giovedì 29 settembre 2016

2 Ottobre 2016 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli apostoli dissero al Signore: Accresci in noi la fede! Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,5-10).

Siamo nel capitolo 17 del vangelo di Luca, e Gesù, lungo il percorso che lo porta a Gerusalemme, continua la sua catechesi itinerante. Il Vangelo di oggi si apre con gli apostoli che rivolgono a Gesù una richiesta accorata: “Signore, aumenta la nostra fede!”.
A che proposito? Come mai avanzano una tale richiesta? Per quale motivo affrontano qui il tema della fede?
Ci sono due spiegazioni logiche a questi interrogativi: la prima vede questo intervento sulla fede strettamente legato ad un contesto più ampio: sarebbe quindi un chiarimento di fatti e parole che lo precedono. La seconda invece pone la richiesta degli apostoli come un pretesto offerto a Gesù per cambiare discorso, per affrontare un nuovo argomento, in questo caso la fede.
In Luca il primo caso non appare subito così evidente e comprensibile. Perlomeno non come in Matteo, in cui il tema della fede è strettamente sequenziale al contesto che lo precede: un uomo ha un figlio epilettico, lo porta da Gesù perché lo guarisca, visto che i suoi discepoli in precedenza non erano riusciti. Gesù lo guarisce e a questo punto i discepoli gli chiedono: “Perché noi non ci siamo riusciti?”. E Gesù: “Per la vostra poca fede!” (Mt 17,14-19). E qui il tema della fede si lega in maniera perfetta e logica: se i discepoli avessero una fede grande anche “quanto un chicco di senape”, quindi in misura infinitesimale, riuscirebbero agevolmente a spostare le montagne.
In Luca, invece, la richiesta degli apostoli di aumentare la loro fede non appare così chiaramente legata al testo che la precede: qui infatti Gesù parla degli “scandali” (Lc 17,1-3), del perdono (Lc 17,3-4) e soprattutto che bisogna perdonare non una, ma “sette volte al giorno”, cioè sempre. Ora, che c’entra l’argomento della fede con lo scandalo e il perdonare? Apparentemente nulla, ma c’entra eccome: la spiegazione? Sta nella impossibilità da parte degli apostoli, umili e ignoranti pescatori, di accettare questa direttiva di Gesù, per loro assolutamente incomprensibile e contraria alla loro cultura: “Come? Perdonare sempre? Dare sempre un’altra possibilità? Dopo un torto, uno scandalo, un insulto così grande, dobbiamo ancora perdonare?”. Ecco, la molla che fa scattare la loro richiesta sta tutta qui: si rendono conto cioè dei loro limiti umani, capiscono che con la loro mentalità non potranno mai, in assoluto, concedere sempre il loro perdono, indipendentemente da tutto: “È troppo per noi, Gesù. Così come siamo ora, non ce la faremo mai; per questo, Signore, aumenta la nostra fede”.
Troviamo però altrettanto valida anche la seconda possibilità: che cioè la richiesta degli apostoli sia un escamotage “lucano” per cambiare argomento, per dare l’opportunità a Gesù di cominciare una nuova catechesi: da dove si capisce? Leggiamo il testo che precede: Gesù “un giorno” (17,1) si mette a spiegare ai discepoli (in greco mathetai), come gli scandali siano inevitabili: è un male che purtroppo esiste da sempre in tutte le comunità: una piaga che neppure Dio può eliminare, per non compromettere il libero arbitrio dell’uomo; tuttavia, pur condannandolo fermamente (“guai a colui che li provoca”), ordina ai suoi di perdonare il peccatore pentito: e non una volta, ma sempre. Punto: termina il v. 4 e l’argomento è chiuso. Inizia il versetto 5 e cambia scena: se prima era stato Gesù, spontaneamente, a voler parlare di scandali e perdono, ora sono gli apostoli, in greco apostoloi, che intervengono con una richiesta ben mirata: “Signore, aumenta la nostra fede”. Sono dunque “altre” persone, più qualificate rispetto alle precedenti, che erano semplici mathetai, “simpatizzanti” (sappiamo infatti che nei vangeli apostoli e discepoli appartengono a due gruppi ben precisi e distinti); si tratta di “collaboratori” di Gesù, che di punto in bianco, costringono Gesù a cambiare argomento.
Comunque sia, quello che preme qui a Luca è di riportare gli insegnamenti di Gesù sulla fede.
Seguiamo la tesi del nesso logico esistente tra il vangelo di oggi e il contesto che lo precede: è chiaro, in quest’ottica, che gli apostoli non si sentono ancora adeguatamente pronti per seguire quelle indicazioni di Gesù, per loro così difficili, innaturali, così “rivoluzionarie”: nel loro cuore avvertono però il bisogno di crescere, di migliorare la loro fede, di aumentarla: “Signore, aumenta la nostra fede”; si rendono conto che hanno ancora molto da imparare, da cambiare, da evolvere. Fanno comunque capire di essere nello stato d’animo ottimale per intraprendere un serio cammino di sequela: così come sono non basta; non si sentono adeguati, vogliono migliorare, progredire, andare sempre più in avanti, verso l’alto. A volte non credono, sono scettici, non arrivano a dare un senso agli insegnamenti del loro Maestro: per questo vogliono una fede “più”, in tutti i sensi.
È la fede, dunque, il loro assillo. Sappiamo che tutti gli interventi salvifici di Gesù sono sempre legati alla fede. Ma noi, che tipo di fede dobbiamo avere? Anche se Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, è chiaro che non è la fede del malato o bisognoso di turno che lo salva, ma è la potenza di Dio. La fede però ne è il presupposto, la condizione essenziale: senza la fede anche la potenza di Dio si annulla. Come mai? Perché “aver fede” significa riconoscere la nostra totale impotenza e, nello stesso tempo, porre ogni nostra fiducia nella potenza del Signore. La fede è il rifiuto di contare su di noi stessi, per contare unicamente su Dio. Questa è la condizione interiore che Egli ritiene indispensabile per esercitare la sua potenza, per donarci la salvezza, il coraggio che ci serve per seguirlo. Ma se la fede è questo, allora è chiaro che non possiamo trovarcela da soli, è chiaro che non possiamo crearcela autonomamente: anche la fede è un dono di Dio. A noi allora non rimane che chiederla umilmente, come giustamente hanno fatto gli apostoli: “Signore aumenta la nostra fede”.
Molte persone, purtroppo, pur avendone bisogno, non sentono affatto il desiderio della fede, non si pongono neppure il problema, la considerano una cosa per donnette ignoranti, di poco conto. Altre invece sono talmente diffidenti da respingere qualunque possibilità di iniziare nuovi percorsi, si bloccano, terrorizzate, all’idea stessa di cambiare, di crescere, di affrontare situazioni che aumenterebbero inevitabilmente le loro responsabilità. Per questo “Signore aumenta la nostra fede” deve essere invece la nostra preghiera quotidiana a Dio.
Alla domanda degli apostoli, Gesù non risponde con un “fate questo”, o “fate quell'altro”; e neppure risponde “Sì”, o “no”. Gesù offre loro semplicemente un criterio per poter stabilire da soli la qualità della loro fede: “Se aveste fede quanto un granello di senape potreste farlo”; cioè, potreste sradicare qualunque ostacolo vi si pari davanti, qualunque blocco mentale, qualunque decisione apparentemente impossibile da superare, come per esempio, questa vostra incapacità di perdonare sempre, di concedere sempre e comunque alle persone un’altra possibilità di riscatto, prima di sentenziare la loro morte spirituale.
Le caratteristiche della nostra fede stanno dunque tutte nella vittoria che essa può conseguire nello scontro titanico, alla Davide e Golia, tra la sua piccolezza, la sua debolezza pari ad un “granello di senape”, e la fermezza, la potenza poderosa di un albero centenario come il gelso. Un confronto tra due poli estremi: in Palestina era infatti proverbiale citare un “granello di senape” per indicare una cosa piccolissima, infinitesimale; oggi diremmo è “un niente”, una cosa insignificante, senza forza. Il gelso, invece, era notoriamente conosciuto come un albero difficilmente sradicabile, per la profondità delle sue robuste e lunghe radici, che gli consentivano di vegetare anche per 600 anni.
Ebbene, cosa vuol dirci in pratica Gesù con tale paragone? Che una cosa piccolissima, inerme, senza forza, è in grado di vincere, di sradicare, di sopraffare una cosa enorme, robusta, inamovibile. È l’assurdo della fede.
Avere fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se non sappiamo come; significa:“qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile, controproducente”.
Non confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede: quanti pregano senza fede anche tra i preti; quante Eucaristie si vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue! E non parliamo di noi “fedeli”: un disastro! La fede non è legata al nostro stare in un posto sacro, in un Santuario piuttosto che in un altro, a Medjugorje piuttosto che nella nostra Parrocchia.
La fede è una disposizione dell’anima, è attenzione a Dio, è fiducia pura in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è percezione netta, convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a meno, di essere protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi. Questo significa avere fede!
La fede in Dio allora non è quello che sappiamo, quello che abbiamo studiato, i trattati di mistica che abbiamo letto; non è la laurea in teologia; ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quello che abbiamo dentro, che sentiamo dentro: in una parola è sentimento, forza, energia, amore, emozioni incondizionate, che regolano la nostra esistenza.
Il contrario della fede è la “fissazione”, è quando cioè siamo irremovibili su una nostra convinzione, su un’idea, e non vogliamo in alcun modo cambiarla: un’altra grave deficienza del nostro essere veri cristiani. Quante persone per esempio sono convinte, sono fissate, che certe espressioni, certe azioni, certi comportamenti siano espressione di fede! Così, certi segni di croce, certe corone del rosario al collo, certe preghiere biascicate in fretta, certe “messe” per i defunti in cui deve essere necessariamente citato il nome della buonanima altrimenti la messa anche se “pagata” non vale, sono autentiche manie, fissazioni appunto, che nulla hanno a che vedere con la fede! In questo caso siamo come il gelso, dalle possenti radici, caparbiamente fissati sulle nostre idee, sulle nostre regole rigide, sui nostri pregiudizi, sui nostri credo indiscutibili: ma così rimaniamo fermi, immobili, impossibilitati a procedere; veramente più nulla ci è possibile.
Il più grande modello di fede presentatoci dai Vangeli? Maria ovviamente. Pensiamoci un istante: era impossibile per lei, umile ragazza di campagna, accettare quello che l’angelo Gabriele le proponeva, di diventare cioè la madre di Dio; cosa che solo a pensarla significava essere eretica: una donna madre di Dio? Subito la pena di morte!; accettare di rimanere incinta, ma non dal suo uomo, Giuseppe? Significava cercarsi almeno la lapidazione. Ma Lei ebbe fede, una fede incrollabile, una fede autentica: “Non so come farò, ma mi fido; avvenga di me quello che tu vuoi; tutto ciò che tu mi dirai, io lo farò”. E così fu.
Ma torniamo al seguito del nostro vangelo: all’insegnamento sulla fede, Luca fa seguire una parabola, una sua esclusiva (Lc 17,7-10). Indirizzata in particolare agli apostoli, agli operai della vigna del Signore e a quanti col battesimo hanno scelto di seguire le sue orme, questa parabola avverte che non ci si può mai fermare sui risultati acquisiti, mai riposarsi pensando di aver lavorato abbastanza. È una piccola parabola che non intende tanto descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di uomini verso Dio: che deve essere nei suoi confronti un comportamento di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Dopo una giornata piena di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono soltanto un servo”.
L’esempio portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili” (Lc 17,10).
Ma cosa vorrà mai dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, reso in italiano con “inutili”, pur essendo evidente che i servi della parabola non sono stati inutili; è una parola di difficile traduzione, un termine che implica un particolare atteggiamento di modestia, tipico di persone “misere”, degli “schiavi”; l’atteggiamento di coloro cioè che lavorano stando al proprio posto con umiltà, senza ostentazione o presunzioni; che sono consapevoli di essere dei servi e che tutto quanto fanno rientra, nella normalità del loro stato: in loro nulla di eclatante, nulla di eccezionale. Sappiamo infatti che servire Dio è per sua stessa natura gratuito, rientra nella logica del dono: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
In particolare questa parabola colpisce una certa mentalità del tempo, che accampava pretese verso Dio: stabilisce cioè che il padrone indiscusso è Dio e che i suoi discepoli sono dei servi, privi di qualunque pretesa. Per alcune persone dell’epoca, invece, le opere buone, la fedeltà alla Legge e alle regole, costituiva un merito, un titolo di credito, che assicurava dei diritti nei confronti di Dio. Era un “do ut des”, uno scambio: “Sono bravo, ubbidiente, non faccio nulla di male, e quindi merito il paradiso, merito di essere amato da te, è un mio diritto, perché mi comporto da bravo cristiano!”.
È un rischio sempre presente anche ai nostri giorni. Soprattutto quando preghiamo: abbiamo fatto delle donazioni, delle offerte, siamo stati sempre caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, abbiamo frequentato la Chiesa, abbiamo assistito a liturgie particolari e impegnative? sono tutte cose che non ci danno alcun diritto di pretendere da Dio questo o quello, di chiedere grazie e benefici, come di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, di stabilire la pace nel mondo, ecc.”; quando preghiamo dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare con Dio, a non aver la presunzione di “comprarlo”, vantando in contropartita eventuali nostre opere “meritorie”.
Quando preghiamo Dio, lo dobbiamo pregare per ringraziarlo di quanto ha fatto e continua a fare per noi, per assicurargli il nostro amore, per donargli la nostra vita. Lo dobbiamo pregare perché ci dia la forza di affrontare ciò che, nella nostra debolezza, dobbiamo affrontare; la forza di fare le nostre scelte, di prenderci le nostre responsabilità, di accettare i limiti imposti dalla vita, ecc.
La preghiera non è uno scambio: “io ti prego un tanto e tu mi devi dare altrettanto”. Dio sa bene ciò di cui abbiamo bisogno: lasciamo decidere a Lui cosa, come e quando darcela; non pretendiamo di insegnarli come deve fare il mestiere di Dio!
Quante volte ci capita di sentire gente che mormora: “Sono arrabbiato con Dio, perché nonostante tutte le preghiere che gli ho rivolto non mi ha esaudito!”. Ed ha fatto bene! Dio non è questo, la preghiera non serve a questo. La preghiera non è il nostro strumento per “convincere” Dio a darci quello che ci interessa. La preghiera non serve per fare i “furbi” con Dio, per cercare di “raggirarlo”. La preghiera serve solo per convertire il nostro cuore, la nostra anima, per diventare più docili alla Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10). Amen.


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