giovedì 19 novembre 2020

22 Novembre 2020 – XXXIV Domenica del T. O. - Cristo Re dell’Universo

“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria” (Mt 25,31-46).

 Con questa domenica si conclude l’anno liturgico, e come meditazione finale, la Chiesa ci propone la visione apocalittica di Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di annullare dalla nostra mente, perché a tutti, inutile negarlo, incute una certa preoccupazione.

Di fronte a tale scenografia restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio dal volto amoroso e compassionevole?

Si tratta invece di due immagini, quelle di Gesù, che solo apparentemente sono in contrasto tra loro.

Prima di tutto la qualifica di “Re” attribuita a Cristo: una denominazione altisonante, maestosa, che mal si adatta a quel Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: un Re che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi gli uni gli altri”; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che per essere identificato ha bisogno di un cartello, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore. Che c’è di “regale” in tutto questo?

C’è poi la figura di questo giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: e, guarda caso, lo fa proprio nei confronti di coloro che Lui stesso ha talmente amato da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.

Potrebbe dunque sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa di “Cristo, Re dell’universo”, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi eletti, noi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero nascosto nei secoli.

Dire che Cristo è “sovrano” della nostra vita, significa riconoscere che solo in lui, con lui, per lui, ha un senso il nostro percorso di vita e di fede.

Ecco perché, alla fine dell’anno liturgico, è molto consolante ribadire con forza, tutti insieme come Chiesa, questa nostra convinzione, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto tale, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi a volere che fosse Lui a guidare la nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.

Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giudice, giusto e inflessibile”; un re che Verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto gli abbiamo promesso: in una parola, se siamo stati o no all’altezza del suo amore, donando anche noi amore agli altri.

Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato”; e non lo farà neppure allora. Dio non giudica, Dio “svela”. Dio cioè rivelerà davanti a tutti quello che noi abbiamo tenuto nascosto, quello che volutamente abbiamo lasciato nell’ombra, nell’incompiuto.

Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà quindi semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la reale situazione di ciascuno, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nulla potrà più rimanere ancora nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto “apparirà” nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato.

E ognuno saprà da solo, senza bisogno di sentenze, se andare alla destra o alla sinistra del Re.

Ma in base a quale “codice” verrà valutata la nostra fedeltà? Il vangelo di Matteo elenca in proposito, con una insistenza quasi puntigliosa, una serie di “situazioni”, come avere fame, avere sete, essere forestieri, nudi, malati, carcerati; situazioni tutte che prevedono “azione”, che esigono cioè da parte nostra un intervento reale, che non si ferma alle belle parole, ma che è azione, interessamento, preoccupazione. In una parola, significa mettere concretamente a disposizione del prossimo il nostro amore.

È questo il “tesario” su cui alla fine saremo esaminati: non ci verranno richieste grandi azioni, eroiche imprese, perlopiù impossibili, ma piccole cose, una buona parola, una fraterna condivisione, uno slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un vago desiderio, perché “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

È questo l’unico elemento su cui poggia il verdetto finale, lo stare alla destra o alla sinistra del Re: l’aver fatto tutto personalmente a Lui.

Una domanda accorata però sgorga a questo punto da entrambe le schiere: chiedono una spiegazione: “Quando Signore? Quando mai ti abbiamo incontrato?

Già, “quando?”. Nessuno di loro se n'era mai accorto della sua presenza; nessuno aveva mai capito di aver avuto davanti a sé non delle persone bisognose, ma Dio stesso in persona! Non ci avevano mai pensato. Sì, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è in incognito, è misterioso: e quindi tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato senza rendersene conto: gli uni amando la persona hanno in lei amato Dio, pur non vedendolo; gli altri, rifiutando di amare la persona, hanno rifiutato anche Dio.

Amare Dio, quando si ama il prossimo, è un amarlo inconsapevolmente, istintivamente. I santi sono tali proprio perché amando il prossimo amavano Dio, lo amavano senza sapere di amarlo, senza sapere di ottenere per questo dei meriti divini. Se amassimo qualcuno, sapendo di ereditare le sue ricchezze, in realtà non lo amiamo, lo stiamo solo usando per un nostro tornaconto. La stessa cosa succede quando amiamo il prossimo allo scopo di avvicinarci a Dio, per ottenere da Lui dei meriti! Anche in questo caso noi “usiamo” qualcuno. L’amore non va mai strumentalizzato, finalizzato; mai, in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio. Quindi, non “dobbiamo” amare il prossimo per “amare Dio”; il prossimo, il fratello, va amato per sé stesso, lo dobbiamo sentire nell’anima, ci deve penetrare dentro, deve toccarci il cuore.

Una preoccupazione costante del cristiano è di sapere se Dio gradisce ciò che lui fa, se è considerato meritevole del paradiso, se la sua bontà gli porta frutto, e via dicendo.

Ma non lo saprà mai, perché Dio non è “visibile” in questo mondo, non si dispone di riscontri immediati: per cui amarlo senza vederlo, amarlo nell’altro, nel prossimo, nello sconosciuto, nell’uomo della porta accanto, senza sapere di amarlo, è decisamente molto più difficile e impegnativo.

Questo è un insegnamento importante del vangelo di oggi: ma il messaggio non si esaurisce qui: lo stesso impegno, la carità, che dobbiamo avere verso il prossimo, dobbiamo averli anche verso noi stessi; dobbiamo cioè soddisfare, oltre quelli degli altri, anche i nostri “bisogni”. Sì, perché anche a noi succede spesso di sentirci affamati, assetati, bisognosi di nutrirci, di abbeverarci.

Chi di noi, infatti, non ha fame d’amore? Chi di noi non ha sete di dolcezza? Chi di noi può dire: “Io basto a me stesso! Non ho bisogno di nessuno?”. Solo un idiota, un pazzo, un esaltato. Ecco perché non va mai sottovalutata la necessità di ottenere amore, tenerezza, affetto, comprensione; di stare con persone che ci amano, che ci apprezzano, che ci stimano, che hanno fiducia in noi.

L’amore è come la ricarica per il telefono, la benzina per l’auto, il cibo per il corpo. Non se ne può fare a meno. Non possiamo lavorare, faticare, correre in continuazione, e pensare di poter resistere senza alcuna ricarica.

Ascoltiamo dunque i bisogni del nostro cuore, della nostra anima: ascoltiamoli attentamente perché può capitare di sentirci anche forestieri e carcerati; di sentirci circondati da un mondo ostile, estranei a tutti e a tutto: ed è in questi momenti, che anche noi abbiamo bisogno di accoglienza, di un consiglio, di una buona parola, di condivisione.

Invece spesso ci teniamo tutto dentro. Neghiamo a noi stessi di aver bisogno di aiuto. Siamo così orgogliosi da scegliere di star male, piuttosto che ammettere la nostra debolezza.

Se ci sentiamo tremendamente soli, forse siamo noi che non vogliamo nessuno vicino a noi. Se talvolta gli altri non ci amano, forse è perché siamo noi che non vogliamo farci amare! Investire nel nostro orgoglio non ci ripaga mai.

Se poi ci guardiamo allo specchio dell’anima, può succedere di vederci completamente nudi, indifesi, di vederci cioè realmente per quelli che siamo, al di là di tutte le maschere e i camuffamenti con cui ci travisiamo, e ci assale un senso di rifiuto per noi stessi. Non ci vorremmo così; ci vorremmo diversi; ci vorremmo migliori; vorremmo non vivere certe esperienze, non seguire certe iniziative.

È difficile, ma dobbiamo accettarci così, capire che dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità, che possiamo spiritualmente ammalarci e avere bisogno di aiuto; che in questi casi dobbiamo ricorrere a qualche “medico”, che illumini le nostre ombre: sì, perché quando il nostro cuore si irrigidisce, quando si rifiuta ad aprirsi, abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra mente insiste nella ripetizione maniacale di certi schemi, allora abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra anima non riesce più a vivere, a gioire, a stupirsi, abbiamo bisogno di un “medico”; quando la nostra coscienza fa fatica a perdonarci, soprattutto allora abbiamo bisogno di un “medico”. Non possiamo vivere prescindendo da Dio e di risolvere tutto da soli. Non possiamo pensare di essere onnipotenti e di bastare a noi stessi. Non possiamo essere così stupidi da pensare di non aver alcun bisogno di Dio.

È una faccenda seria: perché alla fine dei tempi, davanti a Cristo, Re dell’universo, dovremo dare spiegazioni sulle nostre scelte, sulle nostre decisioni, sull’intera nostra vita.

Con quale risultato definitivo? “I maledetti al supplizio eterno, i giusti alla vita eterna!”Non c’è alternativa.

Mettiamo allora da parte la nostra bella “agendina” su cui annotiamo puntigliosamente le ore di preghiera, le messe, le confessioni, le opere buone, i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; nonché tutte le eventuali giustificazioni, qualora Dio fosse più esigente di quanto ci è stato detto. Mettiamo da parte tutti i nostri bei discorsetti. Perché il Signore ci chiederà soltanto se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Abbiamo capito bene: l’esame finale sarà tutto sulla carità: se cioè abbiamo dispensato amore, e con che “cuore” l’abbiamo fatto.

La nostra messa domenicale, non può, non deve, a questo punto, esaurirsi in Chiesa: deve continuare fuori, nella vita quotidiana. Perché solo così la preghiera, l'eucarestia, la confessione, diventano strumenti di comunione e di amore con e per Cristo e tra di noi; solo così potremo fare della nostra vita il luogo della carità. Nel lavoro, nello studio, a scuola o all’università, nei lavori di casa o in ufficio, per strada, a piedi o in macchina: è qui che noi ci salveremo. Ma solo, e sottolineo solo, se sapremo portare il nostro amore dall’interno all’esterno, dal vicino al lontano, se sapremo riconoscere il volto di Cristo nel volto di chi incontriamo ogni giorno.

Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro. Ma viviamo così da subito, immediatamente; perché in quel giorno, che arriverà all’improvviso, non avremo più tempo per far nulla, “actum est”, tutto sarà già compiuto: e solo se avremo amato Dio veramente, se saremo diventati trasparenza della sua misericordia, testimoni credibili del suo amore, verremo accolti tra le braccia di Cristo, nostro Re e Signore. Amen.

 

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