giovedì 19 ottobre 2017

29 Ottobre 2017 – XXX Domenica del Tempo Ordinario


«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» (Mt 22,34-40).

Dopo aver fatto ripetute brutte figure con Gesù, i farisei per metterlo alla prova scelgono questa volta una persona competente, il meglio del meglio, nientemeno che un dottore della legge. E questi lo affronta subito impostando il discorso sulla “sua” materia. Da notare che il verbo “metterlo alla prova” usato qui da Matteo, è quello stesso peirazo usato per descrivere le “tentazioni” di satana: in pratica l’evangelista paragona il comportamento dei sacerdoti del tempio, degli scribi, dei farisei, sempre pronti a tentare, a mettere alla prova Gesù, come opera di satana: un particolare che dovrebbe farci riflettere!
Ma cosa gli chiede dunque questo dottore, questo esperto legale? “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”.
Da come si pone, lascia subito intendere il suo reale proposito: già l’appellativo di “maestro” con cui si rivolge a Gesù, è pronunciato in maniera chiaramente provocatoria: non solo non ha alcuna intenzione di approfondire le sue conoscenze (lui non ha nulla da imparare, sa già tutto!) ma cerca piuttosto un pretesto per metterlo in difficoltà davanti al suo pubblico; vuole cioè cogliere in fallo Gesù per offrire alle autorità l’opportunità di condannarlo: e quale argomento è più indicato se non quello di indagare su cosa Gesù pensi dei comandamenti e della legge?
La verità non gli interessa; e non è neppure curioso di conoscere realmente il pensiero di Gesù; vuole semplicemente sfruttare l’occasione per avere la conferma di cosa egli pensasse in merito ad una questione fondamentale e delicata: il valore cioè dei comandamenti della Legge, visto che nella sua predicazione non solo ne prende le distanze ma arriva pure a trasgredirli. Egli in pratica definisce “vecchi, sorpassati, incompleti” proprio quei comandamenti che tutti ritenevano validi, e che tutti si sentivano obbligati ad osservare. Una “interpretazione”, quella di Gesù, che inquietava seriamente le autorità religiose; per cui la sua risposta serviva soltanto come riprova della sua ortodossia, oppure come motivo di denuncia ufficiale.
Ma Gesù sa perfettamente cosa vorrebbero sentirsi dire le autorità tramite il suo interlocutore: “Il più grande comandamento? Ma è ovvio, è il sabato!”. Sì, perché l’osservanza del “sabato” era il comandamento più grande, più considerato dagli ebrei; Dio stesso lo aveva rispettato, consacrandolo col riposo dopo le fatiche della creazione. La sua osservanza equivaleva all’adempimento di tutta la legge, e la sua disobbedienza era punita con la morte (Es 31,14).
Sappiamo però che per Gesù questo comandamento non è per nulla importante, non è affatto prioritario, tant’è che non ne tiene conto, non gli interessa: se deve fare qualcosa di importante, come per esempio guarire un ammalato, lui lo fa tranquillamente anche di sabato, perché per lui l’amore è molto più importante della legge.
Una domanda ben congegnata, perché se Gesù avesse dato la risposta che tutti si aspettavano, (“il sabato”), il dottore della legge gli avrebbe immediatamente contestato il suo comportamento: “È giusto, maestro: ma perché tu non lo rispetti?”. Se invece avesse risposto diversamente, avrebbe fatto la figura dell’ignorante, di uno che non conosce la legge, e questo sarebbe stato altrettanto deleterio per Gesù.
Il dottore dimostra in questo modo di essere un esperto, un vero conoscitore delle dispute legali: ma Gesù dimostra di non essere da meno, e gli risponde a tono citando anche lui la Scrittura, dimostrando di conoscerla altrettanto bene: gli fa capire cioè che il testo non va interpretato sulla base di una singola citazione letterale, ma attraverso una visione d’insieme, una lettura completa dei testi: e gli cita infatti un altro comandamento – altrettanto “grande” ma sicuramente il “primo”, il più importante – riferito cioè a quella “preghiera” che gli ebrei recitano due volte al giorno, al loro “Credo” ufficiale (Dt 6,4-9): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutto il tuo essere e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti”. E fin qui tutto bene: il dottore non può che essere d’accordo. “Amare Dio”, in fin dei conti, non è difficile, è un fatto interiore che non si può misurare dall’esterno, e che quindi nessuno può conoscere né giudicare: questa volta le autorità sono salve, Gesù non le condanna! Ma il problema nasce subito dopo, con quel che segue: “E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)”. Anche questo è scritto nella Bibbia, ma è evidente a tutti che le autorità non lo tengono per nulla in conto.
A rigor di logica, Gesù non dice nulla di nuovo. Ma in realtà, per come andavano allora le cose, introduce una grande novità: condiziona cioè l’amore per Dio all’amore per il prossimo: crea un legame indissolubilmente tra i due amori. Come dire: “Amare Dio senza amare veramente le persone, non serve a nulla, non è un vero amore per Dio. Pertanto, quello che voi ripetete ogni giorno (visto che lo dite), mettetelo anche voi in pratica, come faccio io!”.
Che dire? È chiaro che a questo punto il dottore si trova spiazzato: non ha parole, non immaginava che il discorso prendesse una simile piega, è sorpreso, ammutolisce: “Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno da quel giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt 22,46).
Una bella lezione: del resto Gesù non cita chissà quale teoria, ma risponde attenendosi scrupolosamente a quanto già prescritto dalla legge ebraica. E poiché si rivolge ad un ebreo, oltretutto ottimo conoscitore delle Scritture, il succo è questo: “La legge ce l’avete e la conoscete: mettetela in pratica!”.
Ma non è tutto qui: il “novum” introdotto da Cristo nella legge antica dell’amore è a dir poco rivoluzionario. Per tre motivi: prima di tutto per il nuovo concetto di “prossimo”: per un ebreo il prossimo era un altro ebreo o al massimo uno che abitava in Palestina; per Gesù, invece, “prossimo” è l’intera umanità; inoltre, altra novità, dobbiamo amare questo prossimo “come noi stessi”: ma attenzione, perché se ci fermassimo a queste sole parole, il nostro amore non sarebbe comunque perfetto: per logica infatti se io mi amassi poco o nulla, amerei poco o nulla anche il mio prossimo. Gesù annulla questo aspetto riduttivo, e riconosce alla legge dell’amore una valenza divina, universale: in altre parole, ama il prossimo tuo “non” come tu ami te stesso, ma come Dio ama te, “come Io vi ho amati”. Una nuova e straordinaria prospettiva si apre quindi davanti a noi: il termine di riferimento dell’amore al prossimo non sarà più quello riduttivo, il “nostro”, ma quello di Dio, universale, straordinario, senza limiti.
Per Gesù amare l’uomo equivale amare Dio, e amare Dio equivale amare l’uomo. Risultato: l’amore per Dio non lo si misura da quanto uno è pio o religioso, da quante preghiere dice: ma da quanto amore nutre per i suoi fratelli. Il vero credente non è colui che esegue alla lettera le prescrizioni religiose, ma colui che vive realmente l’amore, colui che compie ogni sua azione elargendo amore.
Un’attenta lettura di questo vangelo ci offre poi altre considerazioni su cui meditare.
Prima di tutto, ci siamo mai chiesto cosa significhi la parola “amore”? Etimologicamente deriva dal latino “a-mors” (“a” privativo e “mors”, morte) che letteralmente vuol dire “togliere la morte a qualcuno”, “dare la vita”; per cui “amare” significa “rendere vivo”, vitale, colui che amiamo. Gesù vedeva intorno a sé soprattutto persone che soffrivano: persone colpite da gravi malattie, come ciechi, sordi, paralitici, lebbrosi, o addirittura persone morte. Egli le “amava”: il suo amore le guariva, le toglieva dalla morte, reale o simbolica, rimettendole in contatto con la vita. Egli dispensava amore a piene mani, e lo faceva (altro insegnamento fondamentale per noi) non per avere un “ritorno”, una ricompensa, un riconoscimento: neppure in termini di fama, perché chiedeva sempre a tutti di non divulgare la cosa, di non parlarne con nessuno; non lo faceva neppure per proselitismo: non diceva: “Ti guarisco ma tu devi credere in Dio; tu devi venire in chiesa; tu devi obbedirmi; tu mi devi...”. Lui vedeva semplicemente uno che soffriva, e con il suo “amore” lo liberava dalla sofferenza, dal disagio.
Questo è l’amore di Gesù, e questo deve essere anche il nostro amore: chi ama rende vivo l’altro; chi ama vuole il meglio per l’altro, anche se ciò ci costa fatica e sacrificio; perché ciò che è meglio per l’altro, non sempre coincide con quello che è meglio per noi.
Altra considerazione: in passato per l’ascetica cristiana amare il prossimo “come noi stessi” comportava un far passare in second’ordine l’amore per se stessi, per la propria persona; significava riconoscere all’amore per l’altro la priorità assoluta: in questo modo amare se stessi, “amarsi”, era ritenuto una “debolezza umana”, un peccato; equivaleva ad essere egoisti, narcisisti. La via maestra per la santificazione personale passava quindi attraverso il sacrificarsi, l’immolarsi completamente per gli altri; tant’è che a quanti volevano intraprendere un cammino cristiano più impegnativo, venivano continuamente ricordate le parole: “Se uno non rinnega se stesso e non prende la sua croce...”: era un cammino di vita che “doveva” essere impostato solo sul sacrificio, sulla penitenza, sulla spersonalizzazione, sulla tolleranza, sulla totale dedizione per gli altri. Oggi questa lettura del vangelo è stata profondamente rivista: nessuno si permette più di affermare che Dio accetta al suo servizio soltanto gli infelici, i frustrati, i pieni di sventure: perché in effetti non è vero!
Ma allora come dobbiamo amare noi stessi? Esattamente come amiamo gli altri. “Amarci” infatti significa volere il nostro bene, renderci vivi, vivere da vivi; significa lottare per ciò che è bene per noi, fare in modo che la nostra persona sia retta, rispettabile e rispettata. Gli altri ci evitano, ci ignorano, ci escludono? Invece di continuare ad arrabbiarci, amiamoci! “Amarci” vuol dire migliorare il nostro carattere, la nostra personalità; significa trasformarci, diventare amabili, accettabili, ricercati; significa essere più aperti con gli altri, più elastici, meno saccenti, meno giudicanti, meno pretenziosi; in una parola “amarci” significa diventare migliori.
Pretendere dagli altri ciò che noi non sappiamo o non vogliamo fare per noi stessi, è autentico parassitismo.
Infine un’ultima considerazione: il nostro amore deve essere “pieno”: dobbiamo cioè “amare in pienezza”. Il vangelo parla di amare “con tutto il cuore, l’anima e la mente”. Altrove aggiunge “con tutte le forze (Lc 10,27), cioè con la concretezza, con le azioni. L’amore, per essere vero amore, deve interessare tutte le nostre facoltà, tutte le nostre possibilità, l’intera nostra persona, a tutti i livelli: altrimenti non è amore. Infatti: amare solo con mente e forze senza cuore, è volontarismo, è azione, è amore freddo, senza passione, manca il sentimento. Amare con mente e cuore senza le forze, le opere, è sentimentalismo, non c’è azione. Amare con cuore e forze senza mente, è istintivo, irrazionale, non c’è il pensiero, non c’è consapevolezza, non c’è lucidità. Soltanto quando l’amore è mosso dall’intera nostra persona, da tutto di noi: mente, cuore e forze, solo allora è pieno, completo, perfetto. Solo in questo modo “ameremo” veramente il prossimo; lo ameremo come Gesù ci ha insegnato, esattamente come Lui stesso ci ha amati e continua ad amarci: senza condizioni, senza tornaconti, senza pretese. Amen.




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