  ma non ne approfittiamo. Non nascondiamoci dietro ad un dito, non continuiamo a giustificare la nostra indolenza e la nostra poca voglia di incontrarlo, di conoscerlo: scuotiamoci invece, diamoci da fare, perché la fede richiede un cammino difficile; è una strada, un itinerario a volte molto impegnativo, che prevede una gradualità, un passo dopo l'altro, una lenta maturazione. Noi invece siamo quelli del “tutto e subito”, del “detto e fatto”. Ma per le cose spirituali, dell’anima o del cuore, fratelli, non funziona così. Vorremmo essere come il telecomando della tv o il pulsante che accende il computer: basta schiacciarlo e in un secondo tutto si apre, tutto appare chiaro e luminoso. Ma, dicevo, nella via della perfezione, della fede ardente, non funziona così! Tutto avviene per gradi. Ed è importante che sia così. Che meriti, infatti, che stimoli potremmo mai avere, se tutto si esaurisse in un attimo solo, automaticamente? Siamo degli “atleti”, diceva Paolo: e come tali dobbiamo correre, superare gli ostacoli, faticare, se vogliamo arrivare alla fede e conservarla. Perché è l'impegno, la gradualità, la perseveranza, che ci fanno capire quanto in verità noi desideriamo “toccare” Gesù, quanto cioè siamo motivati a seguirlo. Sono le contrarietà, la fatica, gli imprevisti che ci permettono di gustare giorno per giorno i nostri piccoli passi in questo cammino, che ci fanno constatare con gioia il progressivo avvicinamento a Lui.
Il vangelo dice che “Gesù apparve in mezzo a loro”. Solo due volte, a Maria Maddalena e a Pietro, Gesù, subito dopo la risurrezione, appare alla singola persona. Tutte le sue altre apparizioni avvengono in un contesto comunitario. Alla presenza cioè, di due o più persone. Che vuol dire? Abbiamo detto che l’esperienza di “toccare” Gesù deve essere personale, individuale. È vero, ma è un’esperienza che deve avvenire in un ambito comunitario. È importantissimo: queste parole ci indicano cioè che la nostra esperienza personale ha motivo di esistere, di svilupparsi, soltanto in determinati contesti: che nello specifico sono la Chiesa, le nostre comunità religiose, le nostre parrocchie, le nostre famiglie. Incontrare Gesù a nostro esclusivo uso e consumo non ha senso, considerarlo un privilegio esclusivamente personale, non farne parte con i fratelli, significa escludersi dalla comunità, tagliarsi fuori dalla “Ecclesia”, unico organismo in cui Cristo ha assicurato la sua presenza nello Spirito fino alla fine dei tempi.
È qui che deve succedere, è qui che possiamo sicuramente incontrarLo; e perché ciò avvenga, il vangelo ci suggerisce anche alcune strade preferenziali.
La prima strada, come abbiamo detto domenica scorsa, è l’incontro con le proprie ferite. Gesù mostra ai discepoli le mani, i piedi e il cuore trafitti. Sono il segno della sofferenza. Le mani rappresentano il nostro fare, il nostro agire, il costruire, il realizzare. Molti sono convinti che nella loro vita non ci sia più niente da fare, che ormai tutto sia compromesso. Ma non è vero! C’è sempre una nuova via, una nuova situazione, un nuovo progetto da prendere in considerazione. Le nostre mani devono diventare le “sue” mani, dobbiamo trasformarle nelle “sue”, essere noi ad agire per Lui.
I piedi feriti sono l’incapacità di camminare con le nostre gambe, di andare avanti, di percorrere il nostro cammino, di diventare noi stessi, di progredire nella via dello spirito. Per questo dobbiamo “risorgere” con Cristo: la “risurrezione” ci dice che tutto può cambiare, che possiamo farcela, che possiamo rivivere, che possiamo riplasmare con gioia la nostra vita, che possiamo darle nuovi impulsi, nuovi ideali, nuove direzioni. Ma che convergano sempre e solo “verso” di Lui, nella “sua” direzione; accettando a priori di fare sempre la sua volontà.
Il cuore trafitto è l’amore che viene ferito. Molte persone si sentono aride, impotenti di fronte alla loro situazione affettiva. C’è chi non vuole amare più: è talmente deluso, da essere convinto della propria incapacità di amare, di essere ormai insensibile e indifferente a tutto, di aver perso ogni fiducia nell’amore e nel prossimo. C’è chi si sente travolto, imprigionato, condizionato dai fatti dolorosi della vita. Ma c’è anche chi vuole lasciarsi andare, chi vuole amare ancora, chi vuole tornare ad essere vivo, innamorato, chi vuol rifare scelte importanti. Ma bisogna essere convinti di questo, perché se continuiamo a considerare queste aspirazioni al pari di inutili fantasie, di semplici progetti inattuabili, non approderemo mai a nulla: arriveremo soltanto alla nostra condanna, alla nostra fine. Il Risorto invece vuole che “tocchiamo” il suo cuore trafitto; perché solo così capiremo che il nostro cuore trafitto dalla vita, può sicuramente guarire; che da esso può ancora sgorgare vita vera, intensa, luminosa; e che quindi non possiamo tergiversare, ma agire di conseguenza.
La seconda strada è l’amicizia, la donazione. È creando legami di amicizia, di confidenza, di intimità fra le persone, che noi possiamo sentire Cristo vivo e chiaro, percepirlo in maniera forte. Solo se noi riusciremo ad aprirci al prossimo, a far colloquiare reciprocamente i rispettivi cuori, ci sentiremo accolti, amati; solo allora sentiremo nuovamente la gioia della vita pulsare dentro di noi; e allora non ci vergogneremo più di quello che siamo, ma troveremo nuova fiducia in noi e in ciò che facciamo, risentendoci nuovamente forti e potenti interiormente. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”: letteralmente è “dove due o tre cantano, sono in sintonia, sono in mezzo a loro”. Di quale altra occasione disponiamo per sentirci “comunità”, per sentirci in perfetta sintonia con gli altri, al di fuori dell’Eucarestia domenicale? È lì, soprattutto, che le nostre anime possono riconoscersi, unirsi, incontrarsi, per “incontralo”. Nella partecipazione, nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento. È lì che avremo la percezione chiara che Dio è presente; proprio lì, in mezzo a noi, con noi e fra di noi. È questa, fratelli, la “comunità” del Risorto, quella in cui Lui vuole incontrarci tutti di persona. E da qui poi usciremo fortificati a testimoniarlo ai fratelli. Approfittiamone, dunque!
La terza strada per incontrare il Risorto è l’ascolto e la comprensione delle Scritture. Gesù spiega agli apostoli le sue vicende, cos’è successo nei giorni immediatamente precedenti e perché è successo. Essi devono capire che tutto “doveva” succedere. Ebbene, fratelli, anche noi abbiamo bisogno di capire la “nostra” storia, di capire il perché della nostra vita, di conoscere quel filo rosso che lega le nostre giornate a Lui; perché c’è, e dobbiamo assolutamente trovarlo il significato, il senso, il collegamento. C’è ed è evidente: il vivere nostro e dei fratelli consiste nel fare esperienza del Signore Risorto: scoprire che nulla avviene per caso, che tutto converge a Lui, che tutto ha un senso ben preciso in Lui, che tutto avviene per un motivo che ci parla di Lui. E quando avremo questo motivo per vivere, allora qualunque situazione, anche la più difficile, diventerà superabile.
Abbiamo bisogno, come gli Apostoli, di capire il profondo senso del vangelo e della Bibbia. Siamo ancora molto ignoranti al riguardo, fratelli miei. S. Girolamo diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Ignorare le Scritture, significa non aver capito nulla di Cristo, del suo messaggio, della sua vita.
C’è ancora chi crede all’esistenza storica di Adamo ed Eva, di Caino e di Abele o dei patriarchi, esattamente come ci vengono proposti dalla Bibbia. C’e ancora chi guarda alla Parola come ad una cronistoria, una raccolta di fatti realmente accaduti e di personaggi storici realmente vissuti. C’è ancora chi crede che il Vangelo sia un semplice documentario di quanto Gesù ha detto e fatto, una specie di film girato da una troupe di qualche trasmissione televisiva o il resoconto di qualche giornalista, inviato speciale in Palestina. Siamo ancora troppo lontani da quello che realmente rappresenta la Parola per noi, fratelli miei. Abbiamo ancora bisogno di conoscere, di capire, di cercare la verità. A tutti i livelli.
Ecco perché dobbiamo contribuire anche noi a “rassicurare”, a formare comunità fondate saldamente sul Vangelo e non sulla creduloneria, sulla superficialità; a costruire comunità in cui la gente creda grazie alla loro ricerca personale, aderendovi con la propria anima e il proprio cuore; ecco perché dobbiamo annunciare e vivere per primi la persona di Gesù, e il suo autentico messaggio di amore.
Solo così “la verità ci farà liberi”. Anche se a volte potrà farci male, anche se a volte ci svelerà un mondo completamente diverso da come noi lo pensiamo e da come lo viviamo.
Tornare al Vangelo e a Gesù: questo è fare esperienza del Risorto. Perché è il Gesù del Vangelo, il Gesù risorto, che ci infiamma l’anima; sono le sue Parole che ci appassionano nel profondo, che ci riscaldano il cuore. Il Vangelo di Gesù, fratelli, non è un libro da leggere; ma è una Persona vera e autentica da incontrare, da amare, da far entrare nel nostro cuore. Amen.