venerdì 2 giugno 2017

4 Giugno 2017 – Domenica di Pentecoste

«Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,19-23).

Con la festa di Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua, il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni giunge a compimento: un nuovo corso si apre, l’epoca dello Spirito, della Chiesa, degli uomini.
Cerchiamo di vedere cosa è successo esattamente: subito dopo la morte di Gesù, gli apostoli, presi dallo shock, dallo scoraggiamento, dalla delusione, dalla paura, si rifugiano con Maria nel cenacolo. Il vangelo ci dice addirittura che si sono rinchiusi, con le porte sbarrate: hanno una paura folle dei Giudei.
Hanno assistito impotenti alla tragedia inflitta a Gesù: svergognato, denigrato, umiliato, e infine ucciso in croce come il peggiore dei malfattori. In una società in cui il singolo vale soltanto come “appartenente” ad un movimento, a un popolo, a un’etnia, la paura dei discepoli di finire isolati, dispersi, rifiutati, è decisamente grande; ma è ancor più grande la paura della sofferenza fisica: con la morte atroce del loro maestro ancora davanti ai loro occhi, il terrore li destabilizza. La domanda che si pongono è:“Arresteranno anche noi? Faremo anche noi la stessa fine? Come facciamo a continuare la sua missione, in mezzo a tanti rischi e pericoli?”. Sono dei pover’uomini, deboli, assillati dal terrore di soffrire, di morire: una paura che li porta a non vivere.
Ma ecco che Gesù appare loro e dice: “Pace a voi”. Che equivale a: “Non abbiate paura”. Un incoraggiamento, va specificato, con cui Gesù non vuol dire che devono liberarsi da ogni timore, da ogni paura in assoluto. Questo no, perché la paura, quella buona, è un atteggiamento “positivo”, un “tutore” che accompagna l’uomo nella sua esistenza, lo rende prudente, gli permette di affrontare razionalmente gli imprevisti che incontra giorno per giorno. La paura che anche noi dobbiamo evitare è un’altra, è il cieco rifiuto del futuro, di qualunque cosa ci possa accadere l’indomani, è la paura di invecchiare, di ammalarci, di rimanere soli e abbandonati, di morire: queste sono “paure” fuorvianti, paure che esulano da ogni sano comportamento, paure che impediscono una sensata visione dell’ineluttabilità della vita; sono una malattia, un modo di rovinare la propria esistenza; sono una non-vita. Tutti sappiamo che un giorno dovremo morire: ma non per questo dobbiamo rinunciare a godere le meraviglie della vita, in tutte le sue molteplici opportunità.
Queste paure sono connaturali all’uomo, ci appartengono. Ma più che un nemico, dobbiamo considerarle un compagno di viaggio, dobbiamo essere consapevoli che siamo noi i più forti, di avere noi l’ultima parola.
Gesù si rende conto del precario stato d’animo degli apostoli, e li rassicura: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”. Li pone quasi sul suo stesso piano: anche Gesù ebbe paura; in certi momenti scappò, in altri si sottrasse alle persone oppure si muoveva di nascosto, di notte, per non farsi vedere. Nelle sue ultime ore a Gerusalemme provò una paura e un’angoscia così spaventosa da “piangere sangue”. Sembra quindi dire loro: “Anch’io durante i miei giorni terreni, ho avuto momenti di intensa paura, di terrore: eppure ho continuato la mia missione fino alla fine; anche voi dovete vincere questa vostra paura: uscite da qui, non abbiate timore, andate per il mondo, sono Io che ve lo chiedo!”.
Gli apostoli si sentono al sicuro, protetti nel cenacolo dove si trovano; il cenacolo per loro è come il grembo materno: ma se continuassero a rimanere rinchiusi lì dentro, non nascerebbero, non potrebbero iniziare la loro nuova vita, il messaggio vitale che Gesù ha loro affidato, non verrebbe mai divulgato, la loro missione fallirebbe senza scampo.
La paura li rinchiude, è vero; ma una volta “sentito” lo Spirito in loro, aderiscono con slancio all’invito di Gesù, rompono gli indugi, e vanno fiduciosi in tutto il mondo ad annunciare il vangelo: non è che non abbiano più paura del rifiuto, del giudizio, della morte; ma la forza dello Spirito li sorregge, li sblocca, li aiuta, li spinge nel domani della loro missione.
Ecco. Pentecoste significa appunto fidarsi di Gesù che dice: “Ora uscite da voi stessi, andate incontro alla vita, perché avete la forza per farlo. Io sono con voi, il mio Spirito è dentro di voi: con questa forza affrontate il ostro domani, fate serenamente ciò che dovete fare”.
È così: ogni volta che confidiamo in Dio, che ci fidiamo del fatto che Lui è presente nella nostra vita, che Lui è dentro di noi, sentiamo quella forza speciale che ci fa uscire, che ci fa combattere, che ci fa superare le tante umane paure che ci trattengono.
Il Vangelo, nel descriverci questa trasformazione improvvisa, dice che Gesù alitò sugli apostoli: usa cioè lo stesso termine (emphysao, “alitare”) che nella Genesi descrive l’atto creativo di Dio: ebbene, nella Pentecoste, Dio ci affida la sua forza creatrice, ci dona quella stessa forza con la quale egli ha creato, ha agito, ha amato.
Un gesto di estremo amore, che ci dimostra due cose: la prima è che con il sacramento della confermazione, noi tutti riceviamo la stessa forza di Gesù. Dobbiamo quindi prendere piena consapevolezza di questa forza che ci inabita, dobbiamo renderci conto di questa energia, di questa potenza che ci sorregge, di questo “Spirito” che ci appartiene.
Allora non è vero che non possiamo far niente; non è vero che non siamo importanti, che siamo nessuno. Dobbiamo smettere di dire: “Che posso fare? Non ci riesco!”; che tradotto in pratica significa: “Perché darmi da fare? Tanto sono un incapace, sbaglio sempre; molto meglio non fare nulla!”. No, noi non siamo degli incapaci, dei deboli, degli inetti: noi siamo forti, siamo potenti, perché dalla nostra parte abbiamo lo Spirito di Dio che è forte, che è potente. È Lui che ci rende forti, Lui che abita dentro di noi. Dire che non siamo all’altezza, che non ce la facciamo, che non abbiamo la forza necessaria, significa negare questa presenza di Dio in noi. Dire che siamo solo dei deboli, dei fragili, che non siamo in grado di combattere, equivale affermare che satana ha la meglio, ci domina, che ha il sopravvento su di noi, sulla nostra vita, ogni volta che vuole.
Certo, conoscere le nostre potenzialità, conoscere la nostra forza, è decisamente responsabilizzante: sapere che, volendo, possiamo cambiare totalmente la nostra vita, possiamo dire “no” o “sì” alle situazioni decisive, determinanti della vita, ci trasmette sicuramente tante responsabilità. Significa essere adulti: per questo molti preferiscono rimanere eterni bambini, nascondersi dietro la scusa di non farcela. Ma queste sono le persone insignificanti, misere, ottuse, che non sanno, non riescono, non vogliono, apprezzare quel che sono. Noi al contrario conosciamo la chiamata di Dio, disponiamo di tutta la sua forza per assecondarla; con Lui siamo forti, siamo potenti: questa è la profonda convinzione che ci rende sereni e fiduciosi.
La seconda cosa è che tutta la creazione, tutto ciò che noi possediamo è in forma di seme; tutto in noi è come un seme, tutto è allo stato germinale, tutto si risveglia grazie allo Spirito di Dio. C’è tutta una ricchezza vitale, un mondo, una creazione che noi dobbiamo “fecondare” con lo “Spirito” di Dio. È attraverso di Lui che tutto avviene, tutto si realizza, tutto diventa godibile per noi.
Siamo pieni di possibilità, di ricchezze: spesso però non le sviluppiamo, quando invece dovremmo curarle come dei figli, amarle, ascoltarle, investirle nel tempo. Se ci comportiamo così, non solo saremo felici ma ci sentiremo ricchi, perché quelle ricchezze, tutte quelle potenzialità sono nostre, siamo noi, ci appartengono. Se le amiamo, noi ci amiamo. Se le abbandoniamo, se non le curiamo, siamo noi che ci inaridiamo, siamo noi che moriamo.
Molte persone sono infelici perché nonostante facciano tante cose, abbiano tantissime attività, non riescono a sviluppare loro stesse, la loro vita interiore. Sono affannate completamente a produrre ricchezze, a sviluppare la loro posizione sociale, il loro apparire, la loro immagine esteriore: creano di tutto, ma non “si” creano. Sviluppano ma non “si” sviluppano. Fuori sono ricchissime, ma dentro sono nella miseria più nera.
Dopo aver “soffiato” lo Spirito sugli apostoli, Gesù si preoccupa appunto di renderli consapevoli dell’enorme potere che essi dispongono da quel momento: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Giovanni qui usa due verbi molto significativi: “afiemi”, che vuol dire “perdonare, mandare via, scacciare, rimettere”; e “crateo”, che significa “trattenere, tenere in pugno, impossessarsi, dominare, aver dominio, spadroneggiare”. In pratica dice: “voi avete due possibilità: o mandate via o trattenete; o lasciate andare o tenete in pugno. Spetta a voi decidere voi cosa fare”.
Una grande responsabilità quella dello stabilire chi deve essere perdonato e chi no: Gesù al riguardo suggerisce con forza la soluzione del perdono, della carità, dell’amore “sempre e comunque”.
Se non perdoniamo le offese, la nostra rabbia, il nostro dolore, continuano a vivere in noi: ogni mattina noi le riviviamo, ogni santo giorno siamo dilaniati dalla stessa rabbia: la nostra vita ne esce completamente sconvolta: se non perdoniamo, continuiamo a vivere nel passato; continuiamo a fantasticare vendette future, rappresaglie feroci, e non riusciamo più ad apprezzare i tanti lati positivi della vita.
Accettiamo quindi la realtà, perdoniamo e continuiamo a vivere. Abbiamo questo potere: non possiamo certo prevenire ed evitare le ferite della vita, ma possiamo perdonarle. Tocca a noi decidere se rimanere sempre risentiti con il mondo, oppure se perdonare e riacquistare la nostra serenità. Un giorno chiunque potrà ferirci, ma siamo noi che decidiamo di continuare a ferirci ogni santo giorno, senza voler perdonare, alimentando quotidianamente il nostro rancore.
Perdoniamo, allora, non per essere “bravi” ma per essere “liberi”. Non c’è nulla di eccezionale in chi perdona, perché perdonando accettiamo la possibilità di venire feriti: perdonando, decidiamo di non soffrire più per quella ferita.
Ogni ferita è un sasso che ci colpisce: ci ha colpito, è vero, ci ha fatto male: ma ora quel sasso è nelle nostre mani. Cosa vogliamo farne? Vogliamo vendicarci e rilanciarlo? Questo non cambierà la nostra situazione, non ci toglierà la ferita; semmai ne provocherà un’altra in qualcun altro. Vogliamo tenerci stretto il sasso in modo che ogni nostro contatto, ogni nostra “carezza” sia una sassata per tutti? O preferiamo perdonare? Certo: deponiamo quel sasso, lasciamolo cadere, lasciamolo andare. Ci sentiremo liberi. Se non deponiamo quel sasso e non lo gettiamo via, ogni mattina ci alzeremo e lo guarderemo: quel sasso, senza che ce ne accorgiamo, ci entrerà dentro, indurirà il nostro cuore, lo renderà insensibile. Invece di lanciare gesti d’amore, senza accorgercene, lanceremo sassate: perché la violenza genera violenza. Solo il perdono spezza la catena. Solo il perdono spezza quest’automatismo diabolico. 
Henri-Dominique Lacordaire, monaco domenicano in Santa Sabina in Roma, diceva: “Vuoi essere felice per un instante? Vendicati. Vuoi essere felice per sempre? Perdona”. Amen.



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