giovedì 12 novembre 2020

15 Novembre 2020 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

“Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno” (Mt 25,14-30).

 La parabola è semplice: c’è un padrone che prima di partire per un viaggio affida una certa somma ai suoi tre servi, perché la facciano fruttare durante la sua assenza. Due di essi, molto attivi, si danno subito da fare, e investono con profitto il capitale; il terzo, al contrario, preso dallo sgomento e dalla paura di perdere il solo talento ricevuto, pensa bene di nasconderlo sotto terra piuttosto che capitalizzarlo.

Al ritorno del padrone i primi due ricevono una ricompensa molto più sostanziosa di quanto guadagnato con il loro investimento, mentre il terzo viene condannato per la sua inoperosità e per la sua gestione negativa.

L’insegnamento che possiamo subito cogliere è ovviamente quello classico: “Metti a disposizione di Dio e del prossimo i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità, e datti da fare, investi con intelligenza questo capitale, in maniera che anche gli altri ne traggano beneficio; non trascurarlo, di qualunque entità esso sia; non nasconderlo senza far nulla, perché procureresti un grave danno a te e al prossimo”.

I “talenti” della parabola, sono infatti i doni, le potenzialità, i carismi che ognuno di noi in varia misura ha ricevuto gratuitamente da Dio: si tratta quindi prima di tutto di identificarli, e di metterli a frutto con la nostra vita pratica.

C’è da sottolineare in proposito che Dio, oltre ai doni classici, ai “talenti” personali, ci ha consegnato anche dei “valori” che in genere noi non apprezziamo sufficientemente, pur meritando tutta la nostra considerazione e la nostra attenzione.

Uno di questi valori importantissimi, per esempio, è la vita; un capitale incredibile e irripetibile, cui dobbiamo primariamente ogni nostra attenzione e cura: ci pensiamo mai a tanta responsabilità? Vogliamo forse buttar via, questa nostra vita, declassarla, svalutarla, preferendole un isolamento materiale e mentale nell’ignoranza, nell’autodistruzione, piuttosto che favorirne la crescita nei nostri ruoli, nelle nostre possibilità, nei nostri meriti, in vista del bilancio finale?

Un altro valore, altrettanto importante, è la libertà: ci è stata data la possibilità di essere sempre noi stessi, di assumerci la responsabilità delle nostre azioni, di coltivare idee nuove, di lottare per un “nostro” ideale; approfittiamo di questa opportunità per combattere e vincere, oppure preferiamo nasconderci, accomodanti e indolenti, accettando qualunque compromesso pur di evitare i giudizi della gente, cui abbiamo stupidamente demandato la gestione della nostra vita?

Altro talento da sviluppare è la verità: come la consideriamo? la cerchiamo caparbiamente, vogliamo trovarla, viverla, costi quel che costi, osando, rischiando se necessario anche la faccia? oppure preferiamo ignorare ottusamente l’evidenza, vivere nell’ignoranza, chiudere gli occhi della mente di fronte alla sua brillantezza, alla sua luce, alla sua chiarezza, perché la sua trasparenza ci incute troppa paura?

Altro “dono” è la nostra anima: un dono incalcolabile come la vita, cui è strettamente connessa, meritevole di altrettanto rispetto: è la nostra “essenza”, il nostro spirito vitale, il “soffio creatore” che Dio ci ha inalato quando ancora eravamo nel ventre di nostra madre.

L’anima: la nostra amica, la nostra consigliera, la nostra confidente. Come la trattiamo? Le dedichiamo tutte le nostre attenzioni, il nostro rispetto, la nostra venerazione, oppure la ignoriamo, la trascuriamo, la soffochiamo, per paura di confrontarci con Lui attraverso di lei?

I nomi con cui identificare questi e tanti altri talenti avuti in consegna da Dio, possono essere tantissimi: ma ciò che li accomuna, indipendentemente dalla loro quantità, è il nostro comportamento responsabile nei loro riguardi: riservando una cura costante, un impegno continuo, uno sviluppo attivo, propositivo: trattarli invece con un atteggiamento menefreghista, incurante, indifferente, significa relegare anche l’intera nostra esistenza all’indolenza, all’ignavia, alla codardia.

È esattamente da questa eventualità che dobbiamo prendere le distanze, per non ripetere l’errore del terzo servo, di colui che rinuncia in partenza a valorizzare il proprio talento.

Purtroppo è la storia di ogni uomo che non è spinto dall’amore ma dalla paura del suo Padrone e cerca in qualche modo di tutelarne la proprietà. Vuole essere certo di piacergli, e non si accorge che la paura lo costringe invece a fare scelte sbagliate per sé stesso e per la sua vita. Si interessa e vuol controllare tutto, è vero, ma lo fa solo per paura. Convinto di non saper affrontare e gestire la situazione, perde il controllo di tutto: chi nella vita cerca soltanto conferme e sicurezze, è un debole, uno che ha paura di sé stesso, uno che sicuramente finisce per fallire.

“Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento”, è la giustificazione di quel servo. Una paura folle, determinata dalla sua insicurezza, dalla sua ignavia: un sentimento che, contrariamente all’amore e alla fiducia che aprono i nostri orizzonti, ci rinchiude ermeticamente in noi stessi. L’insicurezza infatti evita tutti, la fiducia li incontra. L’insicurezza crea diffidenza, la fiducia amore. L’insicurezza crea sospetto, pregiudizio, la fiducia complicità. L’insicurezza considera tutti dei nemici da combattere, la fiducia delle possibilità di nuovi incontri.

I servi operosi della parabola, infatti, non vengono ricompensati tanto per il guadagno in sé, ma soprattutto perché non hanno avuto paura, hanno dimostrato di essere sicuri, si son dati da fare, si sono aperti all’azione, hanno avuto fiducia in loro stessi e negli altri, hanno osato, si sono lanciati con entusiasmo nei loro progetti, coronandoli di meriti.

Definirci cristiani, significa allora progredire, migliorarci continuamente, ricominciare sempre da capo, non arrenderci mai; vivere intensamente, senza pause, senza soste, senza “intermezzi”; amare Dio e il prossimo deve essere la nostra unica prospettiva: in questo campo non esiste riposo: fino a quando c'è tempo e vita, dobbiamo produrre, lavorare per dare una risposta adeguata a Dio.

Vivere soltanto per cose banali, inutili, senza mai trovare il tempo per un incontro spirituale con Dio, con la nostra anima, per un atto di carità, per una condivisione col prossimo, significa disinteressarsi dei propri talenti, significa venir meno al nostro impegno di lavoratori nella vigna del Signore.

Non imitiamo il terzo uomo della parabola che si sente in regola nella sua inefficienza: noi credenti, dobbiamo invece perseverare nella fede, incrementare la carità, moltiplicare quegli utili che il Padre si aspetta da noi; dobbiamo insomma investire i suoi doni, i suoi “talenti, ovunque ci troviamo: in famiglia, nella società, negli ambienti in cui viviamo e lavoriamo: perché sarebbe un delitto imperdonabile perdere le continue occasioni che la vita ci offre per dimostrare al mondo intero che Dio è Amore. Amen.

 

  

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