mercoledì 19 settembre 2012

23 Settembre 2012 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà... Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,30-37).
Gesù è stato un uomo che durante tutta la sua vita aveva ben presente l’idea della morte; in particolare la” sua” di morte: un evento drammatico, l'estrema dimostrazione del suo amore per l’umanità. Nel Vangelo di Marco, per ben tre volte, Egli torna esplicitamente sulla tragica conclusione della sua vita terrena, introducendo comunque la visione della sua vittoria finale sulla morte stessa. E puntualmente i discepoli reagiscono in maniera ottusa, dimostrando di non aver capito nulla: domenica scorsa Pietro si preoccupava di rimproverare Gesù, insegnandogli a fare il messia; oggi i discepoli discutono tra loro su chi sia il più grande; al terzo annuncio, Giacomo e Giovanni si avvicineranno a Gesù e gli chiederanno una cosa incredibile: “Di stare uno alla destra e uno alla sinistra nel suo regno”. Poveretti, sono ancora lontani anni luce dallo stravolgimento della loro vita e delle loro idee per opera dello Spirito, per cui ogni volta danno prova della loro impossibilità di capire e di immedesimarsi nelle parole di Gesù.
Purtroppo quello della morte è un discorso che anche noi non amiamo molto; cerchiamo in tutti i modi di evitarlo; è tabù. Eppure verrà un giorno in cui non ci saremo più; un giorno in cui dovremo abbandonare i nostri cari, il lavoro, le nostre attività, le nostre passioni, le cose più care; saremo costretti a fare un salto nel vuoto, verso l’ignoto, assolutamente da soli.
Per questo la morte ci crea angoscia. Molte persone credono di risolvere il problema non pensandoci: si ubriacano di presente, per non pensare al futuro inesorabile. Ma anche così non funziona. Questo continuo lavorare, questo continuo affannarsi per tutto e per niente, questo continuo aggrapparsi in ogni cosa all’attimo fuggente è il loro inefficace antidoto contro la paura della morte.
Possiamo ricorrere ad ogni mezzo per non pensare, ma questo non cambia la realtà. Perché questa è la vita, la “nostra” vita, che deve fare i conti con una indiscutibile realtà: “Tu ora vivi ma prima o poi morirai”.
La morte purtroppo è angosciante, è una realtà che non vorremmo esistesse, ma c’è! E non possiamo vivere senza confrontarci con essa. Dobbiamo essere consapevoli che vivere giorno dopo giorno è avvicinarci alla fine, è un po’ come morire a piccoli passi. Il celebre psicologo Carl Gustav Jung diceva: “Un uomo che non si ponga seriamente il problema della morte, e non ne avverte il dramma, è un uomo che ha bisogno di essere curato”.
Un confronto profondo e onesto con la morte ci farà vivere in maniera più intensa, più vera: è un confronto che sviluppa in noi la saggezza del vivere. Il filosofo Montaigne diceva: “Insegnando all’uomo che deve morire, gli si insegna soprattutto a vivere”.
Viviamo dunque l’essenziale: che senso hanno infatti tutte le nostre “paranoie”, le nostre “fisime”, dal momento che dobbiamo morire?”. Lavoriamo e diamoci da fare. Ma ricordiamoci sempre che un giorno “lasceremo qui tutto!”. Evitiamo allora, fratelli, di vivere solo per lavorare, perché è da stupidi. Accumulare denaro e ricchezze per il piacere di possedere, è l’atto più insensato che un uomo possa fare: che senso ha? Non porterai nulla con te dopo la morte. Lavoriamo invece per vivere onestamente e dignitosamente.
Se oggi fosse l’ultimo giorno della nostra vita, cosa faremmo? Forse che sistemeremmo la casa? Puliremmo il bagno? Ci preoccuperemmo dei nostri soldi in banca? O cercheremmo piuttosto di stare con le persone che amiamo? Di gustare fino in fondo le ultime ore, apprezzando ogni singolo minuto di vita?
Dobbiamo pertanto individuare quelle che sono le cose essenziali nella nostra vita, e tenerle sempre presenti ogni giorno e ogni ora.
Sulla tomba di Alessandro Magno fu scritto: “Questa piccola fossa basta ora all’uomo cui non bastava il mondo intero”. Di fronte a certe ambizioni, a certe competizioni irrefrenabili, a certi orgogli, viene proprio da ridere. La morte è la “grande livella”, come scrisse il comico Totò, che rende tutti uguali, che tocca a tutti, ricchi e potenti, poveri e inermi.
Viviamo oggi le piccole cose che rendono felice la nostra vita. Se non lo facciamo oggi, domani forse non lo potremo più fare. Chi vive intensamente tutte le emozioni del suo cuore non teme di morire. È solo chi è sterile, chi conduce una vita arida e inutile che ha paura di morire, che non vuole morire. Ed è ovvio: perché la morte gli preclude qualunque possibilità di cambiare. Ecco perché, fratelli, tutto quello che dobbiamo fare, lo dobbiamo fare oggi: il tempo passa, meglio non sprecarlo.
Sistemiamo oggi tutte le questioni che abbiamo in sospeso, domani potrebbe essere tardi. Diciamo oggi ai nostri figli quanto siano preziosi per noi e quanto sia bella la loro presenza, cosa sarebbe la nostra vita senza di loro. E ringraziamoli per tutto ciò che ci hanno dato, soprattutto per la felicità che hanno portato nel nostro cuore e nella nostra casa. E non ci importa nulla se a volte è stato faticoso! Diciamo oggi al nostro sposo, alla nostra sposa: “Ti amo. A volte non lo faccio capire, ma ti amo tanto”. Diciamo oggi ai nostri amici, ai nostri fratelli, a quelle persone che ci sono vicine, che sono state importanti per noi, che ci hanno in qualche modo aiutato a crescere: “Grazie: perché tu hai contato molto nella mia vita”. Cosa aspettiamo? Aspettiamo di non avere più tempo? La vita passa.
Cominciamo a vivere per qualcosa che abbia veramente senso. Ma facciamolo in fretta, facciamolo già da oggi, perché il tempo a disposizione è limitato. E allora più che preoccuparci di “quanto” dobbiamo vivere, preoccupiamoci di “come” dobbiamo vivere! Vivere tanto per vivere, senza pensare il fine per cui si vive, significa sprecare inutilmente il dono del tempo che ci è concesso.
Se i nostri giorni finiscono, dobbiamo trovare un significato profondo da dare alla nostra vita. La nostra vita deve essere un dono da lasciare ai nostri cari, ai nostri fratelli. Se siamo un frutto che nessuno vuol mangiare, allora non serviamo a nulla; allora vivere o non vivere è la stessa cosa. Dobbiamo essere invece un frutto appetibile e gustoso, che altri potranno mangiare; e allora ci sentiremo utili, importanti, necessari. Allora anche se moriamo, non moriremo invano.
Vale la pena di osare, fratelli. Salire sulla barca della nostra vita e dire: “Duc in altum, Prendi il largo”. Poter dire al termine della vita, con Paolo: “Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede (2Tm 4,7)”. In altre parole potremo dire: “Ho vissuto”.
Allora non avremo rammarichi per quello che avremmo potuto fare ma che non abbiamo fatto, per quello che avremmo potuto essere ma che non abbiamo neppure provato a diventare, per quello che avremmo potuto realizzare ma che, per paura, non abbiamo fatto. Non lasciamoci condizionare dal rischio di sbagliare, di morire, di essere deriso o giudicato; pensiamoci bene: non è forse maggiore il rischio di non vivere? E non è forse vero che chi non vive, è già morto dentro?.
Dio ci ha fatto un dono preziosissimo: la vita. Non ci ha chiesto di preservarla, né di salvarcela (lo fa Lui!). Ci ha chiesto solo di viverla, di non sottrarci alle sfide e alle avventure che incontreremo: “Sei un essere vivente, vivi!”.
Quante persone per paura di sbagliare lavoro, di innamorarsi, di perdere l’approvazione della gente, di fare una cosa e poi accorgersi che si era sbagliato, di perdere il controllo, di rimettersi in gioco, non hanno vissuto, non ci hanno mai provato.
Ricordate la parabola dell’uomo con un solo talento (Mt 25,14-30)? Il padrone lo punisce perché non ci ha provato. Ha avuto paura e l’ha nascosto (si è nascosto). Al padrone non avrebbe importato se l’avesse perso, perché l’importante era che ci avesse almeno provato.
Abbandoniamoci e abbiamo fiducia. La morte è incontrollabile. Siamo impotenti, deboli, vulnerabili. È una lotta impari: vince sempre lei. Allora dobbiamo imparare a fidarci. Dobbiamo imparare che non possiamo controllare tutto; che non possiamo gestire tutto; dobbiamo fidarci senza avere garanzie, non possiamo avere certezze o assicurazioni. Dobbiamo solo fidarci.
Penso che ogni uomo, sul punto di nascere, abbia detto tra sé: “Oddio che sta succedendo? Dove sto andando? No, no, no, non voglio uscire da qui, non voglio lasciare questo mondo, sto così bene qui dentro! Fuori è la fine!”. E invece no, fratelli miei: fuori era non la fine ma l’inizio della vita. Ci fidiamo e sentiamo che sarà così.
Ma torniamo al nostro vangelo di oggi. Dunque: mentre Gesù sta parlando della sua morte – e capite che angoscia doveva avere dentro – che fanno i suoi amici, i discepoli? Discutono su chi fra di loro potrà sedersi nel Regno al posto d’onore, su chi sarà il più grande, il migliore.
A questo punto a Gesù cadono le braccia, si deve sedere; deve cioè interrompere il suo cammino, il suo andare, perché i suoi discepoli, pur seguendolo, di strada ne hanno fatta ben poca; sono ancora molto indietro e belli fermi. E deve spiegare loro: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Poi prende un bambino e lo abbraccia: “Quando accoglierete un bambino, accoglierete me e mio Padre”.
Il bambino (dobbiamo calarci nel contesto culturale di quel tempo), non aveva nessun diritto. Il bambino era l’ultimo di tutti. Dietro ad un bambino non c’era nessuno. Non aveva potere, non poteva parlare, non poteva dire la sua, doveva solo ubbidire. Il bambino era l’ultimo in assoluto.
Allora: “se tu accogli un bambino”, che è l’ultimo, tu accogli tutti (gli altri che stanno più avanti). Se tu sei l’ultimo (così come il servo è a servizio di tutti) non sei superiore a nessuno, non ti metti più al di sopra di qualcuno, non ti ritieni di più o migliore di nessun altro: sei l’ultimo. Ma essere gli ultimi non vuol dire sentirsi inferiori, né rifiutarsi, né denigrarsi o disprezzarsi, né essere quelle persone servizievoli che si umiliano per gli altri e che si ritengono indegni di tutto. Gesù era l’ultimo, ma non era inferiore a nessuno. Essere ultimi vuol semplicemente dire avere rispetto per tutti cioè non sentirsi superiori, avanti a nessuno.
I discepoli per il fatto di essere famosi, conosciuti, o anche semplicemente vicini a Gesù (e Gesù era molto famoso!) si considerano più dei altri, superiori agli altri. Essi cercano cioè lo stesso potere del loro “padrone”.
Il padrone (dominus: signore, padrone, proprietario) domina. Il padrone (dominus) gestisce, controlla, dispone, perché si sente di più, superiore agli altri, che considera chiaramente inferiori. Il padrone si sente legittimato a umiliare, a decidere per gli altri, a stabilire, a condurre, ecc. In quanto padrone, decide lui, perché lui si sente “di più”.

Ma noi non dobbiamo essere di questi padroni: dobbiamo essere servi perché nessuno ci è inferiore (né superiore). Il servo è colui che rispetta tutti, che lascia liberi, che non vuole gestire gli altri per i propri interessi. Il servo non è colui che si umilia, ma colui che si può chinare su tutti perché non si sente superiore a loro.
Noi tutti siamo in qualche modo padroni: abbiamo cioè il potere di gestire, di dominare sugli altri. Dobbiamo quindi stare molto attenti quando esercitiamo questo potere. Pensate al potere che hanno i genitori con i propri figli; di un capo con i suoi operai; di un dirigente con i suoi dipendenti.
Ci sono persone che si sentono autorizzate di infierire sugli altri, fanno fare loro quello che vogliono: sono dei padroni e non dei servi. Ogni volta che noi anche solo iniettiamo un senso di colpa nell’altro, stiamo facendo una mossa subdola e malevola: stiamo tentando di prenderci in maniera oscura e nascosta ciò che non riusciamo a prenderci in maniera chiara e trasparente.
L’amore non ha bisogno di dominare, perché dominare è possedere. Se abbiamo bisogno di mettere in rilievo la nostra superiorità, vuol dire che stiamo nascondendo la nostra inferiorità e che la camuffiamo con il bisogno di superiorità. Quando facciamo pesare e “notare” agli altri quello che abbiamo fatto per loro, stiamo tentando di dominarli. Cerchiamo di gestirli, di aver potere su di loro.
Quanta gente incontriamo che “se la tirano”, fanno i preziosi, non ci danno mai una risposta o devono essere pregati per darci una mano? Quante persone ci fanno notare che loro “hanno”, che “sono laureate”, che possono permettersi questo e quell’altro: sono tentativi di dimostrare la loro superiorità facendoci notare la nostra inferiorità. Sono padroni. Si domina anche facendo notare sempre all’altro i suoi difetti, i suoi sbagli e i suoi limiti. Così facendo lo si tratta sempre da inferiore, da incapace.
E allora concludo: il nostro comportamento è da “signore”, o siamo dei “signori”? Abbiamo rispetto per tutti, o ci sentiamo “più” degli altri? Siamo come il Signore che non gestiva nessuno, che non chiedeva niente a nessuno, che non accampava diritti, o siamo signori, padroni, che vogliono, pretendono, decidono per gli altri, li manipolano? Dunque: Signore o signori? Amare o possedere? Riflettiamo. Amen.

 

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