giovedì 4 aprile 2019

7 Aprile 2019 – V Domenica di Quaresima


«Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (Gv 8,1-11).

Le primissime comunità cristiane avranno senz’altro faticato ad accettare e condividere il messaggio di questo vangelo, indulgente e buonista, apertamente in contrasto con la loro mentalità ancora “mosaica”, rigida e intransigente, in fatto di leggi matrimoniali.
Ma vediamo cosa ci dice il testo di Giovanni.
Siamo all’interno del tempio. Gesù sta insegnando ad una folla attenta e silenziosa, quando improvvisamente un gruppo di facinorosi, guidati dai custodi del tempio, scribi e farisei, gli trascinano davanti una donna, colta in flagrante adulterio e pertanto, come prevede la legge mosaica, meritevole di morte.
Il testo non dice se il fatto sia realmente accaduto, da chi sia stato scoperto, né se la donna sia stata regolarmente processata: in ogni caso, nel condurla fuori dalle mura cittadine per lapidarla, la portano davanti a Gesù. Sono in tanti, un gruppo numeroso; Gesù al contrario è solo. Il gruppo, come sempre, dispone di un enorme potere di azione in quanto tutela l’identità del singolo, fa in modo cioè che i singoli componenti non si sentano personalmente responsabili del loro operato. Nel branco, ognuno nasconde la propria responsabilità; tutti si sentono liberi di fare qualunque gesto, soprattutto quelli che, da soli, non avrebbero mai il coraggio di compiere.
Ai farisei e agli scribi, in realtà, non interessa né la donna, né il suo adulterio; il loro vero obiettivo è mettere in difficoltà Gesù: “Tu che ne dici?”, perché qualunque cosa egli dica, qualunque opinione egli esprima, verrebbe in ogni caso interpretata in senso negativo: se contro la lapidazione della donna, verrebbe accusato di non condividere la legge dei suoi Padri; se al contrario si dichiarasse favorevole alla sua condanna, automaticamente si metterebbe contro il potere degli occupanti romani, gli unici ad avere l’autorità di condannare a morte qualcuno.
Quindi in entrambi i casi, essi avrebbero avuto un ottimo preteso per denunciarlo alle autorità.
La folla presente, ovviamente, è tutta favorevole alla condanna a morte della donna: senza alcun processo, senza alcun giudizio, senza che nessuno si sia preso l’iniziativa di interrogarla sui reali motivi del suo “tradimento”: se cioè l’avesse fatto per piacere o per paura, se costretta o addirittura per vendetta; se trasgrediva per abitudine oppure se quella fosse stata un caso isolato. Le possibilità sono tante. Perché, chissà: forse il marito la picchiava, la tormentava, la umiliava; forse la trattava da schiava. Insomma nessuno in quel momento si era preoccupato di scoprire se per caso quel gesto nascondesse una situazione famigliare critica, se quel “reato” presentasse vari gradi di responsabilità, legati ciascuno a diversi gradi di pena.
Quella folla si limita solo a giudicare: è successo, quindi, deve morire! Senza appello, senza attenuanti: sembra quasi di assistere a tante situazioni “moderne”, a tante condanne dei nostri giorni basate sul nulla! Gente che si diverte a insinuarsi nella vita privata degli altri, a divulgare pettegolezzi, a creare scandali e maldicenze, a malignare su notizie “piccanti”, spesso costruite ad arte per ricavarne pubblicità e guadagni.
È purtroppo la nostra cronaca quotidiana: organi di informazione che gareggiano nella diffusione di autentica spazzatura; trasmissioni televisive idiote, in cui conduttori e conduttrici idioti, con opinionisti altrettanto idioti, propinano spettacoli di squallido voyerismo, basati puntualmente sul turpiloquio, sulla volgarità, sul sesso, sulla scurrilità.
È la triste immagine di questa nostra società senza più morale, priva di qualunque spiritualità, che si grufola quotidianamente in tale maleodorante pattume. Una società tragicamente vuota, asfittica, in cui una massa di guardoni decerebrati cerca giustificazione della loro nullità, confrontandosi morbosamente con trasgressioni, deficienze, debolezze, del vivere altrui
A questo genere di miserabili Gesù, nel tempio, impartisce una solenne lezione di vita. 
Di fronte alle accuse contro quella donna, generiche, pretestuose, improbabili, forse costruite ad arte, egli tace: non la guarda neppure, quella poveretta, non la condanna; china semplicemente il capo, e per dimostrare agli accusatori la sua disapprovazione per tale sceneggiata, si abbassa, e si mette “a scrivere col dito per terra”.
A Lui in quel momento non interessa l’eventuale peccato della donna: nella sua sensibilità, percepisce invece il suo grande dolore, il suo profondo disagio: egli sa che dietro a quella poveretta c’è una storia umana, un volto, un cuore, una persona con i suoi sentimenti, con le sue difficoltà, con i suoi problemi, ed ora, come se non bastasse, con la sua onorabilità calpestata.
Ai suoi accusatori invece non interessa nulla, vogliono soltanto sentire in fretta l’opinione di Gesù. Ma Egli continua a scrivere per terra in silenzio; prende tempo. Loro insistono per una risposta immediata, ma lui non gliela dà. È pieno di rabbia per questo, è contrariato per la loro rozza crudeltà e, nel silenzio, vuol scaricare la sua indignazione: vuole essere nuovamente calmo, lucido, obiettivo.
Finalmente, rivolto ai presenti, sentenzia: “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra”. In pratica egli accetta che la “peccatrice” venga lapidata, ma ad un’unica condizione: che quanti intendono scagliare anche una sola pietra, siano irreprensibili di fronte a Dio, siano cioè dei puri, corretti in tutto, immuni da qualunque peccato, innocenti da qualunque colpa: “Chi di voi in coscienza è convinto di essere in tale stato, si faccia pure avanti!”.
A questo punto però avviene l’impensabile: alle parole chiare e inappellabili di Gesù tutti si eclissano: uno alla volta, di nascosto, disinvoltamente, silenziosamente, se ne vanno, escono dal tempio, lasciando soli Gesù e la donna.
Ora finalmente Egli si volge verso di lei, le parla, la chiama semplicemente “donna”: e lo fa con rispetto, con amore, quasi con umiltà, restituendole, con questa parola, la sua dignità ingiustamente oltraggiata, rivivendo con lei il suo dramma interiore.
Non la giustifica, non le dice: “Brava, ti sei comportata bene!”. Ma: “Va’ e d’ora in poi non peccare più”. In altre parole: “Anche se hai sbagliato, quel che è successo, è successo: vedi ora di non ricadere mai più. Io ti perdono, ma tu diventa diversa, nuova, migliore, perché se vuoi tu puoi esserlo!”.
Parole consolanti, che valgono anche per tutti i peccatori di questo mondo. Gesù fa leva sempre sui nostri buoni propositi, sui sentimenti che custodiamo nel profondo dell’anima. Non infierisce sulle nostre infedeltà, sulla nostra cattiveria perversa, ma ci esorta ad uscirne fuori definitivamente.
Un cammino a volte difficile, in cui non dobbiamo mai essere indulgenti con noi stessi, mai rinunciatari, remissivi: dobbiamo invece combattere strenuamente, senza sosta, dobbiamo reagire, avere tanta fede. “Aver fede” significa infatti “aver fiducia”, avere cioè la certezza, che con l’aiuto di Dio possiamo affrontare e superare qualunque difficoltà.
Gesù è sempre dalla nostra parte, egli ama tutte le sue creature. Come alla donna peccatrice Egli ci ripete: “Sì lo so, avrai anche sbagliato, ma convertiti, io credo in te”.
È sempre bello sentirsi amati: sentirsi incoraggiare, sentirsi dire, da qualcuno, che crede in noi, che crede nelle nostre forze, nelle nostre possibilità, che va oltre i nostri errori, i nostri limiti, che ci ridà fiducia. È bello perché ci fa sentire grandi, rispettabili, potenti: ci fa sentire, in una parola, delle “persone” vere, autentiche, autosufficienti.
È attraverso lo sguardo benevolo di Dio, attraverso il suo amore, infatti, che riusciamo a renderci conto di come realmente siamo, di come dovremmo essere, di come, con l’aiuto di Dio, sicuramente saremo.
Preghiamo allora il Signore che ci illumini con il suo sguardo paterno: mettiamoci umilmente alla sua presenza, e diciamogli: “Tu, Gesù, credi in me; lo capisco, lo sento, ne sono convinto. Non posso più deludere questa tua fiducia, questo tuo amore, questa tua aspettativa; voglio risorgere dalle mie debolezze, dalle mie infedeltà, perché voglio finalmente essere come tu mi vuoi, per poterti finalmente amare come meriti”. Amen.


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