giovedì 25 marzo 2021

28 Marzo 2021 – Domenica delle Palme: Passione di nostro Signore


“Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire” (Mc 14,1-15,47).

 Nel racconto della Passione, riviviamo la storia di un “uomo” perdutamente innamorato di Dio e degli uomini. Un amore “folle” che lo ha portato ad accettare la morte come conseguenza estrema. Tutta la vita di Gesù, uomo-Dio, è stata vissuta con passione, con intensità, amando, piangendo, commovendosi, interessato a chiunque lo avvicinava, acceso ora dall’amore e ora dallo sdegno. Una vita vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare. Soprattutto una vita di fedeltà: Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo, per tutto ciò che vive; fedele, in particolare, al suo unico grande amore: Dio Padre: il quale, quando tutto sembra finire, quando tutto alla fine è già compiuto, è costantemente con Lui, non lo tradisce.

La Passione infatti è la storia di quest’uomo fedele a sé stesso, al proprio cuore, innamorato di Dio, suo Padre, con il quale esiste un reciproco legame di amore e fedeltà: un uomo che conferma con la risurrezione che, tutto ciò che ha vissuto su questa terra, era “Dio”.

Ripercorriamo insieme alcune scene di questo straziante percorso di Gesù, così come ci vengono proposte oggi dal vangelo: in Gesù possiamo anche noi ritrovare la forza per compiere il nostro cammino fino in fondo, per vivere con passione la nostra vita; possiamo rispecchiarci nelle varie situazioni, nei personaggi che vengono coinvolti nel racconto, per capire come noi viviamo la vita di ogni giorno, con quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura.

In loro possiamo rivederci, ritrovarci; capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono delle immagini profonde, delle icone stampate a fuoco, che vivono in ciascuno di noi, in ogni uomo.

1. L’unzione di Betania (14, 3-9).

Due giorni prima della crocifissione Gesù partecipa ad una cena a Betania. Una donna gli si accosta e gli unge il capo con unguento prezioso. Non era un gesto insolito, ma si usava, in genere, soltanto in occasioni solenni, anche perché il valore dell’unguento era molto elevato, stimato quasi quanto il salario annuo di un lavoratore. È un gesto di assoluta bontà. Del resto cosa può fare questa donna per Gesù? Nulla. In che modo lo può aiutare? In nessun modo. Può forse attenuare la delusione, l’angoscia per la fine, che Gesù vive in cuor suo? No. Questa donna non può fare proprio nulla: ma può amarlo. E così le sue mani, delicatamente, sfiorano, massaggiano, accarezzano, il capo di Gesù. “Lasciatela stare, lasciatela che mi ami, lasciate che mi conforti, lasciate che si prenda cura di me”. È l’amore! Quando non possiamo fare più nulla, possiamo sempre amare, prenderci cura, assicurare la nostra presenza, stare silenziosamente vicini. Quando non possiamo fare più nulla, non ci rimane che amare: questo è sempre in nostro potere.

2. Giuda (14, 10-21).

Come è possibile che uno di quelli che seguono Gesù da vicino, che dicono di amarlo, lo abbia tradito? Come è possibile che uno di quelli che per Lui hanno abbandonato tutto, lo abbia consegnato ai nemici? Rimane un mistero. Il Vangelo accenna al denaro. Purtroppo, cosa non si fa per denaro! Per denaro siamo pronti a vendere, a volte, quello che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il nostro cuore, la nostra anima, l’affetto, il nostro tempo. E quando abbiamo perso tutto, cosa ci rimane? Il vuoto! Chi insegue il denaro, le ricchezze, il benessere materiale, finisce spesso come Giuda, che disperato si impicca. Il denaro è una illusione affascinante ma effimera: quando si è convinti di avere tutto, di potere tutto, ci accorgiamo di non avere nulla: non abbiamo amato, non abbiamo vissuto; abbiamo solo inseguito un sogno fatuo, un’apparenza impossibile, un impegno inutile. È la morte.

3. L’eucarestia (14, 22-25).

Il sinedrio furente ha già deciso di condannare Gesù, proprio quando, durante la cena pasquale, Egli offre la sua vita in dono d’amore e di pace: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato per sfamare molti. Voglio che la mia vita sia come il grano che, macinato, diventa alimento, vita, sicurezza per l’umanità. Voglio che dalla mia morte, tutti riacquistino vita. Voglio che la mia carne straziata, il mio sangue versato, la mia vita, diventino forza, alimento, sicurezza, rinascita per l’umanità intera”. Con queste motivazioni Gesù affronta la sua atroce sofferenza. Non gli verrà tolta, né alleviata: nulla percettibilmente cambierà. Ma da quel momento tutto cambierà, tutto sarà diverso: ora tutto è chiaro, tutto acquista un suo significato. Da oggi anche il nostro dolore, le nostre sofferenze acquistano un valore, una loro nobiltà. Ora anche noi sappiamo che per portare frutto, il “seme” deve cadere per terra, deve morire. Cosa poteva donarci di più Gesù? Non ci ha lasciato soltanto belle parole, bei miracoli, bei discorsi: Gesù ha donato sé stesso, ci ha fatto dono del suo immenso amore. Questo è il vertice della vita. Perché l’amore vero è donarsi, sempre, completamente, fino alla fine, senza alcuna riserva. È questo infatti che noi celebriamo in ogni Eucaristia: l’Amore donato. E ogni qualvolta doniamo amore, noi celebriamo una Eucarestia.

4. Il Getsemani (14, 26-42).

Gesù prega: avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Non si comporta come se fosse un disperato, abbandonato da Dio, sfiduciato, lontano da suo Padre. Anzi, Gesù lo prega il Padre, c’è molta comunicazione tra lui e suo Padre. Gesù però è terribilmente angosciato per quanto sta per accadergli, ha paura. È l’angoscia per un supplizio che si prospetta terribile; l’angoscia per sentirsi tradito dai suoi amici; la paura di fallire il suo compito: Gesù continua ad essere in comunicazione con Dio, ma nel suo intimo tutte le paure, tutti i mostri contrari si materializzano. Qui, nel Getsemani, la solitudine lo invade. Nessuno dei suoi amici, neanche i più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, gli rimangono vicini. Dormono, non capiscono, non colgono la profondità, il dramma, la gravità di quanto sta per accadere. Vivono in superficie, addormentati, anestetizzati, talmente presi dalle loro cose, dalle loro miserie, che non “notano” la tragedia che incombe anche su di loro. Come possono dormire, ad essere tranquilli, in simili momenti? Gesù, debilitato nella sua natura umana, moralmente ferito, bisognoso di aiuto, li implora: “State con me; ho paura, so che non potete far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono: è solo. Nessuno gli è più vicino; nessuno lo comprende; nessuno lo consola.

5. Il tradimento di Pietro (14, 26.-31. 66-72).

A Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il punto! Pietro è Cefa, è la “roccia”, l’uomo che ostenta sicurezza: “Anche se tutti si scandalizzeranno, io non lo sarò”. È l’uomo istintivo, l’uomo d’azione; un uomo che, come lascia intendere, non ha paura di niente e di nessuno. Eppure Pietro è ancora un debole: uno che messo di fronte alla realtà, alle proprie responsabilità, si affloscia, cede, balbetta, si ripiega su sé stesso. È un uomo che ci rappresenta molto bene: nelle nostre presunte “certezze” morali, religiose, nella nostra millantata fedeltà, nella nostra tracotanza interiore: “Gli altri possono tradire, non certo io!”; uno che ci assomiglia nella banalità dei nostri giudizi, nella superficialità dei nostri ideali. Nonostante ciò Gesù lo perdona; anzi lo ha già perdonato prima ancora che tradisse, lo ama sempre e comunque malgrado i suoi voltafaccia: di questo però egli se ne renderà conto soltanto quando capirà che l’amore di Dio è più grande di qualunque nostro fallimento, di qualunque nostro errore. Dio non chiede a nessuno di essere “perfetto” ad ogni costo; ci chiede semplicemente di essere “umani”, di essere consapevoli della nostra debolezza, dei nostri limiti, dei nostri sentimenti, delle nostre paure, delle nostre fragilità. Ogni volta infatti che, sopravvalutandoci, ci consideriamo superiori, inattaccabili, solidi, incorruttibili, puntualmente ruzzoliamo per terra, dimostriamo nei fatti la nostra inconsistenza, la nostra instabilità mentale. Noi cristiani, come Pietro, siamo purtroppo assolutamente inaffidabili: di fronte al pericolo ci defiliamo. Finché le cose vanno bene, finché ci mimetizziamo nella folla, allora è semplice per tutti seguire Gesù: quanta gente infatti lo seguiva finché parlava, finché guariva, finché sfamava! Solo pochi giorni prima era entrato in Gerusalemme tra i canti di gioia di una folla osannante che lo salutava agitando rami di ulivo e di palma. E adesso? Quando c’è da mettersi in gioco, da cambiare, da convertirsi, da trasformarsi, quando le nostre scelte diventano pericolose, compromettenti, dolorose, controcorrente, noi ci comportiamo esattamente come Pietro: con grande disinvoltura rinneghiamo la verità, facciamo finta di nulla, ci tiriamo indietro, pronti a tradire la fiducia di chiunque.

6. L’arresto di Gesù (14, 43-52).

Osserviamo per un attimo come il manipolo di esagitati, mandati dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani si scagli contro Gesù. Va da lui “con spade e bastoni”. Giuda, uno dei discepoli, lo bacia e lo tradisce. Gli mettono “le mani addosso e lo arrestano”, mentre tutti, “abbandonandolo”, fuggono. È l’infamia del pregiudizio comune, della gente; l’insensatezza del “per sentito dire”, del “mi sembra”, del “qualcuno mi ha detto”. È l’infamia di chi ci percuote e ferisce senza motivo. È la falsità di chi si professa amico, di chi ci abbraccia e bacia (certi baci sono proprio come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa e poi ci colpisce alle spalle. È la meschinità di chi di fronte a qualcuno in difficoltà, in pericolo, si gira dall’altra parte e se ne va: “Si arrangi, non sono affari miei”.

7. Gesù davanti al sinedrio (14, 53-65).

I capi e i sacerdoti cercano qualche motivo per condannarlo a morte: ma non trovano nulla. Molti attestano testimonianze contro di lui, ma sono così false, discordi, lontane dalla verità. Alla fine trovano qualcosa, un qualche motivo per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio, la rabbia e tutto il sentimento interno scoppia e sfocia in un’aggressività che giudica, che vuole ferire, che vuole punire. E non importa chi ci sia davanti; non importa cosa l’altro abbia detto o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia allora bisogna trovare qualcuno da infangare. Allora non esiste più l’altro nella sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo il nostro odio che esce, giudica, uccide e si scaglia contro l’altro. Quante persone insultano, schiaffeggiano, sputano addosso agli altri tutto il loro male! E non si accorgono che non sono gli altri a fare il male: sono loro, seminando il loro di male, il loro lato negativo, il loro marcio. Combattono negli altri quello che è il loro male. Ma facendo così, continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa verità.

8. Pilato (15, 1-15).

Gesù è stato giustiziato dai Romani? Difficile dire quanto Pilato abbia influito. Anzi Lui coglie la forza, la profondità dell’uomo che ha davanti e anche l’inganno che i notabili giudei stanno per tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui glielo hanno consegnato. Potrebbe lasciarlo andare, non gli sembra che Gesù sia un “sedizioso”, uno che trama contro l’autorità imperiale, come gli è stato descritto. Lui, titolare dello “ius coërcitionis”, potrebbe fare qualcosa. Lui decide, lui potrebbe decidere per la vita o per la morte di Gesù. Ma l’unica cosa che gli interessa è il potere, avere meno problemi possibili, in particolare non incrinare i rapporti politici con le autorità religiose locali. Pilato sembra comandare, essere il potente; è uno, invece, intrappolato nel gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del detenere il potere. Sembra comandare, sembra essere lui la massima autorità giuridica, invece, è l’impotente di turno, colui che non può agire, che non può deludere i suoi pari; che non può manifestare il suo dissenso; che non ha il coraggio di prendere una posizione chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo che si omologa, che va dove vanno tutti. E si crede il governatore, si crede potente. Ma potente di cosa?

9. La crocifissione e la morte (15, 24-38).

Guardiamo la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno di “sostare” per entrare nel suo mistero. Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù, sul Golgota, muoiono tutte le speranze della gente, muore chi aveva lottato con lui, chi aveva coltivato il desiderio e l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero. Come avrà vissuto questo evento Maria, sua madre, che l’aveva accompagnato fin lassù? Come l’avranno vissuto le persone che Gesù aveva guarito? Come l’avranno vissuto la Maddalena, Zaccheo, Lazzaro e gli altri amici? E con loro i sordi che hanno riacquistato l’udito, i muti la parola, i lebbrosi la salute, i ciechi la vista, i morti la vita? Come avranno vissuto questa tragedia, cos’avranno provato nel vedere l’uomo mite e misericordioso che aveva donato loro speranza, forza, vita, appeso, inchiodato ad una croce, come il peggiore dei farabutti? Cos’avranno provato quando hanno capito che su quella croce è finito realmente il Figlio di Dio? Cosa avrà provato tutta quella folla che, sperimentando su di sé la bontà delle sue azioni, il suo altruismo, il suo amore per tutti, si era unita a lui lungo il percorso che lo portava a Gerusalemme e che, proprio per questo, al suo ingresso in città, gli aveva tributato un’accoglienza trionfale?

Sicuramente contrarietà, dolore, rabbia: sì, perché non è stata quella “folla” che ha preteso la condanna e la “consegna” di Gesù nelle mani delle autorità religiose! Sappiamo infatti per certo che non è stata quella gente che, urlando, ha convinto Pilato a liberare un comune assassino, uno sconosciuto, un “Barabba” che con ogni probabilità non è mai esistito: sembra infatti che gli evangelisti, nel riportare quel nome, siano incorsi nell’errata interpretazione del termine aramaico “Bar-abbas”, “Figlio del Padre”, urlato nel linguaggio volgare dell’epoca, un misto di greco e aramaico: un’espressione, “Bar-abbas”, che era molto nota alla gente che frequentava Gesù, perché era così che Lui amava spesso definirsi. Quel popolo, quindi, chiedeva a gran voce la libertà di “Bar-Abbas”, di Gesù, del “Figlio del Padre”, perché lo ammirava profondamente, lo considerava un profeta, il Messia inviato da Dio per risollevare le sorti di Israele, e quindi mai e poi mai avrebbe voluto vederlo morire crocifisso come un volgare delinquente.

A chi attribuire allora la vera colpa della morte di Gesù? Non a Pilato, che poteva esercitare la sua “iurisdictio” solo per i “cives” romani e non per gli ebrei; non alla folla che voleva Gesù libero, ma solo ai capi dei sacerdoti e alle loro squadracce di scalmanati, nelle cui mani Gesù è stato “consegnato” innocente, senza alcuna condanna! Sono loro i registi dell’operazione, della messa in scena. Anche se, non lo possiamo negare, in tanti hanno contribuito mentalmente, avendone un loro motivo: Caifa, “la necessità storica”; Pilato “la ragione politica e il mantenimento dell’ordine”; Pietro “la sua personale sopravvivenza”; i sadducei “la legge”; i farisei “la religione”; le persone rispettabili “la morale”; i soldati “l’obbedienza”. Ognuno aveva i suoi validi motivi; ma erano sufficienti? O erano solo tentativi di tranquillizzare la propria coscienza? Di lavarsene le mani?

La croce rappresenta quindi lo scontro fra due religioni: quella di Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la religione dell’esteriorità, della forma, della maschera. Qui contano i grandi numeri, l’istituzione, l’ordinamento, l’obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili: ciò che conta è il rispetto ossequioso e formale alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita, non la sofferenza. Gesù dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso, prostituta o pagano che fosse, perché per lui tutti erano figli dell’unico Padre. Gesù non faceva sacrifici inutili, non digiunava, non si comportava scrupolosamente nei confronti delle regole. Era molto libero, mangiava, banchettava, faceva spesso festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva che il vero sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era fare “qualcosa”, ma fare della propria vita “qualcosa di vero”, di importante, di significativo. Gesù non reprimeva l’amore, i sentimenti umani: era amico di tutti, donne comprese; piangeva, si arrabbiava anche, una volta ha menato pure le mani. Com’era dentro, così era fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva; voleva che fossimo umani. Sosteneva che in noi non c’è nulla che sia indegno agli occhi di Dio, nulla da nascondere. Che davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere. Perché in croce tutto questo finisce. Questa era la religione di Gesù. Questa è la religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, ma mai distrutta. Infatti Gesù Verità è risorto, e con lui anche la speranza di poter far parte con Lui del Regno dei cieli, come ci promette la sua religione. E quando il venerdì santo andremo a baciare la croce, noi baceremo la nostra religione, la religione di Gesù, la religione del Padre, della Vita, dell’Amore, della Verità. Ciò che viene da Dio non può morire, non morirà mai. Può essere perseguitato, deriso, umiliato, annientato, ucciso, ma non potrà mai morire. Perché Dio è l’unica realtà immortale, e chi si affida a Lui, vivrà in eterno!

10. Il centurione e le donne (15, 38-41).

Sotto la croce c’è un centurione, un soldato, uno che ha obbedito agli ordini. È l’uomo che ha sempre obbedito, che non ha mai agito per conto suo. Ha eseguito ciò che altri avevano stabilito per lui. Fa quello che tutti fanno. È l’uomo che ha rinunciato a pensare, che ha delegato le sue responsabilità alla tv, ai sistemi, agli esperti. Ha appaltato il suo cervello ad altri. Non ha voluto faticare: si è adattato, omologato, ha seguito il pensiero dei più, quello comune, quello già digerito da altri. E adesso si rende conto di aver preso parte ad un dramma, ad una tragedia, di cui anche lui, senza saperlo, ne è stato la causa. “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”.

Vivere senza pensare, trascinati dagli altri, senza una propria consapevolezza, senza ragione critica, produce sempre nuove crocifissioni. Ognuno è responsabile della propria vita, delle proprie scelte, soprattutto del non aver scelto.

Vicino alla croce ci sono anche delle donne. È un caso che siano solo le donne a seguire Gesù? Dove sono gli uomini? Dove sono gli apostoli, i suoi fedeli amici? È un caso che le prime testimoni della resurrezione, in tutti i vangeli, siano donne? Forse è un messaggio forte per noi: perché è la donna, la parte femminile di ogni persona, che può cogliere la resurrezione: chi infatti non conosce sentimenti come la tenerezza, l’amore, l’affetto, lo stupore, il pianto, la disperazione, il dolore, l’impotenza, la paura, non può “vedere” nessun Gesù. Solo chi “dà” la vita, chi la conosce, chi la vive, chi la sente; solo chi conosce l’amore, chi prova nel cuore benevolenza e carità per gli altri, per i fratelli, solo costui potrà “vedere” il risorto, potrà constatare che la vita non ha fine, e che l’amore è più forte. L’amore non si arrende, l’amore non può cedere alla fine, alla morte. Chi vive nell’amore conosce l’eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l’amore conosce sempre l’eternità. L’amore si coniuga col “per sempre”. Queste donne non si arrendono all’evidenza dei fatti perché conoscono l’evidenza del cuore, dell’anima, della vita e di Dio. È proprio per questo sperare al di là di ogni speranza; per questo credere al di là di ogni dubbio; per questo amare al di là della fine, che saranno proprio loro le prime testimoni della resurrezione. Avevano visto bene: l’Amore è il più forte e vince tutto. È eterno. Amen.

 

 

giovedì 18 marzo 2021

21 Marzo 2021 – V Domenica di Quaresima

“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. (Gv 12,20-33).

Il vangelo di oggi ci introduce nel compito misterioso della vita.

Giunto a Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento critico della sua vita: deve decidere se tornare in Galilea o andare avanti fino in fondo. Finché predicava in quel territorio aveva avuto sempre compito facile con i suoi avversari: la Galilea era a nord, distava da Gerusalemme 15 giorni circa di cammino, e Lui sapeva che rimanendo lassù, la sua vita non sarebbe mai stata in serio pericolo.

Ora però, a Gerusalemme, le cose sono diverse: capisce che il suo momento è arrivato e deve decidere cosa scegliere: Galilea significa vivere, Gerusalemme, morire: il bivio è davanti a Lui: e Lui, con decisione, sceglie Gerusalemme, pur sapendo che continuare la sua missione nel Tempio, nella città “santa”, centro della religione e del potere, significa sottoscrivere la propria fine.

La vita pone ogni giorno anche noi davanti a delle scelte: prima o poi, inevitabilmente, come Gesù, dovremo affrontare scelte difficili, senza ritorno: scelte che non offrono alternative, che vanno fatte in quel momento. Sono situazioni importanti, in cui siamo chiamati a dare un senso alla nostra vita, a darle una forma, a modellarla.

A questo proposito c’è un termine che Giovanni ripete puntigliosamente in questo brano, che sicuramente ci offre la soluzione ottimale per attuare questa nostra scelta: è il verbo “doxàzo”, che letteralmente significa “glorificare, onorare, lodare”, rendere “doxa”, rendere “gloria”: solo che noi, quando parliamo di “gloria”, pensiamo immediatamente ai riconoscimenti mediatici dell’essere famosi, conosciuti, stimati, adulati, idolatrati; pensiamo ai divi della tv, ai campioni dello sport, ai grandi protagonisti della musica, della scienza, della letteratura

Per Giovanni invece, tributare “gloria”, “glorificare” significa “rendere evidente, visibile, trasparente” nella propria persona, nella propria vita, la presenza di Dio: questo infatti deve essere il motivo di fondo delle nostre scelte. È così, in questo senso, che Gesù glorifica il Padre: nessuno mai infatti più di Lui ha reso visibile la presenza di Dio nella propria persona: tutto il suo vivere, il suo agire, il suo morire, è avvenuto in perfetta simbiosi con il Padre; così, allo stesso modo, il Padre “glorifica” Gesù, rende cioè manifesto il legame indissolubile, divino, che lo lega al Figlio: lo fa con particolari “teofanie”, lo fa quando Gesù guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita Lazzaro, quando dice le beatitudini.

Il culmine di questo glorificare, il momento in cui si rende visibile in maniera inequivocabile la presenza di Dio in Gesù, è tuttavia sulla croce: è sottomettendosi alla volontà del Padre, che il Figlio accetta di bere fino in fondo il calice sacrificale della sua morte; è nelle mani del Padre, che il Egli affida il suo spirito: un gesto di incalcolabile amore che li unisce indissolubilmente, un amore che dalla croce si riversa copioso sull’intera umanità.

“Se il chicco di grano (in ebraico bar), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.

Ora, la parola bar”, in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”: quindi nel pronunciare queste parole, Gesù allude alla sua persona; Egli sa perfettamente che quel “chicco di grano”, quel “Figlio”, che doveva “morire” per portare “molto frutto”, era Lui, solo Lui! Riusciamo allora a capire meglio un Gesù che, giorno dopo giorno, accetta questa sua missione mortale, dolorosissima, inevitabile; è vero, in qualche momento anche Lui, apparentemente sfiduciato, viene assalito dall’angoscia, dallo sgomento: l’uomo Gesù, come tutti, odia la morte, non vorrebbe morire: “Padre mio se è possibile, passi da me questo calice”, ma non arriva mai a pensare, anche per un solo istante, di potersi sottrarre: “Però non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26,39).

Egli sa di essere la vittima di espiazione voluta dal Padre, Egli sa che la sua missione terrena è di riscattare sulla croce l’intera umanità, di ridarle l’originale dignità, lasciandole inoltre in eredità, come memoriale della sua offerta, il suo corpo e il suo sangue, nella sua materiale presenza Eucaristica, garanzia unica di vita immortale. Questo, e solo questo, l’ha portato a offrire sé stesso come offerta nel sacrificio perpetuo della croce.

Guardando quella croce, allora, come pure qualunque croce si stagli sul nostro cammino, non dobbiamo più temere di nulla: dobbiamo solo pensare alla “gloria” di Dio, alla sua presenza, a quanto Dio ci ha ama, a quanto suo Figlio ha sofferto per “glorificare” (= rendere visibile) il Padre, a come il Padre abbia “glorificato” il Figlio sul patibolo del Golgota, proprio perché Lui “glorificasse” (= si rendesse visibile) in tutti noi singolarmente: una realtà che ci deve assolutamente tranquillizzare, ci deve confortare, perché realmente ci “glorifica”, ci “dimostra” cioè che non siamo più soli, che Dio è con noi, che non saremo mai più abbandonati a noi stessi.

C’è un solo modo per assolvere il nostro debito di riconoscenza per tutto questo: “glorificare” Dio, fare cioè in modo che il “seme” dello Spirito che Dio ha immesso in noi, e il “seme” della sua Parola che dobbiamo accogliere e far “morire” in noi, diventino visibili, evidenti nella nostra vita, determinino la nostra crescita spirituale e umana, ci trasformino in testimoni viventi della presenza divina in noi.

È chiaro che per poter giungere a ciò, dobbiamo liberarci di molta zavorra: dobbiamo modificare le nostre priorità, avere il coraggio di fare i conti con la vita; dobbiamo cioè affrontare le contrarietà, le delusioni, le sofferenze, le sconfitte. Ma soprattutto dobbiamo far morire il nostro io interiore, il nostro narcisismo, il nostro egoismo: solo così lo Spirito ci trasformerà in Vita, e potremo “glorificare” Dio, testimoniando al mondo la sua presenza.

Allora potremo sentirci compiuti, allora potremo vedere che il seme di Vita che noi spargeremo, puntualmente rinascerà, crescerà, fiorirà negli altri, e potremo sentirci generatori di nuova Vita. Allora, e solo allora, potremo umilmente considerarci una piccola cellula, infinitesimale ma attiva, di quel “donarsi all’infinito” che chiamiamo Dio. Amen.

 


giovedì 11 marzo 2021

14 Marzo 2021 – IV Domenica di Quaresima

Gesù disse a Nicodemo: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,14-21).

 Il brano del vangelo di oggi, lezione di alta teologia, è inserito nel lungo colloquio intrattenuto da Gesù con un uomo di nome Nicodemo, un fariseo “capo dei Giudei”, personaggio importante dell’aristocrazia sacerdotale, profondo conoscitore della Bibbia, della religione: insomma un saggio del tempo, un maestro della Legge, un “pozzo di scienza”, diremmo noi oggi: un uomo però che in cuor suo sente la mancanza di “qualcosa”, percepisce che esiste qualcosa di più grande, di “oltre”, che supera i limiti del suo sapere.

Nicodemo è un uomo che non si accontenta, egli vuole capire, soprattutto vuole vivere questo “di più”. Per questo decide di incontrare Gesù. E Gesù gli fa una proposta nuova, imprevedibile, impensabile, umanamente inattuabile: gli dice sostanzialmente che deve “rinascere”; in pratica: “Quella che tu chiami vita, io la chiamo morte, un non-vivere. Se tu abbandoni questo tuo modo di vivere, di pensare, di rapportarti, io ti farò vedere cos’è la vita vera, quella eterna, quella che non finirà mai, quella che ti riempirà, ti sazierà, ti renderà veramente, perfettamente felice”.

Concetti difficilmente comprensibili per il povero Nicodemo: ma lo sono, anche e soprattutto, per noi, in questa società smaccatamente materialista: la richiesta di lasciare tutto, di abbandonare la realtà, il corporeo, il tangibile, il verificabile; di scegliere l’incorporeo, l’immateriale, il puramente spirituale, l’invisibile; di lasciare il certo per l’incerto, il noto per l’ignoto, sono tutte categorie misteriose, che incutono timore, che ci lasciano profondamente perplessi: seguirle fidandosi ciecamente, rivoluzionando radicalmente l’esistenza, richiede una forza, una convinzione, una fede difficilmente riscontrabile ieri e ancor più oggi.

Ma Gesù era così, duemila anni fa, come nel presente. Gesù è un uomo che fa sempre proposte sconvolgenti, che va contro tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini. Gesù apre orizzonti nuovi e impensati. Egli è davvero affascinante, attraente, perché ci presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, da “ci manca il fiato” tanto è intenso. Gesù è per le anime grandi, mal si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: abbiamo a disposizione infiniti esempi nelle vite dei santi, degli apostoli, dei martiri.

Nessuno di noi ha scelto di entrare in questo mondo; il primo atto della nostra vita, le condizioni materiali in cui essa è avvenuta, non sono dipesi da noi, non abbiamo avuto possibilità di scelta. Ci è stata donata una vita, è vero, ma non è questa la nostra vera vita.

La nostra vera esistenza coincide con la nostra “rinascita”: perché “rinascere” significa “scegliere di vivere”: non ci basta più che altri ci abbiano messi al mondo, ma siamo noi che ora, in questo mondo, “decidiamo di vivere” da protagonisti; significa: “Ci sono e voglio esserci”; vuol dire “partorirsi” nuovamente: la prima volta l’ha fatto nostra madre, ma questa volta vogliamo farlo noi; vogliamo esistere: “ex-sistere” ossia “venir fuori” “distinguersi”, emergere dalla massa, dal nulla, vuol dire acconsentire, “dire di sì” al fatto che ci siamo, sviluppare le nostre risorse; potenziare la nostra energia, lasciare un segno in questo mondo; essere felici e vivere in maniera appassionata.

A questo punto soltanto noi siamo responsabili delle nostre scelte; solo noi decidiamo come vivere la nostra missione, il nostro progetto di vita. La nascita, la vita, non sono altro che creta nelle nostre mani: tocca a noi modellarla, ricavarne un’opera d’arte o ridurla ad un ammasso informe. Realizzare l’opera meravigliosa che ci è stata commissionata da Dio, non compete a nessun altro se non a noi: solo noi, dentro di noi, possiamo pianificarne i tratti caratteristici: la felicità, l’amore, la fiducia, le cose grandi della vita, non appartengono infatti al caso, alla fortuna; ma sono una ricchezza che solo noi possiamo ottenere, vivendo in un certo modo, seguendo le direttive del Progettista, in contatto stretto e continuo con l’Avvocato, il Consigliere che è in noi, ispirandoci all’Amore, traendo dalla Vita forza e sostentamento.

Tutti dicono di vivere: ma la loro non è vita, è un sopravvivere; solo i “rinati” nello Spirito, i rinati “dall’alto” vivono realmente: perché lo fanno in una prospettiva spirituale, immortale, in una prospettiva più alta, più ampia, seguendo le ispirazioni dello Spirito.

Se non viviamo in questa prospettiva, rimaniamo radicati nella materialità di questo mondo; rischiamo di vivere unicamente per il denaro, per il successo, per il lavoro, per la carriera, per il divertimento: rischiamo cioè di trasformare tutte queste “suppellettili coreografiche” in colonne portanti della vita, di renderle nostro unico scopo di vita.

Non dobbiamo mai dimenticare chi siamo (figli di Dio), da dove veniamo (dall’Alto) e dove andiamo (nell’Amore di Dio): Dio non ci ha affidato al caso, non ci ha mandati allo sbaraglio, ma ci ha assegnato un compito ben preciso, specifico.

Controlliamo ogni tanto il nostro work in progress, il nostro lavoro in corso d’opera, esaminiamo attentamente se la nostra vita si discosta dal progetto divino.

Chi crede in lui non è condannato”, ci ricorda Giovanni: dove “credere” per lui significa “fare luce”, “portare luce” là dove regnano le tenebre, dove il peccato domina, dove esistono situazioni che odiano la “Luce”. Chi rifiuta la verità, chi non accetta di conoscere sé stesso, chi non vuole vivere la Vita, praticamente rifiuta la Luce, si condanna da solo.

Distogliamo allora il nostro sguardo da terra; alziamo finalmente gli occhi al cielo: purtroppo noi abbiamo lo sguardo puntato continuamente sul basso, non ci accordiamo della realtà meravigliosa che ci circonda; abbiamo una visione delle situazioni, bassa, ristretta, limitata, terrena, superficiale. Siamo talmente presi dai nostri stupidi problemi, dai nostri piccoli fastidi personali, che non sappiamo far altro che girare a vuoto intorno a noi stessi.

Guardiamo in alto, invece! Lasciamo da parte le nostre banalità (come mi vesto, cosa mangio, che telefonino, che televisore, che computer, che auto mi devo comprare…), non angosciamoci per simili stupidaggini. Vale la pena rovinarci la vita per simili cose? Guardiamo lassù.

Soprattutto quando ci sentiamo angosciati, soli, depressi, disperati, finiti, quando tutto intorno a noi sembra precipitare nel baratro di una vita traditrice, alziamo gli occhi, guardiamo in alto!

Rivolgiamoci con fiducia a Gesù, che dall’alto della croce, ci consola, ci assicura la sua protezione, il suo amore; fissiamo il nostro sguardo su quel cuore pieno di misericordia e di bontà, che continua a sanguinare per causa nostra; soprattutto abbandoniamoci al suo amore: buttiamoci tra le braccia torturate, ma sempre spalancate, paterne e accoglienti, della Vita e dell’Amore: é questo il nostro unico rifugio sicuro; è questa l’unica possibilità che abbiamo per difenderci dai morsi velenosi e mortali dell’antico serpente. Amen.

 

giovedì 4 marzo 2021

7 Marzo 2021 – III Domenica di Quaresima

“Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi…” (Gv 2,13-25).

 Siamo in prossimità della Pasqua, la festa ebraica per eccellenza, in occasione della quale tutti si recano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme. È quindi, soprattutto in quei giorni che, in quel luogo, c’è una eccezionale affluenza di persone, e di conseguenza, anche una maggior concentrazione di attività commerciali. Il pio ebreo, come pure i commercianti, sanno bene che per tale occasione la legge prescrive di presentarsi davanti a Dio grande e onnipotente, offrendogli in sacrificio animali, oggetti preziosi, denaro, in segno di amore e di gratitudine.

La grande confusione di persone, animali, venditori, banchi, merce, che regna fuori e dentro il tempio, è quindi normale, ovvia. Come ovvia è anche la presenza dei “cambiavalute”: gli Ebrei che vengono da lontano, disponendo di monete romane con le raffigurazioni pagane dell’imperatore o degli dei, devono necessariamente cambiarle con le monete ebraiche, perché solo con queste è possibile versare alle autorità del Tempio la tassa di ingresso in denaro. Uno stratagemma che assicura ai grandi sacerdoti e ai dirigenti un incasso enorme e continuativo di denaro, trasformando addirittura il tempio in una specie di banca, nel posto più sicuro in cui conservare i cospicui proventi di questo “sacro” commercio, tanto da far pensare che nel tempio, non si adora più Jahweh, il Dio di Israele, ma il Dio denaro, Mammona, il Dio ricchezza.

Gesù, dunque, giunto anch’egli a Gerusalemme, sale al Tempio e improvvisamente si trova di fronte al baccano di questa enorme folla di pellegrini e venditori, impegnati i primi a contrattare la merce, i secondi a richiamare urlando la loro attenzione: pertanto non all’ingresso del Tempio di Dio, ma nel bel mezzo di un mercato affollato.

Di fronte a ciò cosa fa Gesù? Si prepara una “frusta di cordicelle”, e con quella inizia a percuotere quanti stazionano alle porte del tempio, compresi dirigenti e autorità, e incalzandoli, rovescia i banchi con la loro mercanzia, cacciandoli tutti via!

Un vangelo singolare, molto forte quello di oggi: anche perché, leggendo attentamente tra le righe, possiamo cogliere un significato ben più profondo, nel comportamento di Gesù, del voler “ripulire” soltanto l’area del Tempio da gente indegna: possiamo infatti vedere in prospettiva l’eliminazione, la distruzione finale del tempio di Gerusalemme, peraltro apertamente confermata con le parole: “Non resterà qui pietra su pietra che non sia diroccata” (Mc 13,2). In altre parole Gesù annulla non solo “quel” tipo di tempio, con la sua ritualità, con la mentalità che lo anima, ma introduce una nuova concezione di “tempio”, un tempio più stabile e prezioso di quello in pietra, un tempio nuovo che, di fronte al tentativo dei giudei di distruggerlo, lui garantiva “in tre giorni lo farò risorgere”: e Giovanni si premura di precisare: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,19-21).

Con questo tempio indistruttibile, anche il modo di rapportarsi con Dio viene completamente rinnovato, sostituito; Gesù infatti introduce una nuova immagine di Dio, un Dio fino ad allora sconosciuto a tutti: un Dio che non gradisce, né tantomeno pretende dall’uomo, “offerte” e sacrifici “cruenti”, materiali; un Dio che, cosa fino ad allora impensabile e improponibile, diventa lui stesso “offerta e sacrificio” per l’uomo: da quel momento infatti, non è più l'uomo che si priva del pane, che se lo toglie di bocca, per poter compiere il suo sacrificio a Dio, ma è Dio stesso che si fa “pane”, diventa “nutrimento” per l'uomo.

Il Dio di Gesù, quindi, mette la parola fine al tempo della paura, delle imposizioni divine, al rapporto “servile” con un Dio Padrone, caratterizzato da una intransigente severità e regolamentato da rigide prescrizioni di legge: Dio non vuole più essere “servito” in questo modo: al contrario sarà Lui stesso, per primo, a servire e ad amare l'uomo.

Già per bocca dei profeti, Dio aveva espresso tutta la sua contrarietà per il genere di offerte e sacrifici in atto: “Sono sazio dei vostri olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli; smettete di portare offerte inutili (Is 1,11-13); e decretava: “Voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os 6,6).

Gesù stesso, nel suo vangelo, se la prende con l’esteriorità e l’esibizionismo delle elemosine, con la legge puntigliosa del sabato, con le riunioni in suo nome fatte senza convinzione, con le liturgie vuote e vanesie. Dio insomma non sopporta queste cose, non le gradisce, non vuole più cose materiali: “Misericordia io voglio e non sacrificio(Mt 9,13; 12,7).

Del resto, che senso avrebbe mantenere la ritualità del tempio, un manufatto in pietra destinato a scomparire, quando Cristo stesso si è fatto autentico, unico santuario di Dio? “È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24).

Sono parole chiare, determinanti, con cui Gesù stabilisce in via definitiva l’unico modo con cui adorare Dio. Dio è Spirito, è presente ovunque: per pregarlo, lodarlo, entrare in comunione con Lui, è sufficiente che il nostro “spirito”, la nostra anima, comunichi, interagisca con Lui, non importa dove ci troviamo. Per entrare in contatto con Dio non serve un luogo materiale, un tempio adeguato.

Ovviamente un discorso a parte va fatto per gli attuali “spazi liturgici” (le nostre chiese), introdotti dai cristiani nei primi secoli come particolari e insostituibili luoghi d’incontro tra Dio e il suo popolo: è in questi spazi, infatti, che noi, diventati nuove creature con il battesimo, celebriamo sacramentalmente quel sacrificio Eucaristico (la santa Messa), che è “memoriale” della Pasqua di Cristo, sacrificio perfetto che Egli, presente in mezzo a noi sua Chiesa, “ri-presenta” al Padre, associando al suo anche il sacrificio di tutti noi, membra del suo corpo mistico: un sacrificio grazie al quale la nostra lode, la nostra vita, le nostre sofferenze, le nostre preghiere, acquistano un valore completamente nuovo, anche in prospettiva della nostra finale giustificazione.

Anche in tal caso, però, possiamo frequentare le più belle chiese, le più solenni Eucaristie, ma se in esse non partecipiamo attivamente e consapevolmente, se non uniamo a Dio il nostro spirito, la nostra anima, se non entriamo in sintonia con Lui; se non condividiamo quell’agàpe, quell’amore profondo e vitale per Lui e per i fratelli, il nostro sacrificio, la nostra liturgia, la nostra preghiera, la nostra lode a Dio, rimarranno sempre un culto puramente esteriore, inanimato, sterile.

Certo, osservando la scarsa affluenza domenicale nelle nostre chiese, viene spontaneo chiederci quanti cristiani sentano ancora il bisogno di frequentarle: solo che più di preoccuparci per il numero delle presenze, dovremmo chiederci: “Quelli che frequentano regolarmente le nostre liturgie, le nostre messe, riescono veramente a fare una personale esperienza dell’amore di Dio? Escono dalla chiesa provando la pace della sua “benedizione”, la serenità del suo “perdono”, la forza della sua “presenza”? Si sentono veramente, nel profondo del loro cuore, rinfrancati, toccati, guariti, conquistati, dall'amore di Dio? Escono insomma veramente convinti di poter dare una testimonianza più credibile della loro fede, della loro carità, dell’amore a quel Dio, sempre presente nel loro cuore?”.

In questa quaresima di conversione armiamoci allora di ramazza, facciamo piazza pulita di tutte quelle icone squallide che deturpano il “tempio” della nostra anima. Ripuliamolo a fondo questo nostro tempio: “cacciamo fuori”, come ha fatto Gesù, tutto ciò che schiavizza il nostro cuore, restituendogli la sacralità, la grandezza, la bellezza che merita, per poter rivivere con maggior partecipazione e interiore dignità, il nostro “culto” sacrificale per eccellenza, la nostra “Messa”, la nostra Pasqua settimanale. Perché solo così potremo tornare a vivere “liberi e immacolati” nell’amore gratuito e incondizionato di Dio. Amen.