giovedì 9 ottobre 2008

12 ottobre 2008 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Venite alle nozze!»
Il tema della “convocazione” e del “raduno” universali percorre la Scrittura in tutti i suoi libri e definisce l’esperienza sia di Israele sia della Chiesa. Il popolo eletto percepisce la sua unità come quella di un raduno continuamente provocato dalla convocazione di Jahwè. Il quadro di questi raduni è quasi sempre cultuale e sacrificale e si richiama al grande raduno in cui fu conclusa l’alleanza, e prelude al raduno escatologico universale. Quando i profeti evocano l’avvenire messianico, fanno appello al tema dell’assemblea nella quale Jahwè radunerà non solo le 12 tribù di Israele, ma tutte le nazioni della terra.
Il disegno di riunire tutte le nazioni si realizza in Cristo. Dio vuole operare questo raduno attraverso il popolo eletto, già precedentemente destinato nei piani di Dio ad essere lo strumento privilegiato del raduno universale. Ma il rifiuto di Israele lo priva del suo privilegio e la riunione universale si farà attorno al Cristo crocifisso che risuscita dai morti. Alcuni elementi caratterizzano questo raduno e lo distinguono da quello descritto dall’Antico Testamento. E’ Dio, attraverso Gesù, che “convoca” questo raduno, ma il suo disegno di riunificazione non potrà riuscire senza l’attiva partecipazione e collaborazione dell’uomo. Il disegno di Dio costituisce un compito per l’uomo. Il regno di Dio non discende dal cielo come un lampo. Se è vero che Cristo costituisce la pietra d’angolo della costruzione, gli uomini non possono esimersi dal collaborare all’innalzamento dell’edificio. Più nessun privilegio è riconosciuto ad Israele in questa riunione universale. E’ l’atto di nascita di un nuovo universalismo, del resto già previsto nell’Antico Testamento. Il convito sul monte il Signore lo preparerà per tutti i popoli (Prima Lettura).
Dal giorno della Pentecoste il segno e il luogo privilegiati della riunione universale voluta da Dio sono la Chiesa. Il miracolo delle lingue e la presenza a Gerusalemme di genti venute da ogni parte del mondo esprimono bene fin dal suo nascere la natura e la missione della Chiesa, il cui mistero può esprimersi proprio in termini di convocazione e di raduno. La Chiesa non è fedele a se stessa se non si pone come ponte che unisce gli uomini non solo con Dio, ma anche fra di loro. Essa ha per compito quello di andare incontro agli uomini e di raggiungerli là dove si trovano.
Nel mondo moderno, secolarizzato, la situazione e la presenza della Chiesa tra gli uomini è molto cambiata. In tempi di “cristianità” la Chiesa radunava non solo attorno all’Eucaristia, ma anche in molti altri settori della vita e dell’attività umana, sui quali esercitava una vera tutela; oggi questo compito è molto diverso per le mutate condizioni. Potremmo dire che la vera unità, il vero raduno degli uomini avviene, oggi, al di fuori della sfera d’influsso della Chiesa, quando non in opposizione ad essa. La convocazione e il raduno degli uomini avviene oggi attorno agli ideali di giustizia, di liberazione, di presa di coscienza della propria dignità, che raccolgono le masse in partiti, in sindacati. Gli uomini si ritrovano uniti nella lotta contro le malattie, la fame, nel tentativo titanico di liberarsi dalle schiavitù e dai limiti delle forze della natura; si raccolgono attorno alla scienza e alla tecnica alla quale credono come in una nuova e terrena speranza; si raccolgono e si uniscono compatti nella lotta di classe, contro l’oppressione e il potere di un sistema. Questa raccolta e questa riunione è favorita e resa possibile dai grandi mezzi di comunicazione sociale di massa: radio-TV, giornali, sport...Questo è il terreno dove gli uomini, oggi, si incontrano e dove l’uomo moderno ha sempre più coscienza di portare a termine un destino storico che sembra estraneo alle preoccupazioni religiose. In questa situazione il cristiano prova la sensazione di sentirsi “disperso” in mezzo agli altri uomini, ma il cristiano non è mai un “isolato” perché resta membro vivo della Chiesa. Per portare nel pieno della vita la testimonianza della risurrezione di Cristo, come lievito nella pasta, il cristiano disperso ha bisogno di “segni” ecclesiali che sono gli altri membri vivi della Chiesa, sacerdoti e laici, come lui immersi nelle realtà quotidiane. La “convocazione” della Chiesa, in questi ambienti, non avviene tanto attraverso la Parola proclamata come nel passato, ma passa attraverso la testimonianza dei credenti che è davvero un appello per tutti alla salvezza e a una “riunione” molto più totale e profonda di quella che l’uomo riesce a costruire con le sue sole mani.
Tutti invitati alle nozze! Per questo la Chiesa evangelizza, essa va sollecita, sulle vie del mondo, per chiamare con urgenza tutti al banchetto preparato dal Padre, sul monte del Signore. Egli manterrà le sue promesse. L’ospite divino che ci accoglie nella sua tenda prepara per noi una mensa divina, succulenta, raffinata; nessuno ci può toccare e fare del male, chi infatti tocca l’ospitato, tocca l’ospite a danno suo. I servi, vescovi, presbiteri, diaconi, evangelizzatori, oranti, invitano al banchetto! La mensa è ricca, è la Parola e i divini Misteri, capaci di saziare la nostra fame e sete di vita piena.

giovedì 2 ottobre 2008

5 ottobre 2008 - XXVII Domenica del Tempo ordinario

Lasciamoci coltivare dal Signore
Gesù ha scelto, nel suo ministero, un messianismo fatto di tenerezza e di toni pacati, rifiutando il miracolo e preferendo il dialogo all'atto di forza. Ora, a distanza di tre anni, Gesù sa di avere fallito la sua missione.
La gente lo ha seguito, prima attratta dalla sua mitezza, poi dal suo innovativo modo di parlare di Dio; i miracoli, compiuti con parsimonia, senza mai violare la libertà di chi vi assiste, hanno accresciuto al sua fama. Deluso e amareggiato, il Signore si ritira in una sfera più intima, ma anche dai suoi apostoli riceve una cocente delusione: non hanno capito il suo progetto, litigano (e ti pareva!) sul loro ruolo nel futuro governo di Israele.
La folla, dopo un primo momento di euforia, cambia idea sul Nazareno: il Regno di Dio non è arrivato, i romani sono ancora lì, con la loro arroganza; Gesù è solo un clamoroso bluff.
Totalmente Dio, totalmente di Dio, l'uomo Gesù di Nazareth, si accorge di avere sopravvalutato gli uomini, cede alla sensazione (terribile), di avere completamente fallito il bersaglio.
Una sensazione tragica, che ho visto sul volto di molti fratelli adulti, di molte sorelle, al tramonto della loro vita. La sensazione di chi non può più tornare sui propri passi.
Cosa fare, ora?
Gesù parla, gli occhi bassi, seduto, quasi pensando tra sé e sé.
Racconta di una vigna, una bella vigna, data in gestione a dei vignaioli assassini.
É la tragica storia di Dio e dell'umanità, di una incomprensione che fatica a risolversi, di un dolore, il dolore di Dio, che spiazza e interroga.
Il dolore di Dio, palpabile in questa tragica parabola, mi zittisce.
Gesù parla (me lo vedo), la voce rotta dall'emozione: che fare? Che farò?
La storia dell'umanità è la storia di un amore in crisi, di un innamorato passionale, Dio, e di una sposa tiepida e opportunista: l'umanità.
Leggete bene, ve ne prego: quanta dignità in questo padrone che prepara con cura e amore la vigna da dare in affitto, quanta idiota arroganza in questi fittavoli che pensano, uccidendo il figlio del padrone, di diventare eredi!
Immagine dell'umanità che non riconosce il proprio Creatore, il proprio limite, questa tragica parabola è la sintesi della storia fra Dio e Israele, fra Dio e l'umanità. L'uomo non riconosce il suo Creatore, si sostituisce a lui: ecco il peccato di fondo, la tragica fragilità dell'uomo, credere di essere autosufficiente, senza dover rendere conto, misconoscere il proprio limite.
Ancora oggi accade così, in questi deliranti tempi in cui, invece di riconoscere la propria origine e la propria dignità, l'umanità pensa a come fregare il proprietario, nega l'evidenza della propria creaturalità, si perde nel delirio di onnipotenza di chi crede di manipolare l'origine della vita, il cosmo, la natura.
Che fare? Mi commuove questo Dio onnipotente fermato dal nostro rifiuto, come un amante scosso, un genitore ferito, un amico che si scopre improvvisamente tradito.
Che fare? Questo Dio sconsiderato rischia la vita del figlio, pensando, così facendo, di suscitare rispetto nell'uomo, se non giustizia. E invece no, anche questo gesto è stravolto, incompreso.
Che fare? Gesù non sa più cosa dire, aspetta una risposta dai fittavoli che, ingenuamente, nell'ottusità del loro cuore, non capiscono che proprio di loro si sta parlando. E inveiscono: morte, punizione, vendetta, maniere forti!
Il vangelo dunque ci presenta la situazione disperata di una vigna, che dopo essere stata accuratamente fatta fruttificare dal suo padrone, ora che è affidata a dei vignaioli profittatori, sta andando in rovina.
Tutti i richiami del padrone e i suoi messaggeri sono rifiutati, annientati.
Ma sulle rovine di questa vigna il padrone ricostruisce la sua casa. I vignaioli omicidi saranno allontanati, e altri faranno fruttificare la vigna.
Il richiamo è per noi, carissimi fratelli. Anzi, proprio per me.
Perché anche dentro di me c'è sempre la tentazione del vignaiolo omicida: annullare l'altro, profittare delle cose e delle occasioni, rifiutare tutto ciò che non viene costruito e ideato da me.
Il mondo e il presente sono due grandi occasioni dove io posso mostrare la mia potenza e giocare le mie carte vincenti, per il mio successo materiale o per il mio potere personale.
Anche dal punto di vista spirituale, sono un divoratore di situazioni che mi si confanno, e mi riempiono moralmente, a tal punto da farmi parere a me stesso e agli altri un padreterno.
In questa autostrada che percorro a velocità sempre più crescente e in modo sempre più spericolato, non mi curo più delle regole del buon senso, delle leggi vigenti, del buon senso e del rispetto, della presenza dell'altro.
Tutto quanto, nel mio agire spericolato della mia vita, mentre appare sempre più piacevole e travolgente per me, travolge sempre più le cose e le persone che incontro su questa strada.
Tutto accresce la mia utilità, la mia convenienza, la mia bella figura, la mia intoccabilità di buon credente nella vita, accresce la quantità delle mie pratiche e delle mie partecipazioni alla collettività, tutto mi fa essere uno proiettato a razzo nella socialità, nella spiritualità, nella vitalità.
Tutto a scapito dell'altro e del mondo.
L'altro e il mondo diventano la mia spazzatura, il luogo dove riporre il resto di tutto ciò che faccio, il luogo dove lasciare tutto quello che ho appena vissuto, sperimentato, gustato, assaporato per me.
Ma ciò che noi scartiamo ogni giorno, non è altro che la primizia della vigna rinnovata.
Ma come è possibile questo?
La potenza della verità è superiore a noi: quello che scartiamo, essa lo recupera, lo trasforma; quelli che noi eliminiamo, ce li rimette in piedi e in prima fila, a costruire la nuova umanità, quella vera, e non la nostra.

Dice Gesù: Che cosa dovevo fare di più che non ho fatto?
Egli, con immagini, esempi e parabole, ci ricorda il suo amore provvidente, rigenerante e creativo.
"Dio è amore". Meraviglioso il cantico della vigna di Isaia, propostoci nella prima lettura. È un poema che esprime il grande amore di Dio verso il suo popolo, ma la gente è ingrata, non vuole o non può apprezzare tutta questa cura che il Signore ha. Gesù torna su questo argomento, ripetendo quasi il profeta Isaia. Gesù, nuovo profeta, è venuto a ricordare e portare a compimento l'amore grande di Dio, ma ancora una volta il popolo non corrisponde.
Gesù non sarà accolto, sarà ucciso.
Dio non si stanca di continuare il suo dialogo d'amore: uccidono i profeti, uno, poi l'altro, poi l'altro. Ma Dio manda suo Figlio. Gesù parla di se stesso. Sottolinea che non ci può essere un amore più grande di questo: dare la vita.
Dio non vuole perdere la speranza che ha verso gli uomini.
Dio non ha paura di dare il suo Figlio, per dimostrare che con lo stesso amore ama anche ciascuno di noi. Per Dio, l'uomo ha lo stesso valore di suo Figlio.
Nella nostra vita deve essere presente questo ringraziamento al Signore: è il dono più grande: abbiamo capito quanto Dio ama il suo popolo. Questo dono è Gesù Crocifisso. Ringraziamento non solo per le cose belle, ma per tutta la potenza di grazia che c'è anche nel sacrificio e nella sofferenza della vita.
Dio per salvare il suo popolo, l'intera umanità, ha dato ciò che aveva di più caro.
Noi siamo come questi vignaioli: abbiamo ricevuto tante cose.
I vignaioli hanno dimenticato chi è il padrone; hanno voluto farsi essi padroni della loro vita, della vita del mondo.
Il cantico della vigna possiamo dunque applicarlo a noi e contemplare quanta cura il Signore ha per la sua vigna, cioè per il suo popolo, per l'umanità, per ciascuno di noi.
"Che cosa dovevo fare di più, che non ho fatto?" Non avremmo mai voluto sentire questo lamento di Dio. Eppure esprime tutta l'intensità dell'amore di Dio e tutta la tragedia del peccato dell'uomo.
Un giorno, in una rivelazione a S. Margherita Gesù dirà: "Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e che non riceve che ingratitudini e oltraggi!".
Oggi ci è richiesta una forte revisione di vita. Sappiamo contemplare e percepire tutto quello che il Signore ha fatto e fa per ciascuno di noi, per la Chiesa, per l'umanità, per l'universo intero? "La sua bontà è grande come il cielo", possiamo dire anche noi con il salmo. Avvertiamo veramente e concretamente la paternità di Dio sulla nostra vita?
Ci accorgiamo di essere amati, desiderati, voluti dal Padre o Lui è per noi una figura lontana? Siamo figli grati, riconoscenti, pieni di amore?
Chiediamoci: perché nella nostra società c'è tanto rifiuto di Dio? Perché tanta indifferenza o lotta contro i valori e i segni della fede? Qual è la nostra riflessione e il nostro atteggiamento di fronte a tutto questo?
Ma anche quando non corrispondiamo, anche quando rifiutiamo il Signore Gesù, Lui, il Cristo, rimane sempre la pietra angolare, il Salvatore, la roccia.
Quel Figlio, morto sulla croce, "pietra scartata dai costruttori" diventa "testata d'angolo", il fondamento di tutto. Che altro poteva fare il Signore? Dio ha amato fino al segno estremo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare Suo Figlio che verrà consegnato alla morte di croce. Gesù, sulla croce, come dice S. Paolo, "mi ha amato e ha dato tutto se stesso per me". Questa è l'opera mirabile del Signore. La risurrezione di Cristo diventa il fondamento e l'inizio di ogni vita nuova. E' la rivincita, la vittoria dell'amore. Ma "il regno di Dio sarà tolto a quelli che lo hanno rifiutato e sarà dato ad un altro popolo che lo farà fruttificare".
Invece, che cosa fanno i vignaioli? Vogliono possedere ciò che non si può possedere: la vigna non è loro. La vigna va curata, fatta fruttificare, lavorata, ma non è loro. E questo è il loro problema. Il grande problema dell’uomo è che la morte esiste. Per cui l’uomo non ha potere su nulla. Non c’è nessuna cosa a cui tu possa dire: “Tu sei mia”. L’uomo, se ci pensa bene, non è proprietario di nulla. Non abbiamo diritto a niente e nessuno ci deve qualcosa perché non possediamo nulla. Questo ci fa sentire vulnerabili, spogli, nudi e impotenti. Per questo ci illudiamo possedendo e accumulando.
L’amore non si può possedere. L’amore va espresso, condiviso, manifestato, ma non lo puoi possedere. L’altro non puoi farlo tuo. L’altro rimarrà sempre un dono. “Tu sei mio! Mi devi amare! Con tutto quello che io faccio per te!”. “No, caro! Non ti devo niente!”.
La vita non si può possedere. Può essere vissuta, intensa, realizzata, gustata, ma non si può possederla. La vita non si possiede: si vive. Non dare anni alla tua vita, ma dà vita ai tuoi anni. C’è della gente che si comporta come se dovesse vivere per sempre. Non la capisco. Puoi decidere come vivere, ma non puoi decidere sulla vita.
La vigna è la mia vita. La mia vita è stata creata perché porti frutti, perché sia feconda e si espanda.
La Vita, Dio, ha fatto ciò che doveva fare: poi ha affidato a me la mia esistenza. La mia vita non è mia, mi è stata donata, come la vigna del vangelo, perché porti frutto, perché sia gustosa come il vino.
Dio non mi abbandona e quando si accorge che ho sovvertito l’ordine, quando mi allontano dal portare frutto, dall’essere ciò che posso essere, quando mi allontano dalla mia essenza, allora mi manda dei messaggi: “Stai attento perché qui le cose non vanno; stai andando incontro alla tua rovina”.
Ma l’uomo spesso se ne infischia di questi messaggi, ride e fa finta di niente.
Invece ascoltiamoli questi messaggi, ascoltiamoli nel nostro cuore, dove Dio ci parla silenzioso.
Altrimenti saremo proprio come quei vignaioli: degli stolti! Come pensavano infatti di farla franca?
La vita è così: alcuni messaggi si capiscono subito, altri nel tempo. Ma ciò che è importante è accogliere tutto, ascoltare ciò che ci succede, le malattie del nostro corpo, i sentimenti della nostra anima, i fatti che ci succedono. Tutto parla (o niente parla). Ciò che conta è rimanere aperti e anche se qualcosa non si capisce subito non buttarla in cantina, in soffitta, dimenticarla, ma tenerla lì. A suo modo e a suo tempo parlerà.
Io sono io, ma non sono mio.
Continuerò a combattere, ad accumulare, a protestare, a volere, a possedere, a gestire; continuerò a voler conquistare qualcosa che non si può conquistare; continuerò a rincorrere qualcosa che non si può rincorrere. E mi attaccherò alle cose, alle persone, al raggiungere traguardi, successi e fama…
Ma così non mi potrò mai abbandonare sereno nelle braccia della vita perché vivo ancora nell’illusione di possedere qualcosa, che qualcosa sia mio, di aver potere di vita e di morte su qualcuno. Ma non è così!
Pensiamoci!

venerdì 26 settembre 2008

28 Settembre 2008 - XXVI Domenica del Tempo ordinario

La coerenza... onestà nei rapporti con Dio
Due figli, amati, educati, eppure disobbedienti, incapaci di capire il padre. Sembra che la parabola racconti una vicenda di tante nostre famiglie. Ma non è su questo che dobbiamo mettere l'attenzione. La differenza tra il primo e il secondo figlio non sta nella risposta che danno al padre, ma nel loro comportamento.
Il primo sembra obbediente, ma di fatto il suo agire non corrisponde alle parole; il secondo disobbedisce con la bocca , ma obbedisce con la vita. Il primo non va a lavorare, il secondo si pente di quanto ha detto e diventa lavoratore. La differenza che corre tra quanti si ritengono giusti e poi non fanno ciò che Dio chiede e quanti si riconoscono peccatori e accolgono la chiamata a mutar vita. Gesù ha davanti "principi dei sacerdoti e anziani del Tempio", la crema della religiosità; si professano obbedienti scrupolosi della volontà di Dio, ma, in effetti, rifiutando il Figlio rifiutano la volontà del Padre. Davanti a loro deve giustificare la sua preferenza per i peccatori tanto disponibili ad ascoltarlo. Erano accorsi anche al Giordano per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni. Chi ha avuto il privilegio di essere chiamato per primo ad attendere la venuta, ora si trova sorpassato dai peccatori (pubblicani e prostitute sono l'immagine dell'infedeltà) che cambiano vita ed entrano nel regno.
Per noi, come per l'antico Israele, risuona forte l'invito alla conversione. Non basta dirci cristiani perché battezzati o genericamente praticanti; dobbiamo interrogarci se stiamo concretamente accogliendo la volontà del Padre su di noi e stiamo seguendo Gesù come discepoli che lo imitano. Due comportamenti, che si ritrovano anche nella società del nostro tempo, e potrebbero essere presi dalla pagina di Matteo per interrogarci; c'è chi sta nel "Tempio", e non è difficile stabilire come, per trarne vantaggio (per comprare e vendere direbbe l'episodio della purificazione), piuttosto che per farne una "casa di preghiera"; c'è chi si pavoneggia, come un fico sontuoso per il suo fogliame, per professare la sua fedeltà alla Chiesa, ma in realtà non fa frutti, non si comporta secondo la parola nella vita familiare o professionale, magari è di scandalo.
Gesù è contrario ad una religiosità che si ferma al rito e alla devozione senza che questa trasformi la vita. Giunge a preferire il figlio anarchico e svogliato che dice quel che pensa e si fa mettere in discussione all’altro che, salvando l’apparenza del bravo ragazzo, in realtà non muove un dito per aiutare il Padre.
Quanti cristiani si comportano così, fratelli!: persone che hanno fatto delle proprie convinzioni religiose (che a volte hanno a che fare con la fede, ma solo vagamente!) un pilastro e non si rendono conto di vivere in assoluta contraddizione con quello che dicono; altri, invece, che si dicono atei o non credenti, vivono poi una buona umanità, un’onestà e una correttezza assoluta, fedeli alla propria coscienza, consapevoli della propria amara fragilità.
Diceva un amico tormentato e passionale: «Quanto invidio quelli che credono! Come vorrei avere pace nel cuore e credere, finalmente!».
Gesù chiede onestà nei nostri rapporti, anche con lui.
Davanti a Dio non dobbiamo indossare il vestito del devoto, solo quello, a volte lacero e sporco, del cercatore di Dio, del discepolo che mendica dignitosamente senso e luce.
Senza questo passo fondamentale, quello della verità con noi stessi, finiremo con l’adorare un Dio che assomiglia tanto (troppo?) a noi stessi…
La fede cristiana ha una caratteristica che la rende unica: il fatto di credere in un Dio incarnato costringe la nostra spiritualità ad incarnarsi, obbliga la nostra preghiera a diventare azione, porta i nostri discorsi alla verifica continua nelle azioni.
Come sarebbe più comoda una fede che resta nei cieli! Una religione che si esaurisce nella preghiera e nel culto, nella devozione e nel timore!
Gesù chiede al proprio discepolo di imitarlo nelle parole e nelle opere, senza sfiancarsi alla ricerca di una pagana coerenza, ma nella serena consapevolezza che incontrare il Vangelo ci spinge a cambiare la vita.
Gesù non è morto in nome della coerenza, ma dell’amore.
Spesso cerchiamo nella nostra vita cristiana, e nella Chiesa, una coerenza asettica e inumana.
La Chiesa, invece, è fatta di peccatori perdonati che sanno indicare il volto della misericordia.
O così sarebbe bello che fosse!
La fede cristiana si pone nel mezzo tra due eccessi: la ricerca spocchiosa di un moralismo integerrimo, in cui la Chiesa diventa una èlite di benpensanti (a volte anche benfacenti), o una combriccola in cui conta solo l’aspetto esteriore e dietro si combinano le peggio cose.
Gesù loda l’atteggiamento delle prostitute e dei pubblicani perché accolgono una Parola che li giudica e non si giustificano, perché accettano la sfida.
Non si dice se poi questa provocazione abbia portato a un cambiamento di vita. Per alcune prostitute divenute discepole e per Matteo il pubblicano è accaduto così.
Ma, qui, Gesù si concentra sull’atteggiamento di fondo: l’autenticità con Dio.
Non blandirlo, non indossare un abito che non è il nostro. Ma presentarci a lui nella nudità imbarazzata dell’essere.
Noi, operai della prima ora, siamo oggi chiamati a interrogarci sul nostro stare nella vigna del Signore.
Corriamo il rischio di vivere a compartimenti stagni: tiriamo fuori Dio cinque minuti al giorno, un’ora a settimana, finita la benedizione della Messa, amen, la vita ci aspetta fuori, Dio lo teniamo nei tabernacoli...
C’è da aver paura quando celebriamo il Dio della vita e fuori compiamo gesti di morte.
C’è da aver paura quando cantiamo l’amore che ci ha riuniti e fuori stoniamo con il nostro egoismo.
C’è da tremare all’idea di una comunità di fratelli che si radunano la domenica per il banchetto eucaristico e che fuori dalla chiesa neppure si salutano.
O la fede “detta” è “vissuta” o siamo ipocriti.
Attenzione, però! Questo è un obiettivo, una tensione che deve essere realizzata: infatti ricercare in noi e nelle comunità una perfezione asettica, puramente teorica, non è evangelico!
Il Signore chiede l’autenticità, apprezza di più il figlio che dice: “Non ce la faccio, non ne ho voglia” e poi si sforza, rispetto all’altro che dice “sì” e non si schioda.
«Anch’io come il figlio della parabola dico: «Non ne ho voglia, Signore.
Essere discepolo, lavorare nella vigna che è la Chiesa è faticoso e ci sono momenti in cui senti che non ce la fai e non ha senso quello che fai.
Gridare il Vangelo con la vita è impegnativo.
Preferisco galleggiare, preferisco vivere come tutti.
Ma, a pensarci bene, forse ancora qualche giorno nella vigna lo posso passare…».
Che il Signore ci spinga all’autenticità, ci doni di non fermarci alle parole (preti e ministri in testa, io per primo, in avanscoperta!) ma, con semplicità e coraggio, ci conceda di gridare il Vangelo con la nostra vita.
Solo così potremo diventare figli di quel Dio che continuamente cerca l’uomo per svelargli il suo amore».

domenica 29 giugno 2008

29 giugno 2008 - Solennità dei SS. Pietro e Paolo

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, do­mandò ai suoi discepo­li: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uo­mo?» . Risposero: «Alcu­ni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né san­gue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze de­gli in­feri non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo? La risposta è bella e insieme sbagliata: Dicono che sei un profeta, una creatura di fuoco e di luce, come Elia; una creatura di forza e di vento, come il Battista; profeta, voce di Dio e suo respiro. Ma voi, chi dite che io sia? Gesù è la domanda dentro le nostre risposte facili, è domanda che risveglia, che fa vivere. Dio crea la fede attraverso domande. Ma voi… La domanda è preceduta da una contrapposizione: Ma voi, voi invece, che cosa dite? Voi che mi seguite da anni, voi che mi avete visto sorridere, piangere, respirare, moltiplicare il pane... Come se i Dodici fossero di un altro mondo; come se non dovessero mai omologarsi al sistema. A nome di ogni credente, Cristina Campo testimonia: Ci sono due mondi: io sono dell’altro. Pietro risponde: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù: Su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Pietro è roccia per la Chiesa, e per l’uomo, nella misura in cui ripete che Dio si è donato in Cristo, che Cristo, crocifisso, è vivente, che tutti siamo figli nel Figlio. Questa è la fede- roccia, il primato di Pietro che costruisce la Chiesa. Come Pietro, modello del credente, anch’io sono chiamato a diventare roccia e chiave: roccia che dà appoggio, sicurezza, stabilità al fratello che mi è affidato; chiave che apre le porte belle di Dio, di un Regno dove la vita fiorisca. Come Pietro anch’io chiamato a legare e a sciogliere, a creare cioè nella mia storia strutture di riconciliazione, di prossimità. Ma tu, chi dici che io sia? Io capisco di Cristo solo ciò che vivo di Cristo. La vita non sta in ciò che dico della vita, ma in ciò che vivo della vita. Cristo non è uno che devo capire, ma uno che mi attrae; non uno che interpreto, ma uno che mi afferra. La croce non ci fu data per capirla, ma per aggrapparci ad essa. « Capire » Gesù, definirlo, può essere anche facile, ma « com­prenderlo » nel senso originario di prendere per me, afferrare, stringere, possedere il suo segreto, è possibile solo se la sua vita mi ha « afferrato » . Corro perché conquistato, dice Paolo. Corro perché preso, vinto, prigioniero, sedotto da Cristo. La nostra vita non avanza per decreti, ma per una passione. Non per colpi di volontà, ma per attrazione. Io sono cristiano per divina seduzione: io, prigioniero di Cristo ( Ef 4,1), afferrato da Lui, corro per afferrarlo. ( Letture: Atti degli Apo­stoli 12,1- 11; Salmo 33; 2 Timoteo 4,6- 8.17- 18; Matteo 16,13- 19). (Ermes Ronchi, Avvenire, 26 giugno 2008)

venerdì 20 giugno 2008

22 Giugno 2008 - XII Domenica del Tempo Ordinario

La persecuzione
Il popolo di Dio ha sperimentato, durante tutta la sua storia, la violenta opposizione dei popoli vicini. Il mistero della persecuzione, pur essendo connesso al mistero della sofferenza in genere, ne è distinto. La sofferenza costituisce un tormentoso problema, perché tocca tutti gli uomini anche i giusti e gli innocenti. La persecuzione colpisce i giusti proprio perché giusti; raggiunge specialmente i profeti a causa del loro amore a Dio e della loro fedeltà alla sua parola. Geremia occupa fra i perseguitati un posto speciale: egli ha espresso meglio degli altri lo stretto legame che esiste tra la persecuzione e la missione profetica.Una figura profetica: il Servo sofferenteIl Servo sofferente compie il piano di Dio con l’accettazione dei maltrattamenti che il popolo gli infligge. La ragione profonda che spiega il dramma del giusto perseguitato è messa in luce dal libro della Sapienza: il giusto è diventato per l’empio «insopportabile solo al vederlo» (Sap 2,14); è «di imbarazzo» (Sap 2,12), un testimone del Dio vivente che si preferisce misconoscere.Condannando Gesù al supplizio della croce, gli Ebrei continuano l’ingiustizia dei loro antenati che hanno perseguitato i profeti, e così tentano di opporsi al piano di Dio. Ma il calcolo dell’uomo peccatore si rivela sbagliato. I «principi di questo mondo», crocifiggendo il «Signore della gloria», diventano, in realtà, gli strumenti della Sapienza divina (1 Cor 2,8), perché la morte di Cristo diventa salvezza del mondo e gloria di Dio.La persecuzione: una beatitudineNell’insegnamento di Gesù, la persecuzione diventa oggetto di beatitudine: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno...» (Mt 5,11). Essa è inevitabile: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi». Impegnarsi a vivere seguendo la via di Dio significa incontrare nel proprio cammino difficoltà sempre nuove e sempre più grandi.In un mondo che è dominato dall’egoismo e dalla ricerca del proprio interesse, chi predica l’amore, là povertà e il perdono sarà inevitabilmente perseguitato, perché il peccato è profondamente radicato nel cuore dell’uomo. Ma il perseguitato non teme. Egli ha fiducia nel Signore. I persecutori possono uccidere solo il corpo, ma non hanno il potere di mandare in rovina l’anima.Il cristiano affronta la persecuzione con gioia: gli apostoli «se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41); e san Paolo: «Sono pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7,4).Vera e falsa persecuzioneIl Concilio ha chiesto alla Chiesa di cambiare il suo atteggiamento nei confronti del mondo: essa non è più la roccaforte isolata, ma il lievito che vuole animare e permeare con il vangelo la massa. Non dobbiamo pensare che questa riconciliazione sia facile e che dopo di essa gli uomini possano con facilità tendersi la mano. Nella misura in cui alcuni metteranno veramente in pratica le beatitudini evangeliche, per una autentica promozione umana, costoro conosceranno la persecuzione. L’opposizione tra la sapienza del mondo e la sapienza di Cristo è inevitabile e irriducibile.Non tutte le volte, però, che la Chiesa sperimenta la persecuzione, è per la sua fedeltà al vangelo e per l’imitazione di Cristo sulla via della croce; qualche volta è stata perseguitata e osteggiata perché in ritardo sulla storia, per pigrizia o per mancanza di fiducia o di coraggio. E’ doloroso costatare come idee cristiane ed evangeliche quali: libertà, uguaglianza, diritti della persona, democrazia, abbiano trovato in alcuni settori della Chiesa resistenze, sospetti e talora anche opposizione. Talvolta la ostilità contro la Chiesa è nata da un amore deluso verso di essa. I limiti umani della Chiesa cioè dei cristiani, le connivenze inconsapevoli, forse, ma reali con situazioni di ingiustizia e di potere, le paure e le esitazioni, i silenzi, la mancanza di coraggio... le hanno fatto rivoltare contro persino uomini onesti e di buona volontà.In più di un caso le persecuzioni contro la Chiesa trovano la loro origine in una concezione errata della religione che sembra conculcare la libertà e l’autonomia dell’uomo.Ma c’è infine anche una persecuzione che possiamo chiamare « satanica ». E’ il lievito nero del mondo che si diffonde e ramifica come un cancro che corrode i tessuti dell’umanità; è come un corpo mistico del male, col quale, nonostante ogni gesto di buona volontà, la Chiesa non può entrare in dialogo, perché si tratta del nemico irriducibile, dell’avversario che lotta contro Cristo e il suo regno. E questo, nonostante tanto scetticismo, è un male che esiste ed è molto attivo.

martedì 10 giugno 2008

15 giugno 2008 - XI Domenica del Tempo Ordinario

Pecore senza pastore
Levi il pubblicano è rinato, ora è diventato Matteo apostolo, ha visto nello sguardo del Nazareno, ospite di Pietro e Andrea, la possibilità di una vita diversa, libera, nuova. La misericordia lo ha convertito, solo la misericordia che ha visto in fondo allo sguardo sereno del Rabbì Gesù lo ha cambiato.
Trent'anni sono passati da quell'incontro, e Matteo ancora indugia nello scrivere, rotto a tratti dall'emozione che serra la gola. La misericordia era il tesoro nascosto nel campo che Levi, infine, ha trovato.
Non è stato il solo a fare questa esperienza: ci racconta che Gesù aveva lo stesso identico sguardo su ogni uomo, sulla folla intera. L'amore che Dio provava per l'umanità era struggente e incontenibile.
Gesù vede nel profondo le persone che gli stanno di fronte, sa dell'infinito bisogno di felicità che ci troviamo piantato nel cuore e della fatica che facciamo a dare una risposta all'inquietudine che offusca il nostro sguardo. Venderemmo l'anima per essere amati, daremmo un braccio per conoscere - infine - cosa davvero può colmare durevolmente il nostro bisogno di pace.
Questa ricerca appassionata di felicità è ciò che ci fa simili, ciò che unisce ogni uomo, in ogni tempo. Gesù vede che siamo sbandati, come pecore senza pastore, perché non abbiamo in noi stessi la risposta a tutte le domande.
Peggio: in questo delirante e fragile tempo in cui siamo chiamati a vivere, la felicità ce la si vende a caro prezzo e noi, spaesati, finiamo col seguire l'idea più seducente, più luccicante, che sembra appagare quel bisogno profondo di bene e di vero che alberga nel nostro cuore.
Gesù si commuove perché ci vede faticare più del dovuto nello sbrogliare la matassa della felicità. Forse anche Dio ha dei ripensamenti.
Non era questo il suo progetto quando ci aveva donato la libertà dono difficile da gestire, superiore alle nostre forze, che volentieri cediamo all'incantatore di turno.
Pecore senza pastore: così ci vede il Maestro, commuovendosi.
Nel suo amore infinito Gesù decide di agire.
Al solito ci spiazza: la pagina finisce nel modo più inatteso e incredibile.
Tutti ci aspetteremmo: Gesù si commuove e quindi si propone come un Buon pastore.
Macché: Gesù si commuove e inventa la Chiesa.
Lo so, lo so, la stragrande maggioranza di voi ha un'esperienza di Chiesa povera e contraddittoria, si è scontrato duramente col volto incoerente e severo di qualche cattolico più devoto di Dio.
Gesù pensa ad una compagnia, ad una ricerca comune, ad un sogno realizzato: uomini e donne, suoi discepoli, capaci, insieme, di cercare senso e pienezza, misura e gioia.
Lui è il Pastore che ci guida a pascoli erbosi, ma insieme possiamo fare esperienza di gregge, di comunità.
Non è facile capire e amare la Chiesa. troppe le fragilità, troppe le contro-testimonianze, troppe le persone che si dicono credenti e che vivono senza neppure essere uomini, troppe le incoerenze, troppi gli errori nella storia per non essere dubbiosi quando si parla di Chiesa.
Gesù sceglie dodici persone per iniziare a costruire il Regno, dodici che stiano con lui, per diventare poi capaci di condurre ai pascoli erbosi nei quali loro per primi saranno condotti.
Nessuno si sognerebbe di mettere insieme dodici persone così radicalmente diverse per realizzare un progetto! Pescatori abituati alla concretezza e alla rudezza insieme ad intellettuali come Matteo e Giovanni; tradizionalisti come Giacomo insieme a pubblicani, peccatori pubblici, terroristi come Simone del gruppo degli Zeloti, disposti ad uccidere l'invasore romano. C'è l'intero Israele in questo gruppo, l'intera umanità nella sua vivace diversità. La Chiesa è la comunità dei discepoli di Gesù, diversi tra loro in tutto se non nell'amore del Maestro, chiamati ad annunciare il vangelo con semplicità e verità.
Questa è, nel sogno di Dio, la Chiesa.
Paradosso di Dio! All'umanità ferita e fragile che necessita di una guida, Gesù propone un pezzo di umanità, altrettanto fragile e ferita, trasfigurata dall'Amore.
La missione dei dodici è sconcertante: rivolgersi alle pecore perdute di Israele.
Un invito attuale e urgente: la Chiesa ha bisogno di testimoni che la riconducano all'ovile del Padre. I primi destinatari dell'annuncio del Vangelo siamo proprio noi cristiani. Troppo cattolici per diventare discepoli, troppo convinti di saperne abbastanza per ascoltare il Vangelo, troppo riempiti di cristianesimo socio-culturale per credere – sul serio! – che la Chiesa abbia a che fare con Dio, siamo proprio noi cristiani del terzo millennio, nelle nostre società che riconoscono un campanile e ignorano le parabole, che apprezzano gli oratori e ignorano l'interiorità, che celebrano le feste dimenticando il festeggiato, siamo noi i chiamati a ricevere – ancora e ancora – la buona notizia di un Dio che si fa vicino.

giovedì 5 giugno 2008

8 giugno 2008 - X Domenica del Tempo Ordinario

Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori
Ci sono alcune categorie di persone nel Vangelo verso le quali sembra che Gesù abbia una vera allergia, una istintiva incompatibilità di carattere: sono coloro che si ritengono “giusti”.
Di fronte a loro Gesù si sente disarmato e quasi inutile. Non può entrare in dialogo con loro, perché si sentono “a posto”, non hanno bisogno di salvezza né di perdono. Sono persone aride, incapaci di andare al di là della giustizia; la loro religione è quella del “io do, perché tu mi dia”. Gesù ha dipinto il loro atteggiamento nella parabola degli operai della vigna (Mt 20,1-16) che si lamentano della generosità del padrone verso gli ultimi arrivati. Nella parabola del figlio prodigo essi rivestono i panni del figlio maggiore geloso della bontà del padre verso il figlio che ritorna a casa (Lc 15,11-32). Il loro ritratto è quello del fariseo che “paga” a Dio anche la più piccola tassa, ma disprezza cordialmente e giudica dall’alto della sua “giustizia” il pubblicano che invoca misericordia (Lc 18,9-14).
A una religione ridotta alla giustizia dell’uomo, Gesù oppone una religione fondata sulla misericordia divina (Vangelo). Citando Osea (Prima Lettura) egli ricorda che i profeti hanno già ricusato il valore dei riti, anche se perfettamente eseguiti, e l’osservanza meticolosa ma esteriore della Legge, a favore di una religione di amore e di misericordia. Le simpatie di Gesù vanno, invece, verso i peccatori, i disprezzati, gli “scomunicati” del suo tempo, coloro che le persone perbene non osavano nemmeno frequentare per non contaminarsi. Lo accusano come amico dei pubblicani e delle peccatrici. Ma Gesù risponde loro dicendo che pubblicani e prostitute li precederanno nel regno dei cieli e frequenta le loro case incurante delle reazioni scandalizzate che suscita nei benpensanti. Prendendo parte alla stessa mensa con i peccatori, Gesù non solo si pone accanto a loro, ma comincia a realizzare quello che prometteva: «Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre» (Mt 8,11-12).
Ogni volta che nel vangelo il Cristo prende la figura dei “Radunatore”, rivolge la sua convocazione specialmente alle categorie scartate dalle assemblee ebraiche. «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi..., perché la mia casa si riempia» (Lc 14,21.23). L’assemblea ebraica escludeva queste persone: «Il cieco e lo zoppo non entreranno nella casa» (2Sam 5,8), come escludeva i pubblicani e i peccatori. Questi sembrano essere, invece, gli invitati privilegiati di Gesù, perché egli è Gesù, il “Salvatore”.
Questo aprirsi di Cristo a tutta l’umanità peccatrice nel desiderio di portare tutti alla salvezza, incontra resistenza e suscita scandalo anche oggi. Esiste, infatti, anche oggi una tendenza a rinchiudersi in piccole oasi di fervore religioso, a considerare o a desiderare una Chiesa fatta di “puri”, di persone scelte, impegnate, pie. “devote”…
Attenzione: il segno della propria fede non si realizza appartandosi, o dividendo gli uomini in “giusti” e “ingiusti”, in “buoni” e “cattivi”, in “vicini” e “lontani”, in “osservanti convinti” e “tiepidi”. Senza dire, poi, che molte volte il termine di paragone e di confronto per stabilire queste divisioni è soltanto la pratica esteriore, l’appartenenza sociologica, cioè, l’identificazione della vita di fede con il culto, la pratica, l’osservanza. Questo atteggiamento risente di una certa mentalità farisaica, che Gesù ha rifiutato.
La parola di Cristo è efficace e raggiunge l’uomo lì dove vive: per Gesù non ci sono esclusioni, tutti sono chiamati ad accogliere il Vangelo e chi l’annuncia, e ad abbandonare il passato dando ospitalità a Cristo nella propria vita fino alla comunione con i fratelli.
Si, perché la chiesa è comunione, carità, condivisione totale tra tutti.
È questa misericordia, questo amore, questa unione, che rende vero ed efficace il sacrificio, l’Eucaristia.
La misericordia, l’amore, va ben oltre le prescrizioni, ed è ciò che sta a cuore a Dio.
A noi, testimoni del comportamento di Cristo, non resta che imitarlo. Siamo, quindi, invitati a fare nostra la coppia dei verbi “andate e imparate”, cioè andare, fare, agire… Così facendo si impara l’insegnamento di Gesù, lo si capisce a fondo. D’altra parte mentre si agisce si capisce, mente si fa si impara. E questo si attua nell’Eucaristia: mentre si celebra il cuore è trasformato, la vita si apre al Cristo. L’Eucaristia è rivelazione del suo amore per tutti gli uomini. Tutti siamo chiamati a farci carico come lui dei dolori della gente per curarli nonostante la nostra debolezza e piccolezza. Cristo è il modello da seguire e la via per testimoniare oggi la sua misericordia. Per celebrare degnamente l’Eucaristia dobbiamo costantemente verificare il grado di ospitalità che ogni Comunità cristiana esercita nella “pacifica” convivenza tra peccatori e giusti, tra gruppi diversi e popoli diversi. Ogni esclusione è esclusione di Cristo, è lontananza da Lui, è incomprensione di «che cosa significhi misericordia io voglio e non sacrificio» (Vangelo).
Il periodo estivo è alle porte: se da un lato la fine delle attività e degli impegni importanti ci offre l’opportunità di uno “stacco” salutare dalla normale routine, dall’altro tuttavia essa non deve coincidere anche con il termine della frequenza alla Celebrazione Eucaristica domenicale; anzi, il periodo estivo dovrebbe costituire l’occasione per dedicare qualche tempo in più alla preghiera e alla riflessione personale. Per i giovani poi potrebbe anche essere l’occasione per fare qualche esperienza che li aiuti a comprendere la propria vita come una vocazione.
Matteo inserisce nel suo splendido racconto evangelico una vibrante pagina autobiografica. Racconta di quando, molti anni prima, ha conosciuto Rabbì Gesù. Lui, Matteo, faceva il pubblicano, cioè l'esattore delle tasse per conto dei romani: un collaborazionista e un ladro, abituato a fare la cresta sul denaro incassato. La sua giurisdizione era Cafarnao, sul lago di Tiberiade, grosso centro posto sulla strada che da Damasco porta al mare.
Matteo era ricco, molto ricco, spregiudicato e temuto. Odiato, certamente, com'è odiato chi ha fatto fortuna sulle tragedie altrui. E venduto, perché, si sa, il denaro non puzza, e occorreva rassegnarsi alla dominazione romana. Idolatra, per i farisei e i devoti, perché portava in tasca le monete dell'Impero, con il bel faccione dell'imperatore stampato sul conio.
Poi, un giorno, l'incontro con quell'ospite di Pietro e Andrea, i pescatori che gli fornivano due volte a settimana il pesce del lago. Lo aveva già visto altre volte, il Nazareno; sapeva che giocava a fare il mistico, il profeta, Ma lui, Matteo, non aveva tempo per occuparsi di religione.
Accadde, così, semplicemente come Matteo ce lo racconta. Il Nazareno si accostò, sorridendo, al banchetto delle tasse. Lo guardò con intensità. Matteo si aspettava un rimprovero, come spesso accadeva da parte dei devoti che andavano in sinagoga e che sputavano in terra quando lo incrociavano. Invece no. Gesù disse, semplicemente: vieni?
Matteo restò interdetto. Avrebbe voluto fargli mille domande. Non un suono gli uscì dalla gola. Semplicemente andò.
Matteo scrive questa pagina trent'anni dopo. Ci sta dicendo: ne è valsa la pena, non è stato il momento inebriante e fuggente dell'evento spettacolare, del ritiro o del pellegrinaggio, della giornata della gioventù o dell'esperienza di Taizè, esperienze travolgenti che devono poi passare al setaccio della quotidianità e della povertà delle comunità parrocchiali. Trent'anni sono una vita, e Matteo dice a noi suoi lettori: ho lasciato tutto: ricchezza, potere, progetti e ho seguito il folle Nazareno. Ne è valsa la pena, credetemi, è come se la festa che ho dato giunta la sera e a cui Gesù ha voluto partecipare, malgrado fossimo tutti dei rampanti professionisti della truffa, degli spregiudicati manager senza scrupoli, fosse continuata fino ad oggi.
Che tenerezza suscita Matteo! Sentiamo forte la sua emozione, intuiamo la forza rigeneratrice di questo incontro e ci fermiamo alle soglie del mistero dell'incontro fra Dio e l'uomo. Tutela della privacy. Quale argomento ha potuto convincere un uomo così radicato nel proprio delirio di onnipotenza a lasciare tutto per seguire un Maestro farneticante?
La misericordia, fratelli, la misericordia. Matteo ha incontrato in quello sguardo tutta la tenerezza che si era negato e che gli avevano negato, tutto il bene che non pensava possibile, tutto il rispetto di chi ti ama davvero, di chi oltrepassa i tuoi limiti, i tuoi peccati, le tue scelte spregevoli e vede in te ciò che tu non vedi più: il santo che potresti essere.
Gesù lo ama, senza giudicarlo, senza offenderlo, senza astio o rabbia o moralismo.
Lo ama con libertà e, amandolo, lo fa nuovo. Matteo diventerà ciò che Gesù ha pensato di lui, Matteo diventerà il santo che scopre di essere.
Matteo è sconvolto. Non sa dove lo condurrà questa avventura, non sa ancora cosa succederà; i suoi amici lo prendono in giro, non lo capiscono, ma brindano alla sua fortuna. Matteo segue il suo istinto: non ha mai trovato tanta gioia in un momento solo, tanto amore in un solo sguardo.
La misericordia ci converte, fratelli. Non il timore, non il giudizio, non la legge, non la devozione, non l'etica, non la ragione, non la volontà. La misericordia: l'esperienza del cuore di Dio che supera la nostra miseria, l'amore di Dio che mi aiuta a superare la mia e l'altrui fragilità.
Levi si è convertito perché, per la prima volta, si è sentito amato.
Per due volte, oggi, la Parola di Dio se la prende con un atteggiamento di fede esteriore: in Osea il Signore vuole amore e non sacrificio, conoscenza di Dio, non olocausti e, nello splendido brano del vangelo di Matteo, nuovamente Gesù se la prende contro chi giudica il suo atteggiamento spregiudicato, chiedendo ai farisei di avere più misericordia e di non giudicare con durezza la sua disponibilità ad accogliere i peccatori...
Esiste, dunque, un modo di essere discepoli (di fare i discepoli) basato sull'esteriorità e sul sacrificio, dice il Signore. Vero, ci sono infatti molti cristiani che si fermano al senso del dovere, che concepiscono la fede come una specie di tributo (noioso) dovuto alla divinità.
È sempre successo e sempre succederà, tutto avviene a causa della fragilità del cuore degli uomini, della nostra connaturale fatica alla conversione, alla chiusura del cuore che troppe volte avvelena ed inquina la vita. Ma, ammonisce la Scrittura, il Signore non ama l'esteriorità, ma neppure il sacrificio. Ovviamente il Signore intende il sacrificio come gesto cultuale, la preghiera, il rito, la cerimonia che non sia desiderio di incontro e di lode; possiamo - paradossalmente - andare a Messa tutte le domeniche della nostra vita senza mai incontrare la straordinaria bellezza e dolcezza di Dio... Ma "sacrificio" anche nel senso comune di sforzo, di dovere subìto con cristiana rassegnazione. Non è la terribile immagine di cristianesimo che molti si portano nel cuore? Una specie di doverosa ed inevitabile sofferenza da sopportare per meritarci il paradiso?
Macché, non dobbiamo "meritare" un bel niente, il Paradiso è gratis: Gesù è morto per renderci partecipi della sua gloria: l’unica cosa che dobbiamo fare è “accoglierlo”. Completamente!
Quando mai capiremo che Dio desidera solo essere ricambiato nell'amore straordinario che ci offre?
Che la logica del dovere sta stretta alla logica dell'amore? Certo, poi, nella concretezza dell'amore ci troviamo a compiere dei gesti che ci fanno morire a noi stessi, che diventano davvero sacri (sapevate che la parola “sacrificio” significa “sacrum facere”, rendere sacro”?) che rendono più vero e saldo il nostro amore. Ma in genere noi tutti abbiamo l'idea del sacrificio come uno sforzo sterile in nome di una qualche obbedienza di cui non sappiamo la finalità. Sia chiaro, fratelli, Dio vuole amore, non sacrificio.
Come Matteo anche noi siamo chiamati ad incrociare lo sguardo intenso e amorevole del Rabbì Gesù che non giudica, che guarisce, che chiama.
Allora, fratelli e sorelle che casualmente leggete queste righe, permettetemi di dirvi: quando finalmente vi lascerete raggiungere e amare dal Signore? Quando la smetterete di concepire la fede come una specie di tributo da pagare a Dio? No, fratelli: qui non si tratta di “tributi”, qui è di luce che si parla, di tenerezza e di serenità, di pace e di conversione.
Questo Dio che ci viene a stanare per offrirci amore, questo Dio che soffre come un amante ferito quando non viene ricambiato, è lì che ci aspetta. Tutti.
E allora lo ripeto: noi… per quanto tempo ancora fuggiremo l'unica cosa che davvero ci può rendere felici?