venerdì 18 novembre 2011

20 Novembre 2011 – Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’universo

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra».
Con questa domenica si conclude l’anno liturgico. E come meditazione finale, la Chiesa ci propone una visione apocalittica: Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di accantonare nella nostra mente, ma che a tutti, inutile negarlo, incute una seria preoccupazione.
Di fronte a tale scenario noi restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio dal volto amoroso e compassionevole?
Due aspetti, quelli di oggi, che solo apparentemente sono in contrasto tra loro. Prima di tutto la qualifica di “Re” attribuita a Cristo: una denominazione altisonante e ieratica che male si adatta anche questa al Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: un Re che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi gli uni gli altri”; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che necessita di un cartello per essere identificato, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore. Che c’è di “regale” in tutto questo?
C’è poi la figura di questo giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: e, guarda caso, lo fa proprio nei confronti di coloro che Lui stesso ha talmente amato da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.
Ripeto: potrebbe sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa di “Cristo, Re dell’universo”, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi eletti, noi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero nascosto nei secoli.
Dire che Cristo è "sovrano" della nostra vita, significa riconoscere che solo in lui ha senso il nostro percorso di vita e di fede. E, permettetemi, è molto consolante, alla fine dell’anno liturgico, ribadire con forza, tutti insieme, questa nostra convinzione. Sì, fratelli, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto tale, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi a volere che fosse Lui a guidare la nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.
Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giusto e inflessibile giudice”; un re che Verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto gli abbiamo promesso; in una parola, se siamo stati o no all’altezza del suo amore, donando anche noi amore.
Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato”; e non lo farà neppure allora. Dio non giudica, fratelli, Dio “svela”. Dio cioè farà vedere quello che non abbiamo voluto far vedere, quello che noi ci siamo nascosti, quello che abbiamo lasciato appositamente nell’ombra.
Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la situazione reale di ciascuno, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nulla potrà più rimanere nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto apparirà nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato. E ognuno saprà da solo, senza bisogno di sentenze, se andare alla destra o alla sinistra del Re.
Il testo di Matteo pone una insistenza quasi puntigliosa su alcuni “bisogni”: fame, sete, essere forestieri, nudi, malati, carcerati; ed è in funzione della loro “soddisfazione”, che noi saremo chiamati a documentare pubblicamente il nostro operato: È chiaro che si tratta di una provocazione voluta: sono tutti “bisogni” che implicano “azione”, esigono cioè da parte nostra un amore concreto, attivo, un amore che non si deve fermare alle belle parole; un amore azione, interessamento, preoccupazione, un reale darsi da fare.
Ci sono milioni di uomini che muoiono di fame ogni anno: conosciamo bene questa realtà, perché ciclicamente viene riproposta all’attenzione del mondo da alcune organizzazioni internazionali. Ma parliamo, parliamo, e poi nessuno fa nulla: il nostro alibi è che c’è già chi ci deve pensare; e poi noi abbiamo il lavoro, la spesa da fare, mille cose da sbrigare, le pulizie di casa che non finiscono mai, guardare la tv, qualche meritato divertimento. Insomma ci sono tante cose per noi ben più importanti dei cinquanta milioni di morti di fame.
Ancora: un miliardo di persone bevono acqua non potabile, contraendo ogni genere di infezione, o ne sono completamente senza. Allucinante al giorno d’oggi. E noi che facciamo? Anche qui grandi conferenze, grandi parole, grandi convegni. Certo per noi è facile parlare, con il frigo e la dispensa pieni di bevande, o con l’acqua potabile che scorre in abbondanza quando apriamo il rubinetto di casa. Anzi, guai se per caso dovessero temporaneamente sospenderne l’erogazione: andremmo in mille escandescenze. Ci arrabbieremmo. Per così poco? Dovremmo invece pensare un pò di più a chi non ce l’ha mai, a chi muore per la sua mancanza!
I forestieri sono i vicini, quelli che vivono attorno a noi: sono gli immigrati, quelli che vengono da altre città, quelli che abitano qui per lavoro, quelli che per necessità hanno abbandonato il loro ambiente, la loro famiglia, quelli che non hanno amicizie o compagnie. Forestieri sono anche persone che conosciamo, persone anziane, colleghi di lavoro, che per i motivi più disparati non hanno nessuno con cui condividere una gioia, una bella notizia, un dispiacere; non hanno nessuno con cui passare qualche ora, andare al cinema, passeggiare, mangiare una pizza. Piccole cose di una serena convivenza. Ma tanto si sa, noi siamo a posto: noi gli amici li abbiamo già, che possiamo farci?
I nudi sono quelle persone che nessuno copre, che nessuno difende, che nessuno considera; quelli che sono privi di qualunque conforto umano, che vivono alla deriva, ai quali viene negata la loro dignità di persone: una esagerazione? Nossignori; facciamo un giro per le grandi città, nelle periferie, e ce ne renderemo conto!
I malati. Quante persone sono malate nel fisico o nell’anima. Per chi è in ospedale, nella solitudine, avere qualcuno vicino è come vedere la luce alla fine di un tunnel completamente buio. Quando un malato è triste, disperato, quando non intravvede alcuna soluzione possibile, quando si sente infermo anche nell’anima, quando con tutte le forze cerca qualcuno che si interessi a lui, che lo ascolti, che condivida le sue sofferenze, ecco: avere questo qualcuno vicino potrebbe essere la sua salvezza. Noi, come ci comportiamo in proposito?
Le nostre carceri sono sovraffollate. Ma non è solo questo il dramma. Il dramma è la solitudine, lo squallore di certi ambienti. Il dramma è che il carcere è un’onta dalla quale non ci si riprende più. Il dramma è che nessuno vuole più il carcerato nel mondo del lavoro, nella società. Il dramma è che se uno non era un criminale incallito, in carcere impara a diventarlo. Hai voglia a strombazzare di “recupero”: spesso la cura è peggiore del male. Non possiamo proprio far niente in proposito?
Ecco: il “tesario d'esame” è questo: situazioni che esigono tutte un nostro coinvolgimento. Non grandi cose, ma anche piccole condivisioni, una fraterna comprensione, un piccolo slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un pio desiderio. Ripeto: non saremo giudicati sui nostri pii propositi; non saremo giudicati su quello che avremmo voluto fare, se avessimo avuto tempo o possibilità; non saremo giudicati sulle nostre buone intenzioni, ma su ciò che concretamente abbiamo fatto, su come l’abbiamo fatto, sulla nostra buona volontà.
Dopo l’esame personale di ciascuno, il testo del Vangelo introduce, come risultato, due possibilità diverse, due destinazioni opposte, in funzione dei singoli comportamenti: una per gli eletti, l’altra per i condannati. Uno è invece l'elemento che giustifica questa scelta: una domanda accorata che sgorga da entrambe le schiere: consolante per i primi, tragica e disperata per i secondi: “Quando Signore?”. Già, “quando”? Nessuno se n'era accorto; nessuno aveva capito di aver avuto a che fare non con dei bisognosi, ma con Dio in persona: non ci avevano mai pensato. Sì, fratelli, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è in incognito, è misterioso. E tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato senza rendersene conto: gli uni hanno amato l’uomo e, pur non vedendo in lui Dio, lo hanno comunque amato; gli altri, non amando l’uomo, hanno rifiutato anche Dio.
L’amore per Dio, quando si ama il prossimo, è un amore inconsapevole, inconscio. Nessun santo sapeva di essere santo amando il prossimo. Chi ama Dio non “sa” di amarlo. Se noi amassimo uno sapendo che poi erediteremo le sue ricchezze, è chiaro che lo stiamo usando. Lo stessa cosa succede quando noi amiamo il prossimo per avvicinarci a Dio! Anche in questo caso noi stiamo usando qualcuno. Perché, se noi amiamo il prossimo semplicemente per essere dei cristiani in regola, per sentirci a posto con Dio, perché c’è un comandamento che ce lo impone, scusate, ma che razza di amore è il nostro? Stiamo veramente amando, o stiamo facendo dei progetti per il futuro? L’amore non va mai strumentalizzato; in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio. Pertanto, e lo ripeto per maggior chiarezza, non “dobbiamo” amare il prossimo per “amare Dio”, perché in questo modo lo facciamo per nostra comodità, per avere un tornaconto, elevato quanto si vuole (Dio), ma pur sempre un tornaconto. Invece il fratello, il prossimo, va amato per se stesso, perché ci entra dentro l’anima, perché il suo volto ci penetra dentro, ci tocca il cuore.
La prima preoccupazione di chi cerca la perfezione, è di sapere se la sua vita è gradita o no a Dio, se piace o no a Lui, di sapere se è bravo o no, se ha fatto giusto il suo compitino: non lo saprà mai. “Quando Signore?” Nessuno lo sa: d’altronde, se Dio venisse qui da noi in veste ufficiale, tutti faremmo a gara per aiutarlo, per metterlo a suo agio, per farcelo immediatamente “amico”; vorremmo ovviamente entrare tutti nelle sue grazie, tra i suoi intimi, perché tutti vorremmo essere presentati da Lui al Padre, essere considerati bravi figli, bravi discepoli. Ma Dio non è visibile in questo mondo, fratelli; se lo fosse, amarlo sarebbe molto facile per tutti; difficile è invece amarlo senza vederlo, amarlo nell’altro, nel prossimo, nello sconosciuto, nell’uomo della porta accanto. Diceva Madre Teresa: “Non so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio”.
C’è dunque una diversa destinazione: quelli a destra, sono i salvati; quelli a sinistra, i dannati. Ma perché mai “destra” e “sinistra”?
La destra, per gli antichi, è il segno della luce, della ragione, di chi vede le cose e se ne preoccupa. La sinistra, invece, è segno del buio, dell’inconsapevolezza, del non accorgersi, del disinteresse. Ecco, la differenza tra i due schieramenti è proprio qui: c’è chi si lascia toccare, colpire, segnare da chi incontra, c’è chi gli parla, chi si immedesima con lui, e chi, invece, alza una barriera, si protegge, si schernisce, si difende. La differenza quindi è tra chi “sente” la vita dell’altro e vi partecipa con la sua, e chi al contrario ne rimane fuori, non entra, non si lascia coinvolgere, non si lascia toccare da ciò che l’altro vive; rimane insensibile, indifferente, schermato, menefreghista.
C’è una parola moderna che stabilisce bene ciò che differenzia le due schiere: è l’“empatia”.
Empatia vuol dire infatti entrare dentro, sentire dentro; percepire, cioè, quello che anche l’altro percepisce. Viene dalla parola greca “patos” - che vuol dire sentire, patire, e indica un sentimento forte e profondo, simile alla sofferenza - e dalla desinenza “in” che vuol dire dentro.
L’empatia è dunque la capacità di lasciarsi toccare dalle persone. Noi piangiamo con facilità davanti alle scene commoventi di un film, ci identifichiamo con i nostri campioni sportivi ed esultiamo con essi per la vittoria. Ma ci risulta difficile “sentire” cosa l’altro sente, “vivere” quel che l’altro vive; non riusciamo a percepire il suo dolore, la sua sofferenza, l’intensità delle sue parole e dei suoi gesti. Non siamo in sintonia con lui, gli siamo fuori e lui non ci è dentro. In questo caso, fratelli, non può esserci amore: dove c’è distacco, divisione, non esiste amore. L’amore è invece vicinanza, è unione, è entrare dentro l’altro: è, insomma, “empatia”, un sentimento che ci cambia, che ci fa diversi, che ci modella, che ci fa vedere le cose da altre prospettive.
Ma il vangelo non si esaurisce qui: lo stesso impegno che dobbiamo avere verso il prossimo, dobbiamo averlo anche verso noi stessi; dobbiamo cioè soddisfare, oltre quelli degli altri, anche i nostri “bisogni”. Sì, fratelli, perché succede anche a noi di essere affamati, di essere assetati, e dobbiamo quindi darci da “mangiare e da bere”. Chi di noi non ha fame d’amore? Chi di noi non ha sete di dolcezza? Chi di noi può dire: “Io basto a me stesso! Io non ho bisogno di nessuno!?” Solo un pazzo, solo un esaltato. Dobbiamo invece tener sempre nel giusto conto anche il nostro bisogno di amore, di tenerezza, di affetto, di complimenti; di stare con persone che ci amano, che ci apprezzano, che ci stimano, che hanno fiducia in noi.
L’amore è come la ricarica per il telefono, la benzina per l’auto, il cibo per il corpo. Non se ne può fare a meno. Non possiamo lavorare, faticare, correre in continuazione, e pensare di poter resistere senza alcuna ricarica.
Ascoltiamo dunque i bisogni del nostro cuore, della nostra anima: ascoltiamoli attentamente perché capita anche a noi di sentirci forestieri e carcerati; anche noi ci sentiamo talvolta di vivere in un mondo ostile, estranei a tutti e a tutto: ed è qui, in questo momento, che abbiamo bisogno anche noi di accoglienza, di un consiglio, di una buona parola, di assicurazioni.
Invece spesso noi ci teniamo tutto dentro. Neghiamo a noi stessi di aver bisogno di aiuto. Siamo così orgogliosi da preferire di star male, piuttosto che ammettere la nostra debolezza. Ma il nostro orgoglio non ci ripaga mai, fratelli, ricordiamocelo. Se ci sentiamo tremendamente soli, forse dipende dal fatto che non vogliamo nessuno vicino a noi. Se talvolta gli altri non ci amano, forse siamo noi che non vogliamo farci amare!
Quando ci guardiamo nello specchio dell’anima, succede a volte di sentirci nudi, di vederci cioè per quelli che siamo in realtà, al di là di tutte le maschere e i camuffamenti con cui ci travisiamo, e ci assale un senso di rifiuto per noi stessi. Non ci vorremmo così; ci vorremmo diversi; ci vorremmo migliori; vorremmo non vivere certe cose e non fare certi pensieri. Ecco, è proprio in questi momenti che ci dobbiamo amare e accogliere per quello che siamo. È difficile, ma dobbiamo accettarci così, capire che dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità, che possiamo ammalarci e avere bisogno di aiuto; che in questi casi dobbiamo ricorrere a qualche “medico”, che illumini le nostre ombre. Un “medico”? Sissignori: perché quando il nostro cuore si irrigidisce e rifiuta di aprirsi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra mente insiste nella ripetizione maniacale di certi schemi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra anima non riesce più a vivere, a gioire, a stupirsi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando il nostro spirito si rifiuta di perdonare, allora soprattutto abbiamo bisogno di un “medico”. Non possiamo pretendere di essere Dio e di risolvere tutto da soli. Non possiamo pensare di essere onnipotenti e di bastare a noi stessi. Non possiamo infine essere così stupidi di credere di non aver bisogno dell’aiuto di nessuno, neppure di Dio.
È una faccenda molto seria, fratelli. Perché alla fine dei tempi, davanti al Cristo in maestà, al Re dell’universo, dovremo dare testimonianza anche su questo.
Il risultato? “I maledetti al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”. Non c’è alternativa.
Fratelli miei: mettiamo allora da parte il nostro bel “taccuino” su cui abbiamo segnato puntigliosamente le ore di preghiera, le messe e le confessioni, le opere buone e i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; nonché le eventuali giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quanto ci è stato detto. Mettiamo da parte tutti i nostri bei discorsetti. Perché il Signore ci chiederà soltanto se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nel solo, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì: avete capito bene. Il giudizio sarà tutto sulla carità che abbiamo praticato. E sul cuore con cui l’abbiamo praticata.
La nostra messa domenicale, fratelli, non può, non deve esaurirsi in Chiesa: deve continuare fuori, nella vita quotidiana. Perché solo così la preghiera, l'eucarestia, la confessione, diventano strumenti di comunione e di amore col Cristo e tra di noi; solo così potremo fare della nostra vita il luogo della carità. Nel lavoro, nello studio, a scuola o all’università, nei lavori di casa o in ufficio, per strada a piedi o in macchina: è qui che noi ci salveremo. Ma solo, e sottolineo solo, se sapremo portare il nostro amore da dentro a fuori, da vicino a lontano, se sapremo riconoscere il volto del Cristo adorato nel volto di chi incontriamo ogni giorno.
Non c’è altro da dire, fratelli. Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro. Ma viviamo così da oggi, da ora, da subito, immediatamente; perché in quel giorno non avremo più tempo di far nulla, tutto sarà già compiuto. Allora Cristo sarà nostro Signore e Re nei secoli eterni se avremo amato veramente, diventando trasparenza della sua misericordia e testimoni credibili della sua compassione. Amen.


venerdì 11 novembre 2011

13 Novembre 2011 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì…».
La parabola è semplice: c’è un padrone che affida i suoi beni, i talenti, ai suoi tre servi che, di fronte alla sua iniziativa, assumono due atteggiamenti contrastanti: i primi due, molto attivi, si danno da fare, investono, rischiano e fanno fruttare il capitale; il terzo, al contrario, si lascia prendere dalla paura, dallo sgomento, si emargina e pensa bene di nascondere la somma ricevuta piuttosto che impegnarsi nel capitalizzarla. Al rendiconto finale i primi due riceveranno una ricompensa molto più sostanziosa di quanto essi stessi abbiano guadagnato, mentre il terzo verrà condannato per la sua inattività, per il suo inutile isolamento che lo ha portato ad una gestione dei beni affidatigli totalmente negativa.
L’insegnamento che si può cogliere da tale parabola è ovviamente quello classico: “Metti a disposizione di Dio e del prossimo i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità e datti da fare, investi con intelligenza questo capitale, in maniera che anche gli altri ne traggano beneficio; non trascurarlo, di qualunque entità esso sia, non nasconderlo senza fare nulla, perché procureresti un grave danno a te e al prossimo”.
Abbiamo parlato di “talenti”, ossia di doni, di potenzialità, di carismi che ognuno di noi in varia misura ha ricevuto gratuitamente da Dio: identificarli e applicarli alla nostra vita pratica, è molto semplice. C’è da dire, prima di tutto, che ci sono “talenti” che di solito non li pensiamo immediatamente come “dono”, e che invece meritano tutta la nostra considerazione, meritano di essere trattati con estrema cura e messi doverosamente a frutto.
Per esempio: un talento importantissimo è la vita; un capitale, un dono incredibile e irripetibile la vita, cui spetta ogni attenzione e cura: ci pensiamo mai a tanta responsabilità? Vogliamo forse buttarla via, declassarla, svalutarla, preferendo l’isolamento materiale e mentale, l’ignoranza, l’autodistruzione, piuttosto che la crescita nei nostri ruoli, nelle nostre possibilità, nei nostri meriti, in vista dell’inserimento finale nel regno?
Un talento altrettanto importante è la libertà: ci è stata data la possibilità di essere sempre noi stessi, di assumerci la responsabilità delle nostre azioni, di coltivare idee nuove, di lottare per un “nostro” ideale; approfittiamo di questa opportunità per combattere, per lottare e vincere, oppure preferiamo nasconderci, accomodanti e indolenti, accettando qualunque compromesso pur di evitare i giudizi della gente, ai quali abbiamo condizionato la nostra vita?
Altro talento da sviluppare è la verità: come la vediamo? la cerchiamo caparbiamente, vogliamo trovarla, viverla, costi quel che costi, osando, rischiando se necessario anche la faccia? oppure preferiamo nascondere stupidamente l’evidenza, vivere nell’ignoranza, chiudere gli occhi della mente, perché la sua luce, la sua chiarezza, la sua splendida trasparenza ci incutono troppa paura?
Un altro talento ancora è la nostra “chiamata”, la nostra vocazione: talento preziosissimo. Come lo curiamo? Lo viviamo con generosità, con entusiasmo, perché sappiamo che rappresenta la volontà di Dio? Rispondiamo al suo invito, accettiamo senza indugio il ruolo che Lui ci ha assegnato, senza condizionamenti e meschini “distinguo”; viviamo le conseguenti contrarietà e sacrifici, accettandoli con animo gioioso, consapevoli che essi sono strettamente legati al progetto di vita che Dio ha previsto per noi? Oppure pensiamo di vivere rinunciando a noi stessi, a tutte le nostre concrete possibilità di servizio, nascondendoci dietro al pretesto di non essere all’altezza di alcuna chiamata? Ci trasciniamo stancamente in una esistenza piatta, priva di ideali e di interessi? Ma, fratelli, ci pensiamo mai a come potremo giustificarci poi?
Un altro talento, infine, è soprattutto la nostra anima: forse il più dimenticato, pur essendo la nostra essenza, quel soffio di vita che il creatore ci ha donato con la nascita. L’anima: la nostra amica, la nostra consigliera, la nostra confidente. Cerchiamo con tutte le nostre forze di farla crescere, maturare, sviluppare, oppure preferiamo accantonarla, lasciarla lì a dormire, a vegetare, inascoltata e tradita; in altre parole non è che la lasciamo morire di inedia, solo perché abbiamo paura di confrontarci con Lui attraverso di lei?
I nomi che possiamo dare ai vari talenti, come abbiamo visto, possono essere tanti. Ma il possesso di ciascuno, anche di uno solo, presuppone sempre un comportamento responsabile, un lavoro costante, attivo e propositivo: rinunciare a ciò con un atteggiamento di menefreghismo, di abbandono, di indifferenza, significa cedere inesorabilmente alla paura, all’indolenza, all’ignavia, alla codardia.
È da questa serie di sentimenti negativi che noi dobbiamo guardarci, fratelli; la vicenda del terzo servo ce lo insegna: perché egli fu indubbiamente vinto dalla paura; anzi da un insieme di paure che lo spinsero a seppellire il proprio talento, vanificandone qualsiasi potenzialità.
Sono sentimenti, questi, sempre di grande attualità, sempre negativi e invalidanti, che meritano quantomeno una veloce analisi.
La prima paura è quella del “confronto”, del giudizio della gente: il servo ha il terrore di come gli altri potrebbero valutare le sue iniziative. Avverte un ingiusto svantaggio perché, con un solo talento in dotazione, si sente nettamente inferiore agli altri, meno dotato di loro, e quindi rifiuta categoricamente di dimostrare anche quel poco che ha, quel poco che è, pur avendo una sua realtà, una sua innegabile dignità. Sembra dire: “Io, con un solo talento, sono il più sfortunato! Loro ne hanno tanti! Io non ho le stesse possibilità. Non posso rischiare di sbagliare, ho soltanto questo talento e me lo devo tenere molto stretto. Del resto la colpa non è mia; è del padrone che me ne ha dato uno solo!”. Ma il padrone, che gli legge dentro, lo redarguisce: “Malvagio, bugiardo, falso: vuoi giustificare la tua stupidità, la tua inefficienza, la tua pigrizia, dando la colpa a me? Vuoi giustificare la tua paura di rischiare, dicendo che l’hai fatto per me? Prenditi le tue responsabilità. Fuori da qui, nelle tenebre!”. E questo, fratelli, la dice lunga: perché chi vive senza far niente, nell’abulia, nel disinteresse, rinunciando a qualunque iniziativa, finisce inesorabilmente nelle tenebre del nulla!
Quando uno comincia a chiedersi se è più dotato degli altri, se è migliore o peggiore, se l’altro è più o meno bravo di lui, se ha più soldi, più intelligenza, più simpatia, più consensi, più donne… beh, allora vuol dire che è già sulla buona strada per rovinarsi da solo.
Nella vita, fratelli miei, ci sarà sempre qualcuno inferiore a noi, che noi puntualmente disprezzeremo; ma soprattutto ci sarà qualcuno superiore a noi, che noi, altrettanto puntualmente, invidieremo con tutto il cuore, approfittando della cosa per commiserarci e per piangerci addosso dalla rabbia. Le persone si rovinano perché non guardano mai a loro stesse, a quel che sono, a quel che possiedono, alle loro possibilità; ma guardano sempre con invidia agli altri: a quel che hanno, come vivono, cosa fanno. Pensate all’assurdità del comportamento di questo disgraziato che, frastornato dalla ricchezza dei colleghi, nasconde agli occhi di tutti, sotterrandola,l’unica cosa preziosa che è veramente sua, di cui potrebbe invece andarne fiero: preferisce non confrontarsi, si limita a guardarli da lontano in azione, macerandosi nell’invidia e nello sconforto. Non riesce ad accettare che essi siano più bravi di lui, e rinuncia stoltamente alla possibilità concreta di esprimere umilmente quello che lui è e quello che sa fare.
Non sono pochi, fratelli miei, quelli che si comportano così; sono più di quanti ne possiamo immaginare: si credono umili, remissivi, provati e tartassati dalla vita pur essendo dei giusti e timorati di Dio; si sentono bravi e santi, perché fanno delle rinunce (che poi non volontarie, e meritorie ma inevitabili, imposte dalla vita); in realtà sono pieni di orgoglio, rinunciano a fare perché hanno paura di rischiare, di mostrarsi deboli e insicuri, di essere giudicati negativamente. E così perdono ogni dignità, ogni credibilità; e per questa loro ossessione, vivono decisamente male, nei pregiudizi e nelle paure.
La seconda paura del servo, sicuramente quella determinante, è la paura che gli deriva dall’immagine distorta di Dio che egli si è fatta. Quest’uomo prova nei confronti di Dio soltanto paura, un sacro terrore: «Signore so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra» (25,25).
Ma che Dio è questo, fratelli miei? Chi non sarebbe terrorizzato, paralizzato, da un Dio implacabile che non ammette errori? Che idea di Dio si è mai fatta questo poveraccio? Come avrà fatto? Che razza di uomo è? Semplice, fratelli: è un uomo che agisce in maniera speculare all’immagine di quel Dio che lui stesso si è costruito nel suo intimo. In altre parole, lo stesso terrore che ho nei confronti di Dio, lo nutro anche nei confronti di me stesso: ho una paura folle di vivere, di quello che potrebbe rivelarmi la mia anima; ho il terrore di ascoltarmi, di vivermi. Se invece sono convinto che Dio è amore, allora la mia vita è serena, posso guardarmi tranquillamente dentro l’anima, dando nome e spazio a tutto ciò che di bello vi trovo. Se Dio mi ama, mi sento di provare, di rischiare e anche di sbagliare, ma sono comunque tranquillo, so che Lui mi ama, mi consola, mi perdona: la condanna arriva soltanto se non ne può fare assolutamente a meno, e dipende sempre e soltanto da me, mai da Lui. Se Dio per me è fiducia, mi spingo ad osare, volo sempre in alto; non mi rinchiudo in una falsa sicurezza, nel terrore e nel legalismo. Se Dio per me è Vita, mi riesce naturale vivere, espandermi, realizzarmi; trovo invece assolutamente innaturale lasciarmi appassire, lasciarmi morire.
È proprio così, fratelli: se ho paura di Dio, non posso vivere; se penso di non poter vivere, vuol dire che ho paura di Dio; non c’è alternativa. Gravissima malattia, fratelli, quella di pensare Dio come un padrone autoritario, un giudice severo, spietato e inappellabile. Una malattia che anche in un passato non troppo lontano mieteva le sue vittime. Nell’educazione dei giovani del mio tempo veniva inculcata la paura di Dio, il terrore delle conseguenze implacabili del peccato, il terrore di affrontare per causa sua pene indescrivibili, fiamme e fuoco eterni. Si viveva nel terrore del peccato – e una volta tutto era peccato, proprio tutto – nel terrore di perdere la grazia, di sbagliare, di commettere qualcosa di non gradito a Dio: con il risultato di creare in essi una concezione distorta di Dio. Io stesso ho conosciuto più tardi persone che, condizionate allora da questa terrificante immagine di Dio, sono cresciute con una personalità bloccata, sterile, rigida, vuota; persone incapaci di amore e di umanità; persone che magari si buttavano nella preghiera, persone devotissime, sempre in chiesa per rosari e giaculatorie, ma che avevano un’anima priva di Vita, perché non conoscevano la gioia e la felicità dell’amore di Dio.
Ebbene, Dio non è così, fratelli! Non è quello il nostro Dio: se noi lo temiamo soltanto, se abbiamo solo terrore di Lui, vuol dire che di Lui non abbiamo capito nulla, vuol dire che dobbiamo immediatamente cambiare idea. Perché Lui è soprattutto amore; è Lui stesso che ci sussurra amorevolmente: “Venite a me voi tutti… affaticati e oppressi, ed io avrò cura di Voi”. Ascoltiamolo!
Una terza paura è quella legata all’insicurezza. Il servo del Vangelo ha paura di sbagliare. Non vuole fare errori; ma proprio perché non li vuol fare, compie l’errore più grande. Vorrebbe controllare ogni minima sfumatura della sua vita, renderla assolutamente sicura, in tutto. Ma non si può! Non ci si può proteggere da tutto e da tutti; non si può vivere convinti di non sbagliare mai. Pensare così significa pretendere la perfezione assoluta, umanamente impossibile: in realtà equivarrebbe a non vivere. Perché vivere è sì crescere, diventare migliori, più profondi, inseriti nel mistero della vita. Ma vivere è anche sbagliare, innamorarsi, perdersi e ritrovarsi; chiudersi e aprirsi; andare anche in depressione, in fallimento, in crisi, ma poi rialzarsi. Vivere è piangere, è ridere. Vivere è sentirsi addosso tutta la tristezza del mondo, percepire in certi giorni un dolore profondo, antico, ancestrale; ma vivere è provare anche quella felicità ed ebbrezza che ci fanno sentire beati e felici già su questa terra. Ecco: volersi precludere tutto questo è precludersi la vita.
L’uomo del vangelo ha paura del padrone e cerca di tutelarsi. Vuole essere certo di piacergli, e non si accorge che la paura lo costringe a fare scelte sbagliate di se stesso e della sua vita. Purtroppo chi vuol controllare tutto - e lo fa per paura, perché sente di non essere in grado di affrontare e gestire la situazione - alla fine perde il controllo di tutto. Chi nella vita cerca solo sicurezze, è fondamentalmente un debole, uno che ha paura di se stesso, e che finisce sicuramente per sbagliare.
«Per paura andai a nascondere il tuo talento». Una paura folle, quella del servo, dovuta anche alla sua insicurezza. Sì, perché l’insicurezza chiude, quando invece l’amore e la fiducia aprono. L’insicurezza evita, la fiducia incontra. L’insicurezza crea paura e diffidenza, la fiducia amore. L’insicurezza crea sospetto e pregiudizio, la fiducia complicità. L’insicurezza fa vedere tutti gli uomini come dei nemici, la fiducia come semplicemente delle persone, delle nuove possibilità d’incontro. L’insicurezza ha bisogno di combattere, di difendersi, di proteggersi, di mettere barriere; crea ansia, crea controlli e difese su tutto.
Abbiamo paura del giudizio degli altri? Tranquilli: è la vita. Non potremo mai impedire agli altri di pensare e di parlare, qualunque cosa facciamo, in qualunque modo la facciamo. Accettiamo allora che essi possano non essere d’accordo con noi, che possano non capirci o fare scelte diverse, perché noi tutti siamo venuti a questo mondo non per rispondere alle aspettative altrui, ma per vivere la nostra vita, per capitalizzare quel grande talento che Dio ci ha affidato. E dobbiamo farlo combattendo sempre, provando e riprovando, nonostante la paura e l’insicurezza. Anzi, dobbiamo combatterla proprio, l’insicurezza, perché è nemica dichiarata della fede, del nostro “credo” fiducioso.
E concludo: penso, fratelli, che l'insegnamento per noi e per i nostri giovani che crescono con la mentalità di oggi - che privilegia il divertimento, il consumismo, le chiacchiere inutili – sia proprio questo: nella vita, sia materiale che spirituale, bisogna impegnarsi sempre, ricominciare sempre da capo, non arrendersi mai; vivere intensamente, senza pause, senza soste, senza “intermezzi”; questa è la prospettiva giusta: perché per un cristiano il tempo libero non esiste: fino a quando c'è tempo e vita, egli deve essere in azione, deve darsi da fare per il Signore, per il prossimo, per la Chiesa, per la società. Un cristiano inattivo, che non faccia nulla, che si consideri in “vacanza”, che abbia nascosto il suo talento per tenerlo al sicuro senza preoccupazioni, è semplicemente inconcepibile. Vivere solo per cose futili, senza mai trovare il tempo per un incontro, un'attività, una collaborazione, una presenza, non è vivere da cristiani: significherebbe venir meno agli impegni di fede, di preghiera, di carità, con tutto quel che segue. La vita di chi vuol seguire Cristo è una vita in continua tensione, nel bene, nella carità, nelle opere buone. Non possiamo arrenderci mai, fratelli miei, neppure quando, avanti negli anni, pensiamo di aver raggiunto il nostro meritato “traguardo”: niente di più falso; perché quello che abbiamo guadagnato per Dio, durante tutta la nostra vita, sarà sempre nulla, una miseria, rispetto a quello che abbiamo ricevuto da Lui.
Non imitiamo, fratelli, il terzo uomo del Vangelo che si sente in regola nella sua inefficienza: noi, che ci dichiariamo discepoli di Cristo, noi che abbiamo avuto in consegna da Lui, tutti indistintamente, un “talento” importantissimo, che è l’amore di Dio, noi, dobbiamo impegnarci seriamente a metterlo a frutto: ogni giorno, instancabilmente. È un “talento”, un tesoro, di inestimabile valore; non lasciamolo inerte, non trascuriamolo, perché il nostro vivere, il nostro crescere, il nostro dare frutto, sono strettamente proporzionali all’offerta che di esso ne facciamo agli altri.
Sì, fratelli, possiamo aumentare il nostro guadagno da presentare al Padre, elargendo la carità e l’amore avuti da Dio, ai nostri fratelli: in parrocchia, nella società, in famiglia, negli ambienti in cui viviamo e lavoriamo. Le opportunità per realizzare questa nostra missione, sono anch’esse altrettanti doni che Dio ci ha affidato, altrettanti “talenti”: e anche su questi dovremo rispondere a Lui. Pensiamoci con calma ma seriamente, fratelli: perché è un vero delitto perdere qualunque opportunità di dimostrare al mondo che Dio è Amore. Amen.


giovedì 3 novembre 2011

6 Novembre 2011 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono…»
La parabola delle dieci vergini che aspettano lo sposo, ci invita a pensare alle cose ultime della nostra vita, alle cose veramente importanti, a quelle che sistematicamente accantoniamo, quando invece dovremmo pensare più spesso e più seriamente che in questo mondo non ci stiamo in pianta stabile, che siamo solo provvisori, perché la vita non è nostra.
Abbiamo ricordato da alcuni giorni i nostri cari defunti che ci hanno preceduto là dove anche noi dovremo un giorno andare. Si, fratelli, perché, anche se non ci pensiamo, non rimarremo eternamente su questa terra. La vita è soltanto un passaggio: il cammino da un punto di partenza ad uno di arrivo, dalla nascita alla morte: nessuno può esimersi; giorno dopo giorno, il nostro nome sta avanzando inesorabilmente sulla lista dei chiamati; siamo tutti in attesa del nostro turno per l’incontro finale con lo Sposo, il nostro Creatore e Signore.
Ecco, sono proprio queste due le parole importanti che ci vengono proposte alla meditazione dal Vangelo di oggi: “attesa” e “passaggio”.
“Vigilate, tenetevi pronti, perché non sapete quando il vostro Signore verrà".
La nostra vita è prima di tutto “attesa”. Una definizione curiosa, con un significato molto intrigante: attesa di chi? di che cosa? per quale motivo mi devo condizionare la vita nell’attesa di un qualcuno che viene quando piace a lui? Certo, tra le mille preoccupazioni quotidiane, quella dell’attesa di Dio non rientra proprio tra i nostri pensieri più importanti. Abbiamo ben altro cui pensare. Se però riflettiamo un poco, ci rendiamo conto che l’attendere, l’aspettare che qualcuno o qualcosa si materializzi nella nostra vita, è una categoria mentale che è parte integrante del nostro comportamento. Tutti, in qualche modo, siamo in “attesa”: in genere ciò che aspettiamo, proviene dal mondo che ci circonda, proviene da altri, dall’esterno: un qualcosa che ci spetta quasi di diritto e che prima o poi deve arrivare: dal lavoro, dai figli, dalla famiglia, dagli anni che passano. Costruiamo esperienze, proviamo emozioni, ci struggiamo per ottenere risultati, sia nell’immediato che per il domani. E ci aspettiamo quindi le conseguenze: perché tutto ciò che facciamo, in fondo, è motivato soltanto dal desiderio, anche se inespresso, di avere in cambio un beneficio concreto: essere felici, essere appagati e ripagati, avere il cuore ricolmo, sazio, soddisfatto. Questo è naturale per tutti.
Ma per chi ha fede, anche se spesso superficiale e di maniera, l’attesa assume un valore più importante e impegnativo, è un qualcosa di più intimo, di soprannaturale, un qualcosa che non si arriva a capire del tutto, ma che si “sente” come parte integrante del nostro essere. Siamo in attesa di una “chiamata”, del richiamo di Dio: è la voce dello Spirito, il richiamo inappellabile di Colui che ha permesso la nostra esistenza, di Colui che ha impresso il suo marchio di fabbrica nei nostri cuori.
Col passare degli anni, però, questa sensazione purtroppo si va affievolendo: constatando che i nostri egoismi continuano a rimanere tali, vedendo che il mondo non cambia come vorremmo, sopraffatti dal contingente, dall’immediato concreto, di fronte ad un costante progresso del benessere, la nostra “attesa” perde di tensione, pian piano si smorza, la disillusione cresce nel nostro cuore, non ci aspettiamo più nulla che non sia legato al nostro vivere qui e ora: di fronte all’inevitabile fallimento dei nostri sogni, delle nostre aspettative, nella nostra anima finisce col prevalere la stanchezza, se va bene, il cinismo, se va male.
La delusione più amara arriva ovviamente per chi ha investito la propria “attesa” esclusivamente sulla realizzazione della propria immagine, sull’apparire, sull'essere splendidi, sul potere, sulla gloria, sul possedere. Del resto le suadenti sirene del mondo, della società dei consumi, blandiscono continuamente, spingono, esaltano ben bene su questo cammino: dicono che bisogna lavorare, lottare, produrre, se si vuole ottenere, sfondare, riuscire. E l'uomo tecnologico, schiavo del ventunesimo secolo, è invogliato a lavorare senza sosta, per produrre ricchezza, benessere, rinunciando a qualsiasi forma di vita alternativa, rinunciando alla vita dello spirito. Dio diventa un accessorio inutile, anzi una zavorra ingombrante di cui liberarsi.
Prima o poi, però, diventerà anch’egli preda, facile e prevedibile, della insoddisfazione, del rimorso, dell’amara sensazione di aver sbagliato tutto, di aver sperperato le occasioni migliori: dopo una vita delirante, sente prima o poi un vuoto assoluto, un’assenza stridente, divorante: l’assenza di un qualcosa che non sa bene cosa sia, che lui stoltamente attribuisce al mancato conseguimento di un certo risultato, di un certo target di benessere, alla mancanza di un corpo perfetto, sano e vigoroso, di una bellezza esteriore rispondente ai canoni della moda, alla impossibilità di realizzare i propri sogni, di possedere tutto e subito, persone e cose. Stupidaggini, fratelli miei: sono tutte e solo stupidaggini, idiozia acuta, lo sappiamo bene.
Sì, noi conosciamo molto bene la vera natura di quel malessere: noi, fratelli miei, noi cercatori di Dio, sappiamo che non c’è nulla di più deprimente nella vita dell’uomo che la constatazione del proprio fallimento, di non essere stati all’altezza della “chiamata”, di aver tradito la fiducia di Dio, di aver trasformato l’attesa in “disattesa”. Anche noi, che siamo partiti con entusiasmo, che abbiamo vegliato notti intere nell’attesa dello Sposo, noi che abbiamo abbandonato “il mondo” per seguirlo - e che poi pian piano ce lo siamo ripreso tutto questo mondo, con tanto di interessi – noi che, in fondo, conosciamo un po' lo Sposo, ebbene anche noi non riusciamo a vegliare fino al suo ritorno: nonostante il nostro cuore sia inquieto, soffra per la sua assenza, per non averlo vicino, per non sentirlo, non vederlo.
Così facendo abbiamo sbagliato, fratelli miei; sbagliamo e, non sia mai, continueremo a sbagliare! Perché non è il "fuori" che può riempire la nostra anima: quello la inebria di falsa gratificazione, la stordisce, la inganna, ma non riuscirà mai ad appagarla. È il “dentro” che conta, è con la fede, con la generosità del nostro cuore, con la carità che possiamo contrastare il nostro vuoto di Dio; un vuoto che fatichiamo a riempire, a colmare, a calmare. Puntare ogni nostra “attesa” sull’appagamento dei falsi bisogni del consumismo, è irrimediabilmente deludente, rischioso e controproducente.
La vita è dunque “attesa”, fratelli, e noi dobbiamo riporre la nostra speranza, la nostra intelligenza, il nostro cuore, unicamente nell'attesa di Colui che, da solo, può saziare realmente ogni nostra aspettativa.
Questo in sostanza è anche il vero significato di “transito”, di “passaggio”.
Dobbiamo essere sempre vigili come le sentinelle, in attesa che lo Sposo celeste passi per condurci alle nozze senza fine; egli passa sicuramente, lo possiamo constatare ogni giorno: ma non sappiamo quando verrà per noi. Allora, concentriamoci seriamente su questa sacrosanta verità: il Signore ad un certo momento verrà a prenderci.
Non prendiamola come un pensiero triste, fratelli, perché incontrarsi con Lui è un pensiero di grande sicurezza e serenità: è questa l'idea che ci deve accompagnare tutti i giorni nella gioia dell’attesa: perché, ogni giorno che passa, ci avvicina sempre più a tale incontro col Signore; ogni giorno della nostra vita è un passo in avanti non verso l'ignoto, ma verso le braccia spalancate del Padre nostro misericordioso, che aspetta di accoglierci nel suo amore infinito.
La morte è per alcuni un pensiero fastidioso. "Gli uomini, non potendo evitare la morte, hanno deciso di non pensarci. Ma è un rimedio ben misero", scriveva Pascal. Per il pensiero laico moderno, la morte è tabù: meno se ne parla, meglio è. "Non sappiamo da dove veniamo né dove andiamo, e non ci importa neppure saperlo". Così si pensa oggi.
E invece no, fratelli; il Vangelo ci insegna che Dio ci ha creati e che il nostro destino è di tornare a Lui. Per questo dobbiamo vegliare. Ma cosa vuol dire agli effetti pratici, “vegliare”, questo stare svegli, pronti, questo essere in costante attesa del Signore che deve venire? Vuol dire impegnarci a fare il bene, a mettere in pratica i suoi insegnamenti: i vasetti dell’olio di riserva delle vergini prudenti, altro non sono che le nostre opere buone: e dobbiamo affrettarci a farne grande riserva, perché non conosciamo quanto tempo manchi all'incontro. Anche in noi,come nei santi, il pensiero della morte che si avvicina, deve moltiplicare il nostro entusiasmo e le nostre energie.
A volte pensiamo che dopo i 60-70 anni, una volta in pensione, siamo finalmente liberi di starcene un po' tranquilli, di dare uno stacco significativo alla nostra esistenza, di pensare a cose più piacevoli, più distensive, più divertenti. Illusi! Per quanti dei nostri conoscenti e amici questo desiderio è rimasto soltanto un miraggio, una fantasia, null’altro che un sogno infranto! Lo sposo è arrivato immediatamente, senza preavviso, e hanno dovuto abbandonare sul nascere tutti i loro bei progetti.
Non abbassiamo la guardia, fratelli miei: Il lavoro per il regno dei cieli non termina mai; non esiste pensione che tenga! Anzi, più passano gli anni e più il lavoro deve essere febbrile, perché l’arrivo dello Sposo è sempre più vicino. Da giovani, giustamente, ci siamo impegnati in tante cose, come costruirci un futuro, fondare una famiglia, raggiungere una certa posizione professionale; ma quando raggiungiamo una certa età e queste tensioni diminuiscono, non possiamo campare altre scuse; non creiamoci ad arte impegni, progetti velleitari, per svicolare dal vero problema; ogni momento è buono, ma è soprattutto col crescere degli anni che dobbiamo dedicarci in maniera prioritaria alla “vera” attesa. Non serve più costruire per questo mondo, dobbiamo farlo solo per il cielo. Approfittiamo del tempo che il Signore ancora ci concede, per fare finalmente qualcosa di più importante e decisivo, visto che negli anni già trascorsi abbiamo fatto sicuramente molto poco. E questo vale sia per gli anziani che per i giovani: quello che è stato è stato, ma non scommettiamo mai sul domani! Potremmo non avere un domani.
Non serve a niente, fratelli miei, avere posizioni di prestigio, onori, ricchezze, se poi ci manca completamente l’olio dell’amore e delle opere buone. Non dimentichiamo che tra i sette vizi capitali ce n'è uno meno conosciuto, l'accidia, che è appunto la negligenza, il menefreghismo, la svogliatezza di fare il bene, di compiere i propri doveri di cristiano. Perché tutto è più importante per noi! Beh, come stiamo a questo riguardo?
Il tempo che il Signore ci dà, lo ripeto, è uno dei doni più preziosi. Non può essere buttato via, sciupato, vissuto male. Molti si giustificano di non poter fare molto per il Signore e per i propri fratelli, proprio per mancanza di tempo: possibile mai? Possibile che non abbiano neppure pochi minuti per fare una visita, una telefonata, ad un parente, ad un amico, a un conoscente in difficoltà? Che non abbiano un po’ di tempo per migliorare la relazione con il proprio coniuge, con i figli? Pochi minuti al giorno per la formazione, per la preghiera, per la lettura di un buon libro? Capite bene che una simile scusa è improponibile.
La nostra vita deve essere da subito, immediatamente, “attesa” dello Sposo. Un’attesa gioiosa come per il ritorno di una persona fortemente amata. Le nostre ore devono passare condizionate da tale pensiero. Ne più ne meno come se vivessimo la vigilia di un evento importantissimo, un evento destinato a cambiarci radicalmente la vita, a darle un nuovo significato, una svolta decisiva, una nuova allettante prospettiva.
Ecco, è questo il clima descritto nella parabola di oggi: la tensione dei preparativi cresce, perfino l'aria diventa frizzante; è tutto un via vai febbrile… l’agitazione per non dimenticare nulla, il correre frenetico, l'ansia che si tocca con mano.
Anche per noi, fratelli, deve essere così: perché questo ci impone anche la nostra “storia” personale; pensiamoci un istante: nella nostra vita abbiamo accolto il Vangelo, ci siamo convertiti, abbiamo cercato di configurarci a Cristo, di seguirlo fedelmente; gli abbiamo promesso sempre la massima fedeltà; gli abbiamo assicurato continuamente il nostro amore; magari abbiamo anche già provato un assaggio della sua presenza reale, dolcissima, magari per qualche istante ("raptim" come dice Agostino), forse durante una veglia di preghiera, un pellegrinaggio in Terra Santa o a Lourdes, o in qualche particolare ritiro. Ne siamo rimasti affascinati, attratti, stregati; ma la sua presenza è stata fuggevole, è stata un "già" e "non ancora", tormento e sicurezza. Ma tutto ciò non è stato determinante per la nostra santificazione. Non è bastato: dopo quei momenti di particolare entusiasmo inebriante, di innamoramento esaltante di Dio, è calata la notte del silenzio, la quotidianità, e i problemi contingenti ci hanno travolto.
Oggi è l’occasione per scuoterci: da oggi, da questo momento, rimettiamoci in vigile “attesa”, fratelli; prepariamoci come si deve, aspettiamo… Non stanchiamoci, perché non ci sono dubbi, Egli tornerà! Lo sappiamo e per questo dobbiamo essere pronti: “Estote parati”, siate pronti! ci ricorda oggi il vangelo.
Nella notte dell’anima, aspettiamo la luce del suo amore. Sì, la nostra vita deve essere un'attesa d'amore; e come tale dobbiamo viverla. Tutto qui.
Se la viviamo così, non importa se nella vita non è andato tutto come volevamo: pazienza se i nostri sogni, i nostri progetti, non si sono realizzati. Pazienza. Tutto passa.
Se la viviamo così, tutto ciò che ci accade lo mettiamo in riferimento con qualcosa di più grande, di immenso, lo mettiamo direttamente nel cuore stesso di Dio; successi e sconfitte le leggiamo alla luce di questo orizzonte, cento volte più ampio, mille volte più luminoso.
Se la viviamo così, sentiamo il senso dei nostri limiti come necessario, come un qualcosa di benevolo, come una opportunità ulteriore che ci viene data per poter capire il senso profondo della vita.
Se la viviamo così, la nostra vita sarà incoraggiamento, sarà uno sprone, per noi e per i nostri fratelli, a rimanere svegli, vigili, nell’ansia amorosa di incontrare lo Sposo da un momento all’altro.
E allora una preghiera sgorgherà spontanea dal nostro cuore: Signore, donaci la vera sapienza, allontana da noi la stoltezza, fa' che siamo capaci di alimentare continuamente le nostre lampade, per poterti correre incontro senza inciampare, ed entrare speditamente con Te nel tuo regno d’amore. Amen.


mercoledì 26 ottobre 2011

30 Ottobre 2011 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

«Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili... sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito...»
Nella discussione con gli scribi e i farisei Gesù denuncia in particolare l'incoerenza e l'ipocrisia e ne ricava per tutti un magistrale insegnamento. Ormai conosciamo molto bene il comportamento usuale degli scribi e dei farisei: conoscevano perfettamente la legge della Bibbia, la insegnavano, ma erano anche maestri nel trovare tutte le scappatoie e le eccezioni per non mettere in pratica ciò che insegnavano. Se poi capitava che osservassero la legge, si mettevano bene in mostra, si pavoneggiavano, cercando di passare come persone giuste, fedeli, osservanti e in regola, disprezzando chi non era al loro livello; non tolleravano le debolezze degli altri, e invece di aiutarli, li condannavano, deridendoli. Ebbene: Gesù, gente come quella, la mette immediatamente al bando. La isola: “Siate rispettosi di quello che essi insegnano, perché la Legge la conoscono bene e la sanno predicare altrettanto bene, ma non seguite il loro esempio; non fate come fanno loro, non meritano la vostra attenzione, perché sono incoerenti, fasulli, gente che predica bene ma razzola male”.
Ovviamente, con le parole di oggi, Gesù non si rivolge soltanto ai suoi discepoli, a quanti lo seguivano: ma parla anche noi, a noi persone evolute e razionali del XXI secolo: parla soprattutto a noi, catechisti impegnati, cattolici praticanti, religiosi istruiti; parla a noi, chiamati a insegnare, a testimoniare il vangelo, a noi mandati a portare il lieto annuncio di liberazione e di vita ai poveri, ai peccatori, ai deboli del nostro tempo.
Gesù parla alludendo proprio alla nostra vita concreta, a come viviamo, al comportamento dei “maestri” della nostra epoca, dei nostri giorni.
Certo che noi, uomini tecnologici, siamo proprio strani! Ci dichiariamo in tutti i modi, a volte anche con la violenza, contrari a qualsiasi forma di autoritarismo, di obbligo, di coercizione; ci indispettiamo se qualcuno sopra di noi fa pesare il suo ruolo, la sua carica; siamo tutti, giustamente, vogliosi di autonomia e di libertà: eppure, fratelli miei, non sappiamo fare a meno del “guru” di turno, del “profeta”, del mistico che, da buon ciarlatano, pretende di darci il rimedio infallibile per i nostri problemi; di colui che, attraverso i mezzi più ridicoli (carte, oroscopi ecc.), sostiene di avere per noi il consiglio mirato, la dritta garantita su come affrontare la nostra “fragile” vita.
Anche per questo il nostro è un tempo strapieno di maestri, di tuttologi, di opinionisti; più aumenta il senso di insicurezza, più si espande la relatività del pensiero, e più ancora aumentano coloro che hanno qualcosa da dire, che sono esclusivisti della soluzione giusta. Sappiamo che sono degli pseudo maestri, ma quanti di loro, fratelli miei, sono diventati anche per noi un punto di riferimento: in televisione, sui giornali, nei mezzi di comunicazione, negli ambienti di lavoro, nella scuola, in politica, in campo sociale! Maestri che straparlano tutti, che sbraitano, urlano, che vogliono imporsi: non importa su chi e su che cosa, se in positivo o in negativo, l’importante per loro è urlare, apparire, esserci.
Al contrario Gesù, nella sua compostezza, è pratico, chiaro come sempre: egli ci spiega molto concretamente come dobbiamo vivere nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie, come dobbiamo edificarci vicendevolmente nell'amore e nella pace, come dobbiamo educare i nostri figli.
Sono le realtà portanti della vita, e con queste realtà noi dobbiamo confrontarci ogni giorno; è in riferimento ad esse che noi dobbiamo esaminarci in particolare sulla nostra coerenza e sincerità, per non indulgere minimamente all’incoerenza e all'ipocrisia, così facili e frequenti. Insegnamenti importanti, quelli di Gesù, soprattutto per noi che abbiamo il ruolo educativo di dare il buon esempio; e noi in particolare siamo invitati a esaminarci seriamente, tutti: sacerdoti, religiosi, suore, catechisti, collaboratori parrocchiali, genitori, insegnanti; dobbiamo chiederci onestamente: crediamo veramente in quello che insegniamo? Lo viviamo coerentemente, con tutto il cuore, con amore cristiano? Io consacrato che insegno a pregare e guido la preghiera, amo la preghiera? Dedico tempo alla mia preghiera personale? Mi preparo alla preghiera comune? Io, genitore, che desidero che i miei figli crescano in parrocchia, che vadano al catechismo, che frequentino la chiesa: io, sono attivo in parrocchia? faccio la mia parte con passione? Cerco una formazione cristiana che sia adatta alla mia età e alla mia situazione? Vado a messa, e soprattutto la vivo poi con tutta l'adesione del cuore?
E così via anche per tutti i vari doveri e impegni della nostra vita sociale, di famiglia, di scuola, di lavoro.
Perché, fratelli, siamo chiamati ad essere comunità cristiane che annunciano il vangelo con la vita e le parole; siamo chiamati a comportarci da adulti: noi nei confronti dei giovani, e i giovani nei confronti dei più piccoli; dobbiamo essere tutti delle persone che testimoniano l'amore sia nel cuore che nelle opere. Chiaramente, chi vive compiti istituzionali, sociali, politici, mediatici o altro, chi in altre parole gode di maggior prestigio e visibilità, è ancor più responsabile della sua coerenza; non serve a niente fare bellissimi discorsi se poi non si vive per primi l'onestà, la correttezza, lo spirito dei valori umani e cristiani.
Ecco, fratelli: è questo che ci sottolinea oggi il Signore: e preghiamo perché ci aiuti a seguirlo anche in questo!
È chiaro che per essere veramente in regola, dobbiamo affidarci al giudizio di qualcun altro che ci indichi con onestà dove veniamo meno, dove siamo incoerenti, dove costruiamo i nostri sotterfugi, dove pretendiamo dagli altri ciò che poi noi non facciamo, dove ci piace farci vedere, apparire, dove cioè siamo così sfacciatamente sostenitori del nostro io, da diventare addirittura antipatici; dove badiamo più alle esteriorità o alle consuetudini sociali, piuttosto che misurarci con l'amore e la verità di Dio.
Come ho già detto, ognuno di noi, anche se inconsciamente, ha scelto un suo maestro (o più di uno) cui affidarsi: l'opinione della gente, i propri appetiti, il vincente di turno, la star del momento, il personaggio di spicco, il prete mediatico e onnipresente, l'astrologo di grido. Ma non prendiamoci in giro, non rendiamoci ridicoli! Noi abbiamo ben altro a cui pensare; noi cristiani abbiamo già un unico e insostituibile Maestro, quello autentico, il Maestro per eccellenza: Gesù Cristo!
Non ci servono surrogati, non abbiamo bisogno di sedicenti profeti, santoni, futurologi, imbroglioni e parolai da strapazzo: noi abbiamo già il migliore in assoluto. Dobbiamo seguire solo Lui; è Lui che dobbiamo avere al centro della nostra vita; sono soltanto Sue le parole,  Suoi i gesti, su cui dobbiamo riflettere da adulti, con passione ferma e critica, con la sincerità del cuore, senza deleghe. Tutti siamo chiamati alla scoperta di questo Dio adulto che ci tratta da adulti. In che modo? Vivendo come Lui, facendoci servi dei nostri fratelli, come lui ci ha insegnato: “Il più grande tra voi sia servo”. Possibile? Sì, tranquilli: è proprio Lui che parla, Lui, il Cristo Re mite e umile di cuore, che per noi si è fatto uomo, servo, si è annientato, accettando di morire crocifisso.
Solo riflettendo su questo, fratelli, capiremo il vero significato di “autorità”: una parola tanto ambita e usurpata, ma che nella nostra comunità cristiana assume un senso particolare: che non è assolutamente quello di dominio, di comando, ma di puro servizio, di umile ministero.
«Voi siete tutti fratelli…». È la logica conseguenza del nostro metterci al Suo servizio, dell'accettarlo come Maestro e diventare figli di uno stesso Padre: tutti fratelli, tutti ugualmente salvati, tutti ugualmente perdonati.
Ognuno di noi, però, con un ruolo, un compito, un ministero: i vescovi quello di mantenere la fede nella Chiesa e di annunciare la Parola; i presbiteri quello di aiutare i Vescovi nell'annuncio e di costruire comunità; i laici quello di santificarsi e di annunciare il Vangelo nel loro contesto di vita. E tutti in armonia, tutti uniti nella comune appartenenza a quella fede soprannaturale ottenuta mediante il Battesimo; nessun Maestro, ma solo fratelli chiamati a ruoli specifici. Perché, in buona sostanza, essere fratelli significa che tutti ci prendiamo cura del buon andamento della Comunità, abbandonando un modo di essere Chiesa asfittico e senza vita, per raggiungere la meravigliosa scoperta di essere tutti figli di Dio, sia nella fatica della sopportazione reciproca e delle diversità, che nella stessa visione evangelica delle comuni scelte obbligatorie. Essere fratelli significa evitare in tutti i modi che nelle comunità prevalga l'aspetto umano, le simpatie, le antipatie, introducendo il rischio descritto da Gesù, di diventare cioè professionisti del sacro, primi della classe, ma con l’anima vuota. Evitiamo pertanto, di pretendere che il nostro modo di vivere l'esperienza cristiana sia “il” modo, l’unico possibile, l’unico giusto. Ricordiamoci, fratelli, che il Vangelo è uno; e che le varie sensibilità - che sono molte poiché lo Spirito suscita sempre nuove esperienze - pur appartenendo alla Chiesa, non sono “la” Chiesa. Una cosa invece è assolutamente certa, trasversale, valida per tutti: chi vuole essere “grande”, deve “abbassarsi”. Non c’è alternativa. Perché è nell'abbassamento che sta il segreto della vita cristiana. Chi vive l'umiltà, sa dare valore a quelle cose che sembrano piccole, ma che invece sono grandi, importanti, essenziali. Chi vive lo stile di Gesù, sa che nella Chiesa non esistono più posizioni irrilevanti, di poco conto, ma tutto acquista un nuovo valore, un nuovo significato: proprio perché nella Chiesa ognuno ha un suo compito insostituibile, ognuno ha la sua esperienza e la sua sensibilità, ognuno vive i carismi avuti da Dio. Non allo sbando, ma tutti uniti e concordi: perché il collante che ci unisce tutti è il Signore Gesù: l'unico Maestro infallibile.
«Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
Dobbiamo necessariamente essere umili. Una virtù grande l’umiltà: è la vera virtù dei forti; una virtù che in teoria tutti consideriamo necessaria, ma che nella pratica difficilmente riusciamo a fare nostra. Una virtù che il mondo non comprende, trovandola semplicemente assurda, degradante, che deprime e svilisce la personalità; l'umile è un debole, un buono a niente, uno senza carattere che non potrà mai sfondare nella vita.
Nulla di ciò, fratelli: per diventare umili, bisogna invece amare. E non è cosa da inetti. Bisogna amare molto. Come ha fatto Gesù: l’amore misericordioso l’ha fatto scendere dal cielo; l’amore l’ha spinto sulle strade della Palestina; l’amore l’ha condotto a cercare i malati, i peccatori, i sofferenti. Lo stesso amore l’ha portato senza indugi sul Calvario, dove “umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce”.
L’umiltà è stata la forma esteriore della sua carità divina, la sua fedele accompagnatrice in tutta la sua vita terrena. L’umiltà è stata anche l’atteggiamento convinto per cui Dio “ha guardato” con ammirazione la nostra santa Mamma, facendo in lei “grandi cose” e rendendola “beata” presso tutte le generazioni della terra. Maria era umile perché amava la volontà di Dio e rispettava quella delle persone che erano intorno a lei.
“Chi si umilia sarà esaltato”. C'è un modo immediatamente pratico per rendere esecutiva questa frase del Vangelo: con il servizio. Con la carità: sapendo che in ogni persona che incontriamo, incontriamo nostro Signore Gesù, e in ognuna di esse, abbiamo il privilegio di servirLo. Si, fratelli miei: la vera umiltà consiste nel guardare attentamente il Volto di nostro Signore, sicuri che in Lui possiamo leggere il volto riflesso dei nostri fratelli. In Lui troviamo la giusta via da percorrere nel nostro vivere quotidiano; e sempre in Lui possiamo vedere come la nostra vita sia sterile, arida e assolutamente inutile, se non la viviamo protesi nell'amore umile verso Lui e verso i fratelli. Amen.




 

mercoledì 19 ottobre 2011

23 Ottobre 2011 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Uno dei farisei, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?»
Solita domanda provocatoria del “Pierino” di turno. Erano seicentotredici i precetti della Torah ebraica: trecentosessantacinque negativi (tanti quanti i giorni dell’anno!) e duecentoquarantotto positivi (tanto quante erano le membra del corpo umano secondo la cultura del tempo). Secondo la tradizione rabbinica ogni precetto aveva un identico valore e implicava uno stesso obbligo. Ma nella pratica circolavano opinioni diverse. Alcuni dicevano: “Sono tutti da osservare alla lettera, scrupolosamente, in tutto e per tutto”. Altri: “No, non sono tutti uguali, non hanno tutti la stessa importanza”.
La risposta di Gesù è, come al solito, di grande semplicità, altamente propositiva: «Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Ama il prossimo tuo come te stesso». Quindi l’amore è l'unico, il più grande comandamento. Punto. Un unico amore con due beneficiari: Dio e il prossimo. Un accostamento che rende chiaro come il primo non si realizzi senza il secondo: entrambi costituiscono l’unico fondamento della Legge, senza di essi tutti gli altri precetti non hanno ragione di esistere. In pratica per Gesù solo due “consigli” su seicentotredici leggi: un magistrale sfoltimento!
Qualcuno li definisce “comandamenti” dell’amore. Niente di più inesatto. L’amore non si comanda. Nessuna legge, mai, può costringere qualcuno ad amare, perché l’amore vive una sua vita, è libero, autonomo, spontaneo, indipendente: caratteristiche che per loro natura rifiutano qualunque forma di imposizione.
L’amore non si comanda e non si esige: una verità che ci tocca da vicino, ci rende indifesi, spogli, impotenti. Ci rende vulnerabili, perché capiamo che non esistono armi, soldi, promesse o lusinghe, punizioni o mezzi coercitivi, per costringere qualcuno ad amarci; non possiamo esigere dagli altri un sentimento che non hanno, che non sentono, che non provano. O lo fanno spontaneamente, perché loro ci considerano meritevoli di amore, oppure ci dobbiamo arrendere, dobbiamo accettare la situazione, non possiamo farci nulla. Una cosa che ci disturba parecchio. Chi infatti non entra in crisi di fronte ad un rifiuto di amore, di amicizia, nel sentirsi dire un “no” esplicito? Tutti abbiamo avuto sicuramente qualche esperienza del genere. E tutti ci siamo rimasti male, abbiamo dovuto accettare a malincuore di essere rifiutati.
Ma non lamentiamoci per questo, fratelli; non sentiamoci i più incompresi, i più sfortunati, i più disgraziati del mondo! Non facciamo le vittime! Non cerchiamo di imporci opprimendo la libertà altrui, quando invece per noi la pretendiamo intoccabile e assoluta. Non possiamo pretendere sempre il “si”, negando l’eventualità di un “no”. Entrambi sono radicati nella libertà altrui e godono di un pari diritto. Per cui se vogliamo essere amati, se vogliamo che qualcuno ci dica sempre “si”, dobbiamo meritarcelo con la nostra vita, con i nostri comportamenti verso gli altri. E anche in tal caso non possiamo pretendere nulla, perché l’amore è un dono. Un dono puramente gratuito.
Gesù in realtà non “escogita” un nuovo comandamento, il comandamento dell’amore; semmai spiega per bene quanto che era già prescritto nel Levitico: «Non ti vendicherai e non conserverai rancore contro i figli del tuo popolo, ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). E nel Deuteronomio: «Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). Parole che ogni ebreo già conosceva, dovendole recitare puntualmente mattino e sera. Gesù quindi non si inventa nulla, dice semplicemente: “Fate attenzione perché ora vi spiego per bene una cosa: chi ama Dio, ama anche l’uomo. E chi ama veramente l’uomo, non può non amare Dio”. Tutto qui, poche parole ma importanti: l’amore è uno, e uno solo: “Chi ama Dio ama l’uomo, e chi ama l’uomo ama Dio”. Sembra un gioco di parole: in realtà esprimono due concetti legati tra loro indissolubilmente. E con la sua vita, con le sue parole, con i suoi gesti, nel vissuto reale, Gesù ce ne ha confermato tutto il valore e la portata.
 Noi però non siamo ancora riusciti a capirlo fino in fondo. Nei lunghi anni di vita della Chiesa, abbiamo sempre distinto i due amori, Dio e il prossimo; li abbiamo sempre separati, convinti che l’amore a Dio fosse più importante, valesse molto di più dell’amore per il prossimo. Monaci, preti, vescovi, suore: quelli sì che amano come si deve, in maniera giusta: quelli sì che amano Dio! Per loro esiste solo Lui; tutto il resto, prossimo compreso, non può competere con Lui. Unica scelta vincente, pensiamo. Mentre l'amore per i propri fratelli, l’amore umano, l’amore per le persone, è un sentimento più basso, meno meritorio; certo è un amore che noi diamo, è un sentimento che riteniamo inevitabile nella vita, ma che rimane pur sempre un sentimento tollerato, che deve essere purificato, sublimato.
Gesù, invece, dice no: non ci sono diverse categorie di amore, l’amore è uno solo, identico: se noi amiamo veramente Dio, lo dimostriamo da come ci comportiamo con gli altri, da come amiamo il prossimo. Possiamo anche essere preti, frati, suore, ma se siamo nei confronti del prossimo dei manipolatori, dei falsi, noi non amiamo Dio. Possiamo raccontare tutte le più belle storie del mondo, ma se trattiamo male gli altri, se li mortifichiamo, se li calpestiamo, se li possediamo, noi non amiamo assolutamente Dio, non c’è scampo. Siamo degli imbroglioni. Madre Teresa amava ripetere: “Non riesco a capire come tu faccia a vedere Dio in un pezzettino di pane, e non nel volto di un tuo fratello…”.
«Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente…»
Ecco, fratelli, il punto è proprio questo: dobbiamo amare senza “se” e senza “ma”. Dobbiamo identificarci nell’amore, dobbiamo distribuirlo a piene mani.
Del resto non dobbiamo andare troppo lontano per trovarlo, non c’è bisogno di fare grandi ricerche: l’amore è in noi. Siamo noi il segno tangibile dell’amore di Dio; siamo noi l’immagine dell’Amore per definizione; l’amore non è “altro” da noi, lo portiamo dentro, è Dio che vive in noi da sempre. Noi siamo fatti per essere amati e per amare. Per essere amati da Lui e amare Lui, e per amare i nostri fratelli.
L’amore non è da “raggiungere” ma semplicemente da “liberare” dal nostro cuore, dalla nostra anima, dalla nostra mente. Dovrebbe essere semplice e naturale. Ma non è proprio così. Se non lo facciamo, non è perché ci manca l’amore, ma perché siamo impediti, siamo condizionati: non disponiamo cioè di quella libertà assoluta, di quella serenità priva di rigurgiti di “rispetto umano”, che ci permettono di spalancare in maniera ottimale il cuore, l’anima, la mente.
Abbiamo paura. Le nostre esperienze negative ci portano a chiuderci a riccio.
Ricordate? Quando eravamo piccoli, noi amavamo la mamma senza calcoli, senza ritegno, senza vergogna: noi l’amavamo in assoluto, per noi c’era solo lei; per noi la mamma era Dio. L’amore che nutrivamo per lei era amore autentico, totale, generoso, fiducioso, spontaneo, senza calcoli. Poi, purtroppo, con la crescita, attraverso le esperienze della vita, abbiamo imparato che l’amore porta inevitabilmente anche delle sofferenze; abbiamo capito che aprendoci amorosamente all’altro, rischiamo di essere dominati, manipolati, gestiti nostro malgrado; e se lo facciamo comunque, abbassando le nostre difese, quasi sempre finiamo con l’essere derisi e umiliati. Allora abbiamo deciso di lasciar perdere. Non lo abbiamo più fatto e ci siamo rinchiusi. Dentro. Da allora siamo cauti, amiamo solo idealmente, con il pensiero, con la fantasia, con le intenzioni, ma non con il cuore: perché il nostro cuore è chiuso, sordo ad ogni richiamo, prigioniero di troppi ricordi dolorosi, di troppe ferite, di sofferenze.
Ma, fratelli miei, questo non è amare: l’amore di testa, di fantasia, non esiste. Amare è adeguarsi al quel Dio creatore che sta in noi, nel nostro cuore. È quel sentimento divino che nasce dal cuore e in uno slancio vitale ci coinvolge in pieno: il nostro essere, le nostre emozioni, la nostra vita. In maniera totale, concreta e reale.
L’amore a distanza, l’amore mentale, l’amore sognato, esiste solo nei fumetti: è manipolazione, è surrogato. L’amore invece o c’è, e allora lo “senti”, oppure non c’è. Non si può “produrre” meccanicamente, prescindendo da Dio, dal cuore, dall’anima. Quindi amare Dio e il prossimo, significa amarli per davvero, amarli in maniera integra, libera, indivisa, generosa, concreta. È amarli con tutto il nostro essere, con i piedi per terra, pienamente coinvolti nel vivere quotidiano.
Ci siamo mai chiesto se amiamo Dio? Certo che lo amiamo, abbiamo risposto! Ma come? Beh, è naturale che lo amiamo così, col cuore, in quanto amando la vita, ci sentiamo attratti da Lui che è la Vita, pensiamo a Lui con “riconoscenza” per questo dono meraviglioso che ci ha dato e che continua a darci tutti i sacrosanti giorni. Si, fratelli, tutto questo è bello, rassicurante. Ma la “riconoscenza” non è amore. Con la “riconoscenza” noi non lo amiamo ancora come dovremmo, con tutto “noi stessi”: ossia dal profondo, in maniera viscerale, passionale, senza calcoli. Dobbiamo amarlo aderendo completamente a Lui, alla sua volontà, perdendoci in Lui, in tutto e per tutto. Altrimenti ci risiamo, fratelli: il nostro è un amore “mentale”, superficiale, un amore che si ferma alla “convenienza”, un amore “dovuto”, perché così fan tutti i bravi cristiani; un amore che non ci appassiona. Lo amiamo, ma con timore, con paura, con ritrosia, con una piccola parte di noi, perché – ci diciamo - è la vita che ci ha reso diffidenti.
Strano comportamento il nostro, vero? Non ci manca nulla, abbiamo dentro di noi l’Amore, ma non sappiamo tirarlo fuori, non sappiamo amare, non siamo liberi di amare. Siamo dei pusillanimi. Lasciamo che il nostro amore muoia, soffocato da mille incrostazioni.
A questo punto arriviamo a pensare che la felicità e l’amore, dipendano da circostanze a noi estranee, da altri, da situazioni contingenti, dal raggiungimento di questo o quell’obiettivo. Ma amare, fratelli, non significa abbandonarsi passivamente ad un’altra persona o nel cercare “altro”; significa invece reagire, entrare dentro di noi, cercare Lui, con un coinvolgimento di tutte le nostre emozioni: anche quelle più dolorose, come paura, abbandono, dolore, perdita, rabbia, tradimento. Amare significa far esplodere all’esterno tutta la nostra vita interiore, liberare tutta la passione e la forza che portiamo dentro. Amare significa essere spalancati al potere dello Spirito e alla Forza della Vita, inspirarli a pieni polmoni, e riversarli sugli altri, in un flusso carismatico continuo.
Fratelli, non lasciamo spegnere il nostro amore. Non permettiamo che altri spezzino le nostre ali. Dio ci ha fatti per librarci in alto, in cielo, e non per ruzzolare per terra. Se abbiamo perso la fiducia in Lui, se siamo stati feriti, se siamo diventati cinici, risentiti, offesi, scuotiamoci! Le ali le abbiamo ancora: sono solo ferite, sono solo spezzate…
Il medico ci attende. Ci vuole tanta fede, lo so; ma Gesù ci dice: ama e, se sbagli, pazienza. Egli in ogni caso non gradisce persone tiepide, non ama gli uomini “di poca fede”; vuole gente entusiasta come Paolo, preferisce chi sbaglia per eccesso, che per difetto. Se dunque riusciamo a credere nuovamente nell’Amore, se arriviamo a guarire le nostre ferite, se possiamo spalancare di nuovo le nostre ali, allora, fratelli miei, torniamo a volare. Torniamo cioè ad amare Dio e il prossimo con tutta la forza della nostra vita, con tutta l’intensità possibile: “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente”. Abbandoniamoci completamente a quell’Amore che vibra e pulsa in noi: perché in tale abbandono viviamo momenti di pura condivisione divina.
Amiamo Dio e il prossimo come Gesù ci ha insegnato. Così facendo la nostra vita sarà luce abbagliante per tutti. Tutto il resto: piani pastorali, strutture, carismi, ministeri, celebrazioni liturgiche, Chiesa... tutto passerà in secondo ordine; tutto, paradossalmente, diventerà accessorio, diventerà “dopo”.
L’unica cosa essenziale è l'amore: amare e lasciarsi amare. Subito. Qui e ora. Amen.


giovedì 13 ottobre 2011

16 Ottobre 2011 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi».
Poche pennellate quelle usate da Matteo per fissare la scena del vangelo di oggi. Con poche ma incisive parole ci presenta tutti i particolari di un ambiente ostile a Gesù: una riunione tra incapaci esasperati, un accordo subdolo e scellerato, falsi discepoli smaccatamente untuosi e melliflui, una proposta trabocchetto.
I farisei, sempre loro, non sanno più cosa architettare per dare addosso a Gesù. Ma questa volta sembra proprio che la trovata sia vincente. E bisogna darne atto: la trappola che hanno escogitato è veramente geniale: se vuoi incastrare uno, interrogalo a freddo sulla politica; troverai sempre un motivo per dargli contro. E proprio sulla politica i farisei hanno scelto il terreno per lo scontro: «è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?»
La tassa in questione è il “tributum capitis”, la somma cioè che ogni cittadino ebreo, dai 6 ai 65 anni, doveva pagare a Roma come segno di sudditanza. Formidabile come trovata! Perché qualunque risposta Gesù avesse dato, si sarebbe condannato con le sue mani: se infatti avesse risposto "sì", avrebbe dimostrato di avallare l'occupazione degli invasori, e in tal caso si sarebbe inimicato il popolo che li odiava; rispondendo “no”, gli erodiani, che erano filo romani, avrebbero informato immediatamente le autorità per una pronta cattura e conseguente condanna come nemico dichiarato di Roma.
Farisei ed erodiani vanno dunque da Gesù per porgli il quesito: in realtà non cercano da Lui una risposta, ma solo un motivo, un parere compromettente, per accusarlo o condannarlo comunque. A loro non interessa altro. Tutto quello che fanno, lo fanno non certo per ascoltarlo con animo aperto, non per sentire una sua opinione o per imparare qualcosa di positivo da Lui, ma soltanto per trovare la scusa giusta per incastrarlo, e attuare così il loro proposito di eliminazione.
Tutto sembra perfetto, ma come al solito non hanno fatto i conti con il loro interlocutore.
«Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?»
Già alle prime battute, apertamente untuose e provocatorie, Gesù, che conosceva molto bene la falsità del loro cuore, li zittisce immediatamente, e con una esclamazione li identifica per quel che realmente sono: “ipocriti!”. E con ciò stesso smonta tutto il loro piano accusatorio, smaschera la loro recita; e a conferma, chiede semplicemente una moneta. Non una moneta qualsiasi, ma «la moneta del tributo», ossia quella speciale moneta romana, che serviva a pagare la tassa, e su cui apparivano impresse l’immagine dell’imperatore e la scritta: “Al divino Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto”. Un oggetto che già da solo era infamante per gli ebrei osservanti, un oggetto di autentica idolatria, poiché anche il solo possederlo significava in qualche modo rinnegare il loro Dio, l’unico Dio, accettando l’idea che anche l’imperatore romano fosse “Dio”. Una moneta che scotta dunque: Gesù non ce l’ha e la chiede; i farisei altro motivo di doppiezza ─ ce l’hanno e gliela porgono. Ma Gesù non la guarda neppure: anzi alla loro domanda iniziale, risponde con un’altra domanda: «L’immagine e l’iscrizione di chi sono?». Poveracci questi farisei: erano andati da Gesù con la loro bella domanda, baldanzosi, certi di avere la meglio, di avere in mano finalmente il “via” alle loro macchinazioni; insomma si aspettavano una risposta seria, inequivocabile, certa, definitiva; ed Egli che fa? li snobba molto elegantemente, contrapponendo loro la sua domandina, facile facile e per nulla compromettente. «Di Cesare» è la loro ovvia ma prudente risposta.
A questo punto la sentenza di Gesù li coglie di sorpresa, impreparati, li spiazza del tutto: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio».
Elementare. Ineccepibile. Gesù è chiarissimo. E dunque, al di là di qualunque credo religioso, pagare il tributo allo Stato, al re, all’imperatore, non vuol dire assolutamente mancare di fedeltà a Dio. Non solo è lecito, ma è doveroso. Lo Stato, l’autorità politica, ha la sua ragion d’essere. I veri credenti sono quindi leali verso di esso, perché sono anche buoni e onesti cittadini; perché, così facendo, onorano Dio.
Un pensiero molto sentito dai cristiani, che sarà poi immediatamente ripreso anche da Pietro (cfr. 1Pt 2,13-14) e da Paolo (cfr. Rm 13,1ss).
Ma, ovviamente, nella risposta di Gesù l’accento, con tutta la sua forza, cade sulla seconda parte: «rendete a Dio quello che è di Dio». Gesù intende cioè rivendicare la posizione unica ed esclusiva che Dio occupa nella vita dell’uomo. In altre parole, Dio non si accontenta di una vile moneta, ma si aspetta molto di più: dovete dargli ciò che è suo, ossia dovete dargli voi stessi, interamente: la vostra esistenza, la vostra persona; proprio perché l’uomo, con tutto ciò che lo riguarda, è proprietà esclusiva di Dio.
Ma attenzione; il senso della risposta va anche oltre: se cioè Cesare, il potere politico, dovesse attentare ai diritti di Dio, pretendendo di imporre ciò che contrasta con la Sua volontà – e quindi col vero bene delle persone – ebbene: in tal caso, il credente dovrà ubbidire a Dio e non allo Stato. Quello che è di Dio ha diritto di precedenza sempre e comunque.
È molto importante cogliere nella risposta di Gesù tutta la sua logica di fondo, un principio paritetico: come la moneta, che porta impressa l’immagine dell’imperatore, va restituita a lui, così ogni uomo, che reca impressa nell’anima l’immagine di Dio, deve essere restituito a Lui, in quanto sua proprietà totale: tanto più che l'immagine, che portiamo in noi dalla nostra creazione, è diventata ancor più chiara e inconfondibile con il Battesimo, che ci ha resi conformi a Cristo, legandoci a Lui e al Padre in modo vitale e definitivo. Un’immagine di Dio, quella dell’uomo, che deve pertanto tornare a Lui assolutamente integra, non offuscata o distorta.
Quindi, se tutto ciò che siamo e che abbiamo dobbiamo renderlo a Dio, visto che tutto gli appartiene, noi come rispondiamo a tale obbligo? Per esempio: il tempo, che è di Dio, in che misura glielo doniamo? Quanti minuti al giorno gli offriamo per dialogare con Lui? Quanto del nostro tempo e delle nostre risorse, materiali e umane, dedichiamo al servizio della Chiesa e del nostro prossimo? Quanto tempo ancora impegniamo per mettere generosamente a frutto i doni che Lui ci ha dato a sostegno della nostra vocazione?
La realtà economica-sociale-politica, che noi credenti non dobbiamo certo trascurare, non deve interferire con la realtà divina, con quelle che sono le priorità di Dio; è comunque una realtà che deve essere armonizzata con quello che dobbiamo restituire a Dio. Egli ci comanda di amare tutti e di amare sempre, in ogni situazione: ecco allora che ogni forma di impegno sociale e politico, vissuta come servizio fraterno al prossimo, diventa anch’essa un modo concreto di vivere il primato di Dio nella nostra esistenza. L’attività sociale, economica e politica in quanto tale, finalizzata cioè a se stessa, non salva: come d’altro canto il credente non si salva se, a sua volta, non assume e non svolge, con carità e professionalità, il ruolo che gli compete nella vita pubblica.
Abbiamo detto che tutti gli uomini che popolano la terra, sono di Dio; tutti hanno impressa in sé l’immagine del loro Creatore e Padre che li chiama ad appartenergli nella fede e nell’amore: di qualunque razza, di qualunque nazione essi siano. Allora, come facciamo a non sentire la chiamata bruciante per aiutare i più derelitti a riconoscere il loro “marchio di fabbrica”, quell’impronta divina impressa nel loro essere più profondo? Come facciamo a non impegnarci con entusiasmo per risvegliare in loro la nostalgia della grande e divina Famiglia, da cui tutti veniamo e a cui tutti siamo destinati a tornare? C’è forse una causa che meriti, più di questa, un nostro maggior investimento di risorse, di energie, di dedizione? La Chiesa, fratelli, esiste per questo. La Chiesa è questo. E a questo sono finalizzate la nostra vita e la nostra vocazione di cristiani. Annunziare il Vangelo, essere parte attiva nella nuova evangelizzazione di questa nostra società ormai scristianizzata, è il nostro primo atto d’amore, il più grande dono e servizio che possiamo offrire ad ogni nostro fratello, e alla società intera, perché riconosca il primato assoluto di Dio.
Raccogliamo coscienziosamente, fratelli, la provocazione che Gesù, buon maestro, ci mette oggi davanti: preoccupiamoci di tutto ciò che Gli appartiene e che prima o poi a Lui deve ritornare: non solo di Liturgie, non solo di culto, non solo di preghiere, ma di amore. Di tanto amore e di tanta carità: verso di lui e verso il prossimo; verso tutti i fratelli e le sorelle che lui ci ha messo accanto nelle nostre scelte di vita.
Sulla moneta romana c’era l’effige di Cesare: ed è giusto restituirgliela. Ma su tutti i volti del nostro prossimo, sul nostro di volto, risplende l’immagine di Dio. Gesù, con la parabola di oggi, ci mette tutti sotto esame, e ci invita a distribuire le nostre preoccupazioni quotidiane in maniera proporzionale al valore del destinatario. E, come abbiamo visto, la moneta è importante, ma solo marginalmente.
Gesù stesso è stato messo alla prova da emeriti “sprovveduti”, proprio su una questione di soldi e di potere: come se il problema del Regno di Dio si risolvesse con le tasse e con il potere politico. Certo, lo ripetiamo, meritano la nostra attenzione perché sono socialmente importanti. Ma non devono essere causa di distrazione e di allontanamento da Dio. Noi stessi in questi giorni abbiamo occhi e testa puntati sulle Borse di New York, di Tokio e delle capitali economiche dell’Europa. Sembra quasi che dipenda proprio da lì la salvezza o la fine del mondo. Sembra che nel Down Jones, nel Nasdaq, nel Mibtel e nel Nikkei si trovino i parametri assoluti per capire il destino dell’uomo, se abbia o no futuro, se possa sopravvivere a livello mondiale, nazionale e personale, se possa o no contare su una salvezza finale.
Non è questo fratelli: e Gesù ci aiuta a ritrovare il giusto equilibrio in queste nostre preoccupazioni. Oggi purtroppo siamo tutti fin troppo concentrati su quello che riguarda Cesare, mentre quello che riguarda Dio ci preoccupa molto molto meno: anche noi, come ho detto, magari inconsapevolmente, ne siamo molto coinvolti, ci accorgiamo di tirare un profondo sospiro di sollievo quando sentiamo che l’indice delle borse sale, perché capiamo che l’economia mondiale forse migliora; oppure cadiamo nell’ansia quando vediamo gli indici in rosso, e parlano di un crollo peggiore di quello del 1929.
Ebbene, tutto questo, fratelli, è “di Cesare”, e credo che sia giusto preoccuparcene. Ma sarebbe più giusto preoccuparci, cosa che forse non avviene, della sorte dei cristiani copti in Egitto, della situazione delle donne in India, dell’odio verso Cristo e la Chiesa che quotidianamente esplode puntuale in gran parte del mondo. Forse la nostra attenzione è più concentrata sugli indici delle borse mondiali, piuttosto che sugli indici delle ingiustizie sociali che sconvolgono milioni di nostri fratelli. Abbiamo applaudito per le centinaia di miliardi di dollari, dati alle banche, pensando che salvino il mondo; e non ci indigniamo che poi nemmeno un millesimo sia destinato alla salvezza di intere nazioni povere e abbandonate. Non è una polemica, fratelli: è una semplice constatazione.
Forse la crisi economica mondiale ci farà finalmente accorgere che riceviamo molto di più da Dio che da Cesare. Possiamo avere meno soldi in mano: ma in contropartita, se ci pensiamo bene, abbiamo una grandissima ricchezza: abbiamo l’amore di Dio nei nostri confronti, e l’amore reciproco dei fratelli e sorelle nel mondo; una ricchezza enorme che nessuna crisi economica potrà mai portarci via.
Allora diamo solo un pezzetto di cuore a Cesare, fratelli; ma la gran parte riserviamola a Dio, e a tutto ciò che Egli ci pone accanto. Riconosciamo il valore di chi ci ama e di chi ci sorride; di chi si preoccupa di noi, di chi ci incoraggia, di chi crede in noi. E riconosciamo soprattutto che apparteniamo a Dio. Non attacchiamoci ai soldi, al successo, agli onori, alla carriera, al giudizio degli altri. Usiamo le cose, ma amiamo le persone; riconosciamo che entrambe, pur con diverso valore, provengono da Dio.
Noi viviamo nello Stato, ma non apparteniamo allo Stato, apparteniamo a Dio: non dimentichiamolo mai, fratelli; non dimentichiamo mai la nostra origine. La nostra anima è di Dio e dobbiamo restituirla a Lui. Veniamo da Lui e un giorno ritorneremo a Lui: viviamo quindi come suoi figli, viviamo liberi, viviamo veri; viviamo prendendoci cura della nostra coscienza e del nostro cuore. Coltiviamo soprattutto l’immagine di Dio impressa nella nostra anima, perché è sua: coltiviamola e soprattutto viviamo per restituirgliela, immacolata e splendente come l'abbiamo ricevuta. Con questo atteggiamento, fratelli, ci sentiremo integrati e protetti, non più soli, ma dentro una storia, accompagnati dalla Vita per eccellenza e sostenuti dall’Amore assoluto. Amen.