mercoledì 21 settembre 2011

25 Settembre 2011 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò...».
Per quel poco che facciamo, noi ci consideriamo a buon diritto gli operai della prima ora, quelli che da una vita si impegnano attivamente nella vigna del Signore; quelli che (almeno a sentir noi!) sopportano eroicamente il caldo e le fatiche di un lavoro nascosto, sconosciuto ai più, ingrato e sottovalutato; quelli che hanno sempre il broncio, perché convinti di essere sottostimati, presi di mira; quelli che soffrono di vittimismo: che dovrebbero gioire vedendo che anche altri fratelli sono chiamati a lavorare nella stessa vigna al loro fianco; quelli che dovrebbero entusiasmarsi perché altri come loro possono giustamente sperimentare la dolcezza e la bellezza di appartenere a Dio, di servirlo più da vicino; invece no, fratelli: noi siamo gelosi. Ci sentiamo defraudati di un nostro diritto “esclusivo”. Siamo sempre all’erta, sul chi va là, diffidenti, perché, non si sa mai, qualcuno dei nuovi arrivati potrebbe farci lo sgambetto.
Eppure, nonostante ciò, giriamo tutto il giorno con un sorriso posticcio, affettato e falso, immancabilmente stampato sul viso; cerchiamo sempre di apparire solleciti, amabili, ma senza convinzione, senza alcun vero coinvolgimento, giusto quel tanto che basti a salvare le apparenze. Eccoci dunque: questi siamo noi, fratelli; siamo tutti un po’ così, operai della prima ora, sì, ma “calcolatori”, “sindacalizzati”, quelli appunto che Gesù ha strapazzato per benino domenica scorsa; e noi, guarda caso, ci siamo anche rimasti male. Non abbiamo ancora capito, e continuiamo a non capire, che se il Signore ci tratta così, se pretende di più da noi, se sembra essere più esigente con noi, è perché ci ama di più. Ci ha scelti e chiamati per una missione speciale, e noi inizialmente abbiamo anche risposto subito con entusiasmo, ma poi un po’ alla volta ci siamo adagiati, ci siamo persi nelle derive della quotidianità, dell’abitudinario. Abbiamo cominciato a fare calcoli, a cercare il nostro tornaconto e a piantare i nostri “distinguo” anche con Lui, con il Padre. Egli cerca in ogni modo di scuoterci, di farci capire che così non va, che l’unica via da percorrere è quella dell’amore, del disinteresse, della generosità, ma noi siamo duri, immobili nelle nostre posizioni di ottusi zucconi. E di grandi permalosi.
Ecco perché anche oggi Gesù riprende il discorso sui suoi operai; ci fa capire che il Padre non gradisce dei discepoli mezze tacche, dei bamboccioni viziati, ma vuole gente leale, generosa, tutta d’un pezzo.
Il nostro Dio non gradisce l’esteriorità, il manierismo, i giochetti politici; non ama il doppio gioco, il far vedere una cosa e pensarne un’altra, l’esibire come fede una grande devozione in chiesa, e poi far finta di niente: sono cose che ormai dovremmo sapere molto bene. Ma saperle non basta!
Non ci dobbiamo quindi stupire se, in linea con il tema dei lavoratori della vigna, oggi Gesù continua la sua lezione, se ci impartisce un ulteriore insegnamento, altrettanto provocatorio, altrettanto indigeribile, ma altrettanto essenziale.
Se c’è infatti una cosa, una soltanto, che manda su tutte le furie il Padre misericordioso, una cosa che lo irrita profondamente, non è il peccato, il mancargli di rispetto, ma l’ipocrisia: il nostro tentativo cioè di presentargli per buona, sincera e convinta una cosa, quando invece, noi per primi, sappiamo bene che non lo è.
Per questo potremmo definire la parabola di oggi, quella “del dire e del fare”: Gesù, in pratica, racconta di due figli che di fronte alla richiesta del padre, a voce si esprimono in un modo, ma poi nei fatti si comportano esattamente al contrario; improvvisamente cambiano idea: uno dice "sì" ma non fa, l'altro dice "no" ma ci ripensa e fa.
Ecco: è questa inaffidabilità, questo agire da banderuole, da insensati, che il Padre non ama; e c’è di più: Gesù ci fa addirittura capire che preferisce il figlio anarchico e svogliato, quello che d’impulso dice “no”, quello che comunque esprime con franchezza il suo pensiero mettendosi in discussione, a quell'altro che, salvando l'apparenza del bravo ragazzo, educato e ossequiente, gli risponde “sì”, ma in realtà non muove un dito.
In altre parole, Gesù non ama quella forma di religiosità epidermica, di facciata, che si ferma superficialmente al rito, alla devozione sterile, e che è assolutamente inefficace per un significativo cambiamento della nostra vita.
Quante persone si comportano così, fratelli miei! Persone che vivono in assoluta contraddizione con quel che credono; persone che hanno adottato un modus vivendi di comodo, in aperto contrasto con quel “credo” che a voce alta professano ogni domenica davanti alla comunità. Sono persone che dicono esternamente un “sì”, che poi nella realtà è un “no”! Non fanno ciò che dovrebbero fare, ciò a cui sono chiamate; non arrivano a sentire il sussurro dell’anima, non hanno il coraggio di seguire le vibrazioni del cuore, la passione che brucia dentro.
Quante ce ne sono, fratelli: tante, tantissime, troppe. Ci consoli almeno sapere che ce ne sono altrettante che, pur dichiarandosi atee e non credenti, affrontano la loro esistenza con grande onestà e correttezza, fedeli alla propria coscienza, consapevoli della propria umana fragilità.
Ma noi, noi in particolare, come ci comportiamo? Anche noi, spesso, quando Dio ci affida un compito, quando dobbiamo soddisfare una sua richiesta, in prima battuta abbiamo una reazione di rifiuto: “No, non ci vado”; “No, non lo faccio”. E perché mai? Semplice: non capiamo quello che Dio vuole da noi; siamo diffidenti; siamo convinti che quello che ci propone è un qualcosa più grande di noi, delle nostre possibilità, che richiede volontà, applicazione, e tanto sacrificio; pensiamo di non farcela, sentiamo che le nostre forze non sono sufficienti; le nostre paure, i nostri scrupoli, la nostra pochezza, il nostro egoismo, la vergogna di apparire "diversi" rispetto agli altri, ci bloccano, ci immobilizzano: insomma non vogliamo metterci in discussione. Per fortuna poi, dentro di noi, riusciamo a capire tutta la serietà e l’importanza di questo nostro essere scelti; finalmente capiamo che bisogna andare, reagire, muoversi, dirgli di “sì” con tutto il cuore, anche se questo ci sembra pazzesco, folle. Non dobbiamo fare troppi calcoli, dobbiamo deciderci, fratelli: dobbiamo semplicemente andare, dobbiamo fidarci, dobbiamo buttarci; non possiamo aspettare oltre, non possiamo perdere altro tempo. Capita l’importanza della traversata, preparata la barca e noi stessi, dobbiamo levare l’ancora e partire, navigare, navigare. Non possiamo rimanere per sempre immobili nel porto. Una volta che abbiamo intuito la volontà di Dio, non possiamo continuare a tergiversare, far finta di nulla, continuare a stare inerti, non uscire dal porto, dal nostro guscio, dalle nostre sicurezze: sarebbero occasioni di fare qualcosa di grande, mancate, incompiute, mai fiorite, mai sbocciate, e questo solo per colpa nostra. Un vero peccato, fratelli! Forse qualche volta abbiamo anche detto subito di “sì”, magari trascinati dall’emozione di udire la Sua voce dentro di noi; ma passato il momento magico della professione religiosa, del presbiterato, del matrimonio, il nostro “sì” si è bloccato, si è fermato, non l’abbiamo più approfondito, non ha messo radici, non ha trovato consistenza e terreno fecondo nel nostro cuore. E nel tempo è diventato un “no”: la nostra entusiastica adesione iniziale alla chiamata, si è spenta. Per la nostra aridità. Ebbene, fratelli, non è questo che Dio vuole da noi: dobbiamo invece continuare senza sosta a lavorare alacremente nella sua vigna: Dio ci ha chiamati, già col battesimo, proprio per questo; è questo che dobbiamo fare per la società in cui viviamo, per i nostri fratelli, per la Chiesa, per il mondo; è ciò che tutti, indistintamente, si aspettano tacitamente da noi! Del resto è il compito che Dio ci ha affidato; per cui ci ha concesso doti particolari, per cui ci assiste continuamente con la sua grazia. Sono doni che non possiamo lasciare incolti; non possiamo esimerci, non possiamo fare altrimenti. Riattizziamo quel fuoco della sua Parola che ci bruciava dentro e muoviamoci in fretta, agiamo! Agire vuol dire riconoscere per valida la sua chiamata, vuol dire capirne l’importanza, vuol dire rispondere “si”, con i fatti, a Dio e a noi stessi.
Abbiamo bisogno di tanta onestà: dobbiamo armarci di grande rispetto per Dio, per noi e per gli altri; un rispetto soprattutto morale, di tanta sincerità e umiltà. Lasciamo che siano le canne al vento a fare chiasso. Noi, lavoriamo nel silenzio.
Guardiamo a Gesù: che uomo è stato! Un uomo vero, trasparente, coraggioso fino in fondo, senza le nostre piccole e grandi bugie, senza le nostre meschinità: seguiamo le sue orme, cerchiamo di essere anche noi uomini “del sì” come Lui; anzi, ci siamo mai chiesto che uomini siamo noi? Come ci comportiamo? Per esempio, quando dobbiamo difendere la nostra fede, i nostri ideali, le nostre convinzioni, testimoniandoli in pubblico, vincendo il “rispetto umano”, e non lo facciamo, nascondendoci per paura o per vergogna, ci siamo mai chiesto che uomini siamo? Quando non abbiamo il coraggio di guardare dentro il nostro cuore per paura di soffrire o di scoprire le nostre miserie inconfessabili, tutte le nostre magagne, che uomini siamo? Quando pretendiamo onore e rispetto, ma noi trattiamo gli altri con alterigia, disprezzo e rancore, che uomini siamo? Quando nella nostra vita sociale ci professiamo pacifisti convinti, rispettosi dei diritti del prossimo, salvo poi aderire a manifestazioni e cortei per la pace, spaccando tutto quello che troviamo, che uomini siamo? Quando in società ci teniamo ad ogni costo a passare per cittadini modello, salvo poi evadere il fisco e non pagare le tasse, che uomini siamo? Certo, essere veri, dire sempre la verità, essere trasparenti in tutto, non ci garantisce assolutamente una vita tranquilla; ma sicuramente ci fa sentire uomini e donne veri. Non ci darà molti soldi e forse neppure molte amicizie, ma ci darà una cosa che niente e nessuno può darci: la nostra dignità.
Ecco, fratelli: questa è in sintesi l’onestà che Gesù ci chiede nel vangelo di oggi: e la richiede sopratutto quando ci rapportiamo con i nostri fratelli e con Lui.
Evitiamo pertanto di indossare davanti a Dio il nostro vestito bello, quello della festa, quello del perfetto devoto, del perfetto cristiano; indossiamo invece sempre quello dell’onestà, quello, a volte lacero e sporco, del sincero cercatore di Dio, del discepolo che mendica dignitosamente da Lui, senso e luce per la propria esistenza. Senza questa verità e onestà, fratelli, finiremo col perdere la strada, col tradire la fiducia che Dio ha riposto in noi; finiremo col costruirci un altro Dio da adorare, uno che assomiglia troppo a noi stessi… Una religione che si esaurisce nella esteriorità della preghiera e del culto, nella menzogna e nel timore!
Gesù ci chiede di imitarlo sia nelle parole che nelle opere, senza perdere tempo nella ricerca di coerenze pagane di questo mondo, ma nella serena consapevolezza che l’aver incontrato Lui e il suo Vangelo ci obbliga automaticamente a cambiare vita.
Non comportiamoci come quei cristiani che vivono nella loro coscienza in compartimenti stagni: quelli che si ricordano di Dio forse cinque minuti al giorno, un’ora a settimana, e finita la benedizione della Messa, amen! E lasciano volentieri Dio da solo nei tabernacoli! Non celebriamo il Dio della vita con azioni di morte, fratelli! Siamo autentici con Dio. Non lo blandiamo. Non pretendiamo di indossare davanti a Lui un abito che non è il nostro e che ci sfigura. Presentiamoci invece a Lui, nella nudità imbarazzata dell’essere come siamo, umilmente autentici. Amen.


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