giovedì 5 luglio 2018

8 Luglio 2018 – XIV Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria? (Mc 6,1-6).

Gesù, durante il suo lungo peregrinare, si ferma anche nella sua cittadina natale. E qui il vangelo ci offre un piccolo spaccato di vita paesana: non che Egli faccia per i suoi concittadini qualcosa di straordinario, anzi si comporta esattamente come ha sempre fatto altrove: guarisce gli ammalati e, di sabato, predica nella sinagoga. Anche i suoi lo ascoltano e, come tutti, rimangono stupiti, meravigliati: percepiscono cioè che in lui c’è qualcosa di grande, di soprannaturale che risveglia in loro particolari emozioni, tocca le corde più sensibili della loro anima. Tuttavia giudicano la sua dottrina troppo alta, troppo impegnativa, troppo forte, non adatta a loro. Essi sono diffidenti, hanno le loro idee, hanno le loro tradizioni, hanno i loro schemi: Lui invece dice cose mai sentite, cose “pericolose”, mette in dubbio il loro credo, scopre le loro debolezze, insomma li destabilizza.
Del resto, qui come altrove, Gesù è sempre schietto nel parlare e coerente nell’agire, non si preoccupa di piacere o no alla gente: non è un diplomatico, un politico; dice a ciascuno esattamente quello che ritiene giusto davanti a Dio: dice cioè ai signori farisei che la loro religione è tutta una farsa; dice ai nobili sadducei che dietro la loro religione c’è solo fame di potere e che quindi le loro pratiche religiose sono inutili, stupide, prive di vita.
È naturale che le persone, sentendosi chiamate in causa, toccate sul vivo, messe ciascuna di fronte alla propria coscienza, reagiscano di conseguenza; e lo fanno in due modi diversi: o ascoltando umilmente Gesù, dando retta ai suoi consigli e rivedendo completamente il loro stile di vita, oppure attaccandolo frontalmente, facendolo passare per matto, mettendo in giro su di lui voci maligne e, se non bastasse, fare di tutto per isolarlo, zittirlo, magari addirittura sopprimerlo. Cosa poi puntualmente avvenuta!
Nel caso specifico dei suoi compaesani, però, c’è un’ulteriore aggravante: perché fino a quando Gesù predica in giro per la Palestina, la gente non lo conosce, non sa chi sia, né da dove venga; ma qui lo conoscono tutti e bene! Conoscono la sua famiglia, le sue origini, sanno che è una persona onesta, che non è un imbroglione, e tutti lo acclamano per quello che dice, vuol dire che è proprio un “grande”. E qui s’innesta immediatamente l’invidia, la cattiveria: “Ma come, ha studiato qui con i nostri figli, ce lo ricordiamo da ragazzino, non era certo un sapientone! Ora arriva lui e che fa? Si comporta come un profeta, dice cose per noi troppo difficili e complesse; cerca di stravolgere la nostra vita, le nostre tradizioni. Noi abbiamo sempre fatto così, perché ora dovremmo cambiare? Solo perché viene lui ad imporcelo con le sue idee strane? Chi si crede di essere? Noi sappiamo bene che è un carpentiere, figlio di Giuseppe il falegname... e le sue sorelle sono...Cosa può uscire di buono da una tale famiglia?”.
Hanno deciso di non seguire Gesù: non vogliono in alcun modo dare credito alle sue parole: e lo fanno per principio, per tigna. Non vogliono neppure pensare che Dio possa agire per mezzo di un poveraccio come loro, di uno che conoscono fin troppo bene: sarebbe troppo. Al massimo può essere come uno di loro, niente di più! Purtroppo da che mondo è mondo, uno può fare miracoli, fare salti mortali, cose strabilianti e impossibili, ma per la gente che lo conosce continuerà ad essere sempre lo stesso poveraccio: lo etichettano in un certo modo, e da lì non schiodano.
Il loro dramma è che sono convinti che la loro conoscenza sia sempre attuale, aggiornata negli anni, anche se così non è; per cui si sentono autorizzati a classificarlo, a vederlo non più per quello che attualmente è, per quello che è diventato, ma per il ricordo che ne avevano. Cambiare la propria opinione è infatti uno dei cambiamenti più difficili; comporta la sgradevole necessità di ricredersi, di ammettere i propri errori, di abbandonare vecchie posizioni.
È assurdo, ma noi giudichiamo quasi sempre le persone non per quello che sono al presente, ma per quello che erano anni prima, in base alla conoscenza che abbiamo dei loro genitori, della loro famiglia, dei loro parenti ecc.
E se gli abitanti di Nazareth hanno rifiutato Dio con la scusa di conoscere fin troppo bene Gesù, noi che posizione abbiamo preso nei suoi riguardi? Conosciamo e seguiamo il Dio vero oppure preferiamo seguire un “nostro” Dio, uno che ci siamo costruiti su misura, una etichetta a nostro uso e consumo? Purtroppo noi siamo portati ad essere molto superficiali nei nostri giudizi. Una delle nostre espressioni molto frequenti è: “Come ti conosce tua madre, nessun altro può conoscerti!”. E in un certo senso è vero, perché una madre conosce sicuramente il proprio figlio meglio di chiunque altro; ma dette da noi, in un certo modo, con chiari sottintesi, sono parole che richiamano qualcosa di negativo, per cui si trasformano in un giudizio feroce. Come pure: “Lo sapevo che finiva così, ti conosco bene!”. Che equivale a: “Ti conosco, so come sei; non mi sorprende quindi se non riesci a fare nulla di buono”. E non ci rendiamo conto che magari la realtà, le persone, la vita, sono molto diverse da quel poco che noi diciamo di conoscere, sono ben più grandi dei nostri giudizi e delle nostre etichette.
Leggendo il Vangelo ci colpisce il fatto che, incontrando Gesù, alcune persone si lascino trasformare, ne escano completamente cambiate, rinnovate, non siano più loro; al contrario di altre che rimangono ancorate nei loro pregiudizi, nei loro schemi, nel loro disordine, non lasciandosi neppure sfiorare dal suo amore.
Il motivo che determina questa diversità dipende dall’avere o non avere fede in lui: se cioè queste persone si lasciano attrarre da lui, arrivando anche a sconvolgere completamente la loro vita oppure, se indifferenti, si girano dall’altra parte e proseguono per la loro strada.
Ecco perché avere fede, tanta fede, è fondamentale per noi, per la nostra vita cristiana.
La fede è infatti quella disponibilità mentale mediante la quale riconosciamo, percepiamo, accettiamo che Dio realmente viva, agisca, si manifesti nella nostra vita. “È quel contatto profondamente personale con Dio, che ci tocca nel più intimo e ci mette di fronte al Dio vivente in modo da potergli parlare, poterlo amare, ed entrare in comunione con lui” (Benedetto XVI).
Questo è il presupposto fondamentale: perché Dio non può elargirci le sue particolari grazie se noi non lo accettiamo, se noi non lo vogliamo. Inoltre, se non ci apriamo alla fede, se non ci lasciamo illuminare dalla sua luce, ci auto escludiamo dalla vera felicità, dall’amore autentico, e la nostra vita sarà un continuo tormento, un continuo errare nel buio più totale, senza alcun riferimento ad una meta.
Una cosa soltanto ci può confortare: la certezza che anche quando noi non lo vogliamo considerare, non lo vogliamo vedere, non vogliamo collaborare con lui, Egli rimane comunque in disparte, al nostro fianco, in paziente attesa di un nostro ripensamento, di una nostra “conversione”, pronto ad accoglierci tra le sue braccia.
La fede poi non deve limitarsi alla sola conoscenza teorica: avere fede significa agire concretamente di conseguenza, significa incontrare veramente Dio nella nostra vita, dentro di noi, significa sperimentarlo. E questo dipende solo da noi, perché se non vogliamo lasciarci coinvolgere da lui, se non vogliamo farci tirar dentro, se non vogliamo mettere fine al nostro isolamento, neppure lui potrà farci nulla. Ora, è molto difficile per noi accettare e capire questo concetto: perché in teoria, a parole, tutti vogliamo Dio, tutti lo amiamo, tutti siamo disponibili ad accoglierlo; nella pratica però vivere seguendo i suoi consigli, offrirgli la nostra totale collaborazione, costi quel che costi, è tutta un’altra cosa: perché alla base, la nostra fede non è perfetta, totale coinvolgente: perché non capiamo che Dio ci salva solo se noi lo vogliamo; che possiamo godere dei benefici del suo amore, solo se ci apriamo alla sua grazia; che Dio ci cambia solo se noi glielo permettiamo; che Dio ci porta al centro della Vita solo se noi accettiamo di camminare con Lui. Dio, insomma, senza il nostro apporto personale, non può far nulla per noi.
Il vangelo poi dice che “si scandalizzavano di Gesù. Il verbo greco è molto forte; indica una indignazione, una collera repressa nei confronti di una persona: i suoi concittadini non riescono insomma ad accettare che lui sia diverso da loro, sia migliore, sia considerato e amato dalle folle. In quel verbo c’è tutto il rifiuto, l’odio, lo sdegno, la rabbia, il disprezzo “casalingo” per Gesù, covato dai suoi al di là di ogni considerazione.
Brutta cosa rifiutare gli altri “per principio”, “a prescindere”; perché scatena odio, lotte fratricide, conflitti irreversibili. Vivere nel rifiuto sistematico del prossimo è il sintomo rivelatore di una grave malattia, di una avanzata antropofobia. Come pure sintomo di un malessere interiore è “godere”, essere contenti del fatto che gli altri ci rifiutino; ci sono persone infatti che sono felici nel sentirsi rifiutate, persone masochiste che fanno del vittimismo uno stile di vita: più sono avversate, osteggiate, perseguitate, più sono contente, illudendosi di essere già avanti nella santità: “Guarda come soffro, guarda quanto è crudele il mondo nei miei confronti. Per fortuna Dio è con me, perché io gli sono fedele!”. Valutazione errata: mai provare né tantomeno ostentare qualsivoglia compiacimento o soddisfazione per una presunta personale santità, tanto meno per siffatte banali motivazioni: il rifiuto della nostra persona da parte degli altri deve semmai essere visto come una delle tante prove che accompagnano il duro e silenzioso cammino del seguire Cristo, un innocuo banco di prova della nostra fede e della nostra santità: “Vuoi veramente seguire Gesù? Quanto lo vuoi?”. Se di fronte alla prima critica, al primo rifiuto, abbandoniamo subito i nostri propositi, la nostra “vocazione”, dimostriamo nei fatti quanto le nostre convinzioni siano labili e superficiali. Progetti semplicemente costruiti sulla sabbia. Dice il saggio: “Se un uomo non affronta qualche contrarietà per le idee in cui crede, o non vale niente l’uomo o non valgono nulla le sue idee”.
Il Vangelo poi annota il commento di Gesù in risposta alle male lingue dei suoi paesani: “Nessuno è profeta nella sua patria”. Parole che trovano la loro spiegazione nelle tristi avventure dei profeti dell’intera storia d’Israele; parole che esprimono soprattutto la sua amara rassegnazione di fronte ad un immotivato e stolto rifiuto da parte proprio dei suoi concittadini. E prima di andarsene, dirà ancora: “Neanche se Dio scendesse di persona, voi credereste”.
In queste parole c’è tutta la delusione di Gesù. È il dramma di chi vive in lui, di chi annuncia il suo Regno; è il dramma di tutti i profeti di ogni tempo, di tutti i pastori, via via fino all’ultimo umile e santo prete delle nostre campagne: scontrarsi con persone che pur conoscendo Dio, si rifiutano di vederne e apprezzarne la realtà, la verità, amore. Amen.


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