mercoledì 5 giugno 2013

9 Giugno 2013 – X Domenica del Tempo Ordinario

«Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: Non piangere!» (Lc 7,11-17).
Una madre che piange il proprio figlio. Una madre che, con il cuore lacerato dal dolore, accompagna al sepolcro il suo unico figlio che è morto. Che tragedia la morte! Solitudine assoluta. Niente ha più un senso, niente ha più valore: tutto crolla intorno a noi.
“Non piangere”, le dice Gesù. Ma come si fa a non piangere quando sopraggiunge colei che per mestiere, imperterrita, ruba e rapina la vita, i nostri affetti più cari? Guardiamoci intorno: chi non ha dovuto pagare uno scotto tremendo per averla incontrata nel proprio cammino? Eppure i santi la chiamano “sorella nostra morte corporale”. E ringraziano Dio perché con il suo passaggio accelera il momento del loro ricongiungimento col Padre.
Già, i santi. Ma noi? Siamo sempre pronti ad accogliere questo “ladro” che viene di notte? C'è poco da scherzare: inutile divertirsi, distrarsi, drogarsi; inutile illudersi, inutile cercare di dimenticare, inutile rifiutare di pensarci, inutile volerla ignorare a tutti i costi!
La verità è una sola: lei c’è e noi al suo arrivo non godiamo di preferenze. Il nostro passaggio nel tempo è limitato, brevissimo, inconsistente, irrisorio: eppure ci comportiamo come se fossimo i padroni assoluti del tempo! Pensiamo di essere eterni, onnipotenti, inattaccabili. Ma poi improvvisamente arriva lei. A volte improvvisa, a volte con un tragico preavviso. E allora le nostre lacrime. Lacrime tardive di dolore, di sofferenza, di constatazione della nostra nullità, dell’irrimediabile da rimediare. Subito. Immediatamente. Perché il domani per noi non c’è più.
Ecco, fratelli: questo è il traguardo cui tutti siamo incamminati. Allora, se lo sappiamo, perché non prepararci? Se non siamo completamente corrosi dall’indifferenza, dalla stupidità, fermiamoci un istante: scrutiamo dentro la nostra anima, in fondo al nostro cuore: e vedrete che in fondo a quel tunnel, apparentemente interminabile, della nostra incapacità, della nostra pochezza, c’è comunque una luce che brilla, che ci può guidare, l’unica luce che può infonderci la forza per non arrenderci, per non soccombere, per continuare ad andare avanti, per migliorare, per vincere qualunque paura: è la luce di Cristo, la luce della fede. Lui solo può consolare le nostre lacrime: lui ci conosce, sa come fare per consolarci, per aiutarci, per sorreggerci.
Lui conosce l’autenticità del nostro dolore. Lui solo è in grado di valutare la nostra sincerità, la nostra buona volontà. Lui solo può prenderci in braccio quando non riusciamo più a camminare. Lui solo può raccogliere le nostre lacrime, le nostre sofferenze e tramutarle in gioia infinita.
Noi siamo abituati nei nostri lutti a fare grande esibizione del nostro dolore, delle nostre lacrime. Più sono plateali, più attirano attenzione e amicizia posticcia in chi ci sta intorno. Ma quando piangiamo di noi stessi, non c'è bisogno di versare lacrime. Non dobbiamo convincere nessuno. Lui ama il silenzio e il raccoglimento, non le “conversioni” mediatiche. 
È il nostro cuore che si deve gonfiare di dolore, e anche se all’esterno sembriamo impassibili, è la nostra anima che deve piangere. Perché sono proprio queste lacrime silenziose, invisibili, che non passano inosservate agli occhi di Dio. Il Signore, non ha bisogno di tante parole, di telecamere, di studi televisivi: egli legge la nostra sincera conversione, la nostra decisione di cambiare vita, direttamente dentro di noi. Ed è lì che Lui ci viene a consolare, aiutare, guarire, resuscitare. Si, resuscitare: perché quando la nostra vita va a rotoli, quando non sappiamo più dove sbattere la testa, quando non abbiamo più neppure il coraggio di rivolgerci a Lui, quando arriviamo a calpestare anche le sue offerte d’amore, quando arriviamo perfino a maledirlo, noi siamo decisamente “morti”, ci comportiamo da “morti”, viviamo da morti: spiritualmente siamo peggio di tanti zombi.
Ascoltiamo allora la sua voce. E piangiamo. Piangiamo su noi stessi, sulla nostra ingratitudine, sulla nostra cecità. E preghiamo: la preghiera che ha commosso Gesù nel vangelo di oggi, è quella silenziosa, mossa da un dolore composto, vero, intimo; come quella di una mamma che piange muta, impietrita dal dolore, il proprio figlio.
Piangere e pregare Dio non significa urlare, pretendere, imporre che una cosa sia come vogliamo noi, magari proprio come non deve essere. Che diritti, che autorità abbiamo per inveire? Ci è stato tutto donato: ampiamente, generosamente donato. Non c’è alcun motivo di gridare la nostra rabbia; impariamo a trattare Dio solo con rispetto, con umiltà, con gratitudine, con grande amore; e anche quando trattiamo col nostro prossimo, facciamolo con l'amore della parola, la dolcezza di un sorriso, l'esempio della Fede, trasmettendogli la convinzione che dove non possiamo arrivare noi, ci penserà senz’altro Lui, il Signore.
A cosa serve disperarsi, urlare, imprecare, dare in escandescenze? Serve solo a dare cattivo esempio. Significa dimostrare a tutti la nostra debolezza, la nostra inconsistenza, la nostra povertà mentale. Avere fede è ben altra cosa. È amorevole attesa, nella convinzione che tutto è nelle Mani di Dio e sarà Lui a risolvere la situazione come e quando lo riterrà opportuno.
La fede è amore: quello stesso amore che Dio ha per noi, l'amore di una mamma, di un padre, che con grande dolore assistono alla rovina del proprio figlio; vedono il proprio figlio “morire” a poco a poco, fare cose non giuste, buttarsi via, drogarsi, ribellarsi al bene; e nonostante tutto, gli stanno sempre pazientemente vicino, continuano a camminare accanto a lui, sperando solo che Gesù passi nella sua vita e gli accordi la “resurrezione”.
Alla porta della città di Nain incontriamo due cortei: il corteo di Gesù che dona la vita e il corteo del morto, di quelli che sono anch’essi morti, perché non hanno fede, perché vivono con la morte nell’anima; di quelli che, pur avendo compassione per il prossimo, pur volendolo, non sanno e non possono consolare, non sanno e non possono guarire. Gesù, invece, che è Vita, sente una compassione diversa, la vera compassione, quella che ha la potenza di risolvere tutti i problemi. Egli è il solo che può portare concretamente la misericordia di Dio a coloro che gemono e piangono.
La risurrezione di questo ragazzo ne è infatti la chiara dimostrazione: Dio è misericordia, è potenza: è la potenza della misericordia, la potenza dell’amore messa al nostro servizio.
Quanta strada dobbiamo ancora fare, Gesù, solo per iniziare a capire come sei! Ti chiediamo perdono, Signore, per tutte le volte che nella nostra vita abbiamo pianto la “morte”, senza mai rivolgere il nostro sguardo fiducioso a Te, l’unico che può dare la Vita vera; per tutte le volte che abbiamo assistito alla caduta, alla “morte” dei nostri cari, dei nostri fratelli; per tutte le volte che non abbiamo saputo sostenere i fratelli più deboli, i fratelli feriti, magari già morti nell’anima, ma che si fidavano di noi; per tutte le volte che non ci siamo fatti loro compagni di strada, che non siamo stati solidali con loro; per tutte le volte che non abbiamo condiviso il loro dolore; per tutte le volte che siamo stati insensibili e indifferenti al nostro stesso di dolore, al dolore e alle lacrime della nostra anima: e abbiamo volutamente ignorato il bisogno impellente di una sua risurrezione. Amen.
 

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