venerdì 29 dicembre 2017

31 Dicembre 2017 – La Santa Famiglia


«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore…» (Lc 2,22-40).

La Famiglia che festeggiamo oggi è una famiglia unica, irripetibile; “sacra”, perché composta da un figlio, Gesù Cristo, Figlio di Dio; da una madre, Maria, la tutta pura, santa ed immacolata; da un padre, Giuseppe, sposo castissimo e padre “putativo-adottivo” di Gesù. Tre persone sante, a vario grado, che compongono appunto questa famiglia esemplare, a cui devono guardare e ispirarsi tutte le famiglie del mondo.
Il Vangelo di Luca, che la liturgia ci propone oggi, è piuttosto scarno di particolari sul ménage familiare di queste persone. In particolare non fa alcun cenno sui loro sentimenti reciproci; anzi ignora completamente la figura di Giuseppe; non spende una parola sulla loro vita di coppia; né tantomeno sul loro stato d’animo, sulle loro inevitabili reazioni emotive in seguito a tutte le recenti vicende che li avevano visti protagonisti.
L’unica cosa che a Luca interessa evidenziare è la loro scrupolosa fedeltà alle tradizioni, alle prescrizioni legali della loro religione; in altre parole a Luca interessa dimostrare soprattutto il rapporto imprescindibile che questi due sposi intrattengono con Dio, unico ispiratore della loro vita, centro assoluto della loro famiglia.
Il testo infatti ci racconta i particolari della presentazione al tempio di Gesù, un rito della legge mosaica, che completava tutti gli obblighi religiosi previsti per la nascita di un primogenito maschio.
A Luca dunque, i sentimenti personali di Maria e Giuseppe, non interessano: leggendo infatti il testo, si ha l’impressione che i fatti straordinari della nascita del loro figlio, in situazioni estremamente precarie, la stalla, il coro degli angeli, i pastori che accorrono, tutto quello insomma che era successo soltanto pochi giorni prima, fosse già completamente dimenticato. Che tutto fosse rientrato nella normalità: cose passate, inutile parlarne.
Ma possibile che non si siano ancora resi conto della vera identità di quel loro Figlio? Possibile che Maria non abbia ancora capito, o abbia dimenticato, le parole dell’angelo? Sembra proprio di si! Infatti cosa fanno? Assolutamente nulla di straordinario: siccome erano stati educati ad obbedire alla Legge, siccome era tradizione che tutti facessero così, anch’essi continuano a fare così. Portano cioè Gesù, Colui che è venuto a rompere con la tradizione e con il passato, a sottomettersi alla tradizione antica, a diventare figlio di Abramo secondo la legge di Mosè! Otto giorni dopo la nascita e la prevista circoncisione, Lo portano cioè nel tempio, per “presentarlo” al Signore. Un atto che consisteva nel riconoscimento formale della sua appartenenza a Dio, e nel suo riscatto mediante l’offerta di una coppia di tortore o di due giovani colombe. Punto.
Maria e Giuseppe eseguono a puntino tutto quanto previsto dalla loro legge religiosa. E Luca sottolinea questo particolare, nominando per ben cinque volte proprio la parola “Legge” (2,22.23.24.27.39). Quasi a sottolineare l’impossibilità di sottrarsi alle usanze, ai costumi, alle tradizioni. È infatti estremamente difficile buttarsi tutto alle spalle per seguire una nuova strada suggerita dal cuore. È difficile dar voce al nuovo che si agita dentro; è difficile prendersi le responsabilità delle proprie scelte; è difficile staccarsi da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che si è sempre fatto, da ciò che tutti fanno. Questo è un dato di fatto.
Anche Giuseppe e Maria, nonostante le recenti traumatiche esperienze, si sono adeguati, sottoponendo il loro primogenito ad un rito oltretutto immotivato e inutile: perché non c’era bisogno di offrire a Dio “quel” primogenito: era già di Dio, lui stesso era Dio. Né Maria, Madre immacolata, aveva alcunché di cui purificarsi.
Perché allora Luca descrive proprio questi adempimenti nel tempio? Forse non tanto per la loro effettiva importanza, quanto perché gli offrivano l’opportunità di introdurre qui l’incontro con due personaggi singolari: “un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele” e una donna molto anziana, Anna, la quale, da quando era rimasta vedova, “non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere”. Un incontro straordinario, perché entrambi questi personaggi sanciscono pubblicamente la vera identità del bambino: identificano cioè in Gesù il Cristo, il Messia annunciato dai profeti come il riscattatore, il liberatore, il redentore, il salvatore del popolo. Anzi, specificherà Simeone, quel bimbo sarà la salvezza non solo del popolo di Israele, ma di tutti i popoli, del mondo intero, superando così una volta per tutte l’ottica nazionalistica di quanti pensavano Dio come proprietà esclusiva di Israele. Un grande futuro dunque: ma che comporterà anche seri problemi e dolori, poiché la sua persona sarà inevitabilmente “segno di contraddizione”. Che voleva dire? Il senso è chiaro alla luce delle successive vicende a noi ben note: già dalla persecuzione di Erode, con la conseguente fuga in Egitto, e poi via via durante tutta la sua vita pubblica, sino alla conclusione tragica e gloriosa sul Golgota, Gesù ha portato ogni singolo uomo a prendere nei suoi confronti una posizione netta: stare con Lui o contro di Lui. Una situazione difficile che avrebbe procurato alla madre, costantemente al suo fianco, inevitabili strazianti dolori: “a te una spada trafiggerà l’anima”.
Seguire Gesù non è mai indolore. Non è come camminare su un bel sentiero pianeggiante, all’ombra, con fontanelle d’acqua e panchine su cui riposarsi, uccellini, sole: un semplice “vogliamoci bene e amiamoci” e tutto va avanti da solo, alla meraviglia. Nossignori: Gesù ci pone di fronte a scelte difficili, a dei bivi inevitabili, a delle rotture spesso dolorosissime; ci mette di fronte a noi stessi, davanti a verità dure e radicali, che non ammettono vie di fuga. Seguire Gesù è un cammino progressivo di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento di noi stessi. Egli non ci lascia sonnecchiare tranquilli: è un aut-aut: il suo vangelo è vita per alcuni, morte per altri.
Maria, la madre di questa famigliola santa, ascolta anche se non ha neppure la più pallida idea di cosa vogliano dire le parole di Simeone. Maria non è una profetessa, non è una donna onnisciente, a conoscenza di quanto doveva dire e fare, in diretto collegamento col padreterno. Anzi, Maria e Giuseppe non capivano assolutamente nulla di quanto veniva detto nei confronti del loro figlio: “si stupivano profondamente”. Maria, è vero, aveva accolto il messaggio di Dio (“Avvenga di me secondo la tua parola”), ma non immaginava certo cosa sarebbe poi successo, quanto le sarebbe costato, e soprattutto dove tutto questo avrebbe portato lei e Giuseppe. Maria non capì quel che le stava accadendo. Maria non capì neppure suo figlio Gesù: semplicemente lo seguì. Questo è stato il suo grande merito: da madre, diventare umile discepola di suo figlio. Si è cioè fidata ciecamente di lui.
La pagina evangelica si conclude infine offrendoci poche pennellate di vita di questa straordinaria famigliola: poche parole che giustificano la scelta di questo testo di Luca proprio nella festa dedicata alla sacra Famiglia: “Fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”.
Vorremmo certamente saperne di più; ma questo è sufficiente per delinearne una chiara fisionomia: anche se per ovvi motivi è definita straordinaria, dobbiamo tuttavia immaginare quella di Gesù, Maria e Giuseppe, una famiglia tutto sommato come tutte, con le sue gioie, i suoi dolori, i suoi segreti: una famiglia che ha vissuto di fede, che ha provato la gioia della nascita di un figlio, di vederlo crescere sano e forte, costretta a fare i conti con le problematiche di un futuro difficile.
In tutte le famiglie infatti non sempre gli anni scorrono tranquilli: prima o poi si affacciano problemi, sofferenze, preoccupazioni; tanto più dolorosi se provocati dalla mancanza di amore.
Ebbene: la famiglia di Nazaret ci prospetta l’unica strada da seguire, quella giusta, quella cioè di fare ogni cosa “secondo la legge del Signore”.
Certo imitare il ménage familiare di Gesù, Giuseppe e Maria, non è sicuramente impresa facile, ma uno sforzo si impone a tutti noi che ci professiamo “cristiani”.
In proposito gli altri testi della Parola di Dio, scelti dalla liturgia odierna, ci porgono una mano, offrendo alla nostra attenzione uno stile comportamentale che deve essere la base solida su cui costruire una sana convivenza. Dice infatti il Siracide: “Il Signore vuole che il padre sia onorato dai figli. Chi onora il padre espia i peccati; chi onora la madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata, ti sarà computata a sconto dei peccati”. Ma anche e soprattutto le parole di Paolo mettono in risalto l’esperienza positiva di una vita famigliare fondata sui valori dell’amore e della comprensione: “Fratelli, rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! Voi mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino” (Col 3,12-21).
Sono parole che meritano tutta la nostra attenzione e la nostra riflessione. Sì, perché di fronte alla crisi irreversibile della famiglia dei nostri giorni, di fronte allo sforzo satanico della nostra società che pretende di distruggere definitivamente il concetto stesso di “famiglia”, noi dobbiamo guardare in maniera seria e sistematica alla Famiglia di Nazareth, vera sorgente spirituale di ogni famiglia cristiana. Una famiglia che con il suo esempio ci permette un positivo recupero in termini di slancio, fiducia, dialogo, amore, perdono e tolleranza. Inoltre la presenza di Cristo in essa, è certezza e garanzia della sua stessa presenza in tutte le nostre famiglie, a condizione ovviamente che ciascun componente gli apra le porte del suo cuore; perché se vogliamo continuare sulla strada di una vera, irrinunciabile felicità familiare, abbiamo bisogno di un costante colloquio interiore con il Signore. Amen.


giovedì 21 dicembre 2017

25 Dicembre 2017 – Natale del Signore


Giuseppe doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio (Lc 2,1-14).

Per gran parte del mondo oggi è “Natale”: auguri, baci, abbracci, saluti, pranzi, panettoni, regali, sorrisi. Bene! Ottima cosa se il Natale ci aiuta a far festa, a sentirci più uniti, a volerci un po’ più di bene. Ma attenzione: noi cattolici non dobbiamo perdere di vista il centro di questa festa. Che non ci succeda di scambiare il Natale di Gesù con le luminarie cittadine, gli alberi infiocchettati, le tavole imbandite, i regali, e via dicendo. Tutto questo è contorno: è l’involucro esterno, il pacchettino, il nastro, il fiocco, il biglietto d’auguri. Ma il “regalo” vero, il Natale, è un'altra cosa. Allora scartiamolo, apriamolo questo regalo, guardiamo dentro, e facciamo in modo che oggi, 25 di dicembre, sia il Natale di Gesù. Un evento formidabile.
Dio si è fatto uomo! L'Infinito, l'Eterno, l'Onnipotente continua a preoccuparsi di noi, continua ad avere cura di noi, ad avere misericordia di noi.
Dio l'infinto ci ama: è questa la vera, grande notizia del Natale. Ci ama al punto da mandare suo Figlio in questo mondo così duro, così ingrato, così sterile. Dio non ha avuto paura: ha gettato il Figlio in mezzo a noi che non eravamo più figli; e continua a farlo ogni anno, perché ci ama perdutamente; perché vuole darci a tutti i costi un cuore nuovo, innamorato, un cuore di figli autentici.
Gesù è la più grande dimostrazione d'amore che il Padre abbia mai donato al mondo. Per questo il Natale è la festa dell'amore puro, profondo, dell’amore sincero e gratuito. 
Il Natale è la più bella notizia che possiamo ancora raccontare a tutti gli uomini tristi e frastornati di questo mondo.
Ce ne rendiamo conto? Un’idea simile dovrebbe commuoverci, intenerirci, farci sentire inondati di gioia! Dio, l'infinito, l’onnipotente, si è fatto uomo come noi, si è legato in maniera irreversibile a noi per puro amore, per una sua irresistibile esplosione di bontà: questo già da solo dovrebbe farci esplodere di gioia, farci amare la vita, ricolmarci di ottimismo.
Nella notte santa è impossibile non avvertire che qualcosa di immenso è accaduto nel mondo. Un sole meraviglioso è penetrato nel nostro buio e l'ha illuminato e riscaldato per sempre. Accorgiamoci di Gesù: accogliamolo nella nostra vita e lasciamo continuare in noi quella novità e quella santità che con Lui è sbocciata a Betlemme.
Quanta pena c’è ancora nei cuori degli uomini! Quanta ricerca di felicità, quante amarezze e quante sofferenze! Ebbene: noi tutti oggi sappiamo che la felicità esiste, ed ha un suo punto di riferimento: Gesù di Betlemme, l'Emanuele.
Occorre allora uscire dalla prigione del nostro egoismo, dalla freddezza dell'indifferenza. Facciamoci piccoli e umili: andiamo a Betlemme, accogliamo Cristo l’Amore assoluto, apriamogli il nostro cuore, riempiamoci d’amore per donarlo ai nostri fratelli, per tendere la mano a chi ci sta accanto; rendiamo ospitale la nostra casa, il nostro ambiente, il nostro lavoro, il nostro paese, la nostra città, il nostro mondo. È soltanto attraverso l'amore concreto che potremo fare esperienza di Dio. È soltanto in Lui che troveremo la pace che ci manca.
Sono quattro le parole che puntualmente la liturgia ci propone nelle messe di Natale e del periodo natalizio: luce, gioia, bontà, pace. Esse riassumono le caratteristiche di Gesù, il dono di Dio unico e irripetibile. Esse sintetizzano ciò che noi tutti, uomini e donne, desideriamo.
Si dice che il Natale è bello come un sogno. È vero. Ognuno di noi infatti sogna luce, gioia, bontà, pace. Un clima “da sogno” che questa festa riesce ogni anno a creare in noi con la riscoperta e la vicinanza della famiglia, degli amici, dei lontani, di quanti si trovano in situazioni di angoscia e di dolore...
Lasciamoci prendere, fratelli, da questo sogno! È Dio che in Gesù vuole farci sognare una vita simile; una vita come lui l'ha pensata e come noi la desideriamo. Lasciamoci penetrare da questo sogno sempre più in profondità, in modo che diventi desiderio, progetto, impegno concreto, realtà viva.
In che modo? Lo dice Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Avete ricevuto da Dio luce, gioia, bontà, pace? Donate a tutti, il più possibile, luce, gioia, bontà, pace.
Non viviamo nella insoddisfazione, non lamentiamoci continuamente: il nostro compito non è il lamento, ma la testimonianza di una vita carica di questi doni.
Sentiamo dire spesso: “Non ci sono più i valori di una volta! Non c'è più cristianesimo”. Ebbene, che aspettiamo? Mettiamoceli noi questi valori! Mettiamocelo noi il cristianesimo vero! Questo è il nostro compito! Questa è la nostra festa di Natale: riconoscere Gesù negli altri e donar loro quell’amore che Lui si aspetta da noi.
Una storiellina al riguardo.
In una gelida notte d’inverno, durante una tormenta di neve, un poveretto bussò alla porta di una chiesa, chiedendo di poter entrare per ripararsi. Il prete all’inizio non voleva farlo entrare, ma visto che quel poveraccio era proprio congelato, lo fece entrare nel tempio: “Solo per questa notte!”, disse; e si ritirò nel caldo della sua camera.
Nel cuore della notte il sacerdote fu svegliato da un forte scoppiettio: scese dal letto e corse a vedere. Rimase costernato: il poveraccio, per riscaldarsi, stava bruciando la grande statua in legno del Cristo. Il sacerdote andò su tutte le furie: “Ma cos'hai fatto? Quella era la statua di Gesù!”. Ormai, purtroppo, il danno era fatto... Comunque prese l'uomo e lo cacciò fuori al freddo polare. Tornò a letto con una rabbia tremenda in corpo: “Guarda te, uno fa il bene e poi ottiene questo!”. Finché dormiva gli apparve Gesù. Era molto arrabbiato. “Hai ragione Gesù ad essere arrabbiato per quanto è successo!” disse il sacerdote; “non l’avrei mai pensato!”. E Gesù: “Non sono arrabbiato per questo; sono arrabbiato perché hai dato più valore ad un pezzo di legno piuttosto che a me. Quell’uomo ero io!”.
Ai nostri giorni, purtroppo, nonostante la buona volontà, è difficile cogliere il vero senso del Natale: troppi sono i problemi che affliggono le nostre famiglie e l'intera società: miseria, malattie, guerre, odio, terrorismo; i poveri che diventano sempre più poveri, i ricchi che diventano sempre più ricchi...
Una grande realtà, in ogni caso, si impone oggi alla nostra attenzione: che se Dio rinnova anche quest’anno il suo Natale per noi, vuol dire che non si è ancora stancato di amarci, di darci fiducia, di offrirci il suo perdono e la sua pace, di farci dono della sua misericordiosa salvezza!
Vuol dire che ai nostri giorni Dio non si è ancora stancato di bussare alla porta del nostro cuore e di attendere la nostra adesione, la nostra accoglienza sincera e definitiva. Egli vuole ancora incarnarsi nei nostri cuori e nella nostra società, dove i suoi valori sembrano irrimediabilmente cancellati, i sentimenti più nobili irrisi e calpestati, dove l'uomo uccide spavaldamente il fratello, dove la vendetta abbruttisce i cuori, dove abusi di ogni genere vengono perpetrati sui deboli, sulle donne, sui minori, dove la droga continua a diffondere i paradisi artificiali della morte...
Oggi però, come ci dice Paolo, in tutto il mondo “è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini” (Tt 2,11). Ebbene: il mistero dell'Amore di Dio è in quel Bambino che vediamo nel presepe! Sia questo l'augurio che vicendevolmente ci scambiamo in questo giorno di luce, un augurio colmo di speranza e di gioia per una vita nuova, in cui ogni rancore e odio vengano spenti dalla pace del Bambino di Betlemme!
Buon Natale! Amen.


giovedì 14 dicembre 2017

17 Dicembre 2017 – III Domenica di Avvento


«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui». (Gv 1,6-8.19-28).

Siamo alla terza domenica di Avvento, la cosiddetta domenica “Gaudete”: rallegriamoci, perché il Natale, la venuta di Gesù nei nostri cuori, è vicino.
Il vangelo ci ripropone anche oggi la figura del Battista. Ma questa volta è l’evangelista Giovanni che ce ne parla: non è, come negli altri vangeli, l’asceta o il profeta intransigente che annuncia la distruzione se gli uomini non si convertono. Qui è il testimone.
Il Battista in Giovanni è semplicemente una indicazione, uno strumento che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me, guardate ciò che sta dentro me”. Non dice chi verrà o come verrà. Dice solo “Preparate la via... verrà uno che non conoscete... io di fronte a lui sono niente”.
Ebbene: questa è l’essenza dell’avvento. Il Battista sente che qualcosa deve avvenire, attende, aspetta. Sente che sta arrivando qualcosa, ma non sa cosa.
Rimanere in attesa, implica sempre, nel nostro immaginario, il sopraggiungere di un qualcosa di nuovo, un qualcosa di imprevedibile, di diverso, di insolito. È una sorpresa. Del resto, se conoscessimo già tutto ciò che ci riguarda, se tutto fosse già scritto, che “novità” sarebbe per noi il prossimo Natale? Che “Avvento” sarebbe il nostro?
Allora, prepararsi al Natale vuol dire: “Acconsentiamo che ci succeda qualcosa che supera le nostre previsioni, un qualcosa che non possiamo pianificare, che non possiamo controllare, che non possiamo gestire. Permettiamo cioè che la Vita ci faccia delle sorprese”.
Noi invece vogliamo controllare tutto. Noi pianifichiamo tutto. Vogliamo gestire tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il più in là. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia, svegliandoci dal nostro torpore, rendendoci consapevoli della necessità di abbandonare le nostre umane certezze, non è Dio.
Nel vangelo c’è una grande domanda rivolta al Battista: “Chi sei tu?”. E Giovanni inizia col dire chi effettivamente non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”.
È importante rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci attribuiscono, tutte le etichette che ci incollano addosso; è importante dire loro: “No, non sono come voi pensate, come voi pretendete”.
Ma noi, come siamo noi in realtà? Siamo uomini, è vero; siamo “buoni”, ok. Ma è troppo poco; ci sono milioni di uomini buoni. Siamo dei papà, delle mamme: sì, va bene, ma anche di papà e di mamme ce ne sono milioni. Siamo un marito, una moglie, dei bravi cristiani, dei lavoratori; siamo operai, professionisti, artigiani, commercianti. Sì è tutto vero, ma è sempre troppo poco. Perché questi sono semplicemente i ruoli che svolgiamo. Il ruolo è come un vestito. È buono per andare a lavorare, per andare a scuola, a teatro, al cinema, alle feste. Ma poi quando siamo soli con noi stessi, quando andiamo a letto, quando vogliamo stare in libertà, quando ci va di fare qualcosa al di fuori del nostro ruolo, il vestito ce lo togliamo, perché rappresenta il nostro contenitore, il nostro apparire all’esterno, quella parte della nostra vita che è a contatto con gli altri. Ma “dentro” di noi, chi siamo?
Purtroppo molti di noi si sono vestiti di un ruolo e vivono sempre e solo quello. Certo, recitare sempre il solito ruolo ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile: ma ci limita inevitabilmente la vita, ci fa vivere a metà.
Se lo viviamo così, infatti, il ruolo ci ingabbia, ne diventiamo schiavi, e invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. In casi del genere, scompare quello che siamo, l’essere “persona”, e rimane solo il ruolo: se infatti ci togliessimo di dosso, se ci levassimo questo vestito-prigione, di noi, del nostro “essere”, non troveremmo nulla, il vuoto assoluto.
Per cui la grande domanda che dobbiamo porci è: “Al di là di tutti i ruoli, oltre le nostre coperture, chi siamo noi in realtà? Chi siamo noi “dentro”, in profondità, nell’intimo della nostra coscienza, della nostra anima?” Questo è il grande interrogativo.
In altre parole: “C’è in noi qualcosa che ci rende unici, irripetibili, diversi, da tutti gli altri? C’è qualcosa che ci rende insostituibili?”. Perché se non troviamo nulla, vuol dire che noi, o un altro, siamo la stessa cosa; vuol dire che di gente come noi ce n’è quanta ne vogliamo; vuol dire che non siamo importanti, che siamo persone senza spessore, che “tirano avanti” senza alcun sussulto, che sopravvivono, che tra di loro sono soltanto dei doppioni, delle squallide fotocopie: come se la vita facesse fotocopie!
Allora la prima cosa da fare è quella di liberarci da tutto ciò che non siamo. La nostra grande decisione deve essere quella di rifiutare, come il Battista, qualunque identità con “altri”: “no, non sono questo! Non sono io; io sono diverso; non sono Elia, né il Cristo, né un Profeta, io sono io!”.
Riconoscere che non siamo quelli che gli altri credono, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative che gli altri ci hanno incollato addosso, è sempre molto faticoso e doloroso. Ma solo se iniziamo a spogliarci di ciò che non è nostro, se ci scrolliamo di dosso le incrostazioni che ci ricoprono, solo allora la nostra vera immagine potrà rivelarsi in tutta la sua originalità. E ne varrà la pena!
Giovanni Battista nel deserto ha trovato il motivo per cui vivere, ciò per cui è stato creato, ciò che dà senso alla sua vita; lui deve infatti richiamare tutti all’essenziale: “Abbandonate il superfluo, preparate la via al Signore, state attenti, non dormite, non sonnecchiate, il Signore vi passa vicino, non lasciatevelo scappare. Dio c’è, ma se dormite, se avete gli occhi chiusi non lo potrete vedere”. Egli è voce di qualcun altro, è strumento, è mezzo.
Questo dunque deve essere anche il nostro compito primario: dar voce all’infinito, a Dio, all’oltre, alla forza che ci inabita, ma che non ci appartiene. “Dai voce a Colui che sta dentro di te!”: noi non sappiamo parlare, ma dobbiamo comunque dare voce alla Parola: non siamo luce, ma dobbiamo riflettere sugli altri la Luce; non siamo il sole, ma dobbiamo riversare sugli altri il calore dell’Amore.
Siamo insomma chiamati tutti a testimoniare il “di più” che ci portiamo dentro. Questo è il primo servizio che dobbiamo a Dio. “Essere strumenti di Dio” vuol dire proprio questo: permettere che sia Lui a sceglierci, ad utilizzarci per suonare la sua musica, la sua sinfonia. Non siamo noi che suoniamo. È Lui che “suona” noi: non siamo noi il Musicista, ci limitiamo soltanto ad amplificare la Sua musica. È un ruolo che non ci può appartenere. Siamo solo degli strumenti. Noi siamo l’onda, Lui è il mare. Noi siamo i raggi, Lui è il sole.
In questo sta la grande chiamata di ciascuno di noi: viviamo, ma la vita non è nostra; siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra, non la possediamo; siamo veri, ma la verità non viene da noi; diventiamo liberi, ma non siamo la libertà; danziamo, ma non siamo la danza; facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, ma non siamo Dio; abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Noi insomma viviamo e operiamo, ma non siamo il soggetto operante. Il soggetto è sempre e solo Dio. Il grande male dell’uomo è mettersi al Suo livello, sentirsi esclusivo proprietario delle cose e delle persone. Le sente sue, ma non lo sono. Siamo gli amministratori delle cose, non i proprietari.
Nel vangelo c’è infine una frase forte: “In mezzo a voi c’è uno che non conoscete”. Meglio: “uno che voi non volete conoscere”. I Giudei, i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, Colui che viene. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui farà o dirà non potrà in nessun modo cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista urla, scuote, grida, strattona: ma non serve. Se noi abbiamo deciso dentro di noi che non ci interessa, niente ci può convertire. Se abbiamo deciso dentro di noi che Natale è il 25 dicembre, il pranzo e la messa (una volta all’anno ci può stare!), niente può cambiare. Se abbiamo deciso che Dio è un corollario della nostra vita, una proprietà periferica, nessuna predica ci può scalfire. Se abbiamo deciso che non vogliamo metterci in gioco, la vita non avrà mai più nulla da insegnarci.
C’è ancora chi rimane stupito delle chiese piene la notte o il giorno di Natale. Non facciamoci illusioni: ci saranno anche molte persone, ma dentro di loro, nel segreto del loro cuore continueranno purtroppo a dire: “Dio, non ci interessi, non sappiamo che farcene di te”.
Non cadiamo anche noi in tale deserto dell’anima, ascoltiamo la “Voce”, spianiamo quella strada che dal nostro cuore porta direttamente al cuore di Dio. Prepariamo in noi la venuta della “Parola” che è Cristo, perché sia Lui a dare senso alla nostra “voce”. Perché solo in Cristo, Parola eterna di Dio, possiamo trovare il nostro vero senso, il significato autentico della nostra vita. Amen.


venerdì 8 dicembre 2017

10 Dicembre 2017 – II Domenica di Avvento


«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» (Mc 1,1-8).

Dove troviamo Giovanni il Battista? Lo troviamo nel tempio? No. Eppure, in quanto “sacerdote”, figlio di un sacerdote, questo posto gli sarebbe spettato di diritto. Ma non lo troviamo nel tempio. Giovanni, ci dice Marco, è soprattutto “Voce” di uno che grida, è annunciatore, messaggero: quindi non il chiuso di un tempio, ma gli spazi aperti e selvaggi del deserto si addicono per la sua predicazione: “Convertitevi dai vostri peccati”.
Lontano dalle comodità, dagli agi dell’ambiente cittadino, nel deserto non esiste l’“ovvio”: se non si fa qualcosa per sopravvivere, si muore. Lì conta solo l'essenziale. Nel deserto non ci sono fronzoli o finezze: il deserto toglie tutte le sicurezze, le convinzioni, i riferimenti: nella solitudine uno si trova solo davanti a sé stesso, a quello che ha dentro. E arriva a vedere quella parte di sé che non vorrebbe mai conoscere.
Nel tempio tutto è bello, leggiadro: abbiamo le belle liturgie, il bel canto, la bella gente, la sicurezza: stiamo bene e rilassati. Anche se ci parlano di Dio, anche se ci chiedono di convertirci in nome di Dio, tutto è ovattato, tutto è soffuso, di maniera, come la nostra conversione.
Nel tempio non serve convertirsi sul serio; è sufficiente cambiare l’aspetto esteriore, ammantarci di un velo di contrizione, molto apprezzabile a vedersi: una conversione che non tocca il nostro cuore, che non convince l’anima: dentro rimaniamo tranquillamente sempre gli stessi; l’importante è riuscire a camuffare, a dare alle nostre iniquità, magari con “religiosi” distinguo, un aspetto moralmente positivo.
Questo nel deserto non è possibile: nel deserto non si può barare. Il deserto è categorico: “No, amico mio, così non va; devi convertirti, devi cambiare. Qui non puoi illuderti, non puoi nasconderti. Dove vai? Qui non puoi fuggire, non puoi evitare la verità: qui si vede subito se ami Dio, se il tuo cuore è veramente sincero”.
È quanto ci fa capire oggi il vangelo: per credere in Gesù Cristo, dobbiamo necessariamente abbandonare quella nostra patina di copertura che contrabbandiamo per religione. Non sono ammesse soluzioni di comodo.
È una verità dura, ma è così. La “religione”, quella che conosciamo noi, per definizione, ci dà regole, ci dice cosa dobbiamo fare e non fare, ci rassicura, ci dice che se faremo in un certo modo andremo in paradiso e se invece faremo il contrario andremo all'inferno; ci dice chi sono i buoni, quelli che per diritto saranno ammessi al premio finale, e chi i cattivi, gli esclusi. Ma di tutte queste belle “regole”, non c'è nulla negli insegnamenti di Gesù. Perché la religione di Gesù, quella vera, quella profonda, ha un solo obiettivo: l’amore. L’amore è la cartina di tornasole che ci dice quanto siamo sinceri nelle nostre dichiarazioni di fede. Perché per essere degni dell’amore del Padre, per poterlo pienamente godere nell’eternità, dobbiamo a nostra volta amare ogni creatura, aver cura dei nostri fratelli, dobbiamo usare loro rispetto, compassione, tenerezza, carità.
Se la regola della religione è: “Quanto preghi? Quanto sei puro? Quanto se incontaminato? Quanto sei fedele alle regole?”, la regola di Gesù è: “Quanto ami? Quanta fiducia dai alle persone? Quanto le fai crescere? Quanto le stimi? Quanto credi in loro? Quanto le rispetti?”. Ecco: adottare questo comportamento basato sull’amore, guidato dall’amore, vuol dire “convertirsi”; vuol dire “credere al vangelo”. Questo è quanto predica il Battista.
Un annuncio, il suo, estremamente severo ma concreto e onesto. Talmente autentico nella sua essenzialità, che la gente accorre in massa per farsi battezzare da lui. La sua fama, la sua popolarità, il suo successo crescono di giorno in giorno, tanto da allarmare seriamente le autorità religiose. Anche se nella sua predicazione non ha mai rivendicato per sé il titolo di Messia, anche se ha sempre dichiarato di non essere tale, che non è quello il suo ruolo, tuttavia per le autorità del tempio rimane sempre un autentico pericolo, una mina vagante.
Per questo corrono ai ripari: faranno cioè di tutto per isolarlo, screditarlo, diffamarlo, ostacolarlo, carcerarlo, ucciderlo: e alla fine ci riusciranno.
È il solito normalissimo percorso: quando non è possibile eliminare un avversario è sufficiente distruggere la sua reputazione, denigrarlo pubblicamente. Non importa se ha una condotta ineccepibile, se è una persona retta e onesta: l’importante è parlarne male, diffondere maldicenze e calunnie sulla sua moralità, sulla sua rettitudine professionale, per arrivare velocemente a distruggerlo del tutto.
Ma perché adottare questo metodo odioso con il Battista? Perché è un personaggio carismatico, monolitico, esigentissimo con sé stesso e con gli altri, uno che non guarda in faccia a nessuno, che non le manda a dire, insomma un duro e un puro, e questo non piace per niente alle autorità religiose che, al contrario, hanno molto, ma molto, da nascondere.
La conversione che egli predica, infatti, non è facile da accettare: il suo battesimo, pur essendo d’acqua, non implica una semplice trasformazione di facciata: impone piuttosto a tutti di tornare alla primitiva integrità, quella originale, quella di tornare ad essere immagine di Dio, “nuove creature”.
Oggi moltissima gente non esita a definirsi cristiana; certo, il battesimo ci ha reso tutti “cristiani”, figli di Dio: purtroppo però gran parte di questi cristiani si è fermata alla registrazione del nome sul libro dei battesimi di qualche parrocchia; e vivono beatamente, in tutta tranquillità, nel dolce far niente, nascondendosi dietro una facciata di comodo, una patina di perbenismo. Questo non è essere cristiani: il battesimo ricevuto alla nascita si ferma all’acqua; ma, si sa, l’acqua scivola via: un altro battesimo si impone: quello vero, reale, autentico, quello di “fuoco”, quello dello Spirito; quello che Cristo stesso ha affrontato: un battesimo che “marchia” la vita, che brucia dentro, che scava nel profondo, l’unico che ci autentica alla radice come cristiani, come “uomini nuovi”. È il battesimo che ci trasforma in “altri”, che ci supporta nella realizzazione di quel progetto iniziale per il quale Dio all’origine ci ha segnati con il soffio dello Spirito. Questo in pratica è il nostro vero traguardo, quello che possiamo e dobbiamo raggiungere attraverso il battesimo di fuoco: ridiventare meritatamente quelli che eravamo già, i figli di Dio, creati a immagine e somiglianza del Padre. È la nostra trasformazione. È un “partorirci” nuovamente tra fatiche, pianti, lotte e dolore; ma solo così potremo arrivare ad essere “cristiani” autentici, i “benedetti” e prediletti del Padre.
Quindi, tradotto in pillole: tocca a noi, soltanto a noi, dimostrare con la vita questa discendenza da Dio; tocca a noi, nella essenzialità del “deserto”, spogliarci dagli orpelli dell’apparenza, e rivestire i panni dell’autenticità cristiana, passando attraverso il fuoco della fedeltà, della convinzione, della coerenza, il fuoco della rinuncia, del sacrificio, della battaglia contro il male: perché è questa l’unica via che può riportarci all’essenziale, alla Verità di Dio, all’Amore Infinito.
Battesimo, in ebraico, vuol dire “immergersi”: ecco allora che non una volta, ma ogni giorno, è necessario che ci immergiamo dentro di noi, ogni giorno dobbiamo scendere nel buio della nostra fragilità interiore, “nella mortalità” di questa vita, in ciò che ci rende spiritualmente sfiniti, senza senso, disperati, per far emergere, dalla finzione invalidante dell’apparire, la Luce ardente dello Spirito, la forza e la decisione dell’“essere”, che dà colore e calore alla nostra vita.
Insomma, è solo dopo aver percorso il nostro cammino di purificazione, di liberazione, di amore, dopo aver vissuto il nostro Golgota, dopo aver superato la nostra autenticazione del fuoco, che torneremo finalmente a far risplendere la nostra originale figura di figli, creati dal Padre a sua immagine e somiglianza. Un percorso sicuramente impegnativo, ma non impossibile: un percorso, soprattutto, che non va semplicemente “pensato”: ma fatto e basta! Non abbiamo altre alternative! Amen.


mercoledì 29 novembre 2017

3 Dicembre 2017 – I Domenica di Avvento (Anno B)


«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento…» (Mc 13,33-37).

Dio vuole incontrarsi con l’uomo. È il motivo chiave di queste domeniche che precedono il Natale, e che fa da filo conduttore per tutto il periodo d’Avvento. “Avvento” deriva infatti dal latino “ad-venio” che letteralmente significa: “Ti vengo incontro”.
Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, la venuta personale, quella che Egli farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”.
Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno del Padrone, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa. Certo, per noi che viviamo sempre a pieno ritmo, che siamo immersi nella bellezza della vita, è decisamente sgradevole pensare a queste cose.
È innaturale immaginare la nostra fine: concludere di punto in bianco la nostra esistenza, troncare la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento dei nostri progetti, prospettarci nella mente quell’ultimo istante in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. Nessuno guarda con simpatia a queste realtà, tutti preferiscono ignorarle, non pensarci, non approfondirne i particolari; molto meglio preoccuparci del presente, del concreto, dell’immediato.
Eppure sono realtà che richiedono grande considerazione. Come deve essere allora questa nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile, paziente, produttiva, costante. La gente invece si stanca subito: vuole risultati, successi, traguardi facili e immediati; pretende subito raccolti abbondanti. L’attesa invece è tenace: bisogna soprattutto essere convinti che il seme di Dio è il migliore, che per nascere e crescere, oltre ad un terreno fertile, ha bisogno della luce e del calore dell’amore. E di tanta perseveranza: una virtù che oggi purtroppo è molto trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano in fretta e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, cangiante. Se Gesù con il suo Vangelo è ancora “fermo” a più di duemila anni fa, noi che possiamo farci? Si adatti anche Lui ai tempi moderni, la sua Parola si aggiorni, ci segua; si allinei con le nostre esigenze, si metta al passo coi tempi, e noi allora vedremo di seguirlo.
Illusi! Pensiamo di cambiare il mondo? È il mondo che cambia noi, questa è la verità.
Solo se continueremo a lavorare in silenzio, ad arare, a girare la terra, a concimare, a togliere pazientemente i sassi e le sterpaglie, un giorno potremo vedere la fioritura e cogliere i frutti.
Il vangelo di oggi ci insegna proprio questo: dobbiamo vegliare, dobbiamo aspettare il ritorno del padrone lavorando, ; dobbiamo rimanere sempre vigili, senza cedere mai al sonno. Perché questo è il grande pericolo della vita: addormentarsi, vegetare, sopravvivere.
“Vegliare” infatti non vuol dire smettere di lavorare, far finta di niente, tirare avanti aspettando che “qualcosa succeda”: se non facciamo niente, non succederà mai niente; “vegliare” vuol dire imparare a conoscere oggi la Voce, mettere in pratica nel presente gli insegnamenti di quel Dio che un giorno ci chiamerà. Quando Lui chiama non abbiamo scelta: dobbiamo rispondere, dobbiamo andare, costi quel che costi, anche se abbiamo paura, anche se siamo terrorizzati, anche se non capiamo il perché, anche se ci sembra impossibile che tocchi proprio a noi.
Ritagliamo allora dal nostro tempo, oggi che possiamo, spazi di meditazione, pause di riflessione su queste verità. Non lasciamoci frastornare dalle idee e dalle mode materialistiche del momento: sono cose in continua evoluzione, in costante travisamento, ci portano sempre al peggio, in realtà effimere, in altri pensieri, in altre ambizioni, in altre priorità. Soprattutto, lo ripeto, viviamo Cristo, la “Vita”. Condurre una vita da morti, non si può chiamare vita.
Non prendiamoci in giro dicendo: “Tanto, col tempo le cose cambieranno”. Succede che il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, quando avrò meno preoccupazioni, quando sarò anziano, “in pensione”, allora mi dedicherò a Dio”: sono parole idiote, senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da tutto per amare Dio; serve solo conoscerlo, volerlo incontrare, volerlo vedere, saperlo riconoscere nei fratelli, assaporarlo; insomma dobbiamo viverlo, ora che possiamo, in famiglia, nel lavoro, nella nostra professione. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di poterlo amare domani? Non cambierà nulla. Sono solo fantasie, è uno stupido alibi che ci costruiamo per giustificare la nostra apatia. E poi, chi ci garantisce di avere tempo sufficiente per poterlo fare?
Soprattutto non illudiamoci di essere già delle brave persone: non diciamoci che sì, alla fin fine, non siamo proprio così tanto male; non convinciamoci di essere, tutto sommato, come gli altri, anzi migliori degli altri; di essere insomma dei buoni cristiani, dei “quasi perfetti”, bisognosi al massimo di qualche ritocchino ogni tanto! Non dimentichiamo mai che a Gesù, i “quasi perfetti”, procurarono i problemi più grossi. Fu ucciso proprio dalle persone che pensavano di essere le più buone, le più brave, le più osservanti, le più religiose. Non creiamoci false e inutili aspettative: già il solo pensare di essere migliori degli altri, ci mette in coda a tutti, all’ultimo posto, perché questa è subdola presunzione, fine superbia.
Aspettiamo invece molto umilmente l’incontro finale con Dio, pregando, ogni nuovo giorno, al nostro risveglio: “Gesù, fammi parlare oggi come se le mie parole fossero le ultime. Fammi agire come se quelle di oggi fossero le mie ultime azioni. Fammi accettare oggi la sofferenza, come se fosse l’ultimo dono che ho la possibilità di offrirti. Fammi pregare come se la mia preghiera di oggi fosse l’ultima possibilità che ho di parlare con te qui in terra”. Amen.


giovedì 23 novembre 2017

26 Novembre 2017 – XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Gesù Cristo Re dell’Universo

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra» (Mt 25,31-46).

La parabola di oggi, conosciuta come “Il giudizio finale” viene vista sempre negativamente, in modo tragico: un Dio giudice esigente e fiscale che controlla tutto, che annota tutte le nostre azioni in un grande libro dei conti e che, alla fine della nostra vita, tira le somme: se le azioni cattive superano quelle buone, castigo eterno. Se, invece, risulta il contrario, premio eterno.
Un tempo la Chiesa metteva in risalto questa idea di Dio, giudice intransigente: “iudex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit”: quando il Giudice prenderà posto nel giorno dell’ira (“dies irae”), tutto ciò che abbiamo tenuto nascosto verrà reso pubblico…”. Non abbiamo scampo: era un’idea molto diffusa, che portava a dipingere nelle Chiese un grande occhio di Dio all’interno di un triangolo, che era la Trinità: “l’occhio di Dio ti controlla, vede e sa tutto, stai attento!”.
Ma un Dio così non è esattamente il Dio evangelico, il Dio che Gesù ci ha insegnato ad amare e a pregare. Non dobbiamo fermarci a certe interpretazioni, talvolta sono fuorvianti.
La parabola inizia dicendo: “Quando il Figlio dell’Uomo verrà”: Gesù, quando parla di sé, usa sempre questo termine: “Il Figlio dell’Uomo”. Un titolo che pochissimi autori sacri attribuiscono a Gesù: ed è strano, singolare, visto che Lui si identifica sempre in questo modo!
Cosa vuol dire “Figlio dell’Uomo”? Il Figlio dell’Uomo è l’uomo che ha realizzato in sé il progetto di Dio, è la persona che accoglie lo Spirito di Dio e lo vive nella propria vita: esattamente come ha fatto Gesù. Chiunque può essere Figlio dell’Uomo: anzi, tutti dobbiamo esserlo. Tutti dobbiamo accogliere il piano, il progetto di Dio su di noi, che è esattamente il motivo per cui siamo nati ed esistiamo.
Che Dio abbia un progetto su ciascuno di noi sta a significare che la nostra esistenza di creature insignificanti, è invece importantissima, ha un senso profondo: vuol dire che non siamo qui per caso, ma siamo qui per uno scopo, un motivo ben preciso. Ed è questo motivo che noi dobbiamo recuperare, il senso della nostra vocazione. C’è un destino, una chiamata, una missione che ci chiama. È questo motivo che ci nobilita e ci rende irresistibili. Le persone che sono tristi, depresse, senza vitalità o voglia di vivere, lo sono perché non hanno motivi validi, forti, ragionevoli per vivere. Non ci rendiamo conto che la nostra vita è una piccola tessera di un mosaico meraviglioso, grandioso, imponente: l’essere a somiglianza di Dio.
Dunque: il Figlio dell’uomo “verrà nella sua gloria” con tutti gli angeli, e siederà sul suo trono, davanti a tutti i popoli radunati.
Quando noi pensiamo agli angeli, pensiamo subito ad una creatura con le ali. Ma l’angelo (in greco “ànghelos”, annunciatore) non ha niente a che vedere con questo. Angelo è solamente tutto ciò (persone, incontri, fatti, eventi, situazioni, sogni, incidenti, sorprese, ecc.) che Dio ci manda per starci vicino, per consigliarci, per consentirci di andare avanti e seguire correttamente la Sua chiamata.
Abbiamo mai incontrato un angelo? Sicuramente no, se pensiamo all’essere angelico con le ali; sì, tantissime volte, se sappiamo riconoscerlo, se sappiamo chi e dove guardare: perché “angelo” sono tutti quelli che vogliono aiutarci a diventare migliori. Noi viviamo nella paura, nel terrore di scegliere, di osare, di metterci in gioco, di guardarci dentro, non sfruttiamo le nostre potenzialità, la nostra riserva di amore, di bontà, di doti, di generosità, di simpatia, di vitalità che abbiamo dentro. Viviamo sempre sulla difensiva, non sfruttiamo il patrimonio che Dio ci ha dato. Allora arriva un angelo che ci mostra che possiamo essere migliori: possiamo osare, scegliere, smettere di vivere così e volare in alto.
Chi ci ama non vede ciò che siamo ma ci mostra ciò che possiamo essere. L’angelo è questo. Quindi gli angeli con i quali il Figlio dell’uomo verrà, sono semplicemente tutti quelli che vivono realizzando con la vita il progetto che Dio ha su di loro.
“Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo”.
Noi, dicevo, ci siamo fatti l’idea strampalata di un Dio “guardone” che sta continuamente a spiarci, per annotare tutto ciò che ci riguarda nel suo Librone. Ma Gesù non ha bisogno di libri per separare gli uni dagli altri, i buoni dai cattivi. Gesù lo vede immediatamente! E da cosa lo vede? Dai fatti concreti: se cioè siamo riusciti a vivere la Vita, oppure no. Se cioè ci siamo immessi, ci siamo realizzati in quel progetto originale che Lui aveva su ciascuno: diventare cioè della sua stessa condizione divina, riappropriarci della sua stessa immagine, assomigliare fedelmente a lui.
In particolare cos’hanno fatto questi “benedetti” per raggiungere questo traguardo e ottenere “il regno”? Nulla di eccezionale: sono stati costanti e fedeli nel compiere alcune semplici azioni: hanno dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; hanno accolto i forestieri, gli “altri”; hanno vestito gli “ignudi”: hanno preso, cioè, le difese dei peccatori, degli indifesi, dei vulnerabili, di quanti erano esposti alla pubblica discriminazione, alla vergogna, alla derisione; hanno curato i malati, non solo quelli corporali, ma soprattutto quelli spirituali; hanno infine visitato i carcerati, portando loro conforto. In una parola “benedette” sono tutte quelle persone che in vita si sono prodigate verso i più deboli, sono state attente ai bisogni degli altri, dei propri fratelli, riconoscendo in essi la persona di Gesù.
È Gesù stesso che lo conferma: “Ogni volta che avete fatto questo ad uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Attenzione: qui Gesù non dice: “Quando ami uno, lo fai per me” ma “quando ami uno, ami me”. Punto. Molte persone invece sono ancora convinte che devono amare gli altri, il prossimo, perché lo ha comandato Gesù”. Ma se amiamo gli altri per “dovere”, senza alcuna convinzione, senza sentimento, senza trasporto, ma solo per costrizione, perché Dio ce l’ordina, questo non è “amare”. L’amore non si comanda: si sente. Non si fanno le cose “per carità cristiana”; si fanno perché nascono dal cuore. Amare uno, perché così ci è stato comandato, è svilente: “Non ti amo, ma lo faccio perché me l’hanno ordinato!”. Per Gesù è impensabile una cosa del genere. Le cose non si fanno per Dio, ma con Dio e soprattutto come Dio.
I Santi hanno fatto così: un giornalista dovendo intervistare Madre Teresa la trovò tutta intenta a curare un lebbroso. Vedendo come ripuliva le sue ferite purulente, esclamò: “Madre, io non lo farei neppure per un milione di dollari”. E lei: “Neppure io!”. E lui continuò: “Ma io non lo farei neppure se me lo comandasse Dio in persona!”. E lei: “Neppure io! E il giornalista capì: certe cose si fanno solo per “amore”... e basta.
“Via, lontano da me maledetti”: è la condanna del Figlio dell’uomo per gli “altri”, per chi non ha dispensato amore. Prima aveva detto: “Venite, benedetti dal Padre mio”. Qui, invece, non ripete: “Maledetti dal padre mio”, ma solo: “Maledetti”. Infatti, non è Dio che li maledice, ma sono loro stessi che si maledicono! Se uno non coltiva, non fa crescere l’amore che c’è in lui, se non diventa maturo e adulto, lui stesso si condanna a morire. E chi è morto non può dare vita. Non è una sentenza del re che li condanna, ma sono essi stessi che si sono autocondannati.
Un’altra cosa, altrettante importante, dobbiamo imparare da questo vangelo: che cioè dobbiamo avere un cuore attento per “vedere” per osservare, per riconoscere. Dobbiamo cioè essere sempre all’erta, vigili:
“Quando mai ti abbiamo visto nudo, affamato, malato...?”.
È così: non ce ne rendiamo conto, ma guardiamo gli altri senza vederli, siamo concentrati su di noi, sulle nostre comodità, siamo troppo distratti: soprattutto quando lo siamo di proposito, quando vogliamo esserlo “scientificamente”.
Quante volte diciamo convinti: “Io no, non faccio così; io non faccio male a nessuno!”. Sarà anche così, ma non basta! Dire una cosa del genere denota una grande superficialità, perché fa... capire che non ci rendiamo conto di quante persone ci siano accanto a noi bisognose di essere ascoltate, di essere capite e rincuorate; persone che hanno bisogno soltanto di un po' d'amore, di comprensione, di condivisione. Allora può darsi anche che “non facciamo del male”, ma sicuramente “non facciamo del bene”. Perché quando uno è troppo preso da sé stesso, dall’egoismo, dall’assillo continuo per il proprio benessere materiale, per l'affermazione della propria persona, è ovvio che non ha più né tempo né voglia di accorgersi delle necessità altrui: è triste ma è così! Solo se abbiamo un cuore libero, aperto, generoso, possiamo accorgerci dei bisognosi, possiamo interessarci dei sofferenti, degli abbandonati. Altrimenti rischiamo di fare come i “condannati” del vangelo: “Dici che non ti abbiamo visto? Ma quando mai! Impossibile! Non eri tu!”. Eppure questo è successo proprio a noi: eccome è successo! E se non cambiamo, continuerà purtroppo a succedere ancora.
Amen.


giovedì 16 novembre 2017

19 Novembre 2017 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,14-30). 

La parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve compiere un lungo viaggio, e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Cosa succede allora?
Ciascuno riceve in consegna un patrimonio che non gli appartiene, che non è suo e sa di doverlo un giorno riconsegnare a chi glielo ha affidato. C’è però in questo affidare, una diversità di trattamento: non tutti ricevono la stessa quantità. Ciascuno, dice il vangelo, riceve secondo le proprie capacità: tutti cioè hanno in consegna talenti diversi perché ognuno è diverso, ma tutti hanno comunque il massimo delle loro possibilità. Ciascuno nella vita ha il suo talento. Il talento sono le possibilità che uno ha, il patrimonio che uno può "incarnare" nella sua vita, che uno ha dentro di sé, il patrimonio che Dio ha riposto nel suo cuore. È un patrimonio enorme fatto di doti, doni, sensibilità, talenti, capacità, emozioni, ideali, amore, fiducia, libertà, voglia di vivere.
La grande domanda che ogni uomo deve pertanto porsi è: “Chi sono io?”, nel senso: “Qual è il mio patrimonio? Quali sono le mie possibilità”. La gente passa tutta la vita a voler essere questo o quello, quell’uomo o quella donna. Vorrebbe avere i soldi di quello, la bellezza di quell’altro, la conoscenza e la brillantezza di quell’altro ancora. Così invece di guardare al “chi sono”, insegue cose che non sono “Lui”, che non gli sono proprie, non sono alla sua portata, e che pertanto sono per lui irraggiungibili.
Una volta stabilita l'entità del nostro talento, del nostro “patrimonio”, della nostra essenza, della nostra peculiarità, è di quello che dobbiamo essere fieri, è con quello e su quello che dobbiamo lavorare.
Spesso invece chi ha un talento, anche prezioso, lo nasconde, lo camuffa, lo gonfia. Perché? Semplice: perché lo confronta con i talenti degli altri. Brutta cosa vivere di confronti! Se ci confrontiamo continuamente con gli altri, è chiaro che non saremo mai contenti di ciò che siamo, di come siamo, di quello che abbiamo. E troveremo sempre che gli altri hanno di più, che sono più fortunati, che sono più privilegiati di noi, che se noi fossimo al loro posto, saremmo sicuramente migliori di loro. E viviamo male. Ma è così solo perché, invece di guardare noi stessi, la nostra realtà, invece di apprezzare quel che abbiamo, invece di ringraziare Dio per quel che ci ha concesso, continuiamo a roderci dentro invidiando quello che hanno gli altri.
Cosa dà il padrone ai tre servi? Dà dei talenti. Il talento non era una moneta corrente ma una unità di misura, e denotava una cifra enorme. Sarebbe come dire una “tonnellata” di euro: non si può girare con una tonnellata di euro, semplicemente perché nessuno potrebbe portarla. Un talento, infatti, corrispondeva più o meno a 60 “mine”, a 6000 “dracme”, a 6000 “denari” (la dracma era parificata infatti ad un denaro, che era la paga giornaliera più alta di un lavoratore). Quindi con un talento, una famiglia, poteva vivere all’incirca 30 anni.
Allora: anche colui che ha ricevuto un talento, ha ricevuto tantissimo, molto più del necessario. Certo, se guardiamo a chi ne ha ricevuti due o cinque, se facciamo il confronto, se ci misuriamo con loro, troveremo sempre che ci manca qualcosa. Ma se invece guardiamo onestamente a noi stessi, alle nostre possibilità, al nostro tenore di vita, troveremo che siamo ricchi, che nuotiamo nell'abbondanza.
La gente non è povera di doti, di “talenti” o vitalità: è che vuole sempre di più, guarda sempre quello che non ha; e quindi invidia i risultati raggiunti dagli altri, quello cioè che gli altri hanno saputo sviluppare con intelligenza, applicazione e sacrificio. La gente vorrebbe avere a basso costo, senza fatica, senza impegno e subito, quello che gli altri hanno invece conquistato nel tempo, con grande applicazione, con grande coraggio, osando e mettendosi completamente in gioco.
Allora: soltanto fissando lo sguardo su noi stessi, su quello che abbiamo, potremo essere soddisfatti e felici. Anche perché nessuno di quei servi è proprietario di ciò che ha. Anche a lui tutto è stato dato in “consegna”: quindi avere più talenti comporta anche maggiori responsabilità, maggior impegno, maggiori preoccupazioni; e neppure un maggiore arricchimento personale, visto che poi dovrà riconsegnare tutto al padrone.
Ma torniamo al vangelo: cosa succede a questo punto? I primi due, quelli dei cinque e dei due talenti, investono il loro patrimonio e lo fanno crescere, lo fanno moltiplicare. Il terzo, invece, fa una buca e vi nasconde dentro il suo unico talento.
La differenza è tutta qui: i primi due vivono, osano, si buttano, rischiano. Il terzo, invece, ha paura e la paura lo blocca.
In pratica questo vangelo ci dice: “Vivete e realizzatevi, moltiplicate i doni che avete ricevuto, ciò che siete, perché i talenti avuti in consegna sono la vostra vita”. Allora, perché non metterla a frutto? Perché non viverla? Perché aspettiamo tanto a scendere in campo, a buttarci nella mischia? Alcune persone passano i loro giorni da “panchinari”: sono presenti, ma non hanno mai il coraggio di entrare in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, un sapore alla loro vita, che la trasformino, che le facciano prendere “colore”, intensità, tono. Scelgono di non scegliere mai: un partner per la vita? il primo che capita; gli amici? quelli che incontrano; gli hobby? gli stessi che praticano tutti; le idee? quelle di tutti. Non si chiedono mai: “Ma io cosa voglio? Cosa mi sta bene? Cosa mi aspetto dalla vita?”. E così sciupano la loro esistenza, guardano indifferenti i giorni scorrere veloci, inutilmente. Hanno la possibilità di viverla, questa loro vita, e invece si lasciano vivere: il carro del tempo passa, ci salgono su, e si lasciano trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo fermi, progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si illudono da soli, perché non sono loro, ma è il tempo che va avanti, che cammina, che passa: loro si lasciano trasportare, vanno semplicemente dove va lui.
Alcune persone, come fa l’uomo del vangelo, nascondono la loro esistenza sottoterra, pensano di essere invisibili, di passare inosservati alla loro vita, e muoiono senza vivere.
Solo la persona che rischia è veramente libera. La vita è il dono più prezioso che Dio ci fa: è una tela grezza, bianca; solo se noi la dipingiamo, solo se la copriremo di colore e di calore, la nostra vita si trasformerà in un dono, in un regalo “nostro” che, grati, potremo restituire, a Dio.
La vita restituisce sempre quello che diamo. Il padrone ritorna, e regola i conti: il risultato dipende da come uno si è comportato con la propria vita. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e ricevono un premio proporzionale a quanto ricavato; e non sono ricompensati perché hanno effettivamente guadagnato, ma perché hanno provato, si son dati da fare, hanno avuto fiducia in loro stessi, hanno osato, si sono lanciati. Il terzo, al contrario, ha avuto paura. La paura lo ha immobilizzato, gli ha impedito di mettersi in gioco. Non voleva essere criticato, non voleva fare errori, non voleva sbagliare, non voleva essere giudicato. Voleva avere tutto sotto controllo, voleva essere sicuro, ma facendo così ha perso ogni possibilità.
Certo, se avesse rischiato, se avesse “vissuto”, avrebbe anche potuto sbagliare e perdere il suo talento, avrebbe potuto esser giudicato o criticato per ciò che faceva o diceva; nessuno gli avrebbe potuto garantire un risultato soddisfacente. Ma se non si rischia si muore: perché è la paura che ci fa morire, non gli imprevisti della vita.
La vita è così: un patrimonio da mettere a frutto, da investire, da far fruttare. La vita, in modi diversi, in momenti diversi, offre a tutti la possibilità di cambiare, di migliorare. Tutti noi abbiamo avuto occasioni che ci hanno portato in tutt’altre direzioni. Tutti noi abbiamo incontrato persone che ci hanno consigliato, che ci hanno prospettato soluzioni valide. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di qua; provaci, ce la puoi fare!”. A tutti noi sarà capitato di vivere una situazione difficile (morte di un figlio, di un amico, di un parente; un momento preoccupante; una sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci ha messi di fronte ad un bivio: cambiare stile di vita, invertire la rotta, vivere diversamente. E noi come abbiamo reagito? Nulla, abbiamo rinviato: ma a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriverà un bel giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”. Sarà troppo tardi. E ognuno raccoglierà ciò che ha seminato. “Hai preferito vivere così? Ti sei cullato sui tuoi sogni? Questo è quanto hai guadagnato!”. Allora sarà inutile protestare, sarà inutile arrabbiarci: perché avremo esattamente ciò che abbiamo voluto. Amen.



giovedì 9 novembre 2017

12 Novembre 2017 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario


«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge…» (Mt 25,1-13).

La parabola di oggi è molto significativa, di facile interpretazione. Anche se, ad una lettura superficiale, il comportamento dei vari protagonisti potrebbe apparirci non del tutto ineccepibile; in pratica farebbero tutti indistintamente una brutta figura: la fa lo sposo perché, giunto alle nozze con un ritardo enorme, respinge quelle vergini che, poverette, a causa della lunga attesa hanno esaurito l’olio della loro lampada, e indispettito le liquida immediatamente: “Non vi conosco!”. Ma perché ricorrere ad una bugia, dal momento che lui stesso le aveva invitate, e quindi le conosceva perfettamente? Tuttavia ciò non le esime dal fare anch’esse una brutta figura, dimostrando di essere delle sprovvedute, delle stupidotte, poco intelligenti, per nulla previdenti. Ma anche le vergini sagge, quelle prudenti, quelle accorte, non sono da meno, non eccellono certo in signorilità, rifiutando sdegnosamente di condividere con le amiche un po’ del loro olio: visto che lo sposo era finalmente arrivato, perché non donarne loro qualche goccia, togliendole dall’imbarazzo? Lo fanno perché sono invidiose, cattive d’animo, oppure perché l’olio che hanno è speciale, strettamente personale, incedibile, per cui anche volendo non possono cederlo? In tal caso si tratterebbe di un olio “particolarissimo”, unico, strettamente personale, al punto che o ce l’hai di tuo, o devi rimanere senza perché nessuno può cedertene del suo. “Andate dai venditori e compratevelo”, è la loro risposta. Ma che risposta è? Perché sono così scostanti? Come possono quelle meschine trovare un venditore d’olio nel cuore della notte? Ma non è una  burla: effettivamente si comportano così perché non hanno altre possibilità, non possono cedere alle altre un “olio” che “non si può” dare, che è incedibile.
Insomma, questa è una parabola in cui nessuno sembra comportarsi in maniera corretta, un racconto che, nella sua chiarezza, suscita anche molti interrogativi.
Ovviamente, per capirla nella sua pienezza, dobbiamo prima di tutto riferirci al significato di questi simbolismi, così lontani da noi, dalla nostra cultura, essendo essi strettamente legati agli usi matrimoniali del mondo ebraico.
Attualizzando comunque il testo, appare chiaro che lo sposo è Gesù e le vergini, sia le prudenti che le stolte, siamo noi. A questo punto viene spontaneo chiederci: perché Gesù risponde in maniera così aspra e tremenda: “Non vi conosco”? Cos’è quest’olio unico, personale, così importante da condizionare l’ingresso alle nozze celesti?
Matteo, parlando delle vergini che si sono dimenticate di prendere l’olio a scorta, le chiama “morai”: un termine che letteralmente significa “matte, pazze, stolte”; oppure, in senso più blando, “sbadate, stupide, sciocche, smemorate”.
E lo fa a ragion veduta: perché giusto uno stupido, un superficiale, avrebbe dimenticato di portare con sé una quantità di olio sufficiente ad alimentare la sua “lampada” per l’intera notte, assicurandosi la luce per l’intera attesa.
Queste vergini “stolte”, queste distratte, imprevidenti, rappresentano pertanto quelle persone che accettano di incontrare lo “Sposo”, ascoltano la parola di Dio, accolgono il suo messaggio, ma poi non sono sufficientemente interessate a metterlo in pratica: lasciano cioè che l’iniziale entusiasmo si spenga nel tempo, diventi lettera morta, preferendo procedere alla cieca nell’oscurità della vita. Sono quelle persone che vivono alla giornata senza angustiarsi di nulla, senza troppi pensieri, senza porsi alcun problema. Non si preoccupano minimamente di ciò che invece è essenziale per dare una risposta illuminata cosciente e mirata alla chiamata di Dio: come per esempio saper ascoltare interiormente la sua voce, coltivare e meditare nel silenzio la sua Parola, garantire salute e pace alla propria anima, esprimere un “grazie” sincero per l’aiuto costante dello Spirito, essere sensibile alle necessità dei fratelli. Vanno avanti come se niente fosse. Salvo poi chiedersi: “Come mai mi è capitato questo? Perché proprio a me? Com’è possibile?”. Pensavano forse di non dover mai rispondere del loro ottuso comportamento? Pensavano forse che non servisse una scorta sufficiente di “olio”, una scorta cioè di opere buone?
Già, ma in cosa consistono concretamente queste “opere buone”? Il Vangelo parla chiaro: ricordate la parabola del buon samaritano? Non sono le preghiere di routine del sacerdote, non i gesti “sacri” del levita, persone che, passando accanto all’uomo ferito, tirano via entrambe ignorando le sue sofferenze e le sue necessità; opere buone sono invece i gesti d’amore del buon samaritano, di colui che oltretutto era considerato un nemico (Lc 10,29-37). Perché solo questo conta davanti a Dio: l’amore, la misericordia, la nostra dedizione per il prossimo. Perché “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46).
Praticare la carità, amare il prossimo, essere ricettivi, dinamici, attivi, aperti alla condivisione: questo significa, in pratica, approvvigionarsi di olio a scorta: in altre parole il nostro spirito di carità, il nostro amore, il nostro voler bene, deve essere concreto, reale, quotidiano, fatto di gesti, di pensieri, di azioni, di sentimenti. Perché è questo l’unico metro di valutazione usato da Dio. Preghiere, riti, meriti, studi, fama, soldi, conoscenze, non servono a nulla se non sono messe a servizio dell’Amore. Gesù lo ha dichiarato apertamente: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli…” (Mt 7,21). Che tradotto in pratica significa: non basta fare belle prediche, disporre di grandi chiese, di grandi cattedrali per andare a messa la domenica; non basta tirare continuamente in ballo il nome di “Dio”, promettergli a parole grandi cose, per essere riconosciuti da Lui. Dio, che è Amore, riconosce solo l’amore che ognuno ha e vive. Il resto non gli interessa. “Non vi conosco”, dice alle vergini sprovviste di olio, di opere buone. Soltanto chi possiede e pratica un amore autentico può disporre della luce sufficiente per “aspettare” lo Sposo, ed entrare con Lui alle nozze, nel Paradiso, nell’Aldilà.
“Non vi conosco”. Ma non è Dio che deve riconoscerci, promuoverci, premiarci. Lui non condanna mai: siamo noi a condannarci, siamo noi gli unici responsabili della nostra eternità, perché quel che otterremo sarà l’ovvia conseguenza del nostro vivere attuale; siamo noi che non ci “riconosciamo” come “invitati”, se abbiamo vissuto sempre nella superficialità, dando la priorità ai piaceri, all’egoismo, alle futili banalità: perché non sappiamo più chi siamo né cosa vogliamo o che sentimento proviamo; non abbiamo più alcun colloquio con noi stessi e con il prossimo e, conseguentemente, saremo noi ad autoescluderci dalla Vita, dalle nozze eterne.
Non è affatto difficile finire in situazioni simili; è molto più facile di quanto non si possa pensare. Anzi è un classico, succede quasi sempre così: crogiolandoci nell’indifferenza, nella superficialità, arriveremo gradualmente ad indurire talmente il nostro cuore, a renderlo così gelido e insensibile, da non essere più in grado di amare, di esprimere alcun sentimento profondo; ci sentiremo, soli, isolati, frastornati: così, quando un pianto salutare vorrebbe liberarci l’anima, sarà costretto a dirci “non ti conosco”; similmente quando la gioia vorrebbe consolarci, anch’essa dovrà dirci “non ti conosco”, perché non saremo più noi, non sapremo più gioire, abbracciare, lasciarci andare; anche l’amore, di fronte all’impossibilità di emozionarci, di innamorarci, dovrà ripeterci “non ti conosco”; e così, via via, la tenerezza, la compassione, la dolcezza: insomma tutti i sentimenti più esaltanti della vita.
Vivere così è un non vivere, perché la distanza che ci divide dall’Amore è troppo grande. Ci siamo quasi spinti oltre il punto di non ritorno: il punto in cui tutto sarà “troppo tardi”; il punto in cui non avremo più tempo a nostra disposizione, non avremo più possibilità di porvi rimedio.
Il messaggio dunque che questa parabola intende oggi trasmetterci è estremamente serio e pressante: “Non lasciare che la tua lampada languisca. Prenditi cura del tuo olio, della tua vita, delle tue opere buone; perché saranno esse la scorta che in quel momento determinerà la luce o le tenebre, la salvezza o la condanna, la beatitudine o la disperazione”.
Facciamo molta attenzione, non sottovalutiamo questo invito, perché la possibilità di cadere improvvisamente nel buio più totale è veramente concreta e reale. Perché dipende da noi. Amen.