mercoledì 30 maggio 2012

3 Giugno 2012 – Santissima Trinità

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 16-20).
Oggi è la festa della Trinità. Una solennità in cui la Chiesa celebra un Dio che è comunione, amore, relazione, famiglia. Dio non è un’entità solitaria, ma una realtà dinamica, viva e “relazionale”. Sì, fratelli, Dio è “relazione”: Dio è amore e comunione. Relazione, amore, comunione, sono concetti che tutti conosciamo, che tutti sperimentiamo nella nostra vita. Nell’amore, infatti, ciò che conta è l’essere uniti, legati insieme dalla condivisione, essere all’unisono, senza per questo perdere la propria identità: è importante donarci senza perderci; è importante essere uniti senza annullarci, è importante rimanere divisi senza separarci. È da questi concetti che noi possiamo trarre un’idea di Dio Trinità, dell’amore trinitario: un Dio unito ma non uniforme; separato ma non diviso. La Trinità, prima di essere dogma, è quindi per noi esperienza: quella stessa esperienza che fecero i primi cristiani e i primi discepoli. Sperimentarono cioè che Dio è amore, che Dio è relazione, che in Dio c’è unione ma non fusione, diversità ma non separazione. Capirono che il Padre, suo Figlio Gesù e lo Spirito, da una parte erano tre esperienze diverse, tre persone, ma contemporaneamente erano lo stesso Dio, erano la stessa esperienza. E per esprimere queste verità, utilizzarono l’immagine che tutti conosciamo: la famiglia. Sì, la famiglia è come Dio: è comunione, amore, relazione, un rapporto di stretta unione tra persone distinte… Ci sono tanti invece che dicono di sapere chi è Dio, ma non vogliono fare esperienza di Dio; e non capiscono che senza “provarlo” non arriveranno mai a capirlo. Non capiranno mai che Dio è relazione, amicizia, amore, incontro, comunione.
“La Trinità è relazione tra un Io, un Tu e un Noi” scriveva Papa Benedetto XVI: una magistrale definizione che esprime appunto l’esistenza di una relazione fondante, di un dialogo d’amore intimo: in Dio c’è un Padre che ama il Figlio e che è amato dal Figlio. Il loro amore è lo Spirito.
Questo fratelli è Dio-famiglia. Questa deve essere esattamente anche la nostra di famiglia: la vera forza della famiglia non sta tanto nel fatto che due persone stanno insieme, che convivono, quanto invece nella profonda e sacra relazione d’amore che si instaura tra loro. Più ciascuno di loro è se stesso (persona), più c’è profondità e maggiore è lo scambio, l’apertura verso l’altro; più c’è amore (spirito), più c’è complicità, confidenza, fiducia. Ecco perché ogni vera relazione deve essere in qualche modo trinitaria, deve cioè essere composta da tre elementi: l’io, il tu e il noi.
Lio significa che io sono io, che io ci sono, che io sto in piedi con le mie gambe, che sono persona. Io sono io e non te. Io sono unico (unus) e non posso confondermi con te. Molti pensano che fare le stesse cose significhi unione: sì, può aiutare, ma non è questa l’unità di due entità distinte. Molti pensano che stando insieme, alla pari, arriverà anche l’intimità. Ma non funziona così. Molti credono che vivendo in due i problemi personali di ciascuno passeranno. Ma non è così. L’unione, l’intimità, l’affiatamento si raggiungono soltanto attraverso l’accettazione dell’altro come persona, nella sua singolarità. Molti pensano di raggiungere un rapporto ideale mediante una totale “fusione” con il partner, mediante l’annientamento della propria personalità, nel non poter più vivere senza di lui, nel dipendere totalmente da lui, nell’attendere da lui qualunque cosa, ogni attenzione. Ma è una fusione destinata a frantumarsi. Ogni rapporto è così come siamo noi. Se noi siamo entità mature, consapevoli, aperte, lo saranno altrettanto anche i nostri rapporti, altrimenti no.
Lo stesso vale per il secondo elemento, il tu: vuol dire che tu devi essere te stesso; che tu non sei me e io non sono te. Per cui nella famiglia non dobbiamo fare necessariamente le stesse identiche cose; non dobbiamo pensarla esattamente alla stesa maniera; non dobbiamo essere “fusi”; ma uniti; due entità distinte, con tutte le loro caratteristiche e peculiarità, ma unite. Le coppie che fanno rigorosamente sempre e tutto insieme, nascondono la paura dell’individualità. Sembrano coppie romantiche, di grande amore, ma nel loro guscio c’è tanta paura. Tu sei tu e io sono io: non facciamo confusione. Unità non è uni-formità o uni-direzionalità. Se tu non sei tu, non accetterai neppure che io sia io. Perché prima o poi mi vorrai cambiare; perché vorrai che io faccia ad ogni costo esattamente come te; perché non accetterai la mia diversità, poiché non accetti la tua. Ciò che trasforma il rapporto in vera unità, in vera unione, è invece il terzo elemento, il noi. La vera forza della famiglia sta proprio nella relazione reciproca; è il rapporto fra l’io e il tu, che forma il noi. Nient’altro. È quello che costruiamo insieme, tu ed io, la nostra “coesione”, la nostra unità. È quello che c’è fra me e te che ci tiene uniti. Se non c’è niente tra noi, non può esserci rapporto, è normale. Magari staremo anche insieme, ma solo per convenienza, per abitudine; forse anche per paura di iniziare a vivere veramente, preferendo piuttosto tirare avanti.
È il noi che dice quanto ci amiamo. È lo spirito che c’è fra me e te che dice com’è il nostro rapporto: un rapporto vero, intenso, è infatti dato dalla capacità che due persone hanno di uscire individualmente da sé stesse (senza perdersi) per creare un noi, uno spazio in cui possono esprimersi e accogliersi.
La relazione è quindi l’elemento universale indispensabile per ogni rapporto, ne è lo stile. In questo senso l’amore deve essere relazionale: deve cioè dare e ricevere, altrimenti non è amore. Il parlarsi deve essere relazionale: altrimenti diventa monologo, autoritarismo, imposizione. Se non accetto le posizioni dell’altro, se non lo ascolto, se non cambio io stesso, non c’è relazione. Relazionarsi vuol dire sentire, ascoltare l’altro, cercare di capire chi è, cosa gli piace, cosa desidera. Senza la relazione, le persone sono solo oggetti. Anche l’educare deve essere relazionale; come pure il lavoro, il gioco, l’amicizia, la preghiera. Tutto deve essere improntato alla “relazione”, tutto deve corrispondere al nostro “stile” di vita: e vivere in uno stile relazionale vuol dire appunto vivere secondo il modello trinitario. E tanto basta; perché per noi cristiani è il massimo.
Proprio per questo, fratelli miei, dobbiamo lavorare sodo sul nostro relazionarci: è infatti la qualità delle nostre relazioni che ci qualifica come cristiani; sono le nostre relazioni che, ci piaccia o no, danno un valore e un senso alla nostra esistenza.
A volte ci lamentiamo e diciamo: “Nessuno mi ama! Sono solo!”. È vero; ma dovremmo anche chiederci: “Ma io, in che maniera mi pongo?”. Perché se è vero che abbiamo il diritto di essere amati, è altrettanto vero che abbiamo il dovere di renderci amabili. Se gli altri ci rifiutano, spesso lo fanno perché hanno ottimi motivi per farlo. Se nessuno ci ama, per prima cosa dobbiamo verificare se non dipenda proprio da noi. Non meravigliamoci. Noi tutti sappiamo infatti che la bontà della nostra vita, la nostra maturità, la nostra serenità, l’amore, l’armonia, la preghiera, la fede, dipendono semplicemente dalla nostra capacità di intessere relazioni positive, sane, profonde e durature. E oggi, cari fratelli, la Trinità ci ricorda appunto questo: che tutto è “relazione”; che il Tutto è “relazione”; che Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, sono in perenne “relazione”; e che pertanto anche noi, creature mortali, dobbiamo vivere sempre in “relazione”. È questo il nostro DNA trinitario. Amen.


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