venerdì 15 aprile 2016

17 Aprile 2016 – IV Domenica di Pasqua

«In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano». (Gv 10,27-30)

Il Vangelo di oggi contiene i quattro versetti finali del discorso detto del “Buon Pastore”, incluso da Giovanni nelle catechesi di Gesù, fatte durante la sua permanenza a Gerusalemme.
In quelle poche parole è racchiusa tutta la personale e coraggiosa convinzione dei primi cristiani di fronte a persecuzioni, lotte, conflitti, maldicenze e difficoltà: chi ascolta e segue il Signore non deve temere nulla, perché nessuno può rapirlo, nessuno può strapparlo dalla sua Mano. Per questo motivo essi seguivano fiduciosi e impavidi le orme di Gesù: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e mi seguono”.
Proiettiamo come al solito il senso di queste parole sulla nostra vita contemporanea.
Dobbiamo constatare prima di tutto che la maggior parte delle persone di oggi scambia l’ascoltare con l’udire. Udire è un fatto fisiologico, sensoriale, è percepire un suono, un rumore. Ascoltare, invece, appartiene alla sfera psichica, implica un atto consapevole della nostra volontà che provoca in noi una determinata reazione psico-motoria, significa sentire, seguire, fare proprio ciò che udiamo, rendendoci conto delle conseguenze che esso provoca in noi e attorno a noi. Ascoltare è coinvolgere tutta la nostra persona. Udire invece ci lascia indifferenti: noi infatti possiamo tranquillamente udire, senza per questo ascoltare.
A livello fisiologico l’orecchio è il responsabile del nostro orientamento spaziale, della coordinazione dei movimenti di una persona. È l’organo dell’equilibrio, del verticalizzarsi.
Nell’orecchio c’è tutto l’uomo. Il bambino nel grembo materno ascolta, sente: se non riceve vibrazioni affettive attraverso il tono della voce materna, rischia di restare emotivamente disturbato per il resto della vita.
Come uno ascolta, così parlerà. Come uno ascolta, così camminerà, canterà, agirà. Da come uno parla, ma ancor di più da come uno ascolta, noi capiamo chi abbiamo davanti.
Non si può diventare adulti, maturi, consapevoli, senza la capacità di ascoltare se stessi e gli altri. Da come ascoltiamo noi ci evolviamo. Quello che ascoltiamo ci costruisce. Perché il nostro orecchio è lo strumento con cui costruiamo il nostro cuore e la nostra anima.
Come la bocca ci fa crescere materialmente, permettendoci di introdurre attraverso di lei il cibo, così l’orecchio ci fa crescere intellettualmente, permettendoci di introdurre, attraverso di lui, l’ascolto. È l’organo che ci fa imparare, perché introduce dall’esterno ciò che non abbiamo in noi.
Abbiamo due orecchie e una bocca perché dovremmo ascoltare molto di più e parlare molto di meno. Abbiamo due orecchie e una bocca perché abbiamo bisogno almeno del doppio di cibo dell’anima, spirituale, rispetto al cibo fisico, materiale. Se vogliamo imparare, non abbiamo alternative: ascoltiamo! Non a caso si dice che la fede nasce dall’ascolto: dall’ascolto, non dall’aver udito tante parole buone!
Una delle espressione più usate nella Bibbia è: “Hanno orecchi per udire, ma non odono” (Ez 12,2). Ogni giorno udiamo migliaia e migliaia di parole, ma quante ne ascoltiamo?
In realtà oggi sono rari quelli che “ascoltano”. Se ascoltassimo di più noi stessi, potremmo scoprire che nel nostro intimo noi conserviamo una enorme quantità di suoni, di voci, di personaggi, tutti in attesa di essere individuati, esaminati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più potremmo evitare di cercare altrove quelle risposte agli interrogativi della vita che potremmo invece trovare dentro di noi. È chiaro che per noi è più comodo e meno impegnativo trovare qualcuno che ci dia delle risposte: chiedere pareri non costa nulla! Ma in questo modo le risposte che riceviamo sono estranee a noi, sono di “altri”, vengono dall’esterno, sono “diverse”; le domande invece sono le nostre, sono parte di noi, sono noi, sono la nostra vita. Vogliamo un suggerimento, un incoraggiamento a fare qualcosa? Cerchiamolo prima di tutto dentro di noi, nel silenzio della nostra anima! Se ci ascoltassimo di più e più attentamente, potremmo renderci conto di quanto il silenzio parli; a volte grida pure, in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è tanto quella che ci fa comodo immaginare, ma è quella che viviamo, quella che abbiamo davanti, quella che si aspetta il nostro concreto coinvolgimento.
Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così assurda; sentiremmo più nettamente le esigenze dell’anima, i richiami del profondo, i richiami del nostro cuore.
Se sapessimo ascoltarci bene, capiremmo anche l’importanza della Parola di Dio, la profondità e la forza del vangelo; sentiremmo l’energia e la potenza vulcanica delle Sue parole.
Noi invece udiamo tutto, voci infinite che entrano e che escono, ma non ascoltiamo nulla: non tratteniamo nulla, non percepiamo alcuna vibrazione; sono soltanto voci che non possono attecchire e mettere radici in noi. Siamo chiusi. E più siamo chiusi, meno ci ascoltiamo, e sempre meno riusciamo a comprendere la vita, gli eventi che ci circondano.
In compenso parliamo; parliamo troppo, e troppo spesso a sproposito, tranciamo giudizi affrettati su persone e avvenimenti, senza comprenderne la portata, il valore: il nostro è un “vaniloquio” torrenziale, un parlare meccanico e vuoto, un parlare solo perché abbiamo una bocca.
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (10,27).
“Conoscere” per noi significa sapere chi è uno, dove abita, quanti anni ha e cosa fa nella vita. Ma che conoscenza è questa? È una conoscenza di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d’identità. Per la Bibbia, invece, “conoscere” significa “fare esperienza, incontrare, sentire, comprendere, percepire”.
Molte persone credono di conoscersi, ma la loro conoscenza si ferma solo ad un livello mentale. Per conoscersi, invece, dobbiamo percepire il nostro essere interiore, dobbiamo sentirlo, ascoltarlo, sperimentarlo, dobbiamo sentire le sue vibrazioni, la sua vita palpitante. Dobbiamo avvertire la sua potenza, la sua forza. Solo se ci lasciamo coinvolgere e penetrare da Colui che ci inabita, potremo cambiare. Perché qualunque cambiamento proviene sempre da una vera e autentica conoscenza.
“Io do loro la vita eterna e non periranno mai; nessuno le strapperà (“arpàzein”) dalla mia mano (10,28). Se noi seguiamo il “buon Pastore, nessuno mai potrà strapparci da lui. Il verbo greco “arpazo”, vuol dire esattamente rapire, strappare via, prendere, rubare.
Nella nostra vita siamo tutti presi dalla paura di venire strappati via da qualcuno, da qualcosa che ci appartiene: paura di perdere la nostra vita e quella dei nostri cari, paura di rimanere vittime di incidenti stradali, paura di rimanere in balia di attentatori, di ladri, di rapinatori, paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, i soldi… La paura, l’ansia, è la nostra compagna di viaggio.
A guardar bene, però, perché aver paura che ci venga rapinato, strappato di dosso, un qualcosa che in fondo non è nostro, non ci appartiene? Cosa abbiamo infatti di veramente “nostro” in questa vita? Di chi e di che cosa possiamo veramente dire: “è mio”? Di nulla: perché tutto ciò di cui disponiamo, tutto ciò che conquistiamo, lo abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: nudi di tutto siamo entrati in questo mondo e nudi di tutto ce ne andremo. Verrà un giorno in cui dovremo lasciare tutto quello che pensavamo fosse “nostro”. È la fine di questa vita, è la morte. E questa prospettiva ci disturba, ci turba non poco.
In effetti Dio non vuole la morte dell’uomo, così, per principio, per un suo puntiglio personale: la morte in questo mondo l’abbiamo introdotta noi col peccato, e Dio l’ha lasciata per un motivo pratico: perché ci ricordasse continuamente, perché da lei imparassimo concretamente, che l’unica certezza nella nostra vita è Lui, solo Lui.
Ci piaccia o no, verrà un giorno in cui dovremo lasciare tutto, dovremo abbandonare famiglia, parenti, amici; verrà un giorno in cui non potremo più contare su di noi, sulle nostre forze, sul nostro prestigio, sulle nostre ricchezze; verrà un giorno in cui potremo solo stendere le nostre mani per afferrare le mani che Egli ci tende: “Signore, non ho più nulla, ho solo Te. Mi fido di Te e mi lascio andare”.
Ecco allora che seguire Gesù in questa vita significa liberarci dall’illusione di possedere o trattenere qualcosa di nostro: perché la vita stessa non è nostra. Nulla mai potrà essere nostro, ma il dato consolante è che noi siamo di Dio. “Io sono di Dio; mi sento nel palmo della Sua mano, soltanto lì mi sento al sicuro, lì nulla può farmi più paura. Soltanto se viviamo con Lui e in Lui, possiamo vivere serenamente.
Infatti, chi ha paura di vivere è perché ha paura di morire e chi ha paura di morire ha paura di “perdere” qualcosa. Chi ha paura di vivere è perché non conosce ancora Dio e non ha ancora capito chi è Lui, e cosa rappresenta per noi. Noi siamo Suoi e con Lui non abbiamo nulla da perdere, perché niente e nessuno può strapparci dal Suo abbraccio. Amen.


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