venerdì 19 novembre 2010

21 Novembre 2010 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Festa di Cristo Re dell'Universo

«In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
La festa di oggi, Gesù Cristo re dell'Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, che sfida la nostra fragile contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re, significa che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla mia storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo nel mondo contemporaneo; credere invece che il mondo – nonostante tutto – non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui la comunità ecclesiale guarda avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Cristo, un re fuori dagli schemi, dunque. Peggio: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio, perché questo Dio Re è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Questo è il nostro Dio, fratelli: un Dio sconfitto; non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che è però un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. "No, grazie". Forse gli preferiamo un Dio severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono?
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede solo superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il pensare agli altri. Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, che può permettersi di pensare solo a sé, che ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri. In quest’ottica Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo politico riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, fratelli e sorelle: il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono la sintesi del nostro diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, come ad esempio una redenzione in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo, se va va. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come – purtroppo spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, salvezza.
Ecco, questa è l'icona del discepolo, fratelli e sorelle: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione, la tenerezza, l’amore e il perdono. Nella nostra sofferenza umana, abbiamo due possibilità: possiamo cadere nella disperazione o cadere ai piedi della croce e riconoscere: “davvero quest'uomo è il Figlio di Dio”.
Si fratelli miei: Dio è veramente un re anormale; un re difficile da capire con la nostra logica umana.
Un re che indica un altro modo di vivere, un altro modo di pensare; un pensare che contraddice totalmente il nostro “prima di tutto salviamo noi stessi e poi, semmai, salveremo anche gli altri”.
E allora siamo onesti, fratelli: lo capiamo veramente un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? Un Dio che è amore e misericordia per tutti? È questo, davvero, il Re che vogliamo?
Non diamo una risposta affrettata, per favore; perché se affermativa – sincera e ragionata come è logico che sia – non possiamo in alcun modo accampare ulteriormente delle scuse per dedicarci a tempo pieno alla nostra conversione personale. Sincera e definitiva. Amen.

martedì 9 novembre 2010

14 Novembre 2010 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine»
L’anno liturgico che ormai volge al termine suscita in noi, attraverso la Parola del Signore, il desiderio di incontrare il suo Volto. Un volto che apparirà in tutto il suo splendore domenica prossima, quando lo celebreremo Re dell'universo, Signore del tempo e della storia.
Oggi le letture ci invitano a vivere il tempo come luogo di salvezza: anche se, ad una lettura superficiale, la Parola di questa domenica potrebbe incutere timore e alimentare in noi la paura di Dio, del suo giudizio, della sua condanna, in considerazione del fatto che vengono affrontate le problematiche della fine della vita dell'uomo e del mondo.
La Parola di Dio invece è sempre incoraggiamento, consolazione, forza, anche nelle situazioni più difficili, nelle sofferenze, nelle persecuzioni. Egli vuole renderci coscienti e responsabili per rinnovargli la fiducia, per lasciarci salvare da Lui.
Di fronte agli eventi drammatici del nostro tempo, siamo invitati a non temere, a crescere nella consapevolezza che solo Dio è il Signore della storia e solo lui ha in mano le redini del mondo. Siamo chiamati alla perseveranza, a non desistere dal credere, sempre e comunque, nella fedeltà del Signore, certi che "chi persevererà sarà salvato" e che ci verrà finalmente donato la pienezza della vita.
È vero che la nostra ineliminabile aspirazione alla felicità viene continuamente frustrata dalla consapevolezza che l'umanità è diretta verso un'esistenza sempre più faticosa e problematica. Forse per questo ci lasciamo andare a falsi profeti che propongono mete artificiali per dimenticare la realtà del tempo che passa, per scacciare la paura della fine che avanza; mete che assicurano la felicità nella ricchezza effimera, nel benessere, mete che promettono una vita priva di intoppi e di difficoltà, in un corpo perennemente giovanile, affascinante e perfetto grazie agli ultimi ritrovati della scienza estetica. Ma questa distorsione della realtà, rifiutata nella sua drammaticità e nella sua caducità, diventerà inesorabilmente ulteriore motivo di paura e di ansia. Assistiamo sempre più ad un pessimismo che striscia nelle nostre strade e s'incunea in molti cuori, corrosi da una disperazione che si maschera di indifferenza, o si nasconde nella ricerca di soddisfazioni che appaghino questo desiderio di vivere e di vivere felici.
Al contrario l'atteggiamento giusto è quello di quanti aspettano con gioiosa serenità il giorno della venuta gloriosa di Cristo: di coloro che si disinteressano del mondo, considerandosi estranei a un'umanità che, pur redenta, rifiuta la mano tesa di Gesù.
Il forte richiamo di Paolo ai Tessalonicesi – che nell'attesa della fine del mondo "vivevano disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione" – insegna che dobbiamo vivere il frammento di tempo che ci è concesso, con impegno, nell'amore per i fratelli, svolgendo bene quei compiti che Dio ci ha affidato. Perché, fratelli, noi ci salviamo soltanto insieme agli altri, attraverso gli altri. La salvezza passa per l'amore di Dio che trabocca sui nostri fratelli, dei quali bisogna guadagnare il maggior numero a Cristo.
Perché se è Gesù Cristo che ha redento il mondo, oggi lui opera nel mondo attraverso noi cristiani, membra del suo corpo, la Chiesa. Se amiamo in questo modo il mondo, già solo per questo in qualche modo lo stiamo cambiando; c'è infatti un primo frammento di mondo che cambia, ed è il nostro cuore.
Dobbiamo allora avere fiducia in Lui, in Gesù. Egli non vuole spaventarci inutilmente. Vuole che ritorniamo alla fede in modo puro e vero, perché Fede è fidarsi ciecamente del Dio artefice della storia umana che è anche il Dio della mia storia personale.
A salvare il mondo non saranno né gli scudi stellari e nemmeno tutti i più sofisticati sistemi di sicurezza. A salvare la mia vita non saranno i soldi o i successi che saprò accumulare.
La mia salvezza viene da Dio che mi conosce fino in fondo. Il mio atteggiamento deve esser quello dell'impegno coraggioso nel dargli testimonianza. Ciò significa avere il coraggio di affrontare la vita, di seguire la sua chiamata, anche se non sono perfetto, se non sono "angelico". Significa impegnarmi perché coloro che ho attorno non cadano nella paura e nella rassegnazione, ma riprendano forza dal mio esempio. E in questo impegno d'amore, testimonio Dio che so che non lascerà perire nemmeno un capello del mio capo... anche quando sembra che siano già caduti tutti!
Dobbiamo dirlo, dobbiamo testimoniarlo, perché in giro, fratelli, c’è tanta paura, tanta incertezza per il futuro. Le notizie e le ipotesi sul domani del genere umano e sulla vita futura di questa nostra terra, si concentrano tutte in una direzione negativa, rendendo attualissime e temibili le parole di Gesù, quando afferma che guerre, rivoluzioni, terremoti, fatti terrificanti, carestie e pestilenze precederanno la fine del mondo. L'azione dell'uomo sembra addirittura impedire che la natura mantenga un equilibrio e salvi se stessa, al punto che la terra – la casa che Dio ha affidato all'umanità perché la abitasse e la custodisse – sta diventando lo scenario desolante di odi ed egoismi che si combattono e si distruggono a vicenda.
“No – dice Gesù; – state sereni. Non sono questi i segni della fine. Non sono questi i segnali di un mondo che precipita nel caos. Già io ho dovuto confrontarmi con questa follia, in un mondo – il mio – ben più aggressivo del vostro”.
E, sorridendo, continua: “cambia il tuo sguardo. Guarda alle cose positive, al tanto amore che l'umanità, nonostante tutto, riesce a produrre, allo stupore che suscita il Creato e che tutto ridimensiona; al Regno che avanza nei cuori, timido, discreto, pacifico, disarmato”.
“Guarda a te stesso, fratello mio – aggiungo io – a quanto il Signore è riuscito a compiere in tutti gli anni della tua vita, nonostante tutto. A tutto l'amore che hai donato e ricevuto, nonostante tutto. Guarda a te e all'opera splendida di Dio, alla sua manifestazione solare, al bene e al bello che ha creato in te. Guarda e non ti scoraggiare.
Di più: la fatica può essere occasione per tutti noi di crescere, di credere. La fede si affina nella prova, diventa più trasparente, il nostro sguardo diventa più luminoso: diventiamo testimoni di Dio, e quando il mondo ci giudica, allora diventiamo santi davvero! Così, senza che ce ne accorgiamo, fratelli e sorelle, ci scopriremo veri credenti! Se il mondo ci critica, se ci attacca e ci disprezza, non mettiamoci sulle difensive, non cadiamo nella trappola, non ragioniamo con la sua logica: ma affidiamoci in tutto allo Spirito.
Si, fratelli: perché quando il mondo parla o sparla troppo della Chiesa (uno sport molto seguito in questi tempi), è allora che la Chiesa deve parlare ancor più di Cristo! Amen.

mercoledì 3 novembre 2010

7 Novembre 2010 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario

"Dio non è dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui".
Quest'affermazione perentoria di Gesù ci dà la possibilità, oggi, di affrontare un ultimo tema sul discepolato.
L'occasione è una discussione (benedette discussioni!) di Gesù con i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice di Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosè. Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato (la discendenza era così importante che un fratello doveva dare un figlio alla cognata vedova!) pongono a Gesù un caso paradossale (la famosa storia della vedova "ammazzamariti"!).
Gesù come al solito pone la riflessione su un piano diverso, invita gli ascoltatori ad alzare lo sguardo da una visione che proietta di fatto oltre la morte le ansie e le attese di questa vita terrena. È una nuova dimensione quella che Gesù propone, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (attenzione: nel regno ci riconosceremo ma saremo tutti nel Tutto!), ma che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), una visione che ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
E qui val la pena riprendere la lapidaria affermazione iniziale di Gesù: “Dio è Dio dei vivi, perché tutti vivono in lui”.
Giunti ormai alla fine di questo anno di riflessione sul discepolato, guidati dal Vangelo di Luca, non possiamo evitare di porci una duplice domanda: noi, crediamo veramente nel Dio dei vivi? E noi, siamo veramente vivi?
Capirlo è abbastanza semplice, fratelli: crediamo nel Dio dei vivi se per noi la fede è ricerca, non stanca abitudine; doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere; slancio e preghiera, non rito e superstizione. Dio è vivo in noi, se ci lasciamo incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, per cui, dopo il suo incontro, nulla è più come prima. Crediamo in un Dio vivo se accogliamo la Parola (viva!) che ci sconquassa, ci interroga, ci dona risposte. Crediamo nel Dio dei vivi se ascoltiamo quanti ci parlano (bene) di lui, quanti - per lui - amano.
Nel mare infinito di cattiverie, di sopraffazioni, di intolleranze, di crudeli vendette, di ogni genere di violenze, in cui quotidianamente i media ci sommergono, è veramente emozionante vedere riproposte ogni tanto delle storie fatte di luce: la Chiesa che aiuta gli alluvionati e sinistrati di ogni parte del mondo, preti che donano speranza ai carcerati, frati poveri con i barboni, suore che si consumano per i derelitti, missionari che promuovono dignità per le donne, aiutandole ad uscire dalla miseria e dalla schiavitù maschile. Ecco: un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Siamo vivi (io lo sono?) se abbiamo imparato ad andare fermi dietro a Lui; se non ci lasciamo ingannare dalle sirene che ci promettono ogni felicità se possediamo, se appaiamo, se recitiamo, produciamo, guadagniamo, seduciamo etc.; se sappiamo perdonare, se sappiamo cercare, se abbiamo capito che questa vita ha un valore da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della nostra storia.
Questa deve essere la nostra convinzione, fratelli, questa deve essere la nostra Fede: una fede che diventa possibilità di produrre bontà, che diventa vita nuova per gli altri. Diversamente non è vita, e noi non vivremmo! Per essere Suoi dinamici discepoli, dobbiamo andare a fondo, nonostante la fatica, nonostante le paure, nonostante l'incertezza nel trovare il nostro ruolo, nonostante la scoperta di tante nostre debolezze; ma con la certezza che Lui abbraccerà, con noi, anche tutte le nostre miserie e incongruenze. Quindi, fratelli e sorelle, proviamoci! Diventiamo anche noi discepoli vivi di un Dio vivo, perché solo così potremo già da oggi, vivere realmente da vivi. Amen.

martedì 26 ottobre 2010

31 Ottobre 2010 - XXXI Domenica del Tempo Ordinario

È difficile parlare oggi di peccato, difficile e anche imbarazzante. È un argomento “out”, fuori di moda, inusuale. Ci troviamo a dover fare i conti con due mentalità di fondo, diametralmente opposte; conseguenza rispettivamente di una cultura religiosa intransigente l’una, lassista e permissiva l’altra.
Da una parte proveniamo infatti da un passato che aveva bene in mente cosa era peccato, fin troppo. Al punto che la legge di Dio si era lentamente compenetrata con quella degli uomini, facendo perdere di vista l'essenziale, cioè la bontà e la misericordia di Dio, ed enfatizzando unicamente il suo ruolo di giudice, severo e inflessibile. Molte delle persone che hanno vissuto tutta la loro vita attente a non peccare, lo hanno fatto con la convinzione che bastasse non infrangere materialmente le prescrizioni di Dio e della Chiesa, indipendentemente dalle disposizioni interiori, dalla carità e dall’amore; in una società ipercritica e severa, obbedivano più ad un codice comportamentale che al Vangelo, che è invece compendio di amicizia e di amore divino.
Dall’altra parte, viviamo in un presente in cui si è abolito per legge il peccato: la morale comune è stata ridotta ai minimi termini; cosa è giusto e cosa è sbagliato lo decide la maggioranza, il potere, la pubblicità, i media; la coscienza, se esiste ancora, deve necessariamente adeguarsi. Siamo severi ed intransigenti con gli altri, morbidi e comprensivi con noi stessi e con le nostre incoerenze. Insomma, un bel guaio. Ma, fratelli, consoliamoci: c'è anche di peggio.
E il peggio è il nostro “dentro”, l'inconscio, la nostra anima, la parte più profonda di noi, quella che conosciamo solo noi. Quel luogo personalissimo dove riusciamo finalmente a percepire cosa realmente gli altri si aspettano da noi, e riusciamo a capire nettamente cosa è giusto fare e cosa no. E il peggio è questo: perché anche qui, alcuni di noi riescono con grande facilità a farsi una crosta di indifferenza alta tre dita, appiattendo tutto e tutti. Altri invece, più deboli, vivono pieni di paure e sensi di colpa. E in tutta questa incoerenza, pur in questo posto privilegiato, è difficile che Dio riesca a dire qualcosa; difficile che venga a crearsi quella sottile armonia che ci avvicina a Dio, prendendo coscienza dei nostri limiti; difficile riconoscere e superare i sensi di colpa, faticoso mettere in minoranza la parte oscura e negativa di ciascuno di noi. Ma anche questa volta non dobbiamo disperare. La Parola, come sempre, ci viene in aiuto.
Dio non ama il peccato, non lo conosce neppure, non lo concepisce.
Il peccato è il non-io, il non-Adamo, la parte tenebrosa che finisce col prevalere, il piccolo orco che nasce insieme a noi e che ci tiene compagnia per tutta la vita. In ebraico la parola "peccato" significa "fallire il bersaglio", come capita all'arciere inesperto. Così come purtroppo capita a tutti: ma a noi, no! Noi tutti, pronti a dire che il bersaglio è troppo lontano, che l'arco è allentato, che qualcuno ci ha distratto. Classiche scuse di chi ha un cuore piccino!
Dio, invece, ci considera adulti e ci tratta come tali: ed ha tanta pazienza; ama senza limiti.
Scordiamoci l'idea infelice e demoniaca di un Dio severo, assetato di sangue, che giudica duramente le sue creature: egli le ama invece: e sopporta il loro peccato, come dice la splendida prima lettura, perché pensa che tutti ce la possono fare. Noi ci ostiniamo ad essere dei polli; Dio invece vede in noi dei potenziali falchi che possono volare alto. Noi ci ostiniamo ad essere fotocopie di assurdi modelli, mentre Dio vede in noi il capolavoro unico che siamo. Noi nascondiamo i nostri difetti agli altri: Dio invece vede solo i pregi che egli ha creato in noi.
Insomma, una meraviglia, uno stupore. È tutto talmente splendido che anche il peccato perde la sua connotazione deprimente.
Pensiamo che questo sia troppo? No, fratelli! Chiediamolo a Zaccheo!
Zaccheo era un manager arrivato: aveva fatto soldi a palate con la riscossione delle tasse per conto dell'invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani della finanza di oggi, per i quali conta solo il profitto personale; tutto il resto è relativo.
Un tizio sì rispettato, Zaccheo, ma temuto e odiato dai suoi concittadini: un suo gesto, e i soldati romani intervenivano. Uno che pur avendo tutto, era rimasto completamente solo. La ricchezza e il potere sono molto avari di amici veri e di gratuità.
Zaccheo dunque ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta e, curioso, lo vuole vedere senza farsi vedere. E accade l'inatteso: Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te. Zaccheo è interdetto: “Come fa a conoscere il mio nome? Cosa vuole da me? Forse mi ha confuso con qualcun altro?” Non importa, Zaccheo scende, di corsa. Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: va a casa sua, si ferma, porta salvezza. Zaccheo è confuso, turbato, vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph è venuto a casa sua. Si sente ribaltato come un calzino. Gesù cercava proprio lui, non si è sbagliato di persona. Voleva proprio lui, non c'è dubbio. Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito.
Zaccheo a questo punto fa una solenne promessa che lo porterà alla rovina (leggiamo bene: restituisce quattro volte ciò che ha rubato!); ma che importa? Ora lui si sente salvo. Non più lui solo sazio, solo temuto, solo potente, inutilmente. No, finalmente salvo, finalmente discepolo. Lui, temuto ed odiato, ora è discepolo.
Meditiamo dunque, fratelli e sorelle: è Dio che ci cerca, è lui che prende l'iniziativa. Dio ci ama, senza giudicarci. Cerchiamo colui che ci cerca. La nostra vita cessi di essere una specie di rimpiattino, lasciamoci raggiungere, finalmente! Gesù non giudica Zaccheo, lo aspetta.
L'amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama per il fatto che siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni. Gesù non chiede: dona, senza condizioni.
Se Gesù avesse detto: "Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua", credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull'albero!
No: Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta necessariamente a convertirci.
Questo è tutto, fratelli, amici, discepoli. Chi vuole seguire Gesù si faccia dunque avanti, scenda dall'albero, si schieri. Non importa chi sei tu veramente, né quanta strada hai fatto o che errori porti nel cuore. Non importa se scruti il passaggio del Maestro per semplice curiosità.
Non importa nulla; perché una cosa è certa: oggi, ora, in questo istante, lui vuole entrare nella tua casa. Amen!

mercoledì 20 ottobre 2010

24 Ottobre 2010 - XXX Domenica del Tempo Ordinario

Perseverare in una vita di fede, in tempi così problematici come quelli odierni, richiede una costanza e una determinazione fuori dal comune. I ritmi della vita, le continue spinte che ci allontanano dalla visione evangelica, un certo sottile scoraggiamento, ci impediscono, realisticamente, di vivere con serenità il nostro discepolato.
Domenica scorsa abbiamo visto che la preghiera è una questione di fede: credere che il Dio che invochiamo non è una specie di sommo organizzatore dell'universo: un faccendiere che, opportunamente lusingato, potrebbe anche concederci ciò che chiediamo. Dio non è un potente da blandire, un giudice corrotto da convincere, non è un politico da cui farsi raccomandare, ma un padre che sa ciò di cui abbiamo bisogno. Se la nostra preghiera fa cilecca, sembrava suggerirci Gesù, è perché manca l'insistenza. O manca la fede.
Oggi, con la parabola del pubblicano e del fariseo – cruda fotografia di una mentalità piuttosto comune – ci viene suggerita un'altra pista di riflessione.
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…»
I farisei erano devoti alla legge, cercavano di contrastare il generale rilassamento del popolo di Israele, osservando con scrupolo ogni piccolissima direttiva della legge di Dio. L'elenco che il fariseo fa', di fronte a Dio, è corretto: per puro zelo il fariseo paga la decima parte dei suoi introiti, non soltanto, come tutti, dello stipendio, ma finanche delle cose più piccole ed insignificanti che entrano in suo possesso!
Qual è, allora il problema del fariseo? Semplice, dice Gesù, è talmente pieno della sua nuova e scintillante identità spirituale, talmente consapevole della sua bravura, talmente riempito del suo ego (quello spirituale, il più difficile da superare), che Dio non sa proprio dove mettersi.
Peggio: invece di confrontarsi con il progetto (splendido) che Dio ha su ciascuno di noi (e su di lui), si confronta con chi è peggiore, come con quel pubblicano, lì in fondo, che – lui ne è certo! – non dovrebbe neanche permettersi di entrare in chiesa!
Questo è il nocciolo della questione: succede che ci mettiamo – a volte anche sul serio! – alla ricerca di Dio. Desideriamo profondamente conoscerlo, diventare discepoli, ma non riusciamo a creare uno spazio interiore sufficiente perché egli possa manifestarsi. Abbiamo la testa e il cuore ingombri di preoccupazioni, di desideri, di pensieri, di confronti da fare – a volte anche stupidi – e concretamente non riusciamo a fargli spazio. Oppure accade che, dopo un'esperienza fulminante, che so, un ritiro, un pellegrinaggio, sentiamo forte la sua presenza, ma, una volta tornati a casa, la nostra testa viene riempita dalle preoccupazioni del quotidiano, del come vivere in questo mondo.
Non è solo il problema dell'orgoglio. E' proprio una complicazione dell'esistere, una vita che non riesce ad uscir fuori dal buco nero in cui si è infilata. Una vita che, con tutto il nostro daffare, si dimentica di Dio. Giornate intere in cui tutto ci assilla, meno che il bisogno di fermarci un istante e rivolgere a Lui una preghiera. Tutto è troppo importante!
Che fare allora? A dirlo è semplice: ma dobbiamo necessariamente ritagliare nella nostra giornata qualche minuto di assoluto “relax”, di vuoto mentale, per entrare dentro di noi (ricordate? “introire secum”), nel nostro cuore, nel silenzio della nostra anima: perché è questo il luogo più semplice in cui raggiungere Dio, per stare un po’ con Lui.
Purtroppo fratelli e sorelle, noi moderni cristiani – come già il fariseo – non abbiamo spazio per l'interiorità; questo è il nostro grave problema!
Il pubblicano della parabola, invece, di spazio ne ha tanto.
Il denaro che ha guadagnato con disonestà, l'odio dei suoi concittadini (è un collaborazionista!), l'amara impressione di avere fallito tutte le sue scelte, creano un vuoto dentro di lui, un vuoto che Dio saprà riempire. Consapevole dei suoi limiti, li affida al Signore, chiede con verità e dolore, che Dio lo perdoni. E così accade.
Ecco, fratelli, questo è il monito del Vangelo di oggi: dobbiamo lasciare un po' di spazio al Signore, non dobbiamo vivere di presunzione, di pretese; non sprechiamo il nostro tempo ad elencare le nostre virtù e i nostri meriti.
Siamo tutti nudi di fronte a Dio, tutti mendicanti, tutti peccatori. Ci è impossibile giudicare, se non a partire dal limite, se non da quell'ultimo posto che il Figlio di Dio ha voluto abitare.
Ancora una volta, il Signore chiede a ciascuno di noi l'autenticità, la capacità di presentarci di fronte a lui senza ruoli, senza maschere, senza paranoie.
Dio non ha bisogno di bravi ragazzi che si presentano da lui per avere una pacca consolatoria sulle spalle, ma di figli che amano stare col padre, nell'assoluta e (a volte) drammatica autenticità.
Questa, e questa sola, fratelli, è la condizione per ottenere, come il pubblicano, la nostra conversione del cuore. Amen.

mercoledì 13 ottobre 2010

17 Ottobre 2010 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Il messaggio della Parola di oggi è abbastanza evidente: non bisogna stancarsi mai di pregare.
Personalmente amo la preghiera e sento di averne un gran bisogno, come tutti del resto. Sento anche che, dalla preghiera, posso trarre una forza straordinaria che mi aiuta a superare le mille difficoltà della vita. Purtroppo però, mi riesce difficile concentrarmi, mi rendo conto di pregare male, mi distraggo troppo. Conosco e frequento fin da ragazzo una osservante comunità di monaci benedettini, con alcuni dei quali sono in grande confidenza (sono stati miei compagni di gioventù); bene: loro che pregano sei, otto ore ogni giorno, mi hanno confidato che anche per loro è difficile pregare. Già in tempi non sospetti, infatti, quando il mondo era meno alienante di quello attuale, san Benedetto raccomandava nella sua Regola: “Mens tua concordet voci tuae – La tua mente sia collegata con la tua voce”. In altre parole, “fate sempre attenzione a quel che dite”. Una cosa facile all’apparenza, ma difficilissima nella pratica, soprattutto quando la formula è ripetitiva come per esempio nel salmodiare o nelle Ave Maria del Rosario.
Pertanto, se per noi pregare bene è difficile, convincere gli altri a farlo è pressoché impossibile. Come è altrettanto impossibile – cosa straordinaria e consolante – far smettere di pregare chi, pregando, ha scoperto il vero volto di Dio.
Del resto la preghiera è un'esperienza unica, intima e personalissima: impossibile farne una "scienza" per imporla agli altri. I libri che insegnano a pregare servono soltanto a chi li ha scritti!
La preghiera è il santuario in cui scopriamo il vero volto di Dio, il luogo dove l'anima si incontra con la nostra vita incoerente e sconclusionata.
Abbiamo pregato tantissime volte nella nostra vita; è vero: e forse Dio non ci ha mai dato ciò che chiedevamo. Però, sicuramente, ci ha dato tutto ciò che il nostro cuore desiderava, senza saperlo.
"Bussate e vi sarà aperto", dice il maestro. E di porte se ne sono aperte tante, ma forse non proprio quelle che volevamo noi, bussando!
Sicuramente, la porta dell'interiorità, del vero volto di Dio, della scoperta del nostro intimo e delle nostre reali necessità, riusciamo ad aprirla solo se insistiamo, se non ci scoraggiamo, se accettiamo a volte anche di sentirci stanchi, sfiduciati; se ci sediamo sconfortati, lasciando addirittura che qualcun altro ci sorregga le braccia tese verso l'alto, come Mosè nella prima lettura (splendida immagine di Chiesa, vero?)
Troppo spesso inoltre non riusciamo a percepire il volto dolce del Padre.
Per questo dobbiamo essere insistenti, fratelli. Dobbiamo essere di testa dura. E quand'anche percepissimo Dio come un giudice incomprensibile – “disonesto” dice il Vangelo – un giudice che non interviene nella vita dei deboli, che ci assilla con regole incomprensibili, che immaginiamo insensibile alle nostre scelte e alle nostre tragedie, quand'anche Dio fosse quel "mostro" che il nostro inconscio ottenebrato dipinge, nel quale certi cristiani purtroppo si ostinano a credere, bene: anche allora siamo chiamati a insistere.
Insistere non per convincere Dio, ma per convertire il nostro cuore.
Insistere per purificare il nostro cuore e scoprire che Dio non è un giudice, né giusto né ingiusto, ma un padre, un padre tenerissimo.
Insistere non per cambiare radicalmente le cose, neppure per cambiare noi stessi, ma per vedere nel mondo il cuore di Dio che pulsa.
Insistere nella battaglia che, quotidianamente, dobbiamo affrontare, come Mosè che pregava per vincere.
Insistere sempre, dunque. Con tanta fede. Con una fede incrollabile.
A proposito, come stiamo a fede? Gesù pone una domanda tremenda: "Quando tornerò, troverò ancora la fede sulla terra?". Una domanda che dovrebbe farci riflettere seriamente, farci venire il batticuore.
Si, perché anche se Gesù è venuto, splendore del Padre, e ci ha detto e dato Dio, perché egli stesso è Dio. Anche se ha convinto il mondo, riempiendolo di Spirito, purtroppo – riguardo a Dio – il mondo, la Chiesa e noi, rischiamo continuamente di scordarci il Suo volto, per sostituirlo con quello approssimativo delle nostre abitudini e del nostro egoismo.
In uno slancio di follia Gesù ha affidato il Regno alla Chiesa, a questa Chiesa, alla mia Chiesa, a noi battezzati, perché diventassimo testimoni del Padre: a questa Chiesa debole, fatta di uomini deboli, anche se trasfigurati dallo Spirito. Per questo noi una cosa siamo chiamati a fare, seriamente, convintamente: pregare con fede, chiedere con estrema fiducia. E avere fede. Tanta fede.
Gesù tornerà, lo sappiamo, nella pienezza dei tempi, quando ogni uomo avrà sentito annunciare il Vangelo di Cristo. Verrà per completare il nostro lavoro: a meno che il lavoro non sia fermo, paralizzato dall'incompetenza delle maestranze, dalla polemica dei ricorsi, dall'egoismo del particolarismo, dal litigio degli operai.
Ci sarà ancora fede?, si chiede Gesù. Non dice: "Ci sarà ancora un'organizzazione ecclesiale? Una vita etica derivante dal cristianesimo? Delle belle e buone opere sociali? Delle solerti organizzazioni ecclesiali?" Non chiede: "La gente andrà a Messa, i cristiani saranno ancora visibili, professeranno ancora i valori del vangelo?". No di sicuro, fratelli e sorelle. È la fede che chiede il Signore. Non l'efficienza, non l'organizzazione, non la coerenza, non la struttura.
Tutte cose essenziali, è vero. Ma solo se portano e coltivano la fede. Inutili e pericolose, se autoreferenziali, se autocelebrative. Altrimenti rischiamo di confondere i piani, di lasciare che le cose penultime e terzultime prendano il posto delle “cose ultime”.
Accettiamo allora, fratelli e sorelle, il sano rimprovero di Gesù oggi, il suo sano realismo, la sua sconcertante provocazione. Conserviamo la fede nelle avversità, non demordiamo, non molliamo; ma continuiamo con costanza la disarmata e disarmante battaglia del Regno. Amen.

martedì 5 ottobre 2010

10 Ottobre 2010 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Gesù sta salendo verso Gerusalemme col volto “indurito”, deciso cioè di rendere testimonianza al Padre, costi quel che costi. Non lo sanno, gli apostoli, che il Rabbì già vede il fallimento della sua missione e che questa sensazione non fa che motivarlo e spingerlo al dono totale di sé.
Sulla strada gli si fanno incontro dieci lebbrosi che urlano a distanza. La lebbra è una malattia terribile e devastante, che fa marcire il corpo, lo spirito e le relazioni.
Dei dieci uno è straniero, nemico, un samaritano. Ma la malattia e il dolore accomunano tutti gli uomini, senza distinzioni di religione o di etnia. Urlano il loro dolore, il loro abbandono, il loro lento ed inesorabile imputridire.
Gesù chiede loro di andare dai sacerdoti per essere guariti.
È vero: a volte Gesù ci chiede di andare proprio da un prete per poter guarire.
È una tradizione che rimanda all'antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da medico ufficiale: solo lui infatti poteva attestare la guarigione e il reinserimento nella comunità di un lebbroso.
Questa richiesta, da parte di Gesù, indica il suo profondo rispetto per il passato di Israele; egli non è venuto a cambiare un iota o un segno, ma a dare compimento, a riportare alla propria origine il progetto di Dio. Di più: la guarigione non è istantanea, richiede un cammino, un fidarsi; Dio non ama i miracoli eclatanti, chiede sempre consapevolezza, cammino, fiducia, mediazione.
I dieci vanno dunque e, mentre camminano, si accorgono di essere guariti.
Anche a molti di noi accade di guarire per strada, quando la smettiamo di porre condizioni a Dio e a noi stessi. Stupiti, frastornati, sconvolti, i lebbrosi guariti obbediscono all’invito di Gesù e vanno dal sacerdote. Eccetto uno, il samaritano, colui che non ha un Tempio, che non ha sacerdoti, non ha una religione ufficiale. Non sa dove andare, e torna sui suoi passi. Uno solo torna a ringraziare, pieno di fede.
Gesù, sconfortato, constata che dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato.
Una volta guariti, le differenze tornano (mistero dell'umana fragilità!): nove vanno al Tempio e il samaritano, di nuovo solo, senza un tempio in cui essere accolto, corre dal tempio della gloria di Dio che è Gesù. Il samaritano torna indietro lodando Dio a gran voce, non può tacere, urla la sua gioia: la sua solitudine e la sua emarginazione sono finalmente finiti.
E gli altri? Chiede Gesù. Nulla, spariti, scomparsi.
Guarire gli uomini dalla loro ingratitudine è ben più difficile che guarirli dalle loro malattie.
La gratitudine, la festa, lo stupore, sono atteggiamenti connaturali all'uomo; eppure spesso, nella nostra vita, vengono manifestati troppo poco o nulla. Siamo tutti molto lamentosi, sempre pronti a sottolineare il negativo che pesa come un macigno nelle nostre bilance.
Diamo tutto per scontato: è normale esistere, vivere, respirare, amare; è normale nutrirsi, lavarsi, abitare, lavorare... Sono cose che diamo per scontate, dovute: il nostro sguardo, abituato ad esse, non sa più aprirsi alla gratitudine. Come sarebbe bello incontrare la domenica uscendo dalla chiesa - almeno ogni tanto! - qualcuno che torna a casa sua felice, lodando Dio... Come sarebbe bello vedere più sorrisi sulle labbra dei cristiani, più lode nelle loro preghiere, più gratitudine nei gesti di coloro che, guariti dalle loro solitudini interiori e dalla lebbra che è il peccato, sono anche salvati e fatti Figli di Dio.
Si, fratelli e sorelle: noi che siamo gli incontentabili discepoli del Signore, dobbiamo stare molto attenti a non cadere nell’ingratitudine. Oltretutto essere guariti non significa essere automaticamente salvati.
I nove ingrati sono la perfetta icona del nostro cristianesimo, molto diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente guaritore da invocare nei momenti di difficoltà. Che triste immagine di Dio si costruiscono coloro che ricorrono a Lui "quando c'è bisogno"; che lasciano Dio lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi e tirarlo in ballo quando qualcosa va storto nei loro progetti (sottolineo nei “loro”, non in quelli di Dio!).
Anche i nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano, ma non sono salvati. Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla lebbra sulla pelle, non riescono a vedere la lebbra che hanno nel cuore. Il Dio che hanno invocato è il Dio dei rimedi impossibili, non il Tempio in cui abitare; è il Potente da corrompere e convincere, non il Dio che, nella guarigione, testimonia che è arrivato il tempo messianico.
Che triste idea di Dio hanno questi lebbrosi! Una visione della fede superstiziosa e magica, che accusa Dio delle nostre malattie, che mette Dio alla sbarra, accusandolo.
La malattia e la morte ricordano al nostro mondo contemporaneo, perso nel delirio di onnipotenza, che siamo creature fragili, che viviamo la nostra vita come un soffio, che il nostro corpo è mortale.
Scontrarsi allora con queste dure realtà, ci deve aprire, paradossalmente, la porta attraverso cui entrare nel nostro mondo interiore. Davanti alla sofferenza, come i due ladroni sulla croce, possiamo bestemmiare Dio accusandolo di indifferenza, o accorgerci che sta morendo accanto a noi; precipitare nella disperazione, o cadere in ginocchio ai piedi della croce.
E concludo: nella nostra vita è sufficiente avere la salute? Certo, la salute è un bene prezioso, e va conservata con uno stile di vita adeguato, senza dimenticare peraltro che la pace del cuore di chi incontra Dio e scopre il proprio progetto di vita, concorre senz’altro al raggiungimento di un fondamentale benessere psicofisico. Tutti sappiamo però che la salute non ci basta; abbiamo soprattutto bisogno della felicità.
Bene: Gesù oggi ci dice appunto che la salute non è tutto; più della salute c'è la salvezza: e la vera felicità sta proprio nell'aprire il nostro cuore alla gratitudine verso un Dio che ci guarisce – nel profondo – da ogni solitudine, da ogni dolore, da ogni angoscia esistenziale.
Ecco: raggiungere questa felicità, fratelli e sorelle, dipende esclusivamente da noi.
Non perdiamo tempo prezioso. Amen.