giovedì 20 agosto 2020

23 Agosto 2020 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

 

“La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 16, 13-20).

 Il vangelo di oggi si apre con una precisa domanda di Gesù ai suoi discepoli. A noi può sembrare strano che Gesù voglia conoscere l’opinione della gente sul suo conto. Ma non dobbiamo dimenticare che la società del suo tempo si fondava principalmente sui valori di onore e disonore: più di chi fosse in realtà, uno doveva preoccuparsi soprattutto di che cosa la gente pensasse di lui; il valore delle persone era infatti stimato in base a quello che diceva la gente: meno sull’essere, più sull’apparire. L'onore del clan, della famiglia, della tribù era l’unica cosa importante: veniva prima ancora del valore reale delle persone.

Un metro di giudizio, del resto, che non è molto lontano da quello imposto dalla mentalità di questa nostra società contemporanea super evoluta. Anche oggi, la paura di non essere considerati è profondamente radicata in noi: “Nessuno mi considera, nessuno mi apprezza, nessuno mi vuole”. È l’indicatore della nostra insicurezza: per questo siamo alla ricerca affannosa di stima, di amore, di amicizie, di riconoscimenti. Più questa paura ci domina e più la nostra vita diventa una corsa alla ricerca dell’apparire, una vita fittizia e irreale. Non conta più ciò che siamo, ciò che viviamo o ciò che sentiamo, ciò che Dio sussurra al nostro cuore, il nostro progetto di vita, la nostra vocazione, ma conta soltanto non sfigurare, essere accettati, apprezzati, ammirati.

Ma perché Gesù sembra adeguarsi a tale mentalità? Perché agli occhi dei suoi discepoli vuole essere un uomo come tutti gli altri, il più possibile aderente alla loro forma mentis; vuole essere in tutto come uno di loro.

Era quindi naturale che il Maestro si preoccupasse di conoscere cosa pensassero di lui, della sua missione, della sua predicazione, le folle che lo seguivano, che crescevano numericamente giorno dopo giorno: Egli ha voluto mettersi in gioco anche su questo. Ovviamente senza rimanerne turbato o succube delle loro risposte.

I discepoli, quindi, sollecitati in maniera così diretta, gli riportano le opinioni più diffuse: “Ti ritengono Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta”. Tutto vero. Però sono anche un po' reticenti e bugiardi, perché di Gesù si dicevano tante altre cose; si diceva, per esempio, che era un poco di buono, uno che stava volentieri con le donne, uno che assumeva atteggiamenti scandalosi e ambigui, che stava apertamente in compagnia di gente scomunicata come i pubblicani, uno che amava mangiare e bere, insomma un "eretico". Tutto questo non glielo dicono, anche se erano voci altrettanto diffuse, che loro ovviamente ben conoscevano.

Gesù, del resto, fu molto amato ma anche molto odiato, perché non fu una persona insignificante, anonimo, senza carismi, uno che ti lasciava indifferente; tutt’altro: una volta che l'avevi incontrato, dovevi necessariamente scegliere: o ti piaceva o ti infastidiva; o lo consideravi amico oppure nemico. Non c’erano alternative.

Gesù, prima di esprimere quella richiesta, aveva già guarito centinaia di persone, aveva risuscitato morti, aveva moltiplicato il pane per migliaia di persone, aveva sedato tempeste. Eppure tutto questo non era servito a fargli avere dalla gente un riconoscimento corale, sincero, onesto. Che altro avrebbe dovuto fare ancora, perché tutti gli credessero? La fede non nasce da ciò che guardiamo, semplicemente, ma da “come” lo guardiamo. Guardare superficialmente, senza interesse, senza coinvolgimento mentale, non porta automaticamente alla fede: bisogna guardare con passione, con serietà, con onestà, bisogna farlo con altri “occhi”, non con quelli corporali, ma con quelli dello spirito; perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.

Ecco perché le dicerie della gente su Gesù sono così diverse: perché sono il risultato di una visione parziale, superficiale: ciò che dicono di lui è vero, ma non rispecchia la realtà: sono supposizioni, opinioni, ragionamenti, ipotesi, congetture, giudizi o pregiudizi. Sono titoli, anche lusinghieri, elevati, ma non colgono nel segno, non dicono interamente chi è Gesù.

Giovanni Battista, per esempio, era un grande asceta, uno che mirava alla perfezione più totale: l'ascesi, il perfezionarsi, il combattere i difetti, i vizi, erano per lui scelte obbligate, fondamentali: col pericolo però che se l'ascesi si trasforma in negazione della vita, se l'ascesi diventa rinuncia alla vita, allora si pone automaticamente contro la Vita. Anche oggi, infatti, molte persone “perfette”, alla ricerca della vera ascesi, sono umanamente cariche di aggressività: giudicano gli altri molto severamente, non usano nei confronti del prossimo né pietà né misericordia. La loro vita si riduce ad un “no” alla vita.

Ma Gesù non era sicuramente questo. Egli al contrario invitava e invita tutti a dire "sì" alla vita, in maniera totale, amando soprattutto Lui, che è la Vita per eccellenza.

Elia, poi, fu il più grande profeta dell'Antico Testamento: talmente rigoroso che in un giorno solo uccise quattrocentocinquanta sacerdoti di Baal. Ora, essere combattivi e lottare, ieri come oggi, è molto importante, ma non è tutto: se si fa della vita una lotta continua, si diventa degli intransigenti, perennemente arrabbiati. Chi fa dell'aggressività l’arma con cui attaccare tutto e tutti, non si accorge che la vera guerra, quella che credono di combattere fuori, è invece dentro di loro. Ma Gesù, paladino della pace e dell’amore, non era neppure questo.

Infine Geremia: nella sua vita impersonò la figura dell’uomo retto che soffre ingiustamente; anche oggi è considerato il simbolo del giusto oppresso e perseguitato. Ma Gesù, giusto giudice, trionfatore sul male, non era neppure questo. Egli ha sofferto, tantissimo, è vero, ma non ha fatto solo questo. Ha portato nel mondo anche la vera felicità, la gioia, l’entusiasmo.

Per molti la vita è solo dolore, solo sofferenza, solo una “valle di lacrime”: ciò perché in realtà si interessano solo della “loro” vita, non della Vita, non di Dio. Certo anche noi, nella nostra vita, incontriamo angosce e sofferenze, dalle quali purtroppo non possiamo esimerci; ma dobbiamo imparare a starci dentro, a viverle, a superarle. La vita non è tutta qui. Gesù è venuto in questo mondo non per soffrire, o perché soffriva, ma per insegnarci appunto a superare la sofferenza, il dolore, la paura; è venuto a portarci la “buona novella”, il “vangelo”, il lieto annuncio, il messaggio di felicità e di speranza.

Questo è quanto dicono in giro, questi i personaggi che la gente vede in Lui: ma Gesù, con le sue domande non si ferma qui. Quello che dicono di lui i lontani, non gli interessa; Egli vuol sapere cosa “loro”, i suoi discepoli, pensano di Lui. E quindi corregge il tiro: Ma “voi, chi dite che io sia?”. E Pietro si lancia in una risposta che gli sgorga dal cuore: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. Pietro non è un teologo, non è un filosofo erudito che sentenzia. Pietro è istinto, intuizione, passione. L’idea di Gesù, figlio di Dio, non gli proviene dall’istruzione, non l’ha acquisita gradualmente con anni di studio: per lui la realtà divina del suo Maestro è l’intuizione di un istante, un fulmine, una saetta che gli ha infiammato il cuore. Non è arrivato a comprenderlo tramite sillogismi, calcoli mentali, ragionamenti: ma sotto l’impulso dello Spirito che ha fatto sussultare il suo cuore generoso e innamorato. E Gesù lo conferma chiaramente: “Beato te Simone, perché né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”.

Oltre ai discepoli però quella domanda Gesù la rivolge anche a tutti noi, direttamente, singolarmente.

E dunque: “Chi è Gesù per noi? Cosa pensiamo di Dio? Che rapporto abbiamo con Lui? Se la nostra risposta è che sì, Dio lo conosciamo, significa anche che lo sentiamo veramente come “nostro Padre”? che ascoltiamo la sua voce pacata che ci parla? Che abbiamo avuto modo di “sentirlo vicino” anche nelle prove tragiche della vita? No? E allora, come possiamo dire di “conoscere” uno che non abbiamo mai incontrato? Perché incontrarlo significa cambiare necessariamente qualcosa nella nostra vita, nel nostro carattere, nella nostra persona! Se siamo sempre gli stessi, allora con la nostra vita dimostriamo chiaramente di non averlo mai incontrato, né di averlo mai conosciuto. Anzi, peggio, forse non abbiamo mai voluto incontrarlo, conoscerlo, prenderlo in considerazione; per noi insomma, Lui non conta nulla, è un “qualcosa” di irrilevante.

Incontrarlo, conoscerlo, significa al contrario lasciarlo entrare nel nostro cuore: è come aprire le porte ad un uragano, lasciarsi investire da un vento impetuoso, irresistibile; è come innamorarsi irrazionalmente, perdutamente, di qualcuno, fare un’esperienza unica che ci sconvolge la vita. Proprio per questo molti, volutamente lo evitano, non vogliono misurarsi con Lui: perché in realtà hanno paura di lui! Preferiscono imbalsamarlo, rinchiuderlo in certi schemi, in certe celebrazioni, in certe formule, pensando di poterlo gestire: preferiscono incontrare i “pensieri su Dio” o le “preghiere a Dio”, piuttosto che incontrare Lui in persona, piuttosto che tuffarsi ad occhi chiusi nell’oceano del suo amore.

Dio ha il cuore spalancato per tutti, aspetta tutti, è disponibile per tutti: è un'esperienza, un incontro, che tutti possiamo fare; non è un privilegio riservato ai sapienti, ai santi, ai suoi ministri. Incontrarlo non è difficile, e appena succede ce ne accorgiamo subito: sentiamo improvvisamente, istintivamente, la presenza di qualcuno che dentro di noi ci consola, ci suggerisce nuove soluzioni e, prendendoci per mano, ci guida per sentieri che prima ci erano sconosciuti, in una vita completamente nuova, diversa; ci fa capire che fino ad allora abbiamo solo sopravvissuto, abbiamo perso tempo, abbiamo vegetato, dormito, camminato a vuoto; e ci assicura che, se ci fidiamo di Lui, tutto, anche qualunque dolore o tragedia, acquisterà un valore straordinariamente meritorio.

Ecco dunque perché dobbiamo “conoscere” Dio: e dobbiamo conoscerlo nel vero significato biblico: dobbiamo cioè rapportarci a Lui, entrare nella sua intimità, congiungerci al suo amore, dobbiamo “sperimentarlo”; perché Dio non è un pensiero, un progetto, ma è una realtà, una “persona” vera di cui appassionarsi, innamorarsi, inebriarsi.

Per cui se non lo “sentiamo” sempre presente, se non dormiamo la notte per la gioia di parlare in solitudine con Lui, se non viviamo il pianto consolatore del sentirci amati da Lui, non diciamo scioccamente di aver conosciuto Dio. Prima “incontriamolo”, e solo dopo potremo parlare di Lui.

Un ultimo flash: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. La Chiesa è di Cristo. La Chiesa è Cristo. Per questo deve essere il luogo dell'esperienza di Dio, dell'incontro con Lui. Altrimenti perde la sua ragion d’essere, la sua vitalità. Quando andiamo in chiesa e partecipiamo ad una liturgia, ad un incontro di preghiera, quello che conta non è ciò che diciamo o facciamo, ma se “tocchiamo” Dio, se lo incontriamo, se Lui ci tocca. Andare in chiesa, e non essere “toccati”, è inutile, è tempo perso. Se non c'è Dio, non c’è vita. L'uomo di oggi ha un enorme bisogno di esperienze spirituali vere, di incontri profondamente autentici. Si copre di mille cose, riempie le abitazioni di oggetti, lavora senza sosta, si rifugia nella confusione, riempie le giornate di mille interessi: perché ha paura di incontrarsi, di sperimentarsi, di vedere quello che è nel suo intimo. In una parola ha paura di scoprirsi sbagliato, fallito, inconcludente; ha paura di sentirsi giudicato dall'Alto oltre che dal basso (da sé e dagli altri). Ecco perché è indispensabile più che mai incontrare Dio, pregarlo, cantarlo, viverlo insieme all’intera assemblea: nella Sua Chiesa.

La Chiesa di Cristo, fondata su Pietro “roccia”, sia dunque anche per noi il luogo dove ci sentiamo figli di Dio, dove possiamo piangere, ridere, sentirci a casa (non giudicati), sentirci compresi e ascoltati, dove possiamo dare voce a quello che abbiamo dentro.

Amiamo la nostra Chiesa: difendiamola. Perché è Lei che ha la missione fondamentale di proteggere quel sacro fuoco, quello Spirito che Dio ha posto dentro ciascuno di noi; è la casa dell'anima, di tutto ciò che vive nell'anima. È Lei che ci lega a Cristo, che ci rende liberi da tutti i comportamenti devianti, aggressivi, da tutti quei demoni (rabbie, risentimenti, ossessività, ecc) che purtroppo si diffondono troppo spesso da noi.

Se rimaniamo legati a Cristo, siamo veramente liberi, sciolti da tutto il resto; se preferiamo rimanere legati al resto, perdiamo purtroppo la nostra forza, la libertà, la gioia di sentirci figli molto amati. Amen.

 

 

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