giovedì 19 settembre 2013

22 Settembre 2013 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua» (Lc 16,1-13).
Riconosciamolo: la parabola del Vangelo di oggi ci imbarazza non poco e suscita in noi un notevole disagio: come fa Gesù a lodare uno che ruba? Un disonesto? Possibile che Gesù abbia detto proprio una cosa del genere? Ebbene: le parole sono proprio sue. Soltanto che Gesù non intende lodare l'amministratore per ciò che ha fatto, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale col testo. Non dice: “Ha fatto bene a fare così” e quindi: “Se ti è possibile fai anche tu altrettanto!”. Gesù, al contrario, di quel contabile disonesto si limita a lodare solo la capacità di reagire ad una situazione compromessa: il darsi da fare cioè di uno che non si rassegna, che non si butta giù, che non “piange a vuoto”, ma che trova a tutti i costi la soluzione definitiva ad un problema apparentemente irrisolvibile.
Dove infatti il testo dice: «Il padrone lodò l'amministratore disonesto», appare evidente che si tratta di una traduzione non proprio corretta: è impensabile infatti che un padrone, per quanto bravo e santo sia, accortosi di essere stato derubato dal suo amministratore, gli dica: “Complimenti, hai fatto proprio bene! Hai tutta la mia stima!”.
Per capire il vero senso del testo, era sufficiente tradurre il termine greco “κυριος” del versetto 8, invece che con “padrone”, con “Signore” (è infatti “κυριος” l’appellativo più ricorrente per indicare Gesù: Luca lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti); in questo modo la frase diventerebbe immediatamente comprensibile: “Il κυριος (il “Signore”, cioè Gesù”) lodò il comportamento dell’amministratore”. Non è il padrone, dunque, ma è Gesù che loda l’uomo, è Gesù che sottolinea, come esempio da seguire, non ciò che lui fa in concreto, ma il modo con cui lo fa; loda la sua immediata reazione, la sua prontezza nel prendere una decisione, la sua determinazione nel voler rimediare ad una situazione imprevista. Non si è stracciato le vesti, non si è disperato, non si è messo a urlare a vuoto, non ha chiuso gli occhi aspettando la soluzione chissà da chi. In pillole insomma Gesù vuol dire: “come miei discepoli, non dovete assolutamente essere delle persone “dormienti”, imbambolate, inconcludenti, persone cui sta bene tutto, vada come vada. Dovete essere reattivi, responsabili, pronti a rimettervi in piedi se cadete, ad essere propositivi, esattamente come quell’amministratore, uno che ha saputo valutare molto bene le sue reali possibilità”. In questo modo lo schema da seguire, così come ci viene indicato, è molto semplice: ci accorgiamo che in una certa situazione non possiamo più “lavorare”? Che quella strada che avevamo imboccato non è più praticabile? Basta, inutile tergiversare: dobbiamo immediatamente trovarne un’altra, dobbiamo agire in un altro modo, con un'altra logica; dobbiamo fare scelte mirate, più creative, concrete; in una parola dobbiamo correre subito ai ripari, inventarci un rimedio veloce ed efficace.
Quando una cosa non funziona più, è inutile insistere, lottare, illudersi che possa cambiare. Quando una cosa non funziona più, dobbiamo semplicemente cambiarla.
L’area di applicazione più ovvia di questi insegnamenti, è quella del nostro comportamento di fronte alla colpa. Abbiamo sbagliato, ci siamo comportati egoisticamente, abbiamo calpestato i nostri principi, abbiamo tradito noi stessi, la fiducia e i diritti degli altri? Se siamo già caduti così in basso, inutile recriminare, inutile continuare all’infinito a lacerarci l’anima. Seguitare a rimuginare sul male fatto, su cosa avremmo dovuto fare e non l’abbiamo fatto, su come avremmo dovuto farlo, non serve assolutamente a nulla: ormai è successo. Certo: siamo stati degli sprovveduti, dei superficiali, troppo sicuri di noi, parecchio stupidi ed egoisti; ma a questo punto vogliamo forse morire? A che serve farla finita, morire (dentro o fuori che sia)? Cosa risolviamo? Ciò che è stato è stato. Ma se il passato non si può cambiare, siamo noi però che possiamo cambiare: siamo noi che dobbiamo imparare a non ripetere il male; a chiedere perdono a Dio e al prossimo, a riparare per quanto possibile al danno che abbiamo procurato; siamo noi, insomma, che ci dobbiamo correggere, che dobbiamo perdonarci e risorgere con nuovo slancio.
Nel vangelo è dunque la risolutezza dell'amministratore che viene lodata: non si lascia annientare dal fatto di essere colpevole di frode; non si arrende. Quante persone invece dopo un errore, dopo una colpa, anche se non grave, si lasciano andare completamente, non reagiscono, non alzano un dito per tornare come prima.
Invece, abbiamo rubato? Abbiamo tradito il partner? Abbiamo completamente sbagliato nell’educare i figli, ecc.?; certo sono fatti oggettivamente gravi, concreti. Ma non perdiamo tempo: prendiamo immediatamente in mano la situazione, rialziamoci e corriamo dal medico per le cure del caso. È l’unico modo per salvare il salvabile e riacquistare la nostra dignità. Qualunque cosa facciamo, dobbiamo perdonarci. E perdonarci, significa riconoscere il mal fatto, provarne un sincero dispiacere; non tanto in noi stessi, per conto nostro, nella nostra testa, ma di fronte a “qualcuno” che può a sua volta perdonarci in nome di Dio. Dopo di che rialziamoci, e torniamo a vivere nuovamente liberi, a testa alta.
Altra indicazione del vangelo di oggi è che dobbiamo accorgerci degli altri, dei nostri fratelli, di quelli che vivono al nostro fianco, e aiutarli. Come ha fatto l’amministratore infedele; finora egli aveva “sfruttato” le persone, le aveva trattate senza cuore e senza umanità; per lui era tutta gente da spremere il più possibile. Ora invece si accorge che quelli con cui trattava, non sono oggetti, sono degli uomini, delle persone. E come mai se ne accorge? Perché anche lui ora si trova nella stessa loro condizione. Anche lui adesso è un “debitore” del padrone, esattamente come loro. Anche lui ora vede le cose dalla loro stessa prospettiva. Ed è in questo momento - quando cioè è caduto in basso, quando è costretto a vivere le stesse esperienze negative dei miseri, a dover affrontare le loro stesse situazioni compromesse, le stesse colpe - che nasce in lui la misericordia. L’uomo perfetto, quello al di sopra di tutti, quello che non sbaglia mai, non conosce la misericordia, non sa cosa sia, non potrà mai usarla; non potrà mai dispensare comprensione, amore, al debole che cade, perché lui non è un debole e non conosce alcuna caduta. Lui, l’impeccabile, non può che appellarsi alla legge, alle regole, alle norme, e trattare i deboli soltanto con superiorità. Solo chi ha sperimentato sulla sua pelle cosa voglia dire sbagliare, sentirsi uno schifo, sentirsi indegni, colpevoli, può apprezzare la misericordia, il bisogno tormentoso di perdono, di amore, di conforto. Chi non sbaglia mai, non può che giudicare gli altri con disprezzo. Chi non sbaglia mai non conosce il Dio dell’amore e della misericordia; lui non ne ha bisogno, non deve chiedergli nulla; l’amore di Dio per lui è un diritto.
Tutti in genere riconosciamo apertamente di sbagliare, di essere peccatori: ma la maggior parte di noi, nel loro intimo, sono convinti di non esserlo poi così tanto. Il vero guaio, in questi casi, non sta tanto nel fare o non fare degli errori, ma nel non voler riconoscere quelli che facciamo; così, pur professandoci peccatori, continuiamo a considerarci persone brave, oneste, rette. Salvo poi essere i critici più spietati con quanti vediamo cadere.
Ebbene, è su questo che dobbiamo lavorare: l'uomo del vangelo, come abbiamo detto, trasforma radicalmente il suo modo di pensare e di agire: prima, egli spendeva tutte le sue energie per defraudare i “debitori”; dopo, le sfrutta tutte per aiutarli. E ci mette in questo tutta la sua passione, la sua grinta, la sua scaltrezza. Trasforma cioè una serie di errori compiuti nel passato, in un impegno, serio e attuale, di raddrizzare una situazione compromessa.
Il “perfetto”, l’integro, l’osservante, non può conoscere questo tipo di “conversione”; il “perfetto” non si espone, non ne ha bisogno, perché lui non ha colpe nascoste, non ha lati distorti da raddrizzare.
Gesù stesso non è tanto preoccupato per il nostro sbagliare. Egli è molto più preoccupato del nostro non ammettere l’errore, del nostro far finta di niente, del nostro comportarci come se tutto fosse in ordine, a posto; quando invece a posto non lo siamo affatto.
È poi molto importante, a questo proposito, essere consapevoli che il nostro continuare a vivere nella colpa, nell’indifferenza, con una condotta amorale, con degli scheletri putrefatti nell’armadio della nostra coscienza, sono non solo delle zavorre che ostacolano il nostro progresso spirituale, ma anche delle miserie, delle tare, dei “geni patogeni” che trasmettiamo in qualche modo alla nostra memoria biologica: nel senso che i nostri figli subiranno inconsapevolmente le conseguenze di questa nostra ostinata incoscienza: se infatti nella nostra vita siamo permissivi in tutto, se siamo incuranti dei valori, se non dimostriamo ai figli di essere obiettivi, onesti, di saperci assumere le nostre responsabilità, di ammettere i nostri errori, di riparare ai torti fatti, di avere il coraggio di chiedere perdono, sarà naturale per loro imitare e reiterare nella loro vita questi nostri esempi negativi: otterremo cioè, con molta probabilità, dei figli irresponsabili, indifferenti ad ogni valore morale irrinunciabile, a Dio e alla famiglia…
Pertanto se ci accorgiamo di vivere una vita vuota, se sentiamo su di noi il peso delle nostre colpe, non continuiamo a fingere, non rimaniamo un minuto di più in tale situazione. Facciamolo per noi e per chi amiamo. Così, se ci sentiamo in colpa perché non siamo quelli che vorremmo, non rimandiamo sine die il nostro cambiamento, diamoci da fare, non è mai troppo tardi! Non deludiamo noi stessi e i nostri figli con il nostro far nulla: pentiamoci seriamente, invece, buttiamo tutte le nostre deficienze alle spalle, e perdoniamoci: si, perdoniamoci! Ci sentiamo in colpa perché abbiamo un carattere difficile, perché non riusciamo a dominare i nostri istinti, i nostri scatti d’ira, perché ripetiamo all’infinito i soliti errori? perdoniamoci! Solo così ci libereremo dall’influsso nefasto delle nostre colpe. Ma cosa significa in definitiva questo “liberarci”, questo “perdonarci”? Significa confessare a Dio le nostre miserie, significa riconoscere umilmente di aver sbagliato e ammettere il nostro errore, significa chiedere perdono a Lui e a chi abbiamo in qualche modo danneggiato; significa riparare per quanto possibile al danno commesso. Solo in questo modo riusciremo a vivere da perdonati, da liberi, da graziati: perché solo in questo modo, potremo nuovamente trasfigurarci nella gioia, nella luce e nell’amore del Padre. Amen.
 

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