giovedì 29 giugno 2017

2 Luglio 2017 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 10,37-42).

Il testo del Vangelo di oggi chiude il “discorso missionario” del capitolo 10 di Matteo.
Un testo duro, difficile da condividere, per certi versi assurdo! “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me”. Siamo agli antipodi della nostra logica, del nostro buon senso. Sono parole per noi “umani” decisamente incomprensibili.
Per questo dobbiamo cercare di capirle bene.
Cosa voleva dire Gesù? Cosa voleva che i suoi discepoli avessero bene impresso nella loro memoria? Non dobbiamo dimenticare che Egli parlava a persone semplici, persone non certo istruite; era però gente pratica, realista, poveri lavoratori impegnati ad assicurare giorno per giorno la sopravvivenza alle loro famiglie. Quindi a gente “concreta”, nozioni concrete: “Voi che avete accettato di seguirmi, dovete capire che Io valgo più di qualunque altra cosa voi possediate, anche la più preziosa; sono più importante dei vostri affetti, della vostra famiglia, della vostra stessa vita: sono insomma il vostro valore assoluto! Genitori, moglie, figli, vengono tutti dopo di me. Pertanto niente e nessuno può interporsi tra me e voi, nessuno può ostacolarvi nel servizio che voi mi prestate nel seguire la mia chiamata. La vostra scelta di discepoli, è una sola, essenziale e obbligata: Io, il vostro Dio”.
Certo, tradotta anche in termini semplici, la prospettiva per chiunque decida di seguire Gesù, non è affatto semplice. Diciamo anzi che quel cammino è affrontabile soltanto da poche persone, dagli eroi della fede, dai santi: da quanti cioè hanno messo in bilancio anche la morte violenta, il martirio, pur di vivere nella piena obbedienza al volere di Dio.
In realtà si tratta di un percorso insolito, molto difficoltoso, molto selettivo, soprattutto per noi che ci professiamo cristiani nel mondo d’oggi: ma queste sono le parole che Gesù ha rivolto a tutti, e quindi anche a noi, perché animassero la nostra vita spirituale, troppo spesso così asfittica e denutrita.
Nella vita prima o poi tutti si trovano a dover affrontare un bivio: da un lato c’è la volontà di Dio, il sevizio di Dio, che però prevede quella croce che il Signore ci invita a prendere per seguirlo; dall’altro c’è una soluzione alternativa, più appetibile per noi, più logica, più facile in quanto più adatta alla nostra mediocrità. Ebbene: è esattamente in questi casi che la schiettezza del vangelo ci disorienta, ci spaventa. Il Gesù che ci proponiamo di seguire non è un Dio che si accontenta di poco, che accetta compromessi, mezze misure: Egli vuole tutto, chiede tutto.
Ma dall’altro lato ci dà anche tutto: esattamente come una volta ci ha dato tutto se stesso sulla croce, così in ogni istante continua a darsi ai suoi fedeli, a coloro che lo seguono, che lo amano: e lo fa in termini di conforto, di pace, di gioia, di amore.
Ecco: il punto nodale del nostro programma è proprio questo: ricambiare questo suo amore con un amore che si trasformi in passione, che diventi un fuoco travolgente per Lui, un fuoco interiore che ci spinga a fare le scelte più difficili.
Questa è la logica dell’amore che Dio ci chiede. Non possiamo rispondere: “sì, Signore, io ti amo, ma fino ad un certo punto; più in là, non posso andare, non ce la faccio”. Questo non è più amore. La vera misura, l’unica raggiungibile, è amare Dio “sopra ogni cosa”, perché solo così potremo raggiungere da subito la vera felicità.
Ecco perché Gesù dice: “Chi perde la sua vita la ritrova e chi guadagna la sua vita la perde”. In pratica Egli vuol puntualizzare una cosa: che se facciamo la volontà di Dio, ossia se lo amiamo al di sopra di ogni nostro amore, noi non ci perderemo mai. Al contrario è quando andiamo contro la volontà di Dio, quando cioè lo amiamo svogliatamente o per niente, che sicuramente ci perderemo, sempre! Magari lì per lì non ce ne accorgiamo neppure, ma, a distanza di anni, potremo toccare con mano che questa verità è sacrosanta.
Vivere il vangelo come vuole Gesù, in tutto il suo radicalismo, non è come andare a passeggio, non è uno stile di vita da prendere alla leggera, non è un passatempo piacevole: richiede invece un impegno totale, un autocontrollo permanente; non sono ammesse scorciatoie; la strada è una sola: è quella tracciata da Gesù, quella che anche per noi passa attraverso il Golgota.
Per questo molti considerano l’autenticità cristiana una pura utopia; un progetto inavvicinabile, inattuabile; per questo, anche noi, che ci diciamo seguaci di Cristo, arriviamo a viverne le briciole, ci accontentiamo del più semplice “apparire”, ci fermiamo alle pratiche esteriori, alle pie aspirazioni, alle visibili commozioni, ai tanti “mea culpa”; ci accontentiamo cioè di quel minimo indispensabile che ci salva la faccia, che ci fa considerare dagli altri “persone per bene”, osservanti, timorate e innamorate di Dio.
Ma una vita come questa non arriverà mai a conoscere l’intensità dell’amore, della gioia, delle soddisfazioni gratificanti. Tutte cose che potremmo provare, se veramente ci comportassimo da “innamorati” di Cristo.
Per seguire veramente Gesù, per essere cristiani sul serio, non basta l’entusiasmo di un momento, non bastano solo delle buone intenzioni. Il vangelo di oggi è estremamente chiaro a questo proposito. La “conversione” che Gesù si aspetta da noi deve essere profonda, totale, continua: dobbiamo cioè mettere Dio sempre al primo posto e, soltanto dopo, tutto il resto.
Purtroppo, in noi ci sono troppe cose che il Signore non approva, siamo sempre troppo lontani dal modello ideale che è Gesù e il suo vangelo.
Per questo, scendiamo una buona volta nel profondo del nostro cuore, poniamoci di fronte alla nostra anima, e chiediamoci: “Quanto conta Dio nella mia vita? Ho mai sperimentato concretamente la passione per il Signore, per il suo Regno? Ho mai desiderato sul serio di appartenere completamente a Dio? Gli ho mai chiesto di farmi diventare santo?”.
Proprio così: perché il radicalismo evangelico porta ad un’unica conclusione: tutti siamo chiamati alla santità, cioè a vivere di Dio, ad essere innamorati di Dio. Uno stile di vita che vale per tutti, non solo per i preti, i frati, le suore.
Ogni cristiano che vuol seguire la chiamata di Cristo, proprio perché “umano”, è debole, pieno di difetti, di tentazioni, di cadute. Seguire fedelmente Gesù è difficile per tutti, ci vuole tanta buona volontà, tanta umiltà, tanta perseveranza: virtù che non tutti posseggono. I momenti bui, i mari in burrasca, le chine troppo erte da risalire, sono per tutti all’ordine del giorno, nessuno ne è esente. Anche i santi? Anche i santi: essi non sono uomini speciali, non sono uomini ineccepibili, che non peccano mai, che non cedono mai; sono persone normalissime, che però vogliono a tutti i costi amare Dio, e per questo riescono a superare qualunque ostacolo: pronti a rialzarsi dopo ogni caduta, pronti a ricominciare ogni giorno il difficile viaggio in salita che è l’imitazione di Cristo, che passa sì attraverso la croce, ma che porta sicuramente anche alla gioia della Risurrezione finale.
I santi dunque sono coloro che si affidano a Dio, che rinnovano continuamente i loro propositi di fedeltà, che vivono nell’amore verso Dio e verso il prossimo. Sono l’esempio da seguire.
Perché solo così anche noi “indecisi” ritroveremo” la nostra vera strada; solo così cioè anche noi realizzeremo in pieno la nostra vita: una conquista che non avviene con la carriera, non con le ricchezze, non coi divertimenti, ma soltanto “perdendo la vita”, soltanto cioè se la impiegheremo per la causa di Cristo, per il bene concreto dei fratelli.
Un percorso ovviamente che ci esclude da ogni falsa affermazione personale, da ogni forma di egoismo, da ogni tipo di sopraffazione finalizzata al proprio tornaconto; in compenso ci assicura un quantità tale di amore, di gioia, da rendere stupenda, meravigliosa, straordinaria la nostra vita e quella degli altri.
“Cristo non toglie nulla, Cristo dà tutto!”, amava dire papa Benedetto. Che richiama la sintesi dell’insegnamento di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. È dunque questo, condensato in pillole, il messaggio “nuovo”, il messaggio “bello” del Vangelo. È la grande novità di Gesù. Amen.



giovedì 22 giugno 2017

25 Giugno 2017 – XII Domenica del Tempo Ordinario

«Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,26-33). 
Siamo nel capitolo 10 di Matteo che contiene il famoso discorso “missionario” di Gesù: una serie di “istruzioni” che dovevano accompagnare gli “inviati”, gli annunciatori del vangelo.
Nei primi anni e nei primi secoli non è stato certo facile essere cristiani! L’esserlo comportava una scelta esigente, una scelta coraggiosa per le inevitabili conseguenze pericolose. Non era una scelta fra le tante, ma una scelta che determinava la vita.
Oggi per molte persone essere cristiani o non esserlo non fa alcuna differenza. Andare in chiesa o non andarci è un po’ la stessa cosa. Che Gesù ci sia stato o meno non influisce minimamente sulle loro esistenze. Per cui scegliere o non scegliere Cristo, è la stessa cosa come scegliere in quale supermercato fare la spesa, in quale negozio acquistare un vestito o quale spiaggia scegliere per le vacanze: l’una o l’altra decisione è sullo stesso piano, è ininfluente.
Non così, per quanti invece decidono di seguire Cristo.
Il testo ci propone infatti quattro contrapposizioni (nascosto-svelato, segreto- manifesto, tenebre-luce, orecchio-tetti) che ci fanno luce su come i primi cristiani vivessero: la loro era una vita di fede nel nascondimento, nel segreto, nelle catacombe; manifestare il proprio credo in pubblico era pericoloso, molto pericoloso. E ci voleva molto coraggio!
Per noi ora non è più così. Testimoniare la nostra fede non comporta più alcun pericolo, tantomeno quello della morte: semmai l’unico rischio cui potremmo andare incontro è quello di venire isolati, di rimanere soli, messi alla berlina, non essere capiti, accettati. Un rischio però che ingenera in noi una frustrazione per l’assenza di riconoscimenti, di consensi, di stima da parte degli altri; una situazione che ci porta ad assumere un comportamento a dir poco paradossale: essere cristiani a singhiozzo, in base alle circostanze: crediamo cioè quando ci fa comodo, quando ci conviene, quando abbiamo di ritorno riconoscimenti e ammirazione. Quando invece non conviene più, ci nascondiamo, cambiamo faccia, cambiamo bandiera con grande disinvoltura!
Ebbene, il vangelo di oggi più che invitarci di fare sfoggio della nostra fede, ci raccomanda piuttosto di essere sempre coerenti con noi stessi, con la nostra autentica interiorità, facendo piena luce proprio là dove in noi convivono paura e coraggio, amore di Dio e calcolo egoistico, amicizia con Gesù e orgoglio personale, invidie, risentimenti. Vogliamo far sapere chi siamo veramente? Lo riveliamo a tutti mediante la testimonianza della nostra vita: perché in quel momento non solo esprimiamo noi stessi, ma anche ci costruiamo, maturiamo come uomini e come cristiani, dando forma, costruendo praticamente la nostra identità. Se poi testimoniare Cristo non rientra nei nostri interessi primari, il fatto stesso del nostro rimandare giorno dopo giorno, non depone a nostro favore, anzi offre agli altri un’immagine decisamente negativa di noi stessi.
“Non abbiate paura”, ci rassicura Gesù: ma noi, purtroppo, abbiamo paura di tutto e di tutti. Anche delle cose più insignificanti: di un piccolo dolore, di possibili offese da parte di qualcuno, di cosa gli altri possano pensare di noi. Siamo troppo condizionati al “rispetto umano”, al giudizio della gente! Al punto che, sempre per questa forma di “rispetto”, preferiamo a volte evitare di compiere tante buone azioni: così per esempio ci vergogniamo di farci il segno della croce, di recitare a voce alta una preghiera, di esprimere un nostro parere “cristiano” sul luogo di lavoro, a scuola, nei momenti di divertimento. Dobbiamo purtroppo ammetterlo: la nostra fede è veramente troppo debole, la nostra coerenza troppo fragile, la nostra carità decisamente effimera.
Eppure le parole del Signore dovrebbero essere per noi, in ogni momento, la luce che ci illumina, la forza che ci determina, che ci rende tetragoni ad ogni pericolo:“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l'anima e il corpo”. La chiarezza di Gesù è paradigmatica, esemplare, non lascia spazio a dubbi.
Impressiona in particolare quel “Non abbiate paura” che Gesù ripete per ben tre volte in poche righe, volendo specificare bene ai suoi “inviati” di sempre, di chi e di che cosa in pratica essi devono aver paura: non è delle ossessioni personali, delle idiosincrasie, che dobbiamo aver paura; né dobbiamo temere la gente “infedele”, quelli che possono al più farci del male nel corpo, magari procurandoci anche il “martirio”; non sono questi elementi “materiali”, che possono determinare la nostra infelicità; al contrario, insiste Gesù, uno solo è da temere: è Dio, l’unico che ha il potere di giudicarvi e pronunciare su di voi la sentenza finale di salvezza o di condanna. Lui solo dovete temere, perché il suo giudizio è definitivo e irreversibile.
Come comportarci allora? Dobbiamo rimanere rintanati per paura dei nostri segreti? Nossignori: nessun segreto può accompagnare la nostra “missione”: tutto quello che siamo, tutto quello rappresentiamo, deve essere “aperto”, spalancato, alla luce del sole. Dobbiamo essere sempre cristallini, trasparenti.
Gran parte dei nostri segreti, quelli che nascondiamo dentro di noi, altro non sono che i nostri sensi di colpa: sono i nostri fallimenti, le nostre incoerenze, i nostri tradimenti: tutto ciò che nell’intimo ci perseguita, situazioni che noi conosciamo molto bene, ma che ci guardiamo bene dal rivelare. Ebbene: per sentirci liberi, noi abbiamo bisogno di “aprirci”, di manifestare a qualcuno questi nostri segreti, abbiamo bisogno che qualcuno ci dica a nome di Dio: “Perdònati, perché Dio ti perdona”.
E ancora: “Quello che io vi dico nelle tenebre, voi ditelo nella luce”: quante volte abbiamo delle intuizioni. Le sentiamo dentro di noi, le ascoltiamo come un desiderio del cuore, dell’anima, come un sussurro di Dio che ci parla all’orecchio, che ci entusiasma il cuore: sentiamo che dovremmo cambiare stile di vita; sentiamo che è impossibile andare avanti così come siamo, che è distruttivo, che la vita che conduciamo è inconcludente. Sono le intuizioni vitali, le parole che Gesù suggerisce al nostro cuore, alla nostra coscienza.
“Annunciarle dalle terrazze”, renderle pubbliche, significa portarle a compimento: far sì che non rimangano dentro, ma che diventino realtà. A volte intuiamo che dovremmo prendere una certa decisione, che dovremmo operare una certa scelta, ma temiamo le conseguenze cui andremmo incontro; temiamo di fare, di agire, di concretizzare ciò che è solo un’ispirazione divina. Predicare sui tetti vuol dire quindi trasformare in azione ciò che lo Spirito ci fa intuire. Un presupposto fondamentale per ogni “missione”.
“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo”: sappiamo per esperienza quanto gli uomini possano ferirci: possono umiliarci, possono farci paura, possono farci pressioni, possono disonorarci. Possono farci di tutto, ma non possono toglierci l’anima; a meno che noi stessi non glielo permettiamo. C’è qualcosa in noi che è solo nostro: nessuno infatti può uccidere la nostra anima senza la nostra collaborazione.
Per quanto possiamo essere oggetto di pressioni, di paure, di costrizioni, ci rimane sempre uno spazio di libertà, uno spazio in cui siamo solo noi a regnare, dove siamo solo noi a decidere la nostra vita. Nessuno può toglierci l’anima: noi la possiamo “perdere” ma nessuno può sottrarcela. Questa è la nostra più grande ricchezza.
Noi non “siamo” il nostro lavoro, la nostra professione, la nostra laurea; non “siamo” la nostra posizione sociale, il nostro ruolo, la nostra fama: “siamo” solo la nostra anima!
Allora non svendiamo noi stessi. Perché quando abbiamo perso noi stessi, la nostra coscienza, quando non sappiamo più chi o cosa siamo, che ci rimane? Purtroppo c’è tanta gente sprovveduta che svende la propria anima per niente: per i soldi, per la ricchezza, per il benessere, per la gloria, per il potere! Chiamano vita ciò che è morte; e chiamano morte ciò che invece è Vita.
Per sottolineare queste sue raccomandazioni, Gesù introduce quindi due immagini poetiche: quella dei passeri e dei capelli del capo.
In pratica vuol dire: “Nulla accade nel mondo senza che Dio lo sappia. Dio è più grande di tutto e di tutti; Dio è il più forte”: addirittura “non cade un passero senza che Lui lo sappia”. Che non vuol dire: “non vi capiterà mai di cadere”. Ma: “se vi accade di cadere, Dio lo sa”.
In sostanza Gesù ci assicura che anche nella nostra sofferenza Dio c’è, non siamo mai soli, abbandonati a noi stessi; la sua presenza è una presenza di salvezza, anche se non la percepiamo immediatamente, anche se, a livello psicologico, non le diamo grande importanza. È comunque una grande consolazione sapere che tutto quanto ci riguarda, anche le cose più “insignificanti” come la perdita dei capelli, è sempre presente al cuore di Dio. Come possiamo pensare allora che il Dio che prima ci ha creati, ci possa poi abbandonare? Che Colui che ci ha donato la vita, possa poi togliercela? Tranquilli, non è possibile: la liturgia stessa ci dice perentoriamente che “vita mutatur non tollitur, la vita un giorno ci verrà cambiata, mai tolta!”. Quindi non preoccupiamoci, viviamo serenamente, nella certezza che Dio, anche se noi non lo capiamo, lavora per noi, agisce sempre, continuamente, per il nostro bene!
Infine, due avvertimenti molto importanti concludono il vangelo di oggi; uno in positivo e l’altro in negativo: “Chi mi riconoscerà... anch’io lo riconoscerò; chi mi rinnegherà... anch’io lo rinnegherò”. Enunciano due situazioni contrapposte, di cui la seconda sembra essere addirittura l’espressione della vendetta di Dio, un’applicazione della legge del taglione: “Tu mi fai così? Mi rinneghi con la tua vita? Io ti ripago con la stessa moneta: ti rinnego”.
In realtà sono due possibilità legate tra loro dal principio di causa-effetto: posta da noi la premessa, la conseguenza è inevitabile. Oggi, però non ci preoccupiamo più di questa verità: nel tripudio dell’esaltazione della misericordia divina, ci dimentichiamo troppo spesso dei nostri doveri di cristiani, di chiamati al servizio, di “inviati” all’annuncio del vangelo con le opere e il buon esempio: si è progressivamente consolidato il principio del “fai come ti pare”, per cui addomestichiamo e relativizziamo precetti e comandamenti divini; a che pro’ preoccuparcene? Tanto poi Dio, che è “misericordia assoluta”, sicuramente ci salverà, ci premierà in ogni caso accogliendoci nel suo Regno d’Amore. Questa è l’opinione comune oggi: una lettura del vangelo distorta, deformata, incompleta, avvalorata purtroppo dagli insegnamenti di una sempre più dilagante pletora clericale che dovrebbe invece esprimersi più cautamente e in maniera più veritiera e completa. Misericordia infinita, è vero: ma anche Giustizia infinita: altrimenti Dio farebbe un torto a se stesso, alla sua essenza: cosa improponibile e inammissibile.
Cosa vuol dirci allora Gesù con queste parole così perentorie? “Fate attenzione: comportatevi per quello che siete (miei testimoni). La fedeltà al vostro ruolo sarà per voi l’unica garanzia per godere della mia amicizia eterna”. È semplicemente il presupposto anche di qualunque sano comportamento umano: “Io so e sento che fare del bene è la vera felicità di cui il cuore umano può godere” (Jean-Jacques Rousseau). Per questo non disinteressiamoci mai della nostra anima, non infanghiamo mai il volto del Gesù che vive i noi. Sembra facile ma non è: essere “cristiani” sul serio, essere discepoli di Gesù, ci costa infatti un notevole sacrificio.
Facciamoci allora, ogni tanto, questa domanda importante: “A me, quanto “costa” essere cristiano?”. Se ci accorgiamo che non ci costa nulla, allora, cari miei, è un brutto segno; vuol dire che non abbiamo centrato il problema della nostra vita cristiana: perché cià che ci qualifica come tali, ciò che ci rassicura di essere nel cuore di Dio, è la fatica di essere suoi fedeli testimoni, sono le continue difficoltà che dobbiamo superare per non deviare nel nostro cammino. Più testimonieremo coerentemente il Vangelo con i fatti, e più ci sentiremo amati da Dio, più sentiremo in noi la certezza di potere un giorno godere senza veli della sua visione beatifica. Amen.



mercoledì 14 giugno 2017

18 Giugno 2017 – Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51-58).

La festa liturgica del “Corpus Domini” è abbastanza recente. Risale al 1264 quando il Papa Urbano IV la istituì in ricordo del miracolo capitato al sacerdote boemo Pietro di Praga, molto dubbioso sulla presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del vino nell’ostia consacrata; per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro. Durante il viaggio di ritorno fece sosta a Bolsena per la celebrazione eucaristica: e qui, alla frazione del pane, l’ostia diventò miracolosamente carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue. Pietro, impaurito da tale fenomeno incredibile, avvolse tutto nel corporale di lino e nel fazzoletto purificatoio, posti sull’altare, che rimasero entrambi vistosamente intrisi di sangue, e fuggì in sacrestia. Durante il tragitto alcune gocce di sangue caddero anche sul marmo del pavimento e sui gradini dell’altare. Se andiamo ad Orvieto, nel famoso duomo, possiamo ancora oggi ammirare e venerare questi oggetti sacri macchiati di sangue, come pure le lastre di marmo sulle quali sono ancora visibili le tracce di sangue cadute per terra.
In questa festa del Corpus Domini, dunque, la Chiesa ci ricorda che nel pane e nel vino consacrati c’è veramente il Corpo e il Sangue di Cristo. Quando noi “mangiamo” il Pane consacrato, non mangiamo soltanto un pezzo di pane ma ci nutriamo di Lui, ci incontriamo a tu per tu con Lui.
Gesù insiste più volte sulla necessità di “mangiare la carne” e di “bere il sangue”: parole che hanno fatto inorridire la gente di allora. Non a caso i primi cristiani, tra l’altro, sono stati accusati di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio: del resto, il verbo “trògo”, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare.
Ma il significato di questi termini è decisamente un altro: quello che a Gesù interessa è che i suoi discepoli diventino una sola cosa con Lui, siano un tutt’uno in Lui, esattamente come avviene per il pane mangiato che, una volta metabolizzato, diventa nostra carne, si trasforma in forza, vigore, azione, produttività. Allora “mangiare” per Gesù significa “unione perfetta”, una unione ideale, altamente ambita: io in te, tu in me.
Nel “mangiare” l’Eucaristia, ciascuno di noi è chiamato quindi a lasciare il suo “uomo vecchio” per diventare “Cristo”: ad abbandonare l’io, per diventare Lui; a lasciare l’“io”, la nostra identità, per diventare “corpo di Cristo” e assumere la sua identità, l’identità del “Dio in noi”.
Ovviamente non si tratta di una cosa semplice, come può essere il “mangiare”, il prendere cibo: non per nulla Giovanni introduce qui un termine molto significativo: la necessità cioè di masticare: non si tratta quindi di una semplice “ingestione”, ma una “ruminatio”, un’assimilazione, lenta, studiata, progressiva. In altre parole questo metabolismo richiede una “conversione”, un diventare “Altro”.
Ora, sappiamo dai vangeli che tra tutti quelli che hanno “incontrato” Gesù, che si sono cioè “cibati”, immedesimati in Lui, nessuno è rimasto com’era prima: la loro è stata un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E noi? Chiediamoci seriamente: “La nostra esperienza di Dio, in cosa ha cambiato la nostra vita? Quanto, dove e come, Dio l’ha “sconvolta”? Quali paure, quali blocchi psicologici, quali “infatuazioni”, dobbiamo ancora superare per immedesimarci in Lui?”.
Se non abbiamo fatto alcuna “conversione”, vuol dire che la nostra fede non è vera, non è autentica; vuol dire che se continuiamo a rimanere “noi stessi”, se continuiamo a rimanere attaccati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, non potremo mai diventare “Lui”. Almeno un minimo di buona volontà, di coerenza, di coinvolgimento, dobbiamo pur investirlo in questo; per il resto, “sufficit tibi gratia mea”, ossia “dove tu non puoi arrivare, ti verrò Io in aiuto con la mia grazia”.
Il nostro “incontro” con Gesù, che noi riviviamo in ogni Eucaristia, deve essere un incontro di “comunione”: un incontro cioè in cui Egli, offrendosi a noi in cibo, in alimento, permette alla nostra “materialità”, al nostro essere “carnali”, di mutarci in “esseri spirituali”: assumendo il suo “cibo di vita”, noi arriveremo gradualmente a “convertirci”, a vivere cioè non più della nostra vita, ma della Sua vita, la vera Vita.
Esattamente come la vita materiale, che ci è stata donata, anche questa vita “spirituale”, questa vita divina, è un dono. Un dono che ci viene dato non per “possederlo”, non per svilirlo limitandolo a nostro uso e consumo, ma per donarlo abbondantemente ad altri: vivere degnamente e generosamente questa nostra vita è infatti l’unico modo per sdebitarci con Dio per questo suo dono: in questo sta l’essenza della felicità. 
Una domanda: come mai in questo mondo c’è tanta gente infelice? Risposta: non hanno trovato un motivo valido, profondo, per cui valga la pena di vivere. Hanno la vita (un dono) ma non sanno metterla a frutto (non la spendono per gli altri), e quindi la dissipano giorno dopo giorno. Presi dall’euforia della mediocrità, dell’apparire, pensano di essere eterni. Ma sbagliano di grosso. La nostra esistenza è come una candela: una volta accesa, inesorabilmente si consuma; è come un arco: nasce, cresce, arriva all’apice, decresce, muore. E non abbiamo altre vite di riserva, altre esistenze di scorta. Dobbiamo farcene una ragione. Siamo decisamente degli illusi quando pretendiamo di fermare su di noi i segni del tempo, ricorrendo a falsi accorgimenti, a lifting di ogni genere, ad interventi “risolutori” di chirurgia estetica: gli anni vissuti sono quelli che sono, nessuno può cancellarli. Così pure siamo degli sprovveduti quando, per soffocare l’amaro del nostro fallimento spirituale, ci affanniamo a fare incetta di titoli onorifici, di fama, di gloria, di tutto il denaro e le rendite possibili; ma tutto è inutile: il tempo è inesorabile e prima o poi la fine arriva, e dovremo fare i conti finali con il nostro vissuto. Totò diceva: la morte è la grande “livella”, rende tutti uguali, ricchi e poveri, nobili e popolani. Ed è proprio così.
Ecco perché è tanto importante avere un valido progetto di vita, una missione esclusiva da compiere, una vera ragione per vivere: prepariamoci da subito sulle risposte che dovremo dare all'esame finale; guardiamoci allo specchio, scendiamo nel profondo della nostra anima, e chiediamoci: “È così che voglio vivere la mia vita? A cosa servo? Vale proprio la pena di continuare per questa strada?”. 
Già, perché spesso la gente (noi per primi) la “buttano via” questa vita, la investono in cretinate. Non ci rendiamo conto di sciupare stupidamente un dono impareggiabile, un dono di Dio che non possiamo buttare via impunemente. Se solo pensassimo a quanto sarebbe diversa la nostra vita se la innestassimo direttamente a quella di Dio! Quanto verrebbe “rivoluzionata” la nostra esistenza, se ci accostassimo con fede sincera all’Eucaristia domenicale!
Focalizziamo per un attimo proprio questa prospettiva. Tutti i vangeli nel descrivere l’istituzione dell’Eucarestia, o la moltiplicazione dei pani, si servono immancabilmente di tre parole sempre uguali: prendere, benedire, spezzare. Parole importanti, dense di significato, che possono illuminarci sul senso autentico della vita, sul nostro percorso per diventare "Corpo di Cristo".
1) Prendere: Gesù, nella moltiplicazione dei pani, prende quel poco che c’è: sono un nulla quei pochi pani e pesci di fronte ad una folla enorme da sfamare. Ma Egli prende comunque quello che è disponibile, anche se è pochissimo, anche se è senza valore, anche se è insufficiente per quel che gli serve. Ecco, anche noi dobbiamo imparare prima di tutto a prendere in mano il poco che siamo. A lavorare con il nulla che abbiamo. Noi però il più delle volte non l’accettiamo; vorremmo sempre essere “altri”, i ricchi, quelli più dotati: e per questo accampiamo scuse, rimandiamo continuamente ogni impegno, siamo gli eterni inconcludenti: Non ci rendiamo conto che Dio, al contrario, ci ama per quel poco che siamo. Preghiamolo allora ogni mattino, quando ci alziamo, e diciamo: “Sì, Signore, accetto anche oggi la vita che tu mi hai donato: accetto di essere quel che sono, con tutti i miei limiti e i miei difetti, perché sono certo che con il tuo aiuto potrò fare grandi cose!”.
2) Benedire, ringraziare. Eucarestia vuol dire proprio ringraziare, benedire, “dire bene”. E noi dobbiamo ringraziare Dio, lo dobbiamo bene-dire, perché ci considera una cosa bella, una cosa buona: fin dalla creazione del mondo, ogni cosa che nasceva dalle sue mani, era “tov”, era cosa bella, buona.
Anche noi, in quanto creature di Dio, siamo “tov”, siamo una cosa bella, una cosa buona. Per questo dobbiamo benedire, dobbiamo ringraziare Dio; dobbiamo farlo nella sincera convinzione di essere “tov”: di essere per Lui creature veramente belle e buone. Amiamolo e ringraziamolo per come ci ha fatti; è inutile cercare e invidiare negli altri ciò che noi non abbiamo; ammiriamo e apprezziamo piuttosto quel poco che abbiamo e che siamo. Perché è il punto di partenza per costruirci sopra la nostra vita.
3) Spezzare. Io sono un dono per me e per altri. Un dono è qualcosa di atteso, di cercato, di desiderato. Essere dono vuol dire che il mondo ha bisogno di noi, ci aspetta, vuole noi. Essere dono vuol dire che noi siamo importanti per questo mondo. In che modo? Amando i fratelli, “spezzando” la nostra vita per loro. “Amare” significa proprio questo: “spezzarsi” per gli altri; non nel senso di spezzarsi in due dalla fatica o di distruggersi per gli altri, ma di fare della nostra vita un dono, un pane spezzato e donato agli altri.
Se ogni volta che andiamo a messa, noi ci “prendiamo in mano”, ci “benediciamo” e ci “spezziamo”, allora ci “trasformiamo”, diventiamo cioè anche noi “divini”, dono di Dio per i fratelli. Siamo un dono, siamo un tesoro, siamo preziosi... ma spesso non ce ne rendiamo conto, non ci interessa. Pensiamoci. Amen.




giovedì 8 giugno 2017

11 Giugno 2017 – Santissima Trinità

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16-18).

Oggi celebriamo la festa della Trinità: un Dio che è contemporaneamente Padre, Figlio e Spirito. 
Ma cos’è la Trinità? Cosa vuol dire che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo? Cerchiamo nei limiti del possibile di conoscere anche noi questi tre aspetti di Dio.Non si tratta di una invenzione dei teologi per cercare di spiegare l’Essenza divina: la composizione trinitaria di Dio trova il suo fondamento nell’esperienza personale dei primi discepoli: Gesù, loro amico, loro compagno, loro maestro, si dichiarava figlio di Dio e come tale si comportava, da Figlio di Dio; in quell’uomo essi hanno potuto constatare la reale presenza di Dio. In quell’uomo, essi sperimentarono un inesauribile mondo di amore, di comunione, di vita; un qualcosa di smisurato, di infinito. E per poterne parlare, per poterlo spiegare, essi si servirono di un’immagine comune, facilmente comprensibile, quella di “famiglia”: con un padre, un figlio e il loro amore: lo Spirito. In sostanza, ciò che essi sperimentarono, si può così sintetizzare: c’è un Dio che sta al di sopra di noi, di ogni creatura, del mondo intero: un Dio che è la nostra origine, in qualche modo l’utero che ci ha generati e che noi chiamiamo Padre e Madre; c’è un Dio che sta con noi, che si fa compagno del nostro cammino terreno e che si chiama Figlio; e c’è un Dio che abita dentro di noi come entusiasmo, creatività, forza, passione, energia, che si chiama Spirito.
È nel corso degli anni, poi, che queste esperienze di Dio, vissute dagli apostoli e dai primi cristiani, diviene il dogma della Trinità: l’Unico Dio, cioè, vive in Tre persone, distinte, diverse, ma non separate; è sempre lo stesso Dio, che vive e che è presente in modalità diverse, Uno e Trino. Ogni volta che noi ci facciamo il segno della croce non facciamo nient’altro che invocare questo dogma, questa verità di fede: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Questa è dunque la grande verità: Dio è Famiglia, è più persone. Le tre persone della Trinità sono in un continuo dono reciproco d’amore, in una continua “relazione” fra di loro. Una relazione che caratterizza il loro essere, la loro essenza: non esiste l’una senza l’altra.
Sant’Agostino nel suo De Trinitate definisce così la Trinità: il Padre è l’Amans, il Figlio è l’Amatus e lo Spirito Santo è l’Amor. C’è insomma un Dio che fa il “Padre”, l’amans, l’amante, colui che dona. C’è un Dio che è donato, il “Figlio”, l’amatus, il dono. E c’è l’amor, lo “Spirito”, la relazione d’amore che li lega insieme. Dio quindi è Relazione, è rapporto, è connessione, è unione: «Dio ha tanto amato (gapw) il mondo, da donare (d°dwmi) il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
Ebbene: questa “relazione” intra trinitaria è l’immagine esatta di come devono essere i nostri rapporti tra uomo e donna, tra mamma e figlio, tra amici, tra ogni appartenente al genere umano: rapporti tra persone essenzialmente diverse, ma che sono unite, tenute insieme, da un unico Amore, da un unico elemento che fa da “collante”: lo Spirito di Dio.
Tutti in fondo inseguiamo gli stessi obiettivi: vivere insieme le gioie dello Spirito, sperimentare insieme la carità del Padre, progredire insieme sulle orme del Figlio; abbiamo progetti comuni di salvezza, creiamo famiglie e figli obbedendo al suo ordine, condividiamo tempo e aspirazioni; ci comportiamo cioè come se fossimo tutti una grande, unica, entità, quando invece ciascuno di noi opera con la sua individualità, con la sua unicità di persona: abbiamo cioè ideali e progetti comuni, che ciascuno raggiunge con la propria personalità, con la propria autonomia decisionale, con il proprio stile di vita.
Ci sono, è vero, molte persone che non tengono conto di questa “unicità”: pretendono cioè che gli altri annullino la propria personalità, si trasformino completamente spersonalizzando il loro carattere, per diventare un loro alter ego, una loro copia esatta: esigono, per esempio, che tutti facciano solo ed esclusivamente ciò che fanno loro, come lo fanno loro, quando lo fanno loro; tutti devono comportarsi esattamente come vogliono loro. Sono persone, insomma, talmente egocentriche da non accettare alcuna divergenza, da non sopportare l’altrui diversità ed autonomia. Ma questo punto di vista è solo la vista da un unico punto: sono talmente limitati, da non rendersi conto che in questo modo annullano le persone, le rovinano, le derubano della loro personalità, rifiutano insomma, a priori, valide opportunità di collaborazione e di integrazione.
In molte comunità cristiane si parla tanto di unità, di comunione fraterna, di comprensione, di carità, ma molto spesso tutte queste belle espressioni si riducono ad una triste realtà: chi non si adegua al pensiero dei responsabili, chi si permette di seguire eventuali vie alternative per raggiungere lo stesso risultato, chi insomma dimostra di avere un cervello e di saperlo usare, automaticamente è fuori, è escluso, viene messo al bando, ignorato, isolato. Non è ammessa alcuna pluralità interpretativa. Eppure la dottrina della Chiesa ci insegna che tutti i componenti del popolo di Dio, pur essendo un solo “corpo” e un solo “spirito”, hanno il diritto-dovere di mettere a frutto, nella insostituibile carità, quei doni, quei carismi che lo Spirito ha infuso in ciascuno, nella sua specificità, nella sua individualità, nella sua diversità. Perché ciò che unisce veramente, ciò che crea una unione indissolubile, non è l’assoluta, piatta uniformità, priva di qualunque apporto individuale, bensì la comune e reciproca condivisione di pensiero, alla luce dell’Amore; ossia l’umile apporto personale, nell’insieme delle disponibilità altrui ad aprirsi e a donarsi nell’unica Carità che “unisce i cuori”.
Allora “fare unione” non significa fare le stesse cose, avere le stesse idee, fare tutti lo stesso cammino. “Fare unione” significa donare, reciprocamente, il proprio amore più profondo, donare il proprio Spirito, condividere quel quid che abbiamo di più prezioso e di più caro nel nostro cuore.
Senza l’amore, otterremmo solo una unione fisica, materiale, che è ben diversa dalla vera unione, da quella che nasce dalla carità. Certo, in questo modo, possiamo arrivare anche a dispensare amore, ma non è l’Amore, quello che illumina la nostra vita, quello senza il quale noi stessi non saremo mai “Amore”.
Abbiamo detto che la festa di oggi parla di un Dio che è famiglia, relazione, rapporto. In pratica ci fa capire che qualunque vita, priva di relazioni, non è degna di essere vissuta, non può essere considerata vita. È infatti attraverso le nostre relazioni che impariamo a vivere, sono esse l’unico strumento con cui possiamo tirar fuori, mettere concretamente a frutto, la Vita che abbiamo in noi.
Buone relazioni equivalgono ad una vita significativa; cattive relazioni significano una vita difficile, carica di risentimenti. Ora, se avere relazioni è un fatto normale, semplice, connaturale, altrettanto non lo è il “sapersi” relazionare.
La maggior parte delle persone pensa, ad esempio, che la felicità coniugale dipenda dal trovare o meno la “persona giusta” con cui condividere la propria esistenza. Condiziona cioè il raggiungimento della felicità di una vita, all’incontro con uno che sia il “dispensatore della felicità” già pronta e confezionata. Ma il principe azzurro non esiste, è un personaggio delle favole. Non possiamo demandare ad altri la responsabilità di realizzare una vita serena e felice. È un traguardo che va costruito insieme: perché ciò che rende una vita meravigliosa non sono gli altri, per quanto buoni siano, ma è la qualità delle relazioni che noi instauriamo con loro. Pensiamo infatti solo per un attimo: cosa succederebbe se in una relazione noi non sapessimo “dare”? Succederebbe che l’altro, prima o poi, si stancherebbe di aspettare. E così di seguito: se in una relazione noi non sappiamo ricevere, l’altro non si sentirà mai importante. Se noi non stimiamo l’altro, l’altro si sentirà umiliato. Se non stimiamo noi stessi, costringeremo l’altro a farci sempre da mamma, a incoraggiarci, a dirci che ne abbiamo le capacità, che ce la possiamo fare. Se non vogliamo crescere, l’altro si sentirà imprigionato, condizionato. Se vogliamo che le cose rimangano sempre uguali, l’altro si sentirà morire di noia. Se siamo convinti di non valere, di essere inadeguati a tutto, il nostra attaccamento morboso all’altro, finirà per fagocitarlo, infastidirlo. Se non siamo mai ottimisti, vitali, gioiosi, divertenti, finiremo per contagiare l’altro con la nostra negatività, rendendo la relazione pesante e invivibile.
Dio Spirito è relazione d’Amore tra Padre e Figlio. Dio è l’Amore. Il nostro amore deve essere pertanto “relazione”: un movimento circolare continuo, una compenetrazione (pericoresi trinitaria) di due persone che si danno e che si ricevono, che si donano e che si accolgono. L’amore, in sintesi, è quell’intervallo di spazio che esiste tra l’io e il tu, spazio in cui si crea il noi: è la fusione di quell’attimo in cui io non sono “io” e tu non sei “tu”, ma io e tu siamo “noi”.
Ecco allora l’importanza fondamentale nella nostra vita di saper “costruire” i nostri rapporti, le nostre relazioni: ripeto, non è una cosa facile, non è un automatismo; la maggior parte della gente pensa infatti che, essendo disinvolti, sapendo parlare bene, il “relazionarsi” sia cosa fatta! Invece no: anzi, dobbiamo stare molto attenti, perché questo genere di “relazioni”, senza l’elemento fondante della carità, dell’Amore, si trasformano il più delle volte in egoismo, nella pretestuosa ricerca del nostro io: e quello che noi chiamiamo amore “oblativo” altro non è che una puntigliosa ricerca egocentrica di noi stessi, sminuendo e sfruttando gli altri. Amen.


venerdì 2 giugno 2017

4 Giugno 2017 – Domenica di Pentecoste

«Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,19-23).

Con la festa di Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua, il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni giunge a compimento: un nuovo corso si apre, l’epoca dello Spirito, della Chiesa, degli uomini.
Cerchiamo di vedere cosa è successo esattamente: subito dopo la morte di Gesù, gli apostoli, presi dallo shock, dallo scoraggiamento, dalla delusione, dalla paura, si rifugiano con Maria nel cenacolo. Il vangelo ci dice addirittura che si sono rinchiusi, con le porte sbarrate: hanno una paura folle dei Giudei.
Hanno assistito impotenti alla tragedia inflitta a Gesù: svergognato, denigrato, umiliato, e infine ucciso in croce come il peggiore dei malfattori. In una società in cui il singolo vale soltanto come “appartenente” ad un movimento, a un popolo, a un’etnia, la paura dei discepoli di finire isolati, dispersi, rifiutati, è decisamente grande; ma è ancor più grande la paura della sofferenza fisica: con la morte atroce del loro maestro ancora davanti ai loro occhi, il terrore li destabilizza. La domanda che si pongono è:“Arresteranno anche noi? Faremo anche noi la stessa fine? Come facciamo a continuare la sua missione, in mezzo a tanti rischi e pericoli?”. Sono dei pover’uomini, deboli, assillati dal terrore di soffrire, di morire: una paura che li porta a non vivere.
Ma ecco che Gesù appare loro e dice: “Pace a voi”. Che equivale a: “Non abbiate paura”. Un incoraggiamento, va specificato, con cui Gesù non vuol dire che devono liberarsi da ogni timore, da ogni paura in assoluto. Questo no, perché la paura, quella buona, è un atteggiamento “positivo”, un “tutore” che accompagna l’uomo nella sua esistenza, lo rende prudente, gli permette di affrontare razionalmente gli imprevisti che incontra giorno per giorno. La paura che anche noi dobbiamo evitare è un’altra, è il cieco rifiuto del futuro, di qualunque cosa ci possa accadere l’indomani, è la paura di invecchiare, di ammalarci, di rimanere soli e abbandonati, di morire: queste sono “paure” fuorvianti, paure che esulano da ogni sano comportamento, paure che impediscono una sensata visione dell’ineluttabilità della vita; sono una malattia, un modo di rovinare la propria esistenza; sono una non-vita. Tutti sappiamo che un giorno dovremo morire: ma non per questo dobbiamo rinunciare a godere le meraviglie della vita, in tutte le sue molteplici opportunità.
Queste paure sono connaturali all’uomo, ci appartengono. Ma più che un nemico, dobbiamo considerarle un compagno di viaggio, dobbiamo essere consapevoli che siamo noi i più forti, di avere noi l’ultima parola.
Gesù si rende conto del precario stato d’animo degli apostoli, e li rassicura: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”. Li pone quasi sul suo stesso piano: anche Gesù ebbe paura; in certi momenti scappò, in altri si sottrasse alle persone oppure si muoveva di nascosto, di notte, per non farsi vedere. Nelle sue ultime ore a Gerusalemme provò una paura e un’angoscia così spaventosa da “piangere sangue”. Sembra quindi dire loro: “Anch’io durante i miei giorni terreni, ho avuto momenti di intensa paura, di terrore: eppure ho continuato la mia missione fino alla fine; anche voi dovete vincere questa vostra paura: uscite da qui, non abbiate timore, andate per il mondo, sono Io che ve lo chiedo!”.
Gli apostoli si sentono al sicuro, protetti nel cenacolo dove si trovano; il cenacolo per loro è come il grembo materno: ma se continuassero a rimanere rinchiusi lì dentro, non nascerebbero, non potrebbero iniziare la loro nuova vita, il messaggio vitale che Gesù ha loro affidato, non verrebbe mai divulgato, la loro missione fallirebbe senza scampo.
La paura li rinchiude, è vero; ma una volta “sentito” lo Spirito in loro, aderiscono con slancio all’invito di Gesù, rompono gli indugi, e vanno fiduciosi in tutto il mondo ad annunciare il vangelo: non è che non abbiano più paura del rifiuto, del giudizio, della morte; ma la forza dello Spirito li sorregge, li sblocca, li aiuta, li spinge nel domani della loro missione.
Ecco. Pentecoste significa appunto fidarsi di Gesù che dice: “Ora uscite da voi stessi, andate incontro alla vita, perché avete la forza per farlo. Io sono con voi, il mio Spirito è dentro di voi: con questa forza affrontate il ostro domani, fate serenamente ciò che dovete fare”.
È così: ogni volta che confidiamo in Dio, che ci fidiamo del fatto che Lui è presente nella nostra vita, che Lui è dentro di noi, sentiamo quella forza speciale che ci fa uscire, che ci fa combattere, che ci fa superare le tante umane paure che ci trattengono.
Il Vangelo, nel descriverci questa trasformazione improvvisa, dice che Gesù alitò sugli apostoli: usa cioè lo stesso termine (emphysao, “alitare”) che nella Genesi descrive l’atto creativo di Dio: ebbene, nella Pentecoste, Dio ci affida la sua forza creatrice, ci dona quella stessa forza con la quale egli ha creato, ha agito, ha amato.
Un gesto di estremo amore, che ci dimostra due cose: la prima è che con il sacramento della confermazione, noi tutti riceviamo la stessa forza di Gesù. Dobbiamo quindi prendere piena consapevolezza di questa forza che ci inabita, dobbiamo renderci conto di questa energia, di questa potenza che ci sorregge, di questo “Spirito” che ci appartiene.
Allora non è vero che non possiamo far niente; non è vero che non siamo importanti, che siamo nessuno. Dobbiamo smettere di dire: “Che posso fare? Non ci riesco!”; che tradotto in pratica significa: “Perché darmi da fare? Tanto sono un incapace, sbaglio sempre; molto meglio non fare nulla!”. No, noi non siamo degli incapaci, dei deboli, degli inetti: noi siamo forti, siamo potenti, perché dalla nostra parte abbiamo lo Spirito di Dio che è forte, che è potente. È Lui che ci rende forti, Lui che abita dentro di noi. Dire che non siamo all’altezza, che non ce la facciamo, che non abbiamo la forza necessaria, significa negare questa presenza di Dio in noi. Dire che siamo solo dei deboli, dei fragili, che non siamo in grado di combattere, equivale affermare che satana ha la meglio, ci domina, che ha il sopravvento su di noi, sulla nostra vita, ogni volta che vuole.
Certo, conoscere le nostre potenzialità, conoscere la nostra forza, è decisamente responsabilizzante: sapere che, volendo, possiamo cambiare totalmente la nostra vita, possiamo dire “no” o “sì” alle situazioni decisive, determinanti della vita, ci trasmette sicuramente tante responsabilità. Significa essere adulti: per questo molti preferiscono rimanere eterni bambini, nascondersi dietro la scusa di non farcela. Ma queste sono le persone insignificanti, misere, ottuse, che non sanno, non riescono, non vogliono, apprezzare quel che sono. Noi al contrario conosciamo la chiamata di Dio, disponiamo di tutta la sua forza per assecondarla; con Lui siamo forti, siamo potenti: questa è la profonda convinzione che ci rende sereni e fiduciosi.
La seconda cosa è che tutta la creazione, tutto ciò che noi possediamo è in forma di seme; tutto in noi è come un seme, tutto è allo stato germinale, tutto si risveglia grazie allo Spirito di Dio. C’è tutta una ricchezza vitale, un mondo, una creazione che noi dobbiamo “fecondare” con lo “Spirito” di Dio. È attraverso di Lui che tutto avviene, tutto si realizza, tutto diventa godibile per noi.
Siamo pieni di possibilità, di ricchezze: spesso però non le sviluppiamo, quando invece dovremmo curarle come dei figli, amarle, ascoltarle, investirle nel tempo. Se ci comportiamo così, non solo saremo felici ma ci sentiremo ricchi, perché quelle ricchezze, tutte quelle potenzialità sono nostre, siamo noi, ci appartengono. Se le amiamo, noi ci amiamo. Se le abbandoniamo, se non le curiamo, siamo noi che ci inaridiamo, siamo noi che moriamo.
Molte persone sono infelici perché nonostante facciano tante cose, abbiano tantissime attività, non riescono a sviluppare loro stesse, la loro vita interiore. Sono affannate completamente a produrre ricchezze, a sviluppare la loro posizione sociale, il loro apparire, la loro immagine esteriore: creano di tutto, ma non “si” creano. Sviluppano ma non “si” sviluppano. Fuori sono ricchissime, ma dentro sono nella miseria più nera.
Dopo aver “soffiato” lo Spirito sugli apostoli, Gesù si preoccupa appunto di renderli consapevoli dell’enorme potere che essi dispongono da quel momento: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Giovanni qui usa due verbi molto significativi: “afiemi”, che vuol dire “perdonare, mandare via, scacciare, rimettere”; e “crateo”, che significa “trattenere, tenere in pugno, impossessarsi, dominare, aver dominio, spadroneggiare”. In pratica dice: “voi avete due possibilità: o mandate via o trattenete; o lasciate andare o tenete in pugno. Spetta a voi decidere voi cosa fare”.
Una grande responsabilità quella dello stabilire chi deve essere perdonato e chi no: Gesù al riguardo suggerisce con forza la soluzione del perdono, della carità, dell’amore “sempre e comunque”.
Se non perdoniamo le offese, la nostra rabbia, il nostro dolore, continuano a vivere in noi: ogni mattina noi le riviviamo, ogni santo giorno siamo dilaniati dalla stessa rabbia: la nostra vita ne esce completamente sconvolta: se non perdoniamo, continuiamo a vivere nel passato; continuiamo a fantasticare vendette future, rappresaglie feroci, e non riusciamo più ad apprezzare i tanti lati positivi della vita.
Accettiamo quindi la realtà, perdoniamo e continuiamo a vivere. Abbiamo questo potere: non possiamo certo prevenire ed evitare le ferite della vita, ma possiamo perdonarle. Tocca a noi decidere se rimanere sempre risentiti con il mondo, oppure se perdonare e riacquistare la nostra serenità. Un giorno chiunque potrà ferirci, ma siamo noi che decidiamo di continuare a ferirci ogni santo giorno, senza voler perdonare, alimentando quotidianamente il nostro rancore.
Perdoniamo, allora, non per essere “bravi” ma per essere “liberi”. Non c’è nulla di eccezionale in chi perdona, perché perdonando accettiamo la possibilità di venire feriti: perdonando, decidiamo di non soffrire più per quella ferita.
Ogni ferita è un sasso che ci colpisce: ci ha colpito, è vero, ci ha fatto male: ma ora quel sasso è nelle nostre mani. Cosa vogliamo farne? Vogliamo vendicarci e rilanciarlo? Questo non cambierà la nostra situazione, non ci toglierà la ferita; semmai ne provocherà un’altra in qualcun altro. Vogliamo tenerci stretto il sasso in modo che ogni nostro contatto, ogni nostra “carezza” sia una sassata per tutti? O preferiamo perdonare? Certo: deponiamo quel sasso, lasciamolo cadere, lasciamolo andare. Ci sentiremo liberi. Se non deponiamo quel sasso e non lo gettiamo via, ogni mattina ci alzeremo e lo guarderemo: quel sasso, senza che ce ne accorgiamo, ci entrerà dentro, indurirà il nostro cuore, lo renderà insensibile. Invece di lanciare gesti d’amore, senza accorgercene, lanceremo sassate: perché la violenza genera violenza. Solo il perdono spezza la catena. Solo il perdono spezza quest’automatismo diabolico. 
Henri-Dominique Lacordaire, monaco domenicano in Santa Sabina in Roma, diceva: “Vuoi essere felice per un instante? Vendicati. Vuoi essere felice per sempre? Perdona”. Amen.