giovedì 28 agosto 2014

31 Agosto 2014 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt 16,21-27).
Gesù oggi, per la prima volta, annuncia la sua morte. Egli vuole cambiare il mondo, vuole cambiare la religione del suo tempo, vuole fare un mondo nuovo: ma per fare questo deve andare a Gerusalemme, centro del mondo; egli deve andare là, anche se conosce perfettamente la situazione: egli sa che dovrà operare in un clima molto diverso rispetto a quello della Galilea, regione attuale della sua predicazione. Gesù sa che a Gerusalemme il potere religioso è in mano a scribi e farisei, e per loro Lui è un sovversivo, un anarchico, un trasgressivo, uno che deve essere eliminato ad ogni costo.
Così, quando Gesù paventa la possibilità di uno scontro frontale decisivo, duro, mortale, Pietro reagisce e con la sua solita irruenza gli grida: “Questo non ti accadrà mai!”.
E qui scade il Pietro “beato” di domenica scorsa. Come mai? Guardiamo meglio: Gesù sta andando nella sua direzione, a Gerusalemme. Deve compiere la sua missione: e Pietro che fa? lo “trae in disparte”, lo distoglie, cerca di tirarlo fuori dalla sua strada, lo “tenta”; gli dice: “No, non fare così!”. E glielo dice con forza, con rabbia, gridando, come si fa quando si rimprovera uno che sbaglia e che non vuol capire il proprio errore: il verbo “epi-timao” significa proprio questo.
Praticamente Pietro gli si para davanti, lo affronta, vuol decidere lui la sua vita, vuol dirgli cosa deve o non deve fare, e gli grida: “Tu Gesù non capisci, ti sbagli, non puoi fare così!”. E Gesù: “No, amico, tu sei satana. Vai indietro e non ti permettere di intralciare la mia strada”. E in questo momento Pietro è satana.
Gesù si serve qui della stessa espressione: “Vattene, satana” che usa col tentatore, col diavolo nel deserto (Mt 4,10). E quel Pietro che era il discepolo guida, che era il “beato, perché ispirato dal Padre”, ora improvvisamente qui è il demonio. Pietro qui è il diavolo, satana, il tentatore.
Esattamente come siamo noi quando ci ostiniamo, ci mettiamo contro, ostacoliamo, resistiamo al piano di Dio.
Satana nella Bibbia non è mai nemico di Dio ma degli uomini. È un ostacolo forte nella strada che conduce a Dio: “satana” (l’avversario), oppure il “diavolo” (colui che divide), è un’entità che separa, che spezza, che sconquassa l’uomo: ma non è un’entità separata dall’uomo, autonoma, divisa da noi; non è un’entità altra da noi. Satana, il diavolo, è in noi, siamo noi stessi, sono una nostra proiezione, la nostra longa manus!
Certo, il male c’è, la perversione e il diabolico esistono! Sarebbe sciocco negarlo: ma sono realtà che non nascono spontaneamente, di loro iniziativa, autonomamente: esistono perché noi li vogliamo; sono il prodotto del nostro cuore, di quando non ci evolviamo nell’Amore divino; di quando cioè nel nostro cuore non lasciamo spazio a Dio, e veniamo dominati dal buio, dalle tenebre, dall’ignoto; di quando i nostri impulsi prendono il sopravvento; di quando la rabbia e l’odio ristagnano nell’anima e ci dominano. Certo, è più semplice per noi pensare all’esistenza di una entità esterna, personalizzata, chiamata “demonio”, su cui scaricare la colpa di tutto ciò che ci capita di male, di tutto quello che non capiamo, di quello che nella nostra vita non riusciamo a spiegarci: sarebbe molto più comodo, piuttosto che accettare la realtà che tutti noi, e solo noi, possiamo essere “satana”, gli artefici del male.
Pietro, per esempio, nel momento in cui oggi si rivolge a Gesù, fa la parte di satana: è lo stesso, identico demonio con cui Gesù si è confrontato nelle tentazioni dopo il battesimo. Lì il demonio, con la sua voce interiore, cercava di distrarlo dalla sua missione; qui il demonio, con la voce di Pietro, fa esattamente la stessa cosa.
Dopo la lavata di testa a Pietro, Gesù prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Un invito perentorio, le cui parole cruciali meritano di essere approfondite.
Prima di tutto c’è quel “rinneghi se stesso”; letteralmente: “dica di no a se stesso”. Un’espressione che in passato ha fatto pensare che per raggiungere la perfezione fosse indispensabile rinnegare se stessi, perdere se stessi, ignorarsi; spendersi, esaurirsi completamente per gli altri, piuttosto che coltivare in noi quel seme personalissimo di vita che Dio ha posto in noi: per cui esaudire, ascoltare i bisogni del proprio cuore, appagare i propri desideri, cercare di realizzare i propri sogni, era considerato peccato, un fatto negativo, in contrasto con la fedele sequela di Cristo.
Ebbene, niente di tutto ciò: quel rinnegare, quel dire no, va riferito a satana che è in noi, significa, in altre parole, dire “no” a quanto ci divide, ci allontana da Dio; dire “no” a qualunque cosa ci è d’inciampo sulla strada che abbiamo scelto per seguirlo. E con quanti “no” dobbiamo fare i conti! Con quanti “no” abbiamo dovuto e dobbiamo rispondere ai suggerimenti, alle lusinghe, alle tentazioni del nostro io-satana che ci tormenta in continuazione!
Questa è la nostra croce: la croce- come dice Gesù – che ognuno deve prendere su di sé. Sì, perché tutti, indistintamente, abbiamo la nostra croce, nessuno escluso.
Gesù ha avuto la sua di croce, noi abbiamo la nostra. Ma la vera croce di Gesù non è stato tanto il suo patibolo, la morte in croce: questo è stato il modo finale, la “forma” esteriore, gloriosa, di accettarla: ma la sua vera croce, quella che lui ha coraggiosamente portato, è stata quella di essere, lui Dio, fedele alla sua umanità, a se stesso, alla sua missione di uomo-Dio; l’essere cioè fedele al volere del Padre, al Dio che era in lui (Padre, sia fatta la tua volontà).
E questa è anche la nostra vera croce: l’essere anche noi fedeli al Dio che abbiamo dentro: l’essere fedeli sempre, senza ricorrere a stupidi compromessi; questa è la nostra vera “croce”, una croce pesantissima, in quanto causa di scontri, opposizioni, rifiuto, odio. Ci saranno giorni in cui le nostre scelte, non allineate con le ideologie di massa, ci esporranno alla disapprovazione, allo scherno, creeranno intorno a noi commiserazione, risentimento, odio.
La nostra croce, insomma, come per Gesù, è seguire la volontà del Padre, andare fino in fondo alla nostra vocazione, alla nostra strada, a ciò che Dio-Vita ci chiede singolarmente di vivere. Significa non sottrarci alle possibili contrarietà, non ascoltare la voce della paura e del compromesso.
Poi Gesù dice: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La vita non può essere conservata! Non si può rimanere sempre giovani! Non si può vivere per sempre! Non ci si può garantire contro ogni imprevisto! Non esiste un’assicurazione-vita che ci preservi da ogni malanno o contrarietà! Chi vive così, non vive, perché tutta la sua vita è concentrato a conservare qualcosa, invece che mettere a frutto e sviluppare questo qualcosa.
Prima o poi la vita finirà per tutti! È illusione pensare di conservarla! Allora spendiamola, giocamola, investiamola per qualcosa di elevato, di nobile, di meritorio, per qualcosa che sia utile, che sia significativo. Solo così sentiremo che la nostra esistenza ha un senso. Il “suo” senso. Ha prodotto cioè quei frutti per cui ci era stata donata. Altrimenti abbiamo fallito: la nostra vita è stata una vita insulsa, banale, sprecata.
Ironicamente Gesù commenta: “Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”. Questo è il punto. Ci sono persone che spendono la propria vita per conquistare l’intero mondo, e ci riescono anche, ma non sono felici, non possono esserlo. Perché ciò che dà vera felicità è la Vita della propria anima. Se l’anima (la parte di noi interna, spirituale, divina) vive, si sviluppa, cresce, dà frutto, allora noi viviamo in pace con tutti, siamo soddisfatti, felici, sereni; altrimenti no. Possiamo infatti dare tutto ai nostri figli, ma se non offriamo loro la nostra anima, la comprensione, la presenza costante, la tenerezza, l’amore, li perdiamo comunque in partenza. Possiamo avere la più elegante e ricca casa del mondo, ma se nella nostra famiglia non c’è comunicazione, non c’è scambio di sentimenti, intensità, coinvolgimento, amore, a che ci serve una reggia faraonica? La nostra persona può godere di fama, prestigio, considerazione, onori, agli occhi degli altri; possiamo essere rispettati, acclamati, apprezzati da tutti, ma se dentro la nostra anima ci sentiamo vuoti, senza valore, falliti, depressi, a che ci serve la gloria? Possiamo avere un sacco di soldi, possiamo permetterci cose grandiose, ma se non sentiamo, se non percepiamo la vitalità, l’ebbrezza, la gioia che viene da un’anima fedele a Dio, riconosciamolo, a che ci serve tutto il resto?
E Gesù conclude: “Poiché il Figlio dell’uomo verrà e renderà a ciascuno secondo le sue azioni”. Alla fine della nostra vita raccoglieremo i frutti che abbiamo seminato. La vita è onesta, leale: ci restituisce sempre quello che le chiediamo: se le chiediamo chiasso, frastuono, spensieratezza, delirio di onnipotenza, poi non chiediamoci perché siamo così ansiosi, stralunati, pieni di nevrosi; una esistenza proiettata esclusivamente all’esterno, non può amare il silenzio, la tranquillità, la quiete indispensabili per poter parlare con la nostra anima, ascoltare la sua voce. Se non preghiamo mai e non coltiviamo mai i sentimenti del nostro cuore, non chiediamoci perché ci sentiamo così aridi, così inutili. Se non ci diamo tempo e spazio per stare con i nostri cari, con i nostri figli, se li ignoriamo, se non li ascoltiamo, se non comunichiamo interiormente con loro, non chiediamoci poi perché li sentiamo così lontani, indifferenti, duri e ribelli. Se siamo chiusi nella nostra mentalità, se non cambiamo mai, se rimaniamo bloccati nelle nostre posizioni, se non ci rinnoviamo aprendoci allo Spirito, non chiediamoci poi perché non capiamo più il mondo, perché ci sentiamo “fuori”, perché ci sentiamo vecchi o fuori posto. Il vero problema, in definitiva, è uno solo: dobbiamo affrontare i nostri demoni interiori, le nostre paure, dobbiamo saper rispondere a tono al nostro satana, dobbiamo puntare i piedi e gridare i nostri “no”: altrimenti è inutile poi, alla resa dei conti, piagnucolare “Signore, Signore”, tendendogli le nostre mani sporche e vuote. Sì, la misericordia divina è senza limiti, il cuore di Dio trabocca d’amore, ma non vi sembra un po’ troppo illusorio e pretenzioso contare unicamente sulla bontà divina, buttando alle spalle qualunque richiamo della nostra coscienza, ora che abbiamo ancora il tempo di operare? Non vale forse la pena di ascoltarla quella voce di Dio, per sapere almeno riconoscerla quel giorno in cui ci chiamerà? Pensiamoci. Amen.

giovedì 21 agosto 2014

24 Agosto 2014 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Disse loro: Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-20).
I discepoli che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui, hanno potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita, ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tanta gente cambiare vita, perché egli era seguito e amato dalle folle; hanno ascoltato da lui parole forti, vive, parole che svegliano il cuore, che fanno venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di amare, di donarsi, di slanciarsi nella vita.
Nonostante ciò, nel loro intimo, non riescono a staccarsi dai loro vecchi schemi: sono ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto certamente degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli smussamenti, delle variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette di fronte ad una prova, fa loro una domanda a bruciapelo, per vedere cos’hanno capito di lui: “Va bene: questo è quello che gli altri pensano di me: Ma voi chi dite che io sia?”. A questo punto l’imbarazzo, la risposta è desolante, la loro confusione è totale: ciascuno pensa qualcosa di diverso, c’è un guazzabuglio di idee; nessuno, in ogni caso, coglie esattamente chi è Gesù.
Gli apostoli non vedono Gesù per quello che è; lo vedono secondo i loro “vecchi schemi”: come tutti, vedono in lui un profeta, un personaggio importante della Bibbia. Sono bei paragoni, ma Gesù non è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto Gesù è completamente diverso da tutti, da tutti quelli venuti prima e che verranno dopo. Gesù non è uno dei tanti profeti: Gesù è il Profeta, è il figlio di Dio. E questo essi non l’hanno capito.
Non è come Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva insistentemente una totale conversione di vita, obbligando chi voleva battezzarsi ad una vita di penitenza e opere di misericordia. Gesù al contrario non impone mai nulla, a nessuno. La sua è una “proposta” di vita: chi vuole la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la vitalità che trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde. Nessuna costrizione!
Non è come Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo, duro, rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una verità, una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li ha sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha “bruciato” cento uomini (2Re 1,9-12) solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”. Gesù non può assolutamente essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero voluto in qualche modo così. Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che sistemasse le cose sia dal punto di vista religioso che sociale, con o senza la forza, una volta per tutte. Ma Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopruso in Lui.
Gli apostoli insomma vedevano in Gesù quel particolare personaggio che ciascuno in cuor suo sognava, quel “profeta” che ammirava, ma non vedevano Gesù.
Gesù non è profeta secondo il modello del tempo. Gesù è profeta perché mostra il Padre.
L’autorità religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era uno da temere, da tenersi buono, perché non si sa mai, magari ci manda all’inferno! La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il proprio cuore. Anzi: era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo voleva dire sentire in maniera diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire.
Il Dio di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi. Dio non sa che farsene di esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello, senza un pensiero autonomo, libero e personale.
Del resto obbedire (dal latino ab-audire) significa letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è eseguire ciò che uno vuole, ciò che ci comanda, perché questa è schiavitù; obbedire, in senso stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro (Dio); obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi; obbedire è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire agli altri (e non a Lui) è farlo morire, lasciarlo sepolto.
Obbedire insomma vuol dire ascoltare il nostro cuore e rimanergli fedele, ascoltare Dio e non tradirlo; anche se sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla situazione, seguire la corrente evitando conflitti e contrasti a volte dolorosi.
Sicuramente gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il silenzio che ne segue è perché proprio non lo sanno chi Egli sia veramente, non l’hanno ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro: “No, tu non sei un profeta, non sei un sacerdote così. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16).
In realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt 14,33): è che non avevano capito cosa volesse dire “Figlio di Dio”. La novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta identificativa; quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio; “Tu sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e porta alla vita”.
E Gesù gli dice: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”. Perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”?
Giona è stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la conversione, lui era andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene, Pietro è come Giona (“bar”, suo figlio), sanguigno, testardo come lui; anch’egli andrà contro il Signore, lo rinnegherà, ma alla fine si convertirà.
E Gesù conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha insegnate o te le ha ordinate (carne e sangue). Queste cose le cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima che pulsa, solo se Dio può parlare liberamente dentro di te (“te l’hanno rivelato il Padre mio che è nei cieli”). Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro di sé, lo può conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e non possono sapere”.
Solo su questa pietra, pertanto, solo su questa certezza (che Lui è il Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla. Essa è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. Regno dei cieli, nel vangelo, non significa tanto un regno dell’al di là, ma una vita dove Dio vive e si fa vedere, dove si rende visibile.
La chiave della vera Vita (il Regno di Dio), è allora far uscire, sprigionare tutta la vita, l’energia, la forza, che abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è lode a Dio, una vita vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. È in questo modo che i legami di vita, intrecciati sulla terra, rimarranno vivi per sempre; poiché la vita di ora, liberata, sciolta dalle catene di morte, sublimata, rimarrà viva e libera nell’Amore per sempre.
Le relazioni quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo, incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, ma non l’amore. “A-more” (alfa privativo e mors, mortis) vuol dire infatti “non-morte”. Se la nostra vita è stata Amore, vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre, saremo per sempre uniti con chi abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà nient’altro che la forza di attrazione dell’Amore: ecco perché non dobbiamo temere di perdere le persone amate, perché è nell’amore che rimarranno per sempre parte di noi, indissolubilmente legati a noi. Vivere l’amore è vivere Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci fa vivere in eterno.
Gli apostoli, una volta liberi dai loro schemi religiosi, capiscono finalmente chi è Gesù; e andranno per il mondo a predicare e testimoniare esattamente questo: “Lui ci fa vivere! Lui è la Vita! Lui è vivo!”.
E concludo: nella vita non dobbiamo mai perdere di vista Dio-Amore: deve essere Lui il nostro vero obiettivo, Colui che merita tutta la nostra attenzione, i nostri interessi. Il nostro vivere da cristiani, le nostre preghiere, la nostra messa domenicale, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a Lui: anche se efficaci e fondamentali, rimangono pur sempre dei mezzi; e se questi mezzi non ci fanno vivere, se non riescono ad andare oltre i semplici “riti”, se non riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente inutili. Non servono a nulla!
Così quando entriamo in chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per fare intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per consentire alla Vita di scorrere più forte e più viva dentro di noi; perché è lì, ascoltando le sue parole, pregando e parlando con Lui, che riusciremo a scoprire nuovi spazi di vita per noi e per il mondo. Perché, in questo modo, una volta usciti, ci sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare la vita: è qui fuori, infatti, nel mondo, nella società e non in chiesa, che siamo chiamati a tradurre l’Amore in gesti concreti a beneficio dei fratelli. Dio è Vita e Amore: ed Egli vive ed è presente esattamente dove noi esprimiamo Vita e Amore. Amen.

venerdì 15 agosto 2014

17 Agosto 2014 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,21-28).
Dopo l’attraversata del lago di Genezareth, Gesù si sposta in territorio pagano: Tiro e Sidone costituiscono infatti la “regione pagana” per eccellenza, e Gesù si porta in quei luoghi affinché anche i non circoncisi (cioè i non ebrei) si sentano invitati alla tavola del suo regno.
Ed è là che incontra una donna ellenica, una Cananea: gli ellenici erano la classe al potere; e anche se i Giudei li consideravano gente inferiore, in realtà erano superiori ad essi in ricchezza e benessere. Gesù quindi, dando retta ad una non-ebrea, ascoltandola e curandola, ha voluto dimostrare di essere il medico indistintamente di tutti ed è venuto per tutti, ebrei e non ebrei.
La donna dunque si rivolge a Gesù: “Mia figlia è tormentata crudelmente da un demonio”. Un approccio iniziale piuttosto perentorio, che implica una soluzione immediata da parte sua. Per questo Gesù finge di non sentirla, non le rivolge parola! Anzi di fronte alla sua richiesta si mostra indifferente, quasi crudele. In pratica le dice: “Non mi interessi; non è un problema mio! Non mi seccare!”. Un atteggiamento, quello di Gesù, che a prima vista potrebbe sembrare negativo: non ce lo saremmo aspettato, non risponde all’immagine che ci siamo fatti di lui (sempre buono, disponibile, solerte guaritore di tutti, ecc.).
La risposta di Gesù, secca e rifiutante, va però letta più in profondità: egli vuole, cioè, indicarci una delle regole comportamentali che dobbiamo sempre adottare nel nostro relazionarci col Padre: l’umiltà. Le parole della donna infatti lasciano supporre in lei la pretesa di un immediato intervento risolutore di Gesù: “se è coerente con la sua normale prassi di guarire indistintamente tutti i bisognosi, egli “deve” farlo anche nel mio caso; pretenderlo è un mio diritto”.
Niente di più sbagliato: nessun diritto da vantare, nessuna pretesa, devono insinuarsi nella mente di chi si accinge a rivolgere a Dio una preghiera, una richiesta di aiuto. Questo ci sottolinea Gesù; e questo egli sembra dire alla donna: “Guarda che le cose non stanno come tu pensi; non è questo il modo di comportarsi: Io non sono qui per obbedire ai tuoi ordini!”.
Andando poi ancor più in profondità nella nostra lettura, possiamo ricavare altre considerazioni interessanti: per esempio, la donna va da Gesù per chiedere la guarigione della figlia; ma forse è un controsenso, perché l’ammalata sembra essere più lei che la figlia; è lei che Gesù deve guarire, perché è lei che deve cambiare il suo atteggiamento “malato” nei confronti della figlia.
Gesù infatti, con la sua indifferenza, sembra confermarle esattamente ciò: “Tua figlia non è posseduta dai demoni come tu sostieni: se tua figlia è ammalata è perché fra te e lei c’è un problema di relazione. Sei tu che devi lavorare e guarire a questo proposito; non pretendere da me una soluzione magica”. E per scuoterla, Gesù arriva addirittura a offenderla: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”; in altre parole: “Tu sei un cane e niente pane ai cani!”. Anche qui i soliti benpensanti vedono una grave offesa di Gesù, che paragona ad un “cane” una donna che dimostra un grande carico di sofferenza, di dolore, di dramma, di disperazione.
Ma invece di scandalizzarci, dobbiamo chiederci: perché Gesù è così rigido, duro, “cattivo”, spietato? È proprio necessario? Ebbene sì; in certe situazioni, bisogna essere tremendamente “ruvidi”, poiché le semplici esortazioni non servono a nulla. San Benedetto raccomanda all’Abate: “percute filium tuum virga, et liberabis animam eius a perditione! – picchia tuo figlio col bastone e gli salverai l’anima(Regula). In certe casi la situazione è talmente radicata, fossilizzata, sclerotizzata che solo un violento strattone può cambiare qualcosa. In certi casi il costo del cambiamento è così alto e difficile da sostenere, la verità da vedere è così sconvolgente, che non si può andare “con le buone”, poiché per affrontare certe verità bisogna essere profondamente scossi e motivati.
Se di fronte a gravi inadempienze non reagiamo positivamente, se rimaniamo indifferenti e buoni solo perché abbiamo paura di ferire l’altro oppure perché temiamo di perdere il suo amore, allora la nostra non è “bontà”, ma solo paura, indecisione, incapacità di educare. Se amiamo veramente, sapremo affrontare per amore anche quelle situazioni più scabrose, che magari portano a conseguenze che non vorremmo ci succedessero mai.
Per sua fortuna la donna cananea capisce il comportamento di Gesù: non si ferma al “no”, né alla durezza della sua risposta. Avrebbe potuto dire: “Beh, se mi rispondi così, vuol dire che non sei il maestro generoso che tutti osannano. Un maestro caritatevole non risponderebbe così, non si permetterebbe mai di trattare i bisognosi in questo modo”. Lei insomma non fa l’offesa, capisce la lezione; e questo la salva: “È vero Signore, il pane dei figli non va gettato ai cagnolini, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Improvvisamente la sua presunzione cade: lei è pagana, ricca, ha cibo e pane in abbondanza, contrariamente ai Giudei che soffrono la fame; essi però dispongono di un “altro” pane, hanno la Salvezza, hanno Gesù dalla loro; e lei, ricca, no. Per questo anche lei, come un cagnolino, aspira ad avere da Gesù almeno le briciole, di poter anche lei aspirare alla salvezza, esattamente come loro. Lei soffre per la mancanza “di questo pane”; è una necessità che finalmente la pone allo stesso umile livello di tanti altri “affamati”. A questo punto la donna non vede più solo se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio disagio, ma si accorge che anche altri, forse proprio a causa sua, soffrono e stanno male.
Questo vangelo ci deve aiutare a non assolutizzare il nostro male, il nostro dolore, i nostri problemi, per non essere come quella donna che vede solo il suo dolore, e non vede quello degli altri, quello di chi giornalmente è trattato con ingiustizia. Dobbiamo imparare a guardare a tutte le sopraffazioni che capitano nel mondo, senza fermarci solamente su quelle che capitano a noi.
C’è poi ancora qualcosa che deve farci veramente riflettere. La figlia della donna è malata, ma Gesù non guarisce la bambina. Gesù non la tocca nemmeno, non si comporta come in tutte le altre guarigioni, addirittura neppure la vede. Ammalata è la figlia, ma lui guarisce la madre.
Ti sia fatto come desideri”, cioè: “Si realizzi in te ciò che tu desideri nel profondo del tuo cuore; tu conosci la verità; sei tu che soffri perché ti manca qualcosa; e allora si avveri in te questo qualcosa che tu, in tutta sincerità e umiltà, speri avvenga”. Parole che ci confermano che la “malattia” della figlia è la madre: è lei che, con il suo modo di rapportarsi con la figlia, l’ha resa invalida, l’ha resa in condizioni precarie. E Gesù, che aveva capito il problema, con le sue parole fa pensare all’esistenza di una situazione familiare ben più complessa. Ovviamente non siamo in grado di conoscere le vere problematiche di questa famiglia; possiamo però risalire ad alcune eventualità.
Prima di tutto il testo non fa riferimento all’esistenza di un padre. Il padre, nella famiglia, ha il compito di staccare il figlio dalla fusione con la madre. Nei primi anni di vita è la madre il centro della vita del figlio: lei è accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente (e per fortuna!) il figlio si attacca alla madre. Poi interviene il padre che gradualmente stacca il figlio da questo legame “unico” madre-figlio, in modo da consentirgli di fare la propria vita, di intraprendere la propria strada. Ma qui il padre non c’è. Dov’è? Non sappiamo. Ma sappiamo che quando il padre non c’è, il figlio si trova in una posizione difficile: da una parte sente il richiamo della vita ad andare, a lasciare la casa, dall’altra sente il dolore della madre che si ritrova sola se lui se ne va. Se ci fosse il padre, questi potrebbe sostenere la propria madre, ma non c’è. Se ci fosse, il papà potrebbe insegnargli l’autonomia, l’andare nel mondo. Ma non c’è.
Ciò che insegna un padre non può essere insegnato dalla madre e ciò che insegna la madre non può essere insegnato dal padre. Altrimenti nostro Signore non ci avrebbe dato due genitori se ne bastava solo uno. Quello che un genitore non fa, non può essere fatto dall’altro. Il padre dona l’energia e i valori maschili (se li ha!) e la madre l’energia e i valori femminili. Ogni mancanza non può essere compensata dall’altro. Ci si prova, ma con risultati sempre insufficienti. Ogni mancanza crea inesorabilmente uno squilibrio, checché se ne strombazzi oggi con tanta squallida sicumera (sedicenti “famiglie” composte da due madri, da due patri ecc.!)
Quindi, tornando al vangelo, se in quella famiglia il padre non c’è, allora potremmo pensare che si tratti di una donna che ha investito tutta la sua esistenza sulla figlia; una donna che ha cercato di supplire chi non c’è; una donna che non vive neppure la propria vita, tanto è presa dalla figlia. Il “demonio” che opprime la figlia, allora, sarebbe per assurdo la stessa madre che vive maniacalmente solo in funzione della figlia: troppo amore è infatti talvolta fatale quanto e forse più della mancanza d’amore.
Altro particolare: la donna, riferendosi alla figlia, la definisce “mia”: un termine possessivo, che esprime una proprietà esclusiva. La donna sente che sua figlia è il prolungamento di se stessa, la sente sua, sente che la figlia continuerà o farà ciò che lei non ha fatto o vissuto, e quindi rimette in lei tutte le sue più intime aspettative, i sogni che non sono mai diventati realtà. Usa la figlia per sé, per dimostrare la sua rivincita nei confronti della società.
Più sotto infatti viene chiarito questo concetto: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. È chiaro: la madre non nutre la figlia come dovrebbe, come ne avrebbe bisogno. Siamo nella situazione opposta alla precedente. La “malattia” della figlia non è nient’altro che la sua protesta per la “fame” d’amore che la tormenta. La madre ha altri “cagnolini” a cui gettare il suo amore; la madre è troppo presa da sé, dalle sue paure, dal dover apparire una brava madre, e non rifornisce sufficientemente la figlia di amore autentico.
La madre ha bisogno del lavoro per realizzarsi, ha bisogno dello shopping, di trovare degli svaghi, delle compensazioni, perché non trova soddisfazione dall’essere madre. Ha bisogno forse di farsi bella, di apparire sempre giovane e attraente. In ogni caso, toglie il pane dell’amore alla figlia che ne rimane senza. Per questo la figlia protesta: ha fame d’amore. Tutto qui.
Ciò che è chiaro in entrambi i casi è che la figlia soffre perché la madre non la nutre secondo il suo bisogno. Ciò che è chiaro è che la figlia sta male perché la madre si rapporta con lei in maniera non sana.
Per risolvere la situazione Gesù, infatti, non cura la figlia ma la madre. Quando la madre è curata, la figlia guarisce: “Da quell’istante sua figlia fu guarita”.
Ciò che è meraviglioso in questo è che la donna riconosce la verità: “Sì, è vero, tutti hanno bisogno di cibarsi d’amore. Nessuno può rimanerne senza, neppure i cani. E io forse, senza volerlo, ho trascurato mia figlia”.
A volte noi genitori abbiamo bisogno di sentirci dei genitori perfetti. Un figlio è la cosa più cara che abbiamo (il nostro mito e il nostro modello) e tutti noi vorremmo che ci dicesse: “Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno dato tutto e non hanno sbagliato in niente”.
In realtà nessun genitore, nessun educatore, nessun maestro è perfetto, perché la vita è per se stessa imperfetta. Quando ci accorgiamo che i nostri figli soffrono a causa nostra, ci sentiamo in colpa e dentro di noi neghiamo decisamente questa verità. Non accettiamo di essere imperfetti. Se accettassimo che diamo già un sacco d’amore ai nostri figli, che facciamo tutto quello che possiamo, quello di cui siamo capaci, quello che siamo in grado di fare, allora potremmo anche accettare di fare degli errori, e non sarebbe così grave.
Potremmo accettare che a volte non li nutriamo e non incontriamo i loro veri bisogni, certi comunque che possiamo cambiare, e che comunque sono figli della Vita. Potremmo accettare che a volte pensiamo più a noi che a loro, ma che l’importante è esserne consapevoli. Potremmo accettare che il nostro amore non è sempre amore, e lo dobbiamo pertanto elevare.
Per tutto questo dobbiamo guardare con profondo rispetto e stima a questa donna, perché ha saputo riconoscere il proprio errore: e per questa sua umiltà la figlia è stata salvata, e lei stessa è guarita. Ecco: dobbiamo imparare da lei. Amen.
 

giovedì 7 agosto 2014

10 Agosto 2014 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

«La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,22-33).
Il vangelo di oggi è un vangelo forte, potente. Il testo segue immediatamente quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci di domenica scorsa. Ricordate? Era stato un grande successo: con cinque pani e due pesci Gesù sfamò cinquemila “uomini” (oltre ovviamente donne e bambini). Notizie così sensazionali circolano con estrema rapidità, e quindi, molto probabilmente, Gesù temeva l’azione degli sbirri di Erode, e ordina quindi ai discepoli di allontanarsi, di salire in barca e di raggiungere in fretta la riva opposta del lago: Egli ha sempre cercato infatti di evitare il più possibile noie e problemi con le autorità costituite: meglio fuggire, scappare, piuttosto che affrontare un “confronto” diretto, offrendo loro il pretesto per intervenire contro la sua persona e di quanti lo seguivano. D’altronde Gesù e i suoi amici erano personaggi di giorno in giorno sempre più famosi, stimati, ammirati e seguiti: tutti li volevano vedere, li volevano seguire, facendo crescere il loro ascendente, il loro successo, e questo non stava bene ai romani, sempre timorosi di insurrezioni.
E che fa Gesù per evitare che questo delirio crescente della folla travolga i suoi? Dopo la sbornia di “successo” condivisa con lui (erano stati i discepoli gli incaricati della “distribuzione”), Gesù li sottrae da questo pericolo, li manda in barca, e congeda la folla.
Bisogna riportarli alla realtà. Dopo l’esperienza esaltante, su quella barca essi devono sperimentare anche altre esperienze, quelle traumatiche e contrarie. Lì infatti essi dovranno combattere contro i venti di burrasca, senza la presenza rassicurante di Gesù. Saranno soli, in balia delle onde: e lì ciascuno dovrà essere solo se stesso, ciascuno dovrà trovare in se stesso la forza e le energie per combattere.
Un chiaro insegnamento per tutti noi. Tutti, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo bisogno di solitudine, di momenti in cui stare da soli con noi stessi, perché ci sono cose che solo noi viviamo, situazioni e momenti della nostra vita in cui nessuno può raggiungerci. Magari gli altri ci potranno stare anche vicini, ma non potranno darci una mano, perché si tratta di esperienze che nessuno potrà condividere. Saremo soli, e da soli dovremo trovare la soluzione.
È la “notte fonda”, cui allude il vangelo: e prima o poi arriverà anche per noi: la tempesta che si profilava da tanto tempo all’orizzonte, improvvisamente si abbatterà su di noi: non avremo più alcuna possibilità di evitarla, saremo costretti ad affrontarla, dovremo per forza entrarci dentro: e allora toccheremo con mano tutta la fragilità della nostra “barca”: saremo in balia del vento impetuoso, delle onde vertiginose, e saremo sbattuti senza sosta da marosi violentissimi.
A questo punto sarà impossibile far finta di nulla, inutile aspettare che altri intervengano per noi: sono i nostri “mostri”, sono i nostri momenti decisivi della vita, e solo noi potremo affrontarli; solo noi potremo e dovremo fare i conti con la nostra coscienza; solo noi potremo conoscere e dominare le nostre ansie, le nostre angosce, le nostre pulsioni. Dobbiamo imparare a gestirle, a indirizzarle correttamente. Non possiamo scappare sempre (non è possibile). Non c’è sempre l’amico di turno o lo psicologo pronti per noi, e non è neppure giusto che ci siano. Non possiamo sempre “scaricare” tutto sugli altri. Non possiamo sperare di risolvere tutto con pasticche, antidepressivi, tranquillanti. Arriva il momento in cui dobbiamo stare soli con ciò che viviamo, con ciò che abbiamo dentro. È la nostra vita! È quel particolare momento della nostra vita in cui tutto sembra perduto, ci sentiamo persi, senza riferimenti, non sappiamo più dove andare, dove sbattere la testa, tutto sembra crollarci addosso: non vediamo più alcuna luce, non abbiamo più alcuna speranza. Come Pietro sentiamo solo l’infuriare della tempesta, e la nostra fede, il nostro cristianesimo di facciata, improvvisamente crolla, viene meno. Ci sentiamo impotenti, paralizzati, tutto sembra inutile, tutto sembra irrecuperabile.
E invece no. Oggi il vangelo ci fa capire qualcosa di incredibilmente consolante, di assolutamente meraviglioso: “amate le vostre tempeste”. Guardatele in positivo: certo le tempeste non sono mai belle, ma – ci sottolinea il vangelo – sono decisamente utili, necessarie: sono dure, difficili, ma essenziali. Sono come certe medicine o certe operazioni chirurgiche: amare, dolorose, però indispensabili per la salute del paziente. Incontriamo le tempeste perché dobbiamo cambiare assolutamente rotta: senza, noi continueremmo per la nostra strada, nel nostro tragitto, nella direzione che ci siamo scelta, che spesso però non coincide con la volontà di Dio, con la direzione che Dio vuole per noi: soltanto una seria “tempesta” può farci cambiare direzione; solo una tempesta – momento chiave della nostra vita - può offrirci un momento di autentico incontro con Dio; un momento in cui finalmente nasce qualcosa di nuovo e ci rimette completamente nelle sue mani, ci restituisce alla fede autentica. Benedetta tempesta, allora. Ben venga!
Certo, all’inizio, difficilmente capiremo che proprio in quella tempesta ci aspetta Dio: invece di riconoscerlo, lo scambieremo per “un fantasma”, un mostro, un demonio, una disdetta, una disfatta, un dramma. E avremo paura. Ma in realtà è Dio. È Lui che sta dietro a tutto, ad ogni cosa che ci riguarda; è Lui che ci spinge in questi “luoghi deserti”, in queste “tempeste”. E lo fa non perché ci vuole male ma proprio perché ci vuole bene. Perché vuole che cambiamo. Perché vuole che siamo più autentici, più sinceri, più convinti.
È in questo senso dunque che il vangelo ci dice di amare le “tempeste”. Anche se fanno paura, anche se sono pericolose, anche se sono drammatiche. Inutile tergiversare, rimandare: non c’è cosa peggiore di vivere con la paura costante di dover prendere in mano la propria vita, con il terrore di doverci confrontare con il proprio “io”. Non ci rendiamo conto che così facendo rinunciamo a dare una forma nostra, un tocco personale, alla vita; la subiamo soltanto, ci abbandoniamo alla corrente, ci lasciamo fagocitare dagli eventi, siamo solo dei deficienti (nel senso di “deficere”, venir meno), siamo cioè dei parassiti.
Ad un certo punto dobbiamo prendere il toro per le corna. Punto. Inutile piagnucolare: “è difficile; è impossibile; non ce la posso fare”, e continuare a “pregare” Dio di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare a nostra disposizione con i miracoli in mano. Ma Dio non è lì per risolvere i problemi al nostro posto; è lì per darci comunque la forza di risolverli da soli. Quando siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase importante quel “sono io”: il verbo eim° in greco indica sì un presente ma anche un passato (“Io sono colui che è sempre stato”), e insieme un futuro (“Io sono colui che sarà”). In altre parole, Lui è sempre presente: lo è sempre stato, lo è e lo sarà in futuro.
È l’esperienza di Pietro: egli (come noi) non crede che “quel fantasma” sia il Signore: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. Ed ecco il miracolo della fede: Pietro riesce a camminare sopra la tempesta, la domina. Se abbiamo vera fede, ciò che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza di affrontarle, perché Lui è con noi. E noi ci crediamo. Ma la nostra deve essere una fede ferma, autentica, incrollabile, per non ripetere l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui egli distoglie lo sguardo da Gesù e guarda al pericolo, a quanto gli succede attorno, gli viene meno la fede, e affonda. Nel momento in cui pone l’attenzione, più che su Gesù, sulla forza del vento e del mare, egli cola a picco. Così nei drammi della nostra vita: se noi guardiamo al pericolo, alla prova, affondiamo; ma se guardiamo a Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver paura. Affrontiamo tutto insieme, affidati a me”.
E concludo. Ogni mattina quando ci alziamo, facciamo il segno della croce. Non facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non so cosa affronterò oggi ma so che tu Dio sei con me”. E sentiremo vibrare nel cuore la sua risposta che ci tranquillizzerà: “Qualunque cosa oggi succeda, io ci sono, non aver paura, sono al tuo fianco”. Un atto che non deve avere valore scaramantico, fatto a scanso di eventuali problemi: ma una dimostrazione di assoluta fiducia in Lui, per poter affrontare serenamente la vita. Poiché fintanto che Lui è al nostro fianco, i nostri passi non vacilleranno.
Nella vita del resto non abbiamo molte possibilità: o ci facciamo guidare dalla paura, dall’insicurezza, dall’ansia, oppure ci lasciamo guidare dalla fiducia, dalla fede in Dio. Con la paura non andiamo da nessuna parte: affondiamo immediatamente, perché ci fa vedere nemici dappertutto, pericoli in ogni dove, ci insinua dubbi sui fratelli, ci fa vedere solo nemici. Al contrario la fede è salvezza, è camminare sicuri, è guardare avanti con cuore saldo. Diceva un saggio: «Bussarono alla porta. La paura andò ad aprire e fu divorata. Bussarono alla porta. La fede andò ad aprire: non c’era nessuno». “Si Deus pro nobis, quis contra nos? – Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rom 8,31). Ecco, questa sia la nostra certezza quotidiana. Amen.