giovedì 28 giugno 2012

1 Luglio 2012 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla…”La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”… “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”… e sentì nel suo corpo che era guarita dal male» (Mc 5,21-43).
Nel vangelo di oggi sono tre gli elementi che desidero sottolineare. Prima di tutto il passaggio di Gesù da una parte all’altra del lago di Genezaret; poi le due figure di donne, due situazioni di vita completamente diverse: la giovane figlia di Giairo e la donna sofferente di abbondanti perdite di sangue.
Gesù nel suo peregrinare passa dunque da un luogo all’altro, compie continui spostamenti; e il suo non è solo un passaggio materiale, uno spostamento fisico, ma è un affrontare e risolvere questioni nuove, lasciare nuovi insegnamenti adeguati alle nuove situazioni. La vita infatti è fatta di distacchi, di passaggi, di cambiamenti: si lascia un posto per andare verso un altro, verso nuovi contesti. E quando ciò avviene, in noi si scontrano due forze diametralmente opposte: la forza conservatrice e quella progressista. Una prima dice: “Sta fermo qui, non muoverti. Qui sei al sicuro, perché andare a rischiare? Perché metterti in pericolo? Qui conosci già tutto: il tuo territorio, il tuo spazio, le persone che ami; cercare, cambiare, conoscere, andare verso l’ignoto è pericoloso”. E così ci convinciamo di rimanere fermi, di non crearci problemi, difficoltà, di stare nel nostro nido. Abbiamo praticamente tutto; perché mai dovremmo cercare qualcos’altro? Ma nessun vivente che si apre alla vita rimane sempre nel suo nido, nessuno si rifiuta di imparare a muoversi da solo, a fare le proprie esperienze, nessuno ignora i suoi desideri, nessuno lascia le proprie aspirazioni disattese. Quello che andava bene prima, ad un certo momento non ci soddisfa più, sentiamo che ci manca qualcosa, che dobbiamo aprirci ad altri bisogni, ad altri spazi. È il richiamo della Vita, fratelli, una Vita che ci vuole sempre più noi stessi, che ci immergiamo sempre di più in lei. Allora dobbiamo andare oltre. E allora ecco l’altra forza che ci spinge ad uscire, che ci dice: “Fuori, cerca, costruisci, divieni, diventa te stesso, diventa ciò che la Vita vuole per te”. E Gesù, in questo suo uscire, in questo suo passare oltre, ci insegna che ci sono delle difficoltà, che ci sono degli elementi duri e ostici da affrontare, ci sono degli imprevisti. È la tempesta che lo ha colto improvvisamente nel lago (il vangelo di domenica scorsa). La vita non è tutta rose e fiori; è un luogo dove tempeste, eventi duri, scontri, lotte, accadono continuamente. Eppure sono proprio le difficoltà che ci fanno scoprire la nostra forza e la nostra fiducia. Dobbiamo imparare non a evitare le tempeste perché altrimenti saremo sempre in fuga dalla realtà, dal mondo e dagli altri.
Quante volte parlando con gli altri noi diciamo di noi stessi: “Io non riesco ad essere cattivo”; dove per “cattivo”, intendiamo uno che sa farsi rispettare, uno che fa valere con decisione le sue ragioni. E ne siamo tutto sommato soddisfatti. Ora, da una parte è anche comprensibile, ma così facendo rimaniamo in balia di tutto e di tutti. Se la carità e l’amore ci guidano nei rapporti col prossimo, per il resto non dobbiamo rimanere passivi, insensibili e comunque perdenti: abbiamo il dovere di realizzare e valorizzare il capolavoro che Dio ha immaginato in noi, la nostra dignità di Figli. È questo l’insegnamento di Gesù: dobbiamo cioè prendere coscienza di ciò che siamo, dobbiamo custodire tutto il bello e il buono che ci è stato dato, e lavorare su di noi per buttare via ciò che fa male, ciò che è negativo, così da costruire saldamente la nostra personalità. La “nostra” vita, fratelli, non dipende dagli altri: è nelle nostre mani, nelle nostre scelte, nelle nostre decisioni responsabili. Questo vuol dire essere adulti: è il passaggio dal bambino istintivo all’adulto razionale. Il “noi”-bambino si aspetta tutto dagli altri: “La parrocchia… il governo… il comune… la Chiesa… dovrebbero fare così e così… spetta a loro”. L’adulto, invece, è lui che fa in prima persona.
E arriviamo alle due figure femminili: la prima è la figlia dell’uomo, Giairo, descritto nella prima parte del vangelo di oggi. Lui è il capo della sinagoga, è una persona importante in paese e sua figlia deve essere l’orgoglio del papà. Perché, si sa, un figlio è sempre lo specchio dei genitori. Siamo avvocati, medici, laureati, professori? ebbene, noi che sappiamo di essere gente superiore, non possiamo avere un figlio come tutti gli altri. Il nostro deve essere un “modello”, deve essere assolutamente “più” degli altri: nostro figlio è sempre il più bravo, il più bello, il più educato, il più intelligente, il più sportivo, quello che eccelle in tutto, ecc. Ma nostro figlio è solo un bambino, un bambino come tutti. Quanti genitori dicono: “Mio figlio è già un ometto, un adulto. Parla e si comporta come un grande!”. E ne sono fieri, magari causando uno stravolgimento della realtà: è un dramma infatti assistere in TV a certi scimmiottamenti di divi o dive imposti ai loro piccoli da genitori obnubilati dall’orgoglio! Dovremmo proprio chiederci: “dov’è finito il bambino che era vostro figlio?” Hanno costruito un palazzo distruggendo le fondamenta!
Giairo parla di sua figlia e la chiama “figlioletta”; ma sua figlia ha già dodici anni e a quell’età in Israele si era adulti. La tratta ancora come la sua bimbetta, ma non lo è più, non è più il suo “giocattolo”. Quante volte sentiamo dire: “Sono così belli da piccoli!”: certo, ma attenzione: non sono dei giocattoli con cui ci divertiamo. E poi, sono belli perché fanno quello che vogliamo noi o sono belli perché sono “unici”?
Gesù, a differenza del padre, tratta questa fanciulla da adulta: dopo averla “svegliata”, ordina di darle da mangiare. Il cibo è la vita, il nutrimento, la voglia di vivere. Questa ragazza probabilmente non aveva più voglia di mangiare, non aveva più voglia di vivere perché soffocata dai legami familiari troppo intrusivi (noi oggi la definiremmo “anoressica”). Che in tale situazione ci fosse la responsabilità dei genitori, ci viene suggerito dal fatto che Gesù per entrare nella stanza dove giaceva la ragazza, prenda con sé non solo il padre, ma anche la madre. Questa figlia (in genere avviene così per tutte le anoressiche) respingeva oltre il padre anche la madre, non voleva il loro “nutrimento”. Ma Gesù la chiamerà per quella che è: “Talità, ragazza, donna. Non sei più bambina, cresci, divieni, fiorisci; hai dodici anni”.
Altre parole che sentiamo spesso: “Godetevi i figli finché sono piccoli, perché poi, da grandi, sono solo problemi”. Per forza: da piccoli ce li godiamo perché fanno come diciamo noi, ci obbediscono! Ma poi crescono e vogliono dire la loro e vogliono fare le loro scelte, le loro esperienze. Allora non li controlliamo più, allora ci sfuggono. E a questo punto emerge nella sua autenticità il nostro stile educativo: quello oppressivo, tirannico che dice: “Finora mi ha sempre obbedito, e gli è andata bene; adesso vuol fare di testa sua? che si arrangi!”; un comportamento deleterio e diseducativo che fa crescere nei figli dipendenza e paura, sottomissione e ribellione. L’altro stile invece, quello del colloquio e della condivisione, dice: “Ora sei grande, possiamo finalmente discutere; parliamone, confrontiamoci!”; uno stile che fa crescere nei figli fiducia e amore. Ovviamente, fratelli, ciò è possibile solo se noi stessi siamo genitori maturi e adulti. Quanti padri, invece, quando la figlia arriva all’adolescenza la rinnegano. Fino a quel momento era la “loro bambina”; ma improvvisamente la “loro” bambina preferisce i ragazzi suoi coetanei, si scontra con il padre, rifiuta quello che prima accettava, non vuole più il “bacetto” della buona notte. Se prima il padre era il suo mito adesso non lo è più. Se prima la madre era la sua confidente, ora è un’antagonista. Allora i genitori, che in qualche modo si sentono rifiutati, adottano generalmente due comportamenti, entrambi negativi: o la lasciano sola, disinteressandosi completamente di quello che lei fa e di come lo fa, oppure non accettano che diventi grande: diventano succubi delle loro paure, delle loro difficoltà di adattarsi alla nuova situazione: non è più soltanto “nostra” figlia; sta diventando una donna, appartiene al mondo! La ragazza del Vangelo vuole crescere, vuole diventare donna, adulta, grande, autonoma. I suoi invece la stanno uccidendo, la stanno soffocando, non la vogliono lasciare, non sono preparati a perderla. Per questo non si regge sulle proprie gambe, non sta in piedi, non può confidare in se stessa, perché suo padre la soffoca: decide tutto lui (è il capo della sinagoga, lui sa!); la dirige, perché solo lui sa quali scelte sono buone per lei. È chiaro che questa figlia deve staccarsi da casa sua, deve tagliare il cordone ombelicale per poter crescere. È chiaro che per lei è difficile, perché ama suo padre. Vuole andarsene ma non vorrebbe procurargli troppo dolore.
Abbiamo mai pensato, fratelli miei, quanto sia difficile per i nostri adolescenti dirci di no, mettersi contro di noi, opporsi a noi? Ci vogliono bene, non vogliono deluderci, sentono di aver bisogno di noi. E se noi ci intromettiamo prepotentemente in tutto, potrebbero anche non affrancarsi mai. È chiaro allora che la figlia ha tutti i buoni motivi per mettere da parte suo padre, altrimenti non arriverà mai a realizzare la sua autonomia, non potrà mai trovare nessun altro uomo, né potrà vivere la sua vita. Ma è ancor più chiaro che Giairo deve lasciarla andare. Per lui, lasciarla andare, è come vederla morire. E sua figlia, come avviene nel vangelo, effettivamente muore. Giairo ricorre a Gesù: ma sua figlia potrà guarire, potrà rivivere, solo a condizione che lui accetti il fatto che sua figlia non è più una bambina ma una donna: e lo riconosce, inginocchiandosi davanti a Gesù; riconosce, cioè, di essere lui, in prima persona, il maggior responsabile della malattia della figlia, di essere lui la vera causa di questo disagio; e gli chiede aiuto. Ma Gesù non fa sconti a Giairo; la guarigione arriva soltanto dopo che la figlia è morta. Egli deve prima “distaccarsi” da sua figlia. Questo deve avvenire e avverrà. Giairo deve accettare questa “morte” dentro di sé. Persa la figlia, la bambina, deve accettare la donna, una donna che cammina con le sue gambe, che “è passata” ad un altro stile di vita. Amare è far diventare grandi, adulti, indipendenti, autonomi. Amarsi è diventare grandi, adulti, autonomi, responsabili della propria vita senza delegarla più a nessuno.
L’altra donna del vangelo, invece, è già adulta, ed è gravemente ammalata: soffre cioè di continue e dolorose perdite di sangue. Questa donna ha dei seri problemi con la sessualità, con la sua femminilità. La stessa religione ebraica le impedisce di guarire: lei impura non può toccare nessuna persona, tanto meno un maestro come Gesù: renderebbe impuro anche lui. È una donna che vive isolata perché rende impuro qualunque cosa o persona le capiti di toccare.
C’è una religione che guarisce e c’è una religione che invece ammala. Per esempio tutto ciò che era sessualità, fino a qualche tempo fa, era peccato. La donna dopo il parto poteva entrare in chiesa soltanto dopo quaranta giorni; avere rapporti sessuali prima del matrimonio era peccato gravissimo e se la donna rimaneva incinta, e non era sposata, il matrimonio riparatore doveva essere celebrato alle cinque o alle sei di mattina; se si guardava con ammirazione una donna era peccato; se si pensava intensamente ad una donna era peccato; qualche confessore si preoccupava soprattutto di “quei peccati”, tutto il resto era secondario. Parlare di sessualità era tabù; se uno aveva un qualsiasi problema sessuale doveva gestirselo da solo. La sessualità non era un piacere ma un dovere (coniugale) e l’unico scopo per viverla era fare figli. Una religione con tali convinzioni ha sicuramente contribuito a iniettare terribili sensi di colpa nelle coscienze di tanti fedeli. E le donne subivano! Certo non era così dappertutto e per tutti, ma quasi!
Oggi, come fede, come chiesa, dobbiamo avere il coraggio di parlarne apertamente, non soltanto per stabilire se la sessualità va praticata prima o dopo il matrimonio. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che la sessualità è la forza, l’energia più forte che come uomini, come donne, possediamo. Un’energia dirompente, intensa, passionale, esplosiva; un’energia che fa paura, e proprio per questo, deve essere gestita bene. È energia di vita. Dobbiamo capire cosa accade, cosa c’è in gioco, dobbiamo entrare in quest’argomento così vitale per l’uomo e per le donne: è nella relazione sessuale che nasce la vita: ora, se non c’è Dio qui, in quale altro posto c’è? Nella sessualità noi sperimentiamo infatti la forza creatrice di Dio, l’intensità e l’unione più grande di un rapporto; nella sessualità si innescano le paure più grandi: di essere dominati, rifiutati, traditi, di non lasciarsi andare, di non essere all’altezza, di essere vulnerabili; emergono la nostra aggressività, le nostre ossessioni e perversioni: ebbene, se non c’è bisogno di Dio, di guarigione, di comunicazione, di aprirsi qui, dove mai? Nella sessualità si vivono le unioni più profonde e le divisioni più grandi: per questo c’è bisogno di confronto, di relazione umana ed evangelica, di potersi esprimere, comprendere, donare.
L’oscurantismo e la paura di una volta erano sicuramente riflesso della paura della sessualità. Una paura, però, che ha portato per reazione all’attuale esaltazione insensata e delirante della sessualità: dal nulla, oggi navighiamo impunemente nel troppo!
A ben vedere, la donna del vangelo che soffre di emorragie è dissanguata non solo perché perde sangue ma perché ha perso tutti i suoi averi nella ricerca della guarigione. È una donna umile, una donna che dà, una che fa un sacco di cose per gli altri, che si “fa in quattro per gli altri”.
Il sangue è la forza vitale dell’uomo: senza sangue si muore! Il suo sangue è la sua affettività, i suoi sentimenti, che offre a tutti; ma dai quali non riceve niente. Il suo sangue versato è il simbolo di tutto quello che lei spende, dà, versa agli altri, ma che non crea e non fa nascere nulla. Questa donna ha dato la sua vitalità a tante persone ma non è felice, anzi è ammalata, triste, insoddisfatta e sola. E ciò perché ha sempre dato per ricevere. Dà per avere amore, per avere attenzioni, per essere riconosciuta, per “guarire”. Dà molto, ma lo fa per ricevere anche molto.
Ci sono due modi di dare: c’è chi dà perché è pieno di amore e c’è chi dà per ricevere qualcosa in cambio. Chi dà perché è ricolmo d’amore, lo fa con passione, con un entusiasmo che nasce dalla ricchezza del suo cuore. Non chiede niente, quindi non ha pretese, non colpevolizza gli altri se non fanno altrettanto e non fa la vittima se gli altri non lo ricambiano. Lui dà perché si sente sovrabbondante. Chi dà per ricevere, invece, ha bisogno di affetto, di attenzioni, di riconoscimento. E siccome non è in grado di chiedere, fa qualunque cosa, si distrugge, “si disfa”, pur di avere un ritorno. Siccome il suo cuore è vuoto, egli deve in ogni caso ricevere; ma non è mai pago: gli altri non lo fanno mai bene, non basta mai, non fanno come vuole lui, ha sempre da ridire.
Ciò che colpisce comunque di questa donna è il suo coraggio: infrange le regole e fa ciò che non si poteva fare: tocca Gesù. Ciò che fa è sfrontato, ardito, pericoloso; è una donna che vuole vivere ad ogni costo. Ciò che colpisce è la sua convinzione di poter guarire, il suo non adattarsi alla sua attuale condizione. Gesù le dirà alla fine: “La tua fede ti ha salvato”. Cioè: “è per questo coraggio, per questo credere al di là di tutte le tue sconfitte e le tue delusioni, che tu sei guarita. Tu hai dato fiducia alla vita che c’era in te, e non alle regole che invece la bloccavano; ecco, sei guarita”.
Questo è Gesù, fratelli. Gesù le dà esattamente ciò di cui ha bisogno: una forza che da lui passa a lei. Finalmente, forse per la prima volta, questa donna trova accoglienza, trova qualcuno da cui ricevere, qualcuno che non le chiede più soltanto di dare ma dal quale può finalmente ricevere amore e riconoscimento. Ma ad una condizione: Gesù chiede: “Chi mi ha toccato?”. Chiede cioè di uscire allo scoperto, di legittimare il suo bisogno di amore, i suoi impulsi e i suoi desideri. Ella deve venir fuori davanti a tutti e affrontare il giudizio della gente. Se prima gli si è avvicinata da dietro, di nascosto, adesso deve farlo davanti e davanti a tutti. Solo in questo modo la vita torna a circolare dentro di lei, e possiamo esserne sicuri, anche fuori di lei.
Ebbene fratelli, noi siamo vita: la vita vuole circolare liberamente in noi. La vita vuole uscire ed esprimersi da noi. Mettiamo allora in circolazione la vita che abbiamo dentro. Siamo vita che vuol vivere. Sì, fratelli: noi abbiamo bisogno di amare; abbiamo bisogno di dire a qualcuno: “Ti amo, ti voglio bene, sei importante per me”. Noi abbiamo bisogno di essere amati, abbiamo bisogno che qualcuno ci dica: “Ti amo, ti voglio bene, sei luce per i miei occhi”. Noi abbiamo bisogno di affetto: abbiamo bisogno di accarezzare e di essere accarezzati, abbiamo bisogno che l’amore che vive in noi esca attraverso le nostre mani, il nostro corpo, i nostri gesti, le nostre parole. Noi esistiamo e abbiamo bisogno di esprimerci. Abbiamo bisogno di sentire che ci siamo, che possiamo esprimerci, che possiamo scegliere, che possiamo plasmare la nostra vita. Abbiamo dentro di noi sentimenti ed emozioni che non possiamo lasciar languire. Tutto in noi è vita. Vita è il nostro pianto: abbiamo bisogno che le lacrime solchino il nostro volto perché in certi giorni soffriamo. Vita è la nostra rabbia: abbiamo bisogno che la rabbia, il nostro “no” a ciò che non ci va bene, esca fuori. Vita è lo stupore che portiamo dentro: abbiamo bisogno di fermarci e di congiungere le mani quando l’invisibile si fa visibile, quando la bellezza si dipana davanti ai nostri occhi, quando la tenerezza tocca il nostro cuore. Vita è la felicità che abbiamo dentro: abbiamo bisogno di cantare, di danzare, di ballare, di ridere e di sorridere. Vita è creare: abbiamo bisogno di fare di noi qualcosa di utile, abbiamo bisogno che la nostra vita produca altra vita. Vita è chiedere aiuto: abbiamo bisogno di sentire la presenza, la vicinanza, l’accompagnamento e l’amore di qualcuno per noi. La vita ci abita ma non può vivere se non la esprimiamo. Dobbiamo avere, come questa donna del vangelo, la forza di legittimarci, di tirare fuori tutta la vita che c’è dentro di noi e che vuol vivere. La vita per sua natura vuol espandersi, uscire, nascere. Bloccarla, è morire.
Fede è far vivere la vita che c’è in noi. Peccato, è seppellire e lasciar morire la vitalità che Dio ha messo in noi. La qualità essenziale della vita è la “vitalità”. Senza vitalità siamo come un mare senz’acqua o un campo senza terra. Senza vitalità siamo come un ramo secco attaccato all’albero: si aspetta soltanto che cada. Vitalità è amare sempre, con perseveranza, ad ogni costo, oltre ogni avversità. A volte pensiamo che i grandi amori siano come gli alberi secolari, destinati a sfidare qualunque tempesta, e soprattutto a lottare contro il tempo, senza mai venir meno, senza mai morire. Invece non è così, fratelli; anche un grande albero può perdere lentamente i suoi rami e diventare secco. I grandi amori, come gli alberi, non muoiono per un colpo di vento o per un po’ d’acqua in meno. Muoiono se li facciamo morire dentro. Pensiamo che vivano anche senza linfa vitale. Ma non è possibile. Due vecchietti sposati da tempo immemorabile sono seduti in stazione e aspettano il treno. Sulla panchina di fronte, siedono due giovani innamorati. I due anziani osservano la giovane coppia in silenzio. La ragazza abbraccia il ragazzo con tenerezza e lo bacia teneramente. L’uomo anziano, con gli occhi che brillano, sfiora la moglie con la mano e le sussurra: “Potresti farlo anche tu!”. L’anziana donna lo guarda sdegnato: “Ma se non lo conosco neppure!”. Non le era neppure sfiorato il pensiero che lui parlasse di loro due e non della giovane coppia. Ecco, questo è arrivare a non vivere fino in fondo la vita; questo è rimanere senza linfa e far morire la vita dentro. Amen.
 

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