venerdì 11 novembre 2011

13 Novembre 2011 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì…».
La parabola è semplice: c’è un padrone che affida i suoi beni, i talenti, ai suoi tre servi che, di fronte alla sua iniziativa, assumono due atteggiamenti contrastanti: i primi due, molto attivi, si danno da fare, investono, rischiano e fanno fruttare il capitale; il terzo, al contrario, si lascia prendere dalla paura, dallo sgomento, si emargina e pensa bene di nascondere la somma ricevuta piuttosto che impegnarsi nel capitalizzarla. Al rendiconto finale i primi due riceveranno una ricompensa molto più sostanziosa di quanto essi stessi abbiano guadagnato, mentre il terzo verrà condannato per la sua inattività, per il suo inutile isolamento che lo ha portato ad una gestione dei beni affidatigli totalmente negativa.
L’insegnamento che si può cogliere da tale parabola è ovviamente quello classico: “Metti a disposizione di Dio e del prossimo i tuoi talenti, le tue doti, le tue capacità e datti da fare, investi con intelligenza questo capitale, in maniera che anche gli altri ne traggano beneficio; non trascurarlo, di qualunque entità esso sia, non nasconderlo senza fare nulla, perché procureresti un grave danno a te e al prossimo”.
Abbiamo parlato di “talenti”, ossia di doni, di potenzialità, di carismi che ognuno di noi in varia misura ha ricevuto gratuitamente da Dio: identificarli e applicarli alla nostra vita pratica, è molto semplice. C’è da dire, prima di tutto, che ci sono “talenti” che di solito non li pensiamo immediatamente come “dono”, e che invece meritano tutta la nostra considerazione, meritano di essere trattati con estrema cura e messi doverosamente a frutto.
Per esempio: un talento importantissimo è la vita; un capitale, un dono incredibile e irripetibile la vita, cui spetta ogni attenzione e cura: ci pensiamo mai a tanta responsabilità? Vogliamo forse buttarla via, declassarla, svalutarla, preferendo l’isolamento materiale e mentale, l’ignoranza, l’autodistruzione, piuttosto che la crescita nei nostri ruoli, nelle nostre possibilità, nei nostri meriti, in vista dell’inserimento finale nel regno?
Un talento altrettanto importante è la libertà: ci è stata data la possibilità di essere sempre noi stessi, di assumerci la responsabilità delle nostre azioni, di coltivare idee nuove, di lottare per un “nostro” ideale; approfittiamo di questa opportunità per combattere, per lottare e vincere, oppure preferiamo nasconderci, accomodanti e indolenti, accettando qualunque compromesso pur di evitare i giudizi della gente, ai quali abbiamo condizionato la nostra vita?
Altro talento da sviluppare è la verità: come la vediamo? la cerchiamo caparbiamente, vogliamo trovarla, viverla, costi quel che costi, osando, rischiando se necessario anche la faccia? oppure preferiamo nascondere stupidamente l’evidenza, vivere nell’ignoranza, chiudere gli occhi della mente, perché la sua luce, la sua chiarezza, la sua splendida trasparenza ci incutono troppa paura?
Un altro talento ancora è la nostra “chiamata”, la nostra vocazione: talento preziosissimo. Come lo curiamo? Lo viviamo con generosità, con entusiasmo, perché sappiamo che rappresenta la volontà di Dio? Rispondiamo al suo invito, accettiamo senza indugio il ruolo che Lui ci ha assegnato, senza condizionamenti e meschini “distinguo”; viviamo le conseguenti contrarietà e sacrifici, accettandoli con animo gioioso, consapevoli che essi sono strettamente legati al progetto di vita che Dio ha previsto per noi? Oppure pensiamo di vivere rinunciando a noi stessi, a tutte le nostre concrete possibilità di servizio, nascondendoci dietro al pretesto di non essere all’altezza di alcuna chiamata? Ci trasciniamo stancamente in una esistenza piatta, priva di ideali e di interessi? Ma, fratelli, ci pensiamo mai a come potremo giustificarci poi?
Un altro talento, infine, è soprattutto la nostra anima: forse il più dimenticato, pur essendo la nostra essenza, quel soffio di vita che il creatore ci ha donato con la nascita. L’anima: la nostra amica, la nostra consigliera, la nostra confidente. Cerchiamo con tutte le nostre forze di farla crescere, maturare, sviluppare, oppure preferiamo accantonarla, lasciarla lì a dormire, a vegetare, inascoltata e tradita; in altre parole non è che la lasciamo morire di inedia, solo perché abbiamo paura di confrontarci con Lui attraverso di lei?
I nomi che possiamo dare ai vari talenti, come abbiamo visto, possono essere tanti. Ma il possesso di ciascuno, anche di uno solo, presuppone sempre un comportamento responsabile, un lavoro costante, attivo e propositivo: rinunciare a ciò con un atteggiamento di menefreghismo, di abbandono, di indifferenza, significa cedere inesorabilmente alla paura, all’indolenza, all’ignavia, alla codardia.
È da questa serie di sentimenti negativi che noi dobbiamo guardarci, fratelli; la vicenda del terzo servo ce lo insegna: perché egli fu indubbiamente vinto dalla paura; anzi da un insieme di paure che lo spinsero a seppellire il proprio talento, vanificandone qualsiasi potenzialità.
Sono sentimenti, questi, sempre di grande attualità, sempre negativi e invalidanti, che meritano quantomeno una veloce analisi.
La prima paura è quella del “confronto”, del giudizio della gente: il servo ha il terrore di come gli altri potrebbero valutare le sue iniziative. Avverte un ingiusto svantaggio perché, con un solo talento in dotazione, si sente nettamente inferiore agli altri, meno dotato di loro, e quindi rifiuta categoricamente di dimostrare anche quel poco che ha, quel poco che è, pur avendo una sua realtà, una sua innegabile dignità. Sembra dire: “Io, con un solo talento, sono il più sfortunato! Loro ne hanno tanti! Io non ho le stesse possibilità. Non posso rischiare di sbagliare, ho soltanto questo talento e me lo devo tenere molto stretto. Del resto la colpa non è mia; è del padrone che me ne ha dato uno solo!”. Ma il padrone, che gli legge dentro, lo redarguisce: “Malvagio, bugiardo, falso: vuoi giustificare la tua stupidità, la tua inefficienza, la tua pigrizia, dando la colpa a me? Vuoi giustificare la tua paura di rischiare, dicendo che l’hai fatto per me? Prenditi le tue responsabilità. Fuori da qui, nelle tenebre!”. E questo, fratelli, la dice lunga: perché chi vive senza far niente, nell’abulia, nel disinteresse, rinunciando a qualunque iniziativa, finisce inesorabilmente nelle tenebre del nulla!
Quando uno comincia a chiedersi se è più dotato degli altri, se è migliore o peggiore, se l’altro è più o meno bravo di lui, se ha più soldi, più intelligenza, più simpatia, più consensi, più donne… beh, allora vuol dire che è già sulla buona strada per rovinarsi da solo.
Nella vita, fratelli miei, ci sarà sempre qualcuno inferiore a noi, che noi puntualmente disprezzeremo; ma soprattutto ci sarà qualcuno superiore a noi, che noi, altrettanto puntualmente, invidieremo con tutto il cuore, approfittando della cosa per commiserarci e per piangerci addosso dalla rabbia. Le persone si rovinano perché non guardano mai a loro stesse, a quel che sono, a quel che possiedono, alle loro possibilità; ma guardano sempre con invidia agli altri: a quel che hanno, come vivono, cosa fanno. Pensate all’assurdità del comportamento di questo disgraziato che, frastornato dalla ricchezza dei colleghi, nasconde agli occhi di tutti, sotterrandola,l’unica cosa preziosa che è veramente sua, di cui potrebbe invece andarne fiero: preferisce non confrontarsi, si limita a guardarli da lontano in azione, macerandosi nell’invidia e nello sconforto. Non riesce ad accettare che essi siano più bravi di lui, e rinuncia stoltamente alla possibilità concreta di esprimere umilmente quello che lui è e quello che sa fare.
Non sono pochi, fratelli miei, quelli che si comportano così; sono più di quanti ne possiamo immaginare: si credono umili, remissivi, provati e tartassati dalla vita pur essendo dei giusti e timorati di Dio; si sentono bravi e santi, perché fanno delle rinunce (che poi non volontarie, e meritorie ma inevitabili, imposte dalla vita); in realtà sono pieni di orgoglio, rinunciano a fare perché hanno paura di rischiare, di mostrarsi deboli e insicuri, di essere giudicati negativamente. E così perdono ogni dignità, ogni credibilità; e per questa loro ossessione, vivono decisamente male, nei pregiudizi e nelle paure.
La seconda paura del servo, sicuramente quella determinante, è la paura che gli deriva dall’immagine distorta di Dio che egli si è fatta. Quest’uomo prova nei confronti di Dio soltanto paura, un sacro terrore: «Signore so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra» (25,25).
Ma che Dio è questo, fratelli miei? Chi non sarebbe terrorizzato, paralizzato, da un Dio implacabile che non ammette errori? Che idea di Dio si è mai fatta questo poveraccio? Come avrà fatto? Che razza di uomo è? Semplice, fratelli: è un uomo che agisce in maniera speculare all’immagine di quel Dio che lui stesso si è costruito nel suo intimo. In altre parole, lo stesso terrore che ho nei confronti di Dio, lo nutro anche nei confronti di me stesso: ho una paura folle di vivere, di quello che potrebbe rivelarmi la mia anima; ho il terrore di ascoltarmi, di vivermi. Se invece sono convinto che Dio è amore, allora la mia vita è serena, posso guardarmi tranquillamente dentro l’anima, dando nome e spazio a tutto ciò che di bello vi trovo. Se Dio mi ama, mi sento di provare, di rischiare e anche di sbagliare, ma sono comunque tranquillo, so che Lui mi ama, mi consola, mi perdona: la condanna arriva soltanto se non ne può fare assolutamente a meno, e dipende sempre e soltanto da me, mai da Lui. Se Dio per me è fiducia, mi spingo ad osare, volo sempre in alto; non mi rinchiudo in una falsa sicurezza, nel terrore e nel legalismo. Se Dio per me è Vita, mi riesce naturale vivere, espandermi, realizzarmi; trovo invece assolutamente innaturale lasciarmi appassire, lasciarmi morire.
È proprio così, fratelli: se ho paura di Dio, non posso vivere; se penso di non poter vivere, vuol dire che ho paura di Dio; non c’è alternativa. Gravissima malattia, fratelli, quella di pensare Dio come un padrone autoritario, un giudice severo, spietato e inappellabile. Una malattia che anche in un passato non troppo lontano mieteva le sue vittime. Nell’educazione dei giovani del mio tempo veniva inculcata la paura di Dio, il terrore delle conseguenze implacabili del peccato, il terrore di affrontare per causa sua pene indescrivibili, fiamme e fuoco eterni. Si viveva nel terrore del peccato – e una volta tutto era peccato, proprio tutto – nel terrore di perdere la grazia, di sbagliare, di commettere qualcosa di non gradito a Dio: con il risultato di creare in essi una concezione distorta di Dio. Io stesso ho conosciuto più tardi persone che, condizionate allora da questa terrificante immagine di Dio, sono cresciute con una personalità bloccata, sterile, rigida, vuota; persone incapaci di amore e di umanità; persone che magari si buttavano nella preghiera, persone devotissime, sempre in chiesa per rosari e giaculatorie, ma che avevano un’anima priva di Vita, perché non conoscevano la gioia e la felicità dell’amore di Dio.
Ebbene, Dio non è così, fratelli! Non è quello il nostro Dio: se noi lo temiamo soltanto, se abbiamo solo terrore di Lui, vuol dire che di Lui non abbiamo capito nulla, vuol dire che dobbiamo immediatamente cambiare idea. Perché Lui è soprattutto amore; è Lui stesso che ci sussurra amorevolmente: “Venite a me voi tutti… affaticati e oppressi, ed io avrò cura di Voi”. Ascoltiamolo!
Una terza paura è quella legata all’insicurezza. Il servo del Vangelo ha paura di sbagliare. Non vuole fare errori; ma proprio perché non li vuol fare, compie l’errore più grande. Vorrebbe controllare ogni minima sfumatura della sua vita, renderla assolutamente sicura, in tutto. Ma non si può! Non ci si può proteggere da tutto e da tutti; non si può vivere convinti di non sbagliare mai. Pensare così significa pretendere la perfezione assoluta, umanamente impossibile: in realtà equivarrebbe a non vivere. Perché vivere è sì crescere, diventare migliori, più profondi, inseriti nel mistero della vita. Ma vivere è anche sbagliare, innamorarsi, perdersi e ritrovarsi; chiudersi e aprirsi; andare anche in depressione, in fallimento, in crisi, ma poi rialzarsi. Vivere è piangere, è ridere. Vivere è sentirsi addosso tutta la tristezza del mondo, percepire in certi giorni un dolore profondo, antico, ancestrale; ma vivere è provare anche quella felicità ed ebbrezza che ci fanno sentire beati e felici già su questa terra. Ecco: volersi precludere tutto questo è precludersi la vita.
L’uomo del vangelo ha paura del padrone e cerca di tutelarsi. Vuole essere certo di piacergli, e non si accorge che la paura lo costringe a fare scelte sbagliate di se stesso e della sua vita. Purtroppo chi vuol controllare tutto - e lo fa per paura, perché sente di non essere in grado di affrontare e gestire la situazione - alla fine perde il controllo di tutto. Chi nella vita cerca solo sicurezze, è fondamentalmente un debole, uno che ha paura di se stesso, e che finisce sicuramente per sbagliare.
«Per paura andai a nascondere il tuo talento». Una paura folle, quella del servo, dovuta anche alla sua insicurezza. Sì, perché l’insicurezza chiude, quando invece l’amore e la fiducia aprono. L’insicurezza evita, la fiducia incontra. L’insicurezza crea paura e diffidenza, la fiducia amore. L’insicurezza crea sospetto e pregiudizio, la fiducia complicità. L’insicurezza fa vedere tutti gli uomini come dei nemici, la fiducia come semplicemente delle persone, delle nuove possibilità d’incontro. L’insicurezza ha bisogno di combattere, di difendersi, di proteggersi, di mettere barriere; crea ansia, crea controlli e difese su tutto.
Abbiamo paura del giudizio degli altri? Tranquilli: è la vita. Non potremo mai impedire agli altri di pensare e di parlare, qualunque cosa facciamo, in qualunque modo la facciamo. Accettiamo allora che essi possano non essere d’accordo con noi, che possano non capirci o fare scelte diverse, perché noi tutti siamo venuti a questo mondo non per rispondere alle aspettative altrui, ma per vivere la nostra vita, per capitalizzare quel grande talento che Dio ci ha affidato. E dobbiamo farlo combattendo sempre, provando e riprovando, nonostante la paura e l’insicurezza. Anzi, dobbiamo combatterla proprio, l’insicurezza, perché è nemica dichiarata della fede, del nostro “credo” fiducioso.
E concludo: penso, fratelli, che l'insegnamento per noi e per i nostri giovani che crescono con la mentalità di oggi - che privilegia il divertimento, il consumismo, le chiacchiere inutili – sia proprio questo: nella vita, sia materiale che spirituale, bisogna impegnarsi sempre, ricominciare sempre da capo, non arrendersi mai; vivere intensamente, senza pause, senza soste, senza “intermezzi”; questa è la prospettiva giusta: perché per un cristiano il tempo libero non esiste: fino a quando c'è tempo e vita, egli deve essere in azione, deve darsi da fare per il Signore, per il prossimo, per la Chiesa, per la società. Un cristiano inattivo, che non faccia nulla, che si consideri in “vacanza”, che abbia nascosto il suo talento per tenerlo al sicuro senza preoccupazioni, è semplicemente inconcepibile. Vivere solo per cose futili, senza mai trovare il tempo per un incontro, un'attività, una collaborazione, una presenza, non è vivere da cristiani: significherebbe venir meno agli impegni di fede, di preghiera, di carità, con tutto quel che segue. La vita di chi vuol seguire Cristo è una vita in continua tensione, nel bene, nella carità, nelle opere buone. Non possiamo arrenderci mai, fratelli miei, neppure quando, avanti negli anni, pensiamo di aver raggiunto il nostro meritato “traguardo”: niente di più falso; perché quello che abbiamo guadagnato per Dio, durante tutta la nostra vita, sarà sempre nulla, una miseria, rispetto a quello che abbiamo ricevuto da Lui.
Non imitiamo, fratelli, il terzo uomo del Vangelo che si sente in regola nella sua inefficienza: noi, che ci dichiariamo discepoli di Cristo, noi che abbiamo avuto in consegna da Lui, tutti indistintamente, un “talento” importantissimo, che è l’amore di Dio, noi, dobbiamo impegnarci seriamente a metterlo a frutto: ogni giorno, instancabilmente. È un “talento”, un tesoro, di inestimabile valore; non lasciamolo inerte, non trascuriamolo, perché il nostro vivere, il nostro crescere, il nostro dare frutto, sono strettamente proporzionali all’offerta che di esso ne facciamo agli altri.
Sì, fratelli, possiamo aumentare il nostro guadagno da presentare al Padre, elargendo la carità e l’amore avuti da Dio, ai nostri fratelli: in parrocchia, nella società, in famiglia, negli ambienti in cui viviamo e lavoriamo. Le opportunità per realizzare questa nostra missione, sono anch’esse altrettanti doni che Dio ci ha affidato, altrettanti “talenti”: e anche su questi dovremo rispondere a Lui. Pensiamoci con calma ma seriamente, fratelli: perché è un vero delitto perdere qualunque opportunità di dimostrare al mondo che Dio è Amore. Amen.


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