venerdì 28 marzo 2014

30 Marzo 2014 – IV Domenica di Quaresima – “Laetare”

«Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi» (Gv 9,1-41).
Un vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo che pone in primo piano molti personaggi: i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, gli amici che lo conoscevano, e infine Gesù; un vangelo in cui Giovanni si diverte a dipingere con grande ricchezza di particolari, l’ottusità dei farisei e soprattutto la loro disonestà mentale; un vangelo di luce e tenebre, di chi vede e di chi non vede.
Tutto ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai farisei saputoni, agli interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i protagonisti si interessano ad ogni cosa, vogliono conoscere ogni particolare dell’accaduto; ma nessuno, tranne Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue difficoltà, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue esigenze: a nessuno insomma interessa la persona del cieco: tutti lo guardano - tutti lo guardavano da sempre - ma nessuno lo “vede”, nessuno si è mai “accorto” di lui; sono tutti preoccupati di loro stessi.
Innanzitutto ci sono i discepoli: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Gli ebrei dicevano: “Se uno è malato, lui o i suoi predecessori devono aver peccato”. Punto. “Sbagliano i tuoi antenati? Paghi tu!”. Questo è il principio, non si scappa. Quindi il problema dei discepoli è: “Chi è il colpevole della cecità di quest’uomo? Dov'è l'errore? Chi ha sbagliato?”. Essi vogliono un colpevole, una causa prima, un responsabile: non vogliono in ogni caso essere coinvolti personalmente nella vicissitudini dell’uomo: “È colpa sua, noi non c'entriamo, non ci riguarda, non dobbiamo fare niente per lui”.
È una mentalità molto diffusa; anche oggi: è sufficiente vedere come ci poniamo di fronte ai fatti di cronaca: corruzione, distrazione di capitali, montagne di rifiuti abbandonati per strada, delinquenza diffusa, genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, immigrati che creano problemi sociali, criminalità minorile in aumento esponenziale. L'unica preoccupazione è quella di scaricare le colpe su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo. Così, poi, tutti ci sentiamo più a posto, più tranquilli, con la nostra coscienza in pace. Trovato il “nostro” colpevole, ci buttiamo in fretta tutto alle spalle. Ma è giusto fare così?
Ci sono poi gli amici, i conoscenti del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui quello che era cieco”; altri, “no”; altri, “gli assomiglia”. Sono quelle persone per le quali noi non possiamo cambiare. Dicono di amarci, ma in realtà non accettano la possibilità che noi diventiamo migliori, di essere “altri”, soprattutto se questo cambiamento altera in qualche modo il nostro rapporto con loro. “Ma come: era cieco ed ora ci vede? Impossibile: com'è successo?” Per loro nessun cambiamento è possibile: ci hanno etichettato in un certo modo, hanno già deciso a priori chi siamo o non siamo, cosa possiamo fare o non fare, cosa poter dire, cosa poter rispondere.
Ci sono i genitori. A quel tempo la scomunica della sinagoga era una morte sociale. Essere scomunicati equivaleva a morire socialmente. Chiamati dunque a testimoniare, quei genitori hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “È abbastanza grande, può dire tutto di sé lui stesso! Che c’entriamo noi? È un problema suo!”. Un comportamento frequente anche oggi: e purtroppo, per un figlio, non c'è peggior tradimento che sentirsi abbandonato, per paura del giudizio della gente, dai suoi stessi genitori, le persone a lui più care, più vicine, di cui lui si fida ciecamente; chi lo deve difendere e proteggere, lo abbandona, lo tradisce. Oppure, peggio ancora, lo denigra, lo svergogna, lo rifiuta. È una situazione fin troppo usuale: il figlio si sente solo, perso, abbandonato, disperato, ma soprattutto tradito. Sente che il genitore pensa più a se stesso (paura di sfigurare, di non esser all’altezza, ecc.) che a lui, e ciò innesca comportamenti spesso tragici.
Poi ancora ci sono i farisei. I farisei qui sono semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza negano: “Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo figli di Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la saliva con la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può operare per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. I farisei si barricano dietro alla legge, alle regole perché hanno paura di ammettere che le cose sono diverse da come le vedono loro; che sono cambiate; per cui sono terrorizzati dalla prospettiva che essi stessi devono cambiare atteggiamento, devono cambiare cuore; sono maturati altri tempi. Ma per loro è inammissibile: piuttosto di cambiare, negano la realtà. Sono troppo preoccupati di salvare la loro immagine, di essere considerati i discepoli autentici di Mosè; più che la verità, preferiscono difendere il proprio ruolo esteriore.
Ecco, i farisei rappresentano tutti quelli che negano la verità: è sufficiente che si discosti dalle loro convinzioni, e per principio non la vogliono vedere, non la accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza del negativo che c'è in loro, dovrebbero rivedere i loro giudizi, le loro rabbie, le loro paure, i loro attaccamenti; ma preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere tutto. Perché, in pratica, “vedere” comporta necessariamente “cambiare”: meglio quindi non vedere, ignorare a tutti i costi.
Infine, per fortuna c'è anche Gesù. Gesù non deve difendere nulla: egli è libero. Libero come colui che accetta di poter fare brutta figura, di poter essere deriso, rifiutato, umiliato, malmenato, percosso, pur di difendere la verità, la propria coscienza. Gesù non si deve preoccupare degli altri, non gli interessa cosa diranno, e neppure deve salvare la faccia. Poiché non deve preoccuparsi di sé, si preoccupa dell'altro. Gesù è colui che ci “vede”, ci scorge, nota noi e i nostri problemi, perché non ha nessun interesse personale da difendere. Chi invece è occupato dai suoi problemi, non può occuparsi degli altri.
Ebbene: capita che spesso ci ritroviamo in tutte queste “persone”: i loro pregi e difetti sono i nostri. Sono i nostri “io” interiori. Apriamo allora per bene i nostri occhi: scrutiamo attentamente il nostro intimo; ma soprattutto “vediamo” e di conseguenza traiamo le nostre regole di vita. Non facciamo l’errore di fossilizzarci sui nostri lati negativi: su ciò che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, su come avremmo dovuto essere e non siamo, sulle troppe difficoltà che incontriamo nella ricerca di ottenere risultati soddisfacenti. Perché se concentriamo la nostra attenzione soltanto sui fallimenti, sulle sconfitte, l’immagine di noi che ne ricaviamo sarà decisamente negativa e fallimentare. Concentriamoci invece su quello che facciamo, anche se è poco; lavoriamo sempre sul positivo, su quello che possiamo costruire: così quando guardiamo il nostro prossimo, mettiamo in luce le sue doti, le cose belle, le sue capacità: in questo modo si sentirà valorizzato, amato, importante: si sentirà incoraggiato a fare sempre meglio. Ricordate le nostre pagelle di scuola? Tutti 7 e 8, e magari solo un 5. Qual'era il commento immancabile di nostro padre? “Perché quel 5? Sei proprio un somaro!”. Invece di spronarci, apprezzarci e incoraggiarci per gli altri bei voti, ci faceva sentire in colpa, disprezzati, falliti: una cosa che ci distruggeva, ci buttava a terra.
Al contrario è l'amore, il “vedere” positivo, la fiducia riposta nelle persone, che le fa cambiare; non il giudizio, non le accuse, non la considerazione del solo negativo.
Il vero peccato – ci dice il vangelo -non è il “non vedere”: è il non “voler” vedere, l’ostinarsi nel rimanere ciechi a tutti i costi. È un avvertimento che va preso molto sul serio: non dobbiamo addolcirlo, minimizzarlo, ammorbidirlo; è una frase tremenda: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». Che significa? Che il peccato di tantissima gente è quello di essere convinta di “vedere”, di sapere cioè cosa sia la verità (magari la insegna anche agli altri); gente che si propone come esempio da seguire, gente che crede di sapere chi è Dio, e cosa fare per seguirlo; gente convinta di essere dei bravi genitori, bravi cristiani, bravi preti, ecc. Gente convinta di non aver alcun bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione: perché essi sono i depositari della verità.
Brutta cosa! Gesù a tutti questi illusi continua a ripetere: “Siete dei ciechi. Il vostro dramma è di vivere nell’oscurità, nel buio totale; e nonostante ciò vi promuovete come guide esperte per gli altri”. Impossibile: “può un cieco guidare un altro cieco?”. Eppure quanti uomini, con una trave nell'occhio, passano la vita divertendosi ad osservare soltanto “la pagliuzza nell'occhio degli altri?”.
Chiariamoci le idee: luce, illuminazione, risveglio, occhi aperti, occhi che vedono bene, significa una sola cosa: “conversione”; significa cioè diventare i figli della luce, quelli che “vedono”, che si rendono conto sul da farsi, che non dormono sulle proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i figli delle tenebre, preferiscono vivere nell’oscurità, nel peccato, nella notte dell'ignoranza. Quindi: il grande peccato, l'unico, è rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi” per principio, ad ogni costo, per paura.
La grande domanda che Gesù ci rivolge, allora, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei disposto ad accettare ciò che vedrai”?. In altre parole: “Vuoi conoscermi veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità di seguirmi? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti eri fatto di me, il Cristo, della Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee personali, alle tue convinzioni errate, alla tua fede addomesticata, alla tua vita irregolare?”. Se amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, la gioia, l’amore, la nostra risposta sarà sicuramente “si”. Cessiamo allora di essere ciechi, di amare le tenebre. “Dio”, in sanscrito, vuol dire appunto “luce”: viviamo in Dio, e godremo dello splendore della Luce, nel caldo luminoso del suo Amore. E saremo felici. Amen.
 

venerdì 21 marzo 2014

23 Marzo 2014 – III Domenica di Quaresima

«Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua…» (Gv 4,5-42).
Il vangelo di oggi propone alla nostra meditazione l’incontro e il colloquio stupendo tra Gesù e la donna samaritana, avvenuto appunto nella terra pagana di Samaria, durante il suo viaggio di ritorno in Galilea. Ora, per capire bene il comportamento di Gesù, che è giudeo, e quindi “nemico” storico dei samaritani, dobbiamo entrare nella logica e nella mentalità di quel tempo. Egli va infatti contro ogni regola: rivolge cioè la parola ad una samaritana, che era “diversa” per razza, nazionalità e religione (era impensabile e improponibile per i giudei!); oltretutto si ferma a parlare fuori casa con una donna, cosa che equivaleva a farle delle proposte indecenti. Un comportamento che scandalizza anche i suoi stessi discepoli!
Ma Gesù è un uomo libero, e non sono certo i pregiudizi e le maldicenze che lo condizionano nel suo rapportarsi con le persone: lui incontra chiunque ne abbia bisogno, a prescindere da tutto e da tutti: in tutta la sua vita non ha mai detto “Questo si perché è ricco, nobile, potente; questo no perché dicono che è un disonesto (Zaccheo), una donna di malaffare, (l'adultera), un ladro patentato (Matteo Levi); no. Gesù non ha mai fatto questo: egli è fuori da ogni schema: è decisamente agli antipodi di questa mentalità, è scomodo e inopportuno, e soprattutto non rispetta tutte quelle regole rigide, frutto della mentalità ristretta della gente del suo tempo.
Gesù dunque giunge a Sicar. Il viaggio è stato lungo, sotto il sole, ed ha sete: si siede quindi presso il famoso pozzo di Giacobbe, appena fuori della città, per abbeverarsi e trovare un po’ di ristoro.
In quel mentre sopraggiunge una donna, diretta al pozzo per attingere acqua: e qui avviene l'incontro straordinario tra queste due persone, entrambe profondamente assetate: Gesù dell’acqua del pozzo (“Dami da bere”) e la donna dell’acqua soprannaturale dell’amore (“Signore, dammi di quest'acqua”).
I preamboli si svolgono su due piani diversi: la donna che rimane colpita per l’atteggiamento insolito di Gesù, decisamente contrario alle usanze, e Gesù che in pratica le risponde “Tu non sai chi sono io e che genere di acqua straordinaria io posso darti”. La donna ovviamente non comprende, e rimane interdetta: “Ma come, questo giudeo spossato dal caldo e dall’arsura, sprovvisto di qualunque attrezzo per poter attingere l’acqua, lui che chiede a me di dargli dell’acqua per dissetarsi, improvvisamente si dice in grado di “dissetarmi” con un’acqua miracolosa! Mi sta prendendo in giro?”
Ma poi, via via che il dialogo procede, la donna capisce di trovarsi di fronte ad un uomo fuori dal comune: Gesù la porta progressivamente da un punto di vista basato sul materiale, sul pratico, sulla vita vissuta, ad un altro più nobile, basato sul mistero, sul soprannaturale, rappresentato dalla sua stessa persona divina.
Non a caso questo colloquio tra i due avviene in prossimità di un pozzo: il pozzo è infatti simbolo di profondità, costringe a scavare, ad andare dentro a noi stessi per tirare fuori ciò che c'è sotto, ciò che c'è di nascosto. Gesù infatti non fa sconti sulla nostra vita; non ci giudica, non ci condanna: ma vuole che andiamo dentro di noi e che tiriamo fuori dal profondo della nostra anima le cose per come stanno veramente.
D’altro canto la samaritana è una donna decisa: una donna che di suo vuole andare fino in fondo alle cose, tant’è che preferisce essere esclusa, rifiutata dalla società per il suo comportamento anormale, pur di trovare la soluzione al suo malessere interiore, alla sua sete. Lo stesso coraggio che la porta a peccare, adesso l'aiuta a dialogare con quel forestiero, e per giunta giudeo. E proprio in quel dialogo penetra finalmente la Luce: in quella donna - una prostituta senza prezzo, con una lunga lista di uomini alle spalle, alla quale apparentemente non importa assolutamente nulla di Dio, di religione, di preghiera, di adorazione - un raggio improvviso illumina la sua mente, facendole capire in maniera chiara ciò di cui il suo cuore ha veramente bisogno. Sì, perché nel suo cuore, pur impantanato nel peccato, lei è alla ricerca del perché, del come, di cosa sia esattamente ciò che la rende così inquieta! Delle domande senza risposta appesantiscono da tanto tempo la sua anima. Ed ecco, incontrando Gesù, parlando con Lui, la sua mente si spalanca, e Lei scopre finalmente se stessa.
A questo punto si rende conto di essere alla presenza di un uomo eccezionale, perché solo un Profeta, un inviato da Dio, poteva rispondere alle domande più intime del suo cuore: domande che nessun altro, oltre lei, poteva conoscere. Quell’uomo si rivela al suo cuore per quello che Lui è veramente: il Soccorritore, il Salvatore, il Messia, che Dio ha mandato su questa terra in nostro aiuto.
Gesù con lei non fa il moralista: semplicemente la mette di fronte alla sua vita, alla sua verità; la costringe a dirsi tutta la verità, anche se è dura e difficile: “Non ho marito; ho avuto tanti uomini, ma nessuno mi ha mai soddisfatto “dentro”; non mi è mai bastato nessuno, perché nessuno è mai riuscito a placare la mia sete”.
Ecco il primo insegnamento per noi: incontrare il Signore significa dirsi la verità, tutta la verità; significa non mentirsi, non illudersi, non raccontarsi “frottole”.
Succede anche a noi, a volte, di capire che dietro alle nostre convinzioni, al nostro modo di pensare e di agire, c'è qualcosa che non va bene, che ha bisogno di essere esaminato, tirato fuori, portato a galla, per essere corretto, rivisto. In genere però noi non ci spingiamo oltre, perché “è meglio non farsi troppi problemi”. Ma così sopravviviamo; così sfuggiamo alla verità, all'incontro con noi stessi; così sfuggiamo al nostro cuore e a tutto ciò che c'è dentro.
Facendo così viviamo una vita falsa, mascherata, una vita non nostra: esibiamo all’esterno una verità costruita, illudendoci che sia invece quella autentica! Fuggiamo da noi stessi pur di avere una “bella facciata” da mostrare agli altri. Ma vivere una vita non nostra non può che portare inevitabilmente all'insoddisfazione e all'infelicità.
La verità, la sincerità, la retta intenzione, è invece l'unica strada che conduce a Dio; dirsi la verità significa infatti calarci nel profondo di noi stessi, dove Dio vive in noi, e metterci faccia a faccia con lui. Se la donna samaritana infatti non si fosse detta la verità (“sì ho avuto sei uomini ma in realtà sono ancora affamata d'amore”) non avrebbe mai potuto incontrare l'Amore vero, il Signore, colui che sfama ogni sete.
È chiaro che se noi siamo interessati solo al presente, se dobbiamo “difendere” ad ogni costo la nostra posizione sociale, allora è molto difficile, se non impossibile, dirci certe verità. Se la nostra famiglia “deve” essere perfetta, non possiamo ammettere che ci siano dei gravi problemi in casa nostra: e se ci sono, li sminuiamo, li nascondiamo, li seppelliamo. Se dobbiamo difendere la nostra immagine di “brav’uomini” non possiamo certo far capire che siamo in crisi, non possiamo chiedere aiuto, non possiamo ammettere di fare degli errori, non possiamo vederci e farci vedere imperfetti.
Purtroppo, nella vita, le relazioni umane sono sempre imperfette e parziali: noi chiediamo agli altri una comprensione, un’amicizia, un amore, “infiniti”, assoluti, perché abbiamo fame e desiderio di Dio, amore “infinito”; la nostra domanda è sì di “infinito”, ma la risposta che otteniamo è sempre “finita”, limitata, imperfetta. Ci illudiamo che l'altro ci riempia del “tutto”, ma il “poco” che riceviamo ci lascia sempre delusi, scontenti. Il rischio che corriamo, se non ci rivolgiamo al Signore per ottenere il dono dell'acqua viva, è quello di “morire di sete”; ma se egli ci concede questo dono, allora capiamo improvvisamente quanto sia sublime, quanto sia meraviglioso “morire d'amore” per lui. La storia della samaritana è quindi la storia dell’umanità: è la storia di ciascuno di noi. Nel cuore dell’uomo manca infatti un qualcosa che continuamente egli si affanna a cercare: ricordate Agostino? “Il nostro cuore è inquieto, fino a quando non riposa in Te, Signore”. Nel nostro cuore, anche se lontano da Dio, anche se dimentico di Lui, c’è sempre un vuoto a forma di Dio: un vuoto che solo Lui può colmare. Un Dio che ci aspetta pazientemente al nostro “pozzo”: che ci osserva durante il corso della nostra vita; pur essendo nel più alto dei cieli egli continua a guardarci, a seguirci, ad aspettarci. E noi, per quanto insensibili, per quanto distratti, per quanto “uomini duri”, ad un certo punto ci accorgeremo di Lui, capiremo che Lui, nonostante tutto, è sempre stato qui, al nostro fianco; Egli vuole incontrarci personalmente, vuole aiutarci, soccorrerci, dissetarci, perdonarci; è venuto insomma a salvarci.
Non facciamolo “stancare”. Non lasciamolo solo, assetato di noi, seduto ad aspettarci accanto al “pozzo”. Egli, Dio infinito amore, ancora una volta come sulla croce, non si vergogna di manifestarci la sua sete di noi, di chiederci da bere; non si vergogna di essere stanco a causa della nostra “arsura”; non si vergogna di chiederci un po' di sollievo d’amore.
E allora preghiamo: Signore Gesù, se non ti pensassimo, seduto accanto a quel pozzo, stanco per la fatica e per il caldo, forse non avremmo il coraggio di credere in te. Se tu fossi vissuto fra noi sempre fresco e pimpante come i personaggi della pubblicità, con un perenne sorriso “a trentadue denti” stampato sul volto, forse non avremmo il coraggio di accostarci a te, di credere in te. Perché anche noi siamo spesso stanchi: dello studio, del lavoro, degli amici e dei nemici, di chi si comporta male e di chi si comporta bene ma ce lo fa pesare; siamo stanchi di quelli che non sono mai stanchi e di quelli che sono sempre stanchi. Di quelli che ci devono ubbidire, e di quelli che ci comandano. Siamo stanchi, anche se non lo vogliamo ammettere. Per questo, Signore Gesù, noi spesso veniamo vicino a te, vicino a quel tuo “pozzo” e, stanchi, ci sediamo accanto a te sotto il sole di mezzogiorno. E ci sentiamo finalmente rinfrancati, tranquilli, amati.
Signore Gesù, non sappiamo imitarti quando sei in piena forma; ma vicino a quel pozzo, ci sentiamo come te: dacci da bere allora la tua acqua. Amen.

venerdì 14 marzo 2014

16 Marzo 2014 – II Domenica di Quaresima

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro» (Mt 17,1-9)
Pietro e gli altri discepoli non hanno ancora capito chi sia realmente Gesù. Essi continuano a vedere in lui il Messia forte e potente, il Messia giunto finalmente a sollevare le sorti del loro popolo, schiavizzato dalle grandi potenze dell’epoca; un uomo che - ancora non sanno come, ma sicuramente con grande impiego della forza – li affrancherà dall’oppressione romana in atto, riportando finalmente giustizia ed equità in quel loro paese martoriato. Questo essi vedono in Gesù: ma questo non è Gesù. Eppure Egli ha cercato in tutti i modi di spiegare loro la vera natura della sua missione: anche soltanto pochi giorni prima era stato molto chiaro in proposito: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”: parole che lasciano ben poco spazio a visioni fantapolitiche. Ma niente e nessuno poteva scuotere le convinzioni profondamente radicate in questi ruvidi lavoratori: serviva una “catechesi” forte, immediata, di sicuro impatto emotivo. Per questo egli “prende con sé” Pietro, Giacomo e Giovanni. Perché loro? Perché erano i più “agguerriti”, quelli più vicini e attenti. Pietro era il portavoce del gruppo, un tipo sanguigno che prima agiva e poi pensava: uno che vedeva in Gesù il Messia politico di cui era accanito sostenitore; i due fratelli Giacomo e Giovanni, erano due tipi molto ambiziosi, convinti anch’essi del suo ruolo politico; erano soprannominati entrambi “Boanèrghes”, “figli del tuono”, per il loro carattere impulsivo, “fumino” e spesso collerico. Un trio decisamente di punta, emergente e trascinatore.
L’esperienza a cui Gesù vuole renderli partecipi, è una di quelle importanti, che deve durare nel tempo, che deve essere documentata seriamente: per questo servono dei testimoni attendibili, gente che si sappia imporre, gente persuasiva, con carattere.
Con essi dunque Gesù sale su “un alto monte”. E qui, mentre sono lontani dagli altri, “in disparte”, egli si “trasfigura”; le sue sembianze di uomo, si trasformano in sembianze divine: si riprende cioè le sue sembianze vere, quelle che gli appartengono, quelle della sua natura divina, rivelandosi per quello che Lui realmente è: il Dio amore e vittima sacrificale che, nella sua “kenosis”, nello “svuotamento” cioè della sua divinità, ha accettato di assumere la nostra natura umana per riscattare e riportare al Padre l’intera umanità mediante il sacrificio della croce.
È un evento difficile da capire e da descrivere nella sua realtà: i tre evangelisti che ne parlano riflettono infatti l’inadeguatezza delle loro parole: il volto di Gesù brilla “come il sole”, le sue vesti diventano candide “come la luce, sfolgoranti, splendenti, bianchissime”. Sicuramente si rifanno ai testi delle Scritture che parlano di Dio come creatore della luce, sorgente di luce eterna, avvolto in un mantello di luce (cfr. Sal 104,2).
In questa esplosione di luce, con gli occhi abbacinati da tanto splendore, improvvisamente essi scorgono Mosè ed Elia, intenti a conversare con Gesù. Si tratta di due personaggi biblici fondamentali per la storia di Israele: Mosè che rappresenta la Legge, Elia che rappresenta i profeti: non si rivolgono ai discepoli, ma dialogano direttamente con il Cristo. Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, non hanno più niente da dire al popolo, se non attraverso Gesù. Perché è con Gesù che viene abolita l'antica alleanza; per cui tutto ciò che Dio deve dire, da questo momento lo dirà attraverso di Lui.
«Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». È Pietro che parla: è preso dall’entusiasmo e dall’eccezionalità del momento: vorrebbe che quella esperienza non finisse mai: l’idea delle “capanne” gli viene naturale, è una prassi che lui conosce molto bene, poiché ogni anno, nella festa delle capanne, ci si accampava in capanne per sette giorni, facendo memoria della miracolosa liberazione dall’Egitto, guidata appunto da Mosè. Ed è proprio Mosè che Pietro, nella sua proposta, colloca al centro, non Gesù; la sua grande aspettativa era infatti che Gesù, il nuovo Mosè, avrebbe seguito le orme dell’antico, liberando con la forza il popolo dalla schiavitù dei Romani e dall'ingiustizia religiosa dei farisei.
Ma Mosè ed Elia ignorano i tre; dialogano direttamente con Gesù; e come se non bastasse, una voce tuona dall’alto: “Questo è il figlio mio… ascoltatelo!”.
I tre, già in preda ad una fortissima emozione, “caddero a terra” e furono presi da “grande timore”. Cadere a terra è segno di totale disfatta: a questo punto infatti essi si sentono sconfitti, delusi; i loro sogni di restaurazione, le loro pretese e aspettative politiche, si infrangono contro questa nuova realtà. “Abbiamo creduto che tu fossi qualcuno che non sei”: si rendono conto di essersi sbagliati: improvvisamente diventano consapevoli di trovarsi di fronte ad una autentica manifestazione divina, e il timore li assale; hanno il terrore di morire, perché ricordano la Scrittura che dice “Chi vede Dio faccia a faccia, muore”. Ma Gesù è lì accanto, li tocca, li rassicura, li rialza. Fa cioè lo stesso gesto (toccare e rialzare), dice le stesse parole che usa nelle guarigioni (“non abbiate paura”). E i tre immediatamente guariscono: guariscono dalla falsa visione che avevano su di Lui.
Adesso lo vedono per quello che è veramente: infatti, riavutisi dallo spavento, vedono soltanto Gesù. Non c'è più né Mosè, né Elia: Gesù è solo; Gesù è soltanto Gesù. Pietro, Giacomo e Giovanni non proiettano più su Gesù le loro speranze e le loro aspettative; si sono finalmente spogliati delle loro idee, delle loro previsioni su di lui.
Questo del “proiettare” sugli altri le nostre convinzioni, del “costruire” sugli altri il verificarsi dei nostri sogni, è un fenomeno molto comune: in pratica mettiamo addosso agli altri dei vestiti, delle maschere, dei ruoli, che non sono loro, per cui li vediamo non per quello che sono ma per quello che decidiamo che siano.
La “proiezione” vede solo quello che vuol vedere. Quando poi scopriamo che l'altro non è così, rimaniamo delusi: “Non sei come pensavo!”. Non lo è, e non lo è mai stato: eravamo noi che vedevamo in lui uno che non c'era. Per questo motivo la proiezione ci impedisce di amare l’altro: perché non è lui che noi amiamo, ma la corrispondenza della sua immagine alla nostra idea.
Noi abbiamo ben chiara nella nostra testa l’idea di capo, di amico, di prete: quando capitano delle new entry, noi proiettiamo sul nuovo arrivato questa nostra idea: e poiché difficilmente questi corrisponde al nostro standard, al cliché da noi vagheggiato, ne rimaniamo delusi. E allora diciamo: “Non ci piaci!”. E lo rifiutiamo.
Quante unioni, quante vocazioni, quanti matrimoni nascono e muoiono così! Lei sposa lui perché lo vede forte, vede in lui il suo paladino, colui che le garantisce sicurezza e forza. Ma questo è il “tipo” di cui lei ha bisogno, non l’uomo che lei ha scelto. Quando infatti, poco dopo, lui si rivela per uno che non parla, uno che più che forte è violento, uno che non sa essere affettivo, lei si lamenta: “Non sei più quello di una volta; non sei quello che ho sposato; non eri così prima di sposarci!”. E invece no; lui è sempre stato così; è che lei vedeva un altro; vedeva quello che aveva bisogno di vedere, quello che le “serviva” di vedere.
D’altro canto, nella stessa lettura del vangelo noi siamo portati a “proiettare”: l’immagine cioè che noi abbiamo di Dio spesso non è quella reale, ma quella che noi, in quel momento, gli attribuiamo. Dio infatti, non è il burbero, forte, severo “padrone” del mondo: non è l’intransigente giudice che gode nel punirci appena ci allontaniamo un attimo dai suoi precetti. Lui non è così, non incute assolutamente il terrore; non abbiamo alcun motivo per temerlo, ma innumerevoli per amarlo; eppure per tanti secoli abbiamo proiettato su di lui le nostre immagini di padre/padrone colte dalla vita sociale e dalla mentalità di allora. Così ne è nato un Dio da temere, un Dio che pretende sacrifici continui, ubbidienza ferrea dai suoi sudditi, un Dio che si arrabbia e che inesorabilmente ci punisce (ci manda all'inferno) se non facciamo come dice lui.
Ma Dio non è venuto a rinnovare la società esistente; Dio è venuto ad annunciare la novità del suo regno, che è un'altra cosa: seguire Dio, diventare cristiani, nel primo caso corrisponderebbe semplicemente al farsi battezzare e frequentare la Chiesa; aderire al regno di Dio significa invece vivere la libertà, la verità, l’amore che stanno al centro del nostro cuore: farne il nostro stile di vita. È un'altra cosa.
Il vangelo dice che Gesù “fu trasfigurato” davanti a loro e che il suo volto “brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”. Cos'avranno visto i tre accompagnatori? Cosa significa vedere Gesù “trasfigurato”? Come si possono “vedere” queste cose? Ebbene: la “trasfigurazione” è vedere appunto cose che non possiamo in alcun modo vedere con gli occhi fisici; significa vedere cose che si possono percepire soltanto con il cuore. E siccome molti non hanno gli occhi del cuore, non potranno mai avere queste “estasi”. “Trasfigurazione” significa rivelare nei tratti esteriori del nostro volto la gioia, la beatitudine incontenibile, prorompente, di quando ci sentiamo rapiti in cielo, di quando cioè il nostro cuore è stracolmo di felicità perché si sente al centro dell’amicizia con Dio, percepisce la sua presenza in lui, si sente abitato, invaso, inondato dal suo amore.
Siamo mai stati veramente innamorati? Se abbiamo perso la testa, se abbiamo fatto cose pazze per qualcuno, se ci è capitato, almeno una volta, di vedere il mondo come un paradiso celestiale, perché qualcuno ci ha dichiarato il suo amore, allora, forse, riusciremo a capire questo brano del vangelo.
Se non ci siamo mai innamorati, se non ci siamo mai lasciati andare, se non conosciamo cosa voglia dire abbandonarsi completamente alle emozioni del cuore, agli slanci dell'anima, non potremo mai conoscere il messaggio di Cristo: perché lui su questa terra fu così: un innamorato, un passionale, un fuoco che divampava, che bruciava, che incendiava chiunque lo incontrasse.
Dio è Amore, dice l'evangelista Giovanni. Cioè: solo chi sa aprirsi e vivere l'amore può capire Dio. Tutti quelli che non sanno spalancare il loro cuore all’amore, potranno sì avere un’idea di Dio, ma non lo potranno mai “sentire”; tutti quelli che sono freddi, che vivono nell’isolamento del proprio io, incapaci di commuoversi, di esaltarsi, non potranno mai percepire la grandezza del suo cuore, la quantità del suo amore; tutti quelli che non sanno abbandonarsi ai sentimenti, continueranno a cercarlo invano.
Ci succede mai di commuoverci davanti alla dolcezza del volto di una donna, di un bimbo, alla serenità di un silenzioso tramonto in montagna? Ci sentiamo mai così pieni di gioia, da commuoverci, da sussultare, da non poter più trattenere la gioia delle lacrime?
Ebbene, quando vinciamo delle battaglie, quando facciamo delle conquiste o superiamo delle paure, delle prove, delle barriere che sembravano insormontabili; quando ci succedono cose impensabili ma meravigliose, quando nell’anima si aprono improvvisamente spiragli inattesi, quando guariamo dalle gravi malattie dell'anima e del fisico, non possiamo non commuoverci fino alle lacrime; non possiamo non piangere di felicità, di gioia; non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla forza, alla bellezza, all'intensità della vita che ci invade il cuore.
Una volta pensavo che commuoversi significasse essere deboli. Ma oggi so che provare emozioni forti,vuol dire essere vivi, vuol dire “sentire” ciò che viviamo, facendone partecipi anche gli altri; vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi coinvolgere da ciò che succede, significa non essere gelidi come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo. Perché questi sono i nostri momenti di “trasfigurazione”; sono i momenti in cui percepiamo con assoluta chiarezza che vale la pena di vivere; sono i momenti in cui ci sentiamo riconoscenti a Dio per essere in questo mondo, per aver avuto il grande dono di esistere. Sono i momenti che ci danno l'energia, la fiducia, la forza, il coraggio, di andare sempre avanti, affrontando se necessario le cadute, le croci, le crocifissioni di ogni giorno; sì, perché senza questi sprazzi di gioia, di felicità, di infinito, senza questi “momenti di Dio”, non riusciremmo mai a trovare la forza per rialzarci e continuare il cammino.
E concludo: se vogliamo “trasfigurarci”, dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita irrompi in noi, dobbiamo lasciare che la vita viva in noi, che sussulti, che si sviluppi, che l’amore nasca, si espanda, si irrobustisca.
Perché è quando ci innamoriamo che noi facciamo esperienza di “trasfigurazione”. Vediamo cioè nell'altra persona, cose che soltanto noi riusciamo a vedere. Quando nel buio di una situazione facciamo entrare la luce, quando da smarriti che eravamo, ci ritroviamo, noi facciamo esperienza di trasfigurazione. Quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini che lo abitano, ha un suo senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di trasfigurazione. Quando riusciamo a vedere, a scorgere, a percepire la bellezza, la forza, la sensibilità, la ricchezza d’animo di una persona, anche se da fuori non si vede, questa è trasfigurazione.
Trasfigurazione è vedere le persone per quello che realmente sono; è vedere la loro vera faccia, il loro vero volto, la loro figura integra, come è stata creata da Dio: non deformata dai giorni, dalle paure, dal dolore, dalle ansie e dalle angosce della vita.
Se ci capita di piangere di gioia, di sentirci così felici da toccare il cielo; se ci capita di essere così pieni d’amore, così ricchi da sentirci rapiti in cielo, così immensi da sentirci caldi come il sole o profondi come il mare, beh questa è trasfigurazione.
Il mondo ci dirà che siamo matti: non ci capirà mai; ma mentre lui continuerà ad essere infelice, noi saremo davvero tanto, tanto felici. Amen.

giovedì 6 marzo 2014

9 Marzo 2014 – I Domenica di Quaresima

«In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo…» (Mt 4,1-11).
Con questo vangelo sulle tentazioni di Gesù, la liturgia ci introduce nel tempo di Quaresima. È chiaro che Matteo non vuole qui presentare un fatto storico, reale, bensì un “fatto teologico”; egli vuole cioè proporre alla nostra riflessione, traducendola in immagini, una realtà che Gesù ha vissuto e provato nella sua vita: la tentazione cioè di usare, in maniera diversa da come ha fatto, il suo potere di leader, di maestro e guida, nonché, in quanto Figlio, la sua profonda conoscenza di Dio-Padre. Praticamente Matteo ha concentrato, in quest’unico episodio, ciò che nella realtà Gesù ha sopportato lungo tutto l’arco della sua esistenza umana. Perché, per tutta la vita, Gesù fu continuamente “tentato” di seguire altre strade (godimento, possesso, potenza) rispetto a quella da Lui scelta, l’unica strada della Croce.
Fatte queste precisazioni, leggiamo dunque il vangelo: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto”. Cosa vuol dire? Gesù un attimo prima, durante il battesimo, aveva ricevuto lo Spirito: si erano cioè aperti i cieli e lo Spirito di Dio era sceso su di lui. Uno Spirito che è Amore: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”; e Gesù percepisce Dio come Padre, come accoglienza, come presenza, come abbraccio, come amore incondizionato, come amore di predilezione. Ora, quello stesso Spirito, lo spinge, lo manda, lo conduce nel deserto. È lo stesso Dio-Amore di prima, ma questa volta lo manda laggiù, in balia delle prove, del demonio.
Questo ci aiuta a capire quanto sia falsata la nostra immagine di Dio: per noi se una cosa è bella, buona, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio; se una cosa, invece, è dura, ostica, dolorosa, difficile, vuol dire che viene dal diavolo, dal male. Non ci sono alternative. In realtà tutto ciò che ci riguarda proviene da Dio: è Lui che “vuole” il nostro bene, è Lui che “permette” il nostro male, per farci raggiungere il bene. Sì, Lui lo permette: perché il male rappresenta un passaggio necessario per la nostra conversione, per la nostra perfezione; un passaggio che dobbiamo affrontare e superare.
Il male non è il “tentatore” e la prova: sono le nostre azioni rivolte contro l’Amore. Il serpente, il demonio, è semplicemente un ostacolo da evitare, un passaggio obbligato, una “prova” che tutti dobbiamo superare per evolvere, per poter liberare tutta l'energia e le potenzialità che sono dentro di noi. Satana, l'avversario, svolge soltanto una funzione utile e necessaria per progredire nella nostra vita.
Dobbiamo fare attenzione perché molto spesso noi vediamo il diavolo ovunque. È molto più semplice scaricare ogni nostra responsabilità sul demonio, piuttosto che affrontare i problemi. Ci piace tanto compatirci, fare i rassegnati, i fatalisti: “che posso farci? è colpa del diavolo!”.
Ma non è così: non giochiamo con noi stessi, non facciamo gli scaricabarile come Adamo ed Eva nell’Eden: Satana il tentatore fa solo il suo mestiere, è soltanto un ostacolo, una barriera da superare: e noi siamo chiamati a compiere questo passaggio necessario, a superare questa prova, perché è così che facciamo emergere quel qualcosa di prezioso che è nascosto in noi. È Dio stesso che ci chiama a superare gli ostacoli che il diavolo pone sul nostro cammino. È Lui che lo permette: in sostanza Lui vuole che noi affrontiamo e combattiamo i nostri demoni, perché è così che ne riusciremo vincitori, non certo fuggendo continuamente! È lo Spirito che spinge Gesù nel deserto, che lo costringe a confrontarsi con i suoi demoni; è lo stesso Spirito che, per amore, chiede a noi di affrontare faccia a faccia le difficoltà, le prove, per uscirne decisamente arricchiti, vittoriosi, positivi.
La parola “tentazione” (in greco peirazo) vuol dire infatti “mettere alla prova, verificare, fare un test”. Un po’ come succede a scuola: prima ci vengono spiegate le varie materie, per studiarle e capirle; poi arrivano le “verifiche”, le “prove” da superare; ed è esattamente in questi esami che dobbiamo dimostrare di aver raggiunto la nostra “maturità”.
Nella vita spirituale succede la stessa cosa. La tentazione, la prova, non è Dio che si diverte a farci sbagliare; che ci seduce per vedere se cediamo. No: le tentazioni, le prove, servono a noi, ci sono necessarie per dimostrare che siamo “maturi”, che il nostro cuore sa il fatto suo, che sa trarre dalle difficoltà utili progressi nella sequela del Maestro.
Per questo dobbiamo entrare nel “deserto”, dobbiamo accettare di essere tentati, dobbiamo affrontare i nostri demoni. Nel deserto non c'è niente e nessuno: ed è allora che emergono le grandi domande: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Quanto? A che livello voglio vivere? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto? Mi va di ascoltare le voci che ho dentro?”. Domande che nel silenzio aspettano una nostra risposta. Perché possiamo essere sfuggenti, possiamo mentire a tutti, ma non a noi stessi. Possiamo “raccontarla” a tutti, ma mai al nostro io più intimo.
Ogni nostra discesa nell'ombra, nel deserto, ottiene peraltro un dono di luce. I grandi regali per il nostro compleanno non aspettiamoceli  dagli altri; ce li facciamo da noi, se abbiamo il coraggio di entrare nel nostro deserto, nelle nostre zone buie. Perché è lì dentro che sono nascoste tutte le cose più belle di noi. Tutti i tesori sono infatti ben nascosti; tutte le perle più preziose sono nel fondo del mare, dentro le ostriche.
La pienezza, la soddisfazione, non è data dall'aver tante cose, ma dal saperle “tirar fuori”, dal saper estrarre i doni, i regali, le ricchezze che sono già dentro di noi, ma che morirebbero con noi, se non avessimo il coraggio di andarle a prendere. Ma per arrivare a ciò, ci vuole tanto tempo (quaranta giorni…) e tanta fatica (alla fine ebbe fame…).
E concludo: vogliamo seguire davvero Gesù? Ci vuole tempo, impegno, studio, passione. Vogliamo diventare persone capaci di amare veramente i fratelli? Ci vuole ugualmente tempo, impegno, studio, passione. “È il tempo che tu dedichi alla tua rosa che la fa importante”, diceva il Piccolo Principe. Se noi non dedichiamo tempo, lavoro, applicazione ad una cosa, vuol dire che per noi quella cosa non è importante. Tutti i nostri desideri, le nostre terre promesse, hanno bisogno di un lungo cammino, di numerose “prove”, per essere raggiunti. Tutto ciò che è grande, richiede qualcosa di grande. Una sera dopo un applauditissimo concerto, il maestro Andrés Segovia, considerato il più grande chitarrista di tutti i tempi, fu avvicinato da un ammiratore che estasiato gli disse: “Maestro, darei la vita per suonare come lei!”. Segovia lo fissò intensamente e rispose: “È esattamente il prezzo che ho pagato io!”.
Ricordiamolo bene: più una cosa è grande, più il costo è elevato; più alta è la vetta da raggiungere, più fatica fisica è richiesta; più è nobile la meta che ci siamo prefissata, più si frappongono “tentazioni” per farci desistere. Non abbandoniamoci al nulla, all’aridità del deserto. Reagiamo. Le tentazioni, le prove, non devono farci paura: ci irrobustiscono, sono la nostra sfida; ci costringono a togliere dal cuore le sedimentazioni della nostra mediocrità, per far brillare in tutta la sua potenza la luce del nostro amore. Amen.