giovedì 7 giugno 2012

10 Giugno 2012 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo

«Prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”. Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti”»( Mc 14,12-16.22-26).
Oggi celebriamo la festa del “Corpo e del Sangue” del Signore: una festa nata a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, piccolo centro non lontano da Roma. Un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel pane e nel vino; durante una messa, al momento dello “spezzare il pane”, dalla piccola ostia zampilla del sangue, che macchia vistosamente il corporale steso sull’altare; ancora oggi quella tovaglietta macchiata è esposta alla venerazione dei fedeli nel Duomo di Orvieto. L’autenticità del miracolo è immediatamente confermata da due eminenti teologi, san Tommaso d’Aquino e san Bonaventura da Bagnoregio, inviati sul luogo dal Papa, insieme al vescovo di Orvieto, per le verifiche del caso. Dal 1264 questa festa è estesa a tutta la chiesa.
Originariamente però, già nel primo millennio, con il nome “Corpo del Signore” non si intendeva l’eucarestia, ma l’assemblea che si riuniva per celebrarla, ossia gli uomini e le donne che costituivano la nascente Chiesa (tant’è che ancora oggi ricordiamo questa antichissima tradizione mediante l’incensazione durante la messa: si incensa infatti Dio rappresentato oltre che dall’altare, dal Vangelo, dal Pane consacrato, anche dall’assemblea dei fedeli). Erano pertanto le persone il “verum corpus Christi”; l’eucarestia era il “corpus mysticum”. Poi, nei secoli, le cose si sono invertite.
Ora, amare un pezzo di pane può essere anche facile; credere che in questo pane ci sia Dio, anche se più impegnativo, non è che ci stravolga concretamente la vita. Ma, fratelli miei, amare le persone che ci stanno intorno, vedendo in esse Dio, beh questa è tutta un’altra cosa. Vedere e credere, che anche in “certi” volti, in certi personaggi, spesso antipatici e insopportabili, ci sia veramente Dio, è decisamente impegnativo, coinvolgente e sconcertante. Non lo sarà per i santi, ma sicuramente lo è per noi. Madre Teresa infatti era solita dire: “Mi è particolarmente difficile pensare che chi riesce a vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di pane, non riesca poi a vederlo nelle persone, negli uomini e nei volti del prossimo”. E un santo predicatore le faceva eco: “Non so se chi ama Dio ami anche l’uomo. Ma so che chi ama l’uomo, ama sicuramente Dio”.
Nel Vangelo di oggi Gesù in pratica ci dice: “non solo io vivo, ma voglio fare di questa mia vita un dono d’amore per voi e per il mondo intero”. Ecco, fratelli, questo è il punto. Per cui, noi che ci professiamo discepoli, fratelli di Cristo, non solo viviamo, ma dobbiamo anche mettere questa nostra vita a servizio degli altri. Questa deve essere per noi una necessità, un bisogno imprescindibile della nostra esistenza. Altrimenti, che ci stiamo a fare in questo mondo? perché vivere? Se la nostra vita non serve a nessuno, se non è utile per qualcuno o per qualcosa, che significato ha vivere? A questo punto esserci o non esserci, è la stessa cosa.
Ricordo che per la mia Cresima, da ragazzo, mi regalarono un orologio: una volta era il massimo, era un oggetto da “grandi”; e la Cresima sanciva proprio l’ingresso del ragazzo tra i cristiani “adulti”. Era così bello, quell’orologio, che i miei genitori decisero di non farmelo portare perché avrei potuto perderlo. Non lo portai e cadde nel dimenticatoio. Quando anni dopo lo ritrovammo, non funzionava più. Ora, che senso aveva avuto metterlo via? Non era servito a niente. Ebbene, fratelli, molte vite sono proprio così: per paura di osare, di perdersi, di rischiare, di sbagliare, vivono sulla difensiva, sull’indecisione, sulla eccessiva prudenza, sul non esporsi più di tanto; vite che passano e non lasciano segno; vite che non servono a nessuno, che si trascinano in giornate tristi, vuote, buie.
Chi segue Cristo, invece, ha bisogno di sentire che la sua esistenza è dono, che lui è un servo utile, che è come il grano che si frantuma per diventare alimento per gli altri. Questo dobbiamo essere noi: pane e vino; dobbiamo infondere forza, dobbiamo placare la sete, dobbiamo offrire agli altri gusto, saggezza, sapore. Solo così, per noi e per il mondo, vivere avrà veramente un senso; solo così la nostra vita avrà dato i suoi frutti. Quante persone muoiono invece con il rimorso di non aver vissuto! Quanti si rendono conto troppo tardi che la loro vita non è mai stata “dono”; non sono serviti a nulla, sono stati inutili, completamente insignificanti per il mondo intero! È come se non avessero mai vissuto.
Gesù in pratica ci dice: “Io voglio che la mia vita sia un pane che vi nutre”. Vuole cioè che la sua vita ci offra sostentamento, ci dia forza e lucidità, ci faccia crescere, ci renda maturi.
Purtroppo la vita passa, fratelli miei. Non illudiamoci di rimanere qui per l’eternità, di vivere per sempre. Anche per noi arriverà il “nostro giorno”, lo sappiamo: allora non facciamoci trovare a mani vuote, offriamo con gioia i frutti del nostro amore: perché solo se saremo stati “vita che dà vita”, solo se nel nostro vivere quotidiano ci saremo “consumati”, non avremo motivo di temere, nulla potrà turbarci: allora potremo serenamente passare la mano. Chi vive in pieno, non teme di morire.
Facciamo allora, fratelli, il punto della situazione e chiediamoci seriamente: la nostra vita è “pane” che nutre qualcuno? È vino che disseta e corrobora? Oppure è soltanto un tempo che scorre inutilmente? C’è tanta gente che non si dà mai, che non si concede mai; se parliamo con loro non ci fanno mai vedere quello che hanno dentro, gente che ha troppa paura di impegnarsi per qualcosa di vero, di bello. E si giustificano dicendo: “È troppo difficile”. Non riescono a donarsi. Per paura di perdersi, di sbagliare, non si danno, e non capiscono che è proprio facendo così che si perdono. Noi invece, con i nostri fratelli, con la nostra famiglia, con le nostre comunità con cui abitiamo, come la mettiamo? Ci siamo mai chiesto a che serve condividere una stessa casa, se poi neppure ci si parla? Che senso ha? Nessuno: perché se non c’è comunicazione tra noi, se le nostre anime non si incontrano, non si toccano, non si parlano, se i nostri occhi non si penetrano, noi “stiamo” insieme solo perché “facciamo” insieme tante cose; ma non possiamo certo dire che “siamo” insieme. Il dono più importante che possiamo fare agli altri non sono i nostri soldi, offrire le cose più belle e varie di questo mondo; il vero dono è donare ciò che siamo, ciò che abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda: la nostra anima, i nostri dubbi, le nostre paure, i nostri slanci. Solo donandoci agli altri così, senza riserve, gli altri potranno averci, potranno conoscerci, potranno averci nel loro cuore e nella loro anima.
Gesù non ci ha lasciato nulla di questo mondo in eredità: non ricchezze, non una casa, non un libro, non una dottrina e neppure una regola. Gesù ci ha lasciato solo se stesso, attraverso un po’ di pane e di vino: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”. Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono, è questo il grande mistero che la Chiesa oggi medita. Gesù è venuto su questa terra, si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è fatto carico di tutte le nostre colpe, si è fatto carne, ha assunto un corpo da offrire in sacrificio sulla croce, pagando così il prezzo per il nostro riscatto: un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando una costante opera di mediazione tra noi e il Padre: è vero: noi possiamo arrivare a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso un paesaggio, un tramonto, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le lacrime di chi è felice… Anche queste sono “mediazioni”. Ma, fratelli miei, l’autentica, la più grande mediazione, è quella di Cristo: Dio continua a darsi a noi in un rapporto di amicizia e di grazia, attraverso il pane della domenica, attraverso appunto il corpo di Gesù; e questo rapporto con Dio continua anche attraverso il “nostro” corpo, trasformato con Cristo in Cristo; e continua ancora attraverso il corpo dei “nostri” fratelli, nei quali vediamo Cristo.
Possiamo definire il Cristianesimo la “religione del corpo”. Per secoli si è fatta una netta distinzione tra ciò che è materiale (e quindi il corpo, tutto ciò che è umano) e ciò che è spirituale. E si diceva: “Tutto ciò che è materia è destinato a morire, è indegno, spregevole. Tutto ciò che è spirito è invece elevato e sublime. Quindi umiliamo il più possibile la materia, perché solo così emergerà lo spirito”. Con tali premesse, seguire Dio significava “crocifiggere” in suo nome il proprio corpo, vivere nella fuga e nel disprezzo del mondo. La via della santità, fino a qualche decennio fa, passava solo attraverso la completa rinuncia ad ogni piacere, di qualunque natura (cibo, sesso, affetti, amicizie, divertimento, allegria). Così, andare al cinema era “peccato”, andare a ballare era peccato: qualunque divertimento era demoniaco. Tutto ciò che era “corporale” era automaticamente sporco, diabolico, negativo, causa di perdizione.
Ma non è così, fratelli: il nostro corpo è abitazione di Dio, è tempio di Dio; il corpo dei nostri fratelli è Dio, esattamente come corpo di Dio è il “pane consacrato” della domenica che noi assumiamo. Dio è qui, in noi, nel nostro corpo. Lo Spirito di Dio, su questa terra, esiste solo attraverso un corpo: quello di Gesù, il nostro, quello dei fratelli, della Chiesa. Il corpo diventa così spirituale e lo Spirito diventa corporeo. Quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, e quando lo spirito sta bene, anche il corpo sta bene. Tante nostre malattie corporali, sono solo malattie dell’anima: possiamo infatti prendere tutte le medicine possibili, ma non arriveremo mai a star bene; perché non è il nostro corpo ad essere ammalato, è il nostro spirito. Il corpo non è altro che la visualizzazione, il “monitor”, lo schermo del nostro spirito. Chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio, perché il nostro corpo è a pieno titolo inabitazione dello Spirito.
Il corpo ha dunque bisogno della nostra anima, come l’anima ha bisogno del nostro corpo: se il nostro corpo ha bisogno di carezze e di contatto, è perché la nostra anima ha bisogno di amore, di essere riconosciuta e accarezzata. Se il nostro corpo ha bisogno di coccole, di abbracci e di gesti affettivi è perché lo spirito esige concretezza: è lui che ha bisogno di contatti veri, profondi, perché lui vuole incontrarci là dove non abbiamo paura, dove gli altri non possono intromettersi, dove gli altri non possono sedurci (se-durre: attirare sé); là dove siamo veramente noi, dove nessuno può “cambiarci” in qualcos’altro. Se il nostro corpo ha bisogno di piacere, è perché il nostro spirito aspira a tutto ciò che è bello, buono e divino. Curare quindi il nostro corpo significa curare anche la nostra anima. Tenerlo in forma, significa “tenere in forma” l’anima. Se ci ingolfiamo di cibo, di alcolici e di droghe, se amiamo gli eccessi estremi di qualunque natura, vuol dire che la nostra anima è gravemente ammalata; ed ha bisogno di disintossicarsi dal “troppo”, ha bisogno di pause salutari per eliminare quella “sazietà mortale” che le impedisce di ascoltare lo “Spirito che parla ai nostri cuori”. È proprio vero, fratelli: il nostro corpo ha bisogno di silenzio, di meditazione, di solitarie occasioni di preghiera, per potersi integrare completamente nel Corpo di Dio; perché, come dicevo, il Cristianesimo è la religione del corpo.
Ogniqualvolta ci accostiamo alla Comunione, il Corpo di Cristo viene dentro di noi, viene ad abitare in casa nostra; nonostante quel che siamo, nonostante tutto, Lui non si vergogna di noi, viene anzi per amarci, è felice di incontrarci, di diventare un tutt’uno con noi, di immedesimarsi in noi: Corpo nel corpo. Allora, fratelli miei, in quel prodigioso momento, alle parole “Corpo di Cristo”, e alla nostra conferma “Amen, Sì”, esprimiamo umilmente in cuor nostro: “Signore, questo è il “mio” di corpo…” e sentiremo Gesù che a sua volta ci dirà “Amen, Sì, lo so”. Capite? Noi diciamo “sì “ a Lui, e Lui risponde “sì” a noi; una accettazione totale. Un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro, che ci deve seriamente impegnare nella vita, sintonizzandoci sulle importanti parole di Paolo: «Voi che avete accolto Cristo Gesù, il Signore, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede…» (Col 2,6); pertanto «vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, come vostro culto spirituale» (Rom 12,1); poiché «se vivete secondo la carne, morirete; se invece uccidete con lo Spirito le azioni del corpo, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio» (Rom 8,13s)». Amen.
 

Nessun commento: