mercoledì 3 agosto 2011

7 Agosto 2011 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

Il testo del vangelo di oggi segue immediatamente quello della moltiplicazione dei pani di domenica scorsa. Saziata la folla Gesù, con fare deciso, costringe i discepoli a salire sulla barca per fuggire proprio da quella folla che, dopo il portentoso miracolo cui aveva assistito, lo considerava sempre di più un “uomo-mito”. Gesù sapeva perfettamente quanto fosse pericoloso il consenso generale e il successo, conseguiti oltretutto in un contesto di così grande emozione. Certo, essere importante, essere famosi, ci fa piacere, ci fa sentire qualcuno, ci fa sentire amati, voluti, desiderati. Ma insegna Gesù bisogna fare attenzione, perché il successo può dare veramente alla testa: si rischia di stravolgere la propria vita, di non vivere più come siamo, o come dovremmo essere, per finire di vivere unicamente condizionati dall’idea fissa di mantenere e accrescere il successo ottenuto, la fama, la gloria. Per questo Gesù, senza frapporre indugi, ordina ai discepoli di abbandonare la scena: e lui stesso si ritira in un luogo appartato, per pregare in solitudine.
E qui appare immediatamente una contrapposizione: Gesù se ne sta da solo mentre i discepoli sono insieme; Lui è sulla terra ferma, sul solido, sul sicuro, mentre loro sono nell'acqua, nell'instabilità, nella insicurezza. Lui è calmo, tranquillo, sereno nella sua immobilità, mentre loro si agitano, si affannano e lottano senza combinare nulla.
Una contrapposizione che si risolve in un evidente invito: in altre parole il vangelo ci dice: “ritagliatevi del tempo per voi e vivetelo in solitudine; non abbiate paura di restare da soli, di fronte a voi stessi.
Nella vita assistiamo a due forme di solitudine: una, che è frutto di isolamento, di incapacità di relazionarsi, di dirsi e di aprirsi; una solitudine che è frutto di caratteri difficili, egocentrici, narcisisti, di coloro che vedono solo loro stessi al centro dell'universo, e per questo vengono abbandonati, lasciati da soli, isolati, da quanti li circondano; una solitudine che si chiama “chiusura”. Ma c'è anche una solitudine buona, anzi necessaria. È quando l'uomo si mette di fronte a se stesso, davanti a quello che lui realmente è, a quello che è il mondo, al vero senso della vita, alle sue paure, al suo desiderio di infinito; e questa solitudine è “preghiera”.
L'uomo matura soltanto nella solitudine, solo mettendosi di fronte a se stesso e guardandosi in faccia, guardandosi negli occhi, scrutandosi nel profondo del suo cuore, sinceramente, senza nascondersi la verità. Può essere un momento molto duro e doloroso ma è il momento della verità. È il silenzio, il deserto, lo smarrimento, quando finalmente smette di raccontarsi bugie, di illudere se stesso.
Noi amiamo la confusione: quella illusoria della televisione o il frastuono assordante di una discoteca, delle piazze o degli stadi; noi amiamo il caos, le strade affollate, il rumore, la moltitudine di gente. Gesù invece se ne va da solo in montagna, in luoghi solitari, separati e isolati. Ed è questa la solitudine che ci dà solidità, che ci permette di non girare a vuoto spiritualmente, che ci fa sentire bene con noi stessi. Noi abbiamo molta paura di fermarci e di guardarci in faccia. Siamo ancora dei bambini, siamo infantili e immaturi; non riusciamo a vivere senza che ci sia qualcuno al nostro fianco, abbiamo costantemente bisogno di presenze, di appoggi, di conferme, di assensi, di lodi e di riconoscimenti. Stiamo insieme ad altri non per amore, ma perché non riusciamo a stare da soli, per egoismo. E questo, fratelli miei, è indice di malessere, perché chi non si inserisce nella comunità, chi non sta bene col suo prossimo, chi è “chiuso”, è un uomo che non sta bene neppure con sé stesso.
Per gli ebrei, popolo legato alla terra, le acque erano il simbolo del caos, del pericolo, dell'ignoto, di tutto ciò che fa paura, del disordine, della confusione, del buio all'inizio della creazione. Il potere di Dio, invece, è quello di dominare le acque. Giobbe descrive Dio come “colui che ha camminato (calpestato) la schiena del mare”(Gb 9, 8). Il grande evento del popolo ebreo è il passaggio del Mar Rosso: Dio domina le acque e le divide. Il Siracide descrive Dio che cammina sulle acque del mare (Sir 24, 5-60).
Anche noi siamo come i discepoli sulla fragile barca, al largo della nostra vita: le acque agitate sono i nostri problemi, le nostre paure; rappresentano cioè tutto quello che non siamo in grado di dominare e di controllare. Anche noi, di fronte a tali situazioni incontrollabili, ci sentiamo smarriti come e più di loro: ci sentiamo nella bufera, e per quanto ci impegniamo di remare, di “governare” la barca, ci rendiamo conto che non basta. Sentiamo improvvisamente di non farcela; sentiamo di non essere più in grado di gestire o di controllare le cose. A noi piace gestire sempre tutto, tenere tutto sotto controllo, avere la vita nelle nostre mani: ma non è così. In certe situazioni ci sembra di affogare, di annegare, di colare a picco. Che fare allora? Ci dobbiamo fidare. Come Pietro, abbiamo paura di non farcela. Spinti dalla necessità, magari proviamo anche di uscire dalla nostra barca, di avventurarci, facciamo pure qualche passo, ma poi ci assale il dubbio, la paura, il terrore… e affondiamo!
Con Pietro diciamo a Gesù: “Signore, se sei tu, comandami di venire da te…”.Ma è proprio quel “se sei Tu” che rivela il nostro dubbio, che lascia trasparire le nostre ansie, le nostre paure, le nostre deficienze: ce la faremo a resistere una vita? Diventeremo ciò che “dobbiamo” diventare? Riusciremo a cambiare? Saremo felici? Arriveremo fino in fondo? Perderemo la fede? Ci accontenteremo? Ci adatteremo? Pietro e noi affondiamo perché dubitiamo. Affondiamo perché cerchiamo la sicurezza, la certezza; vorremmo controllare tutto, vorremmo garantirci prima di iniziare il viaggio, vorremmo non aver paura. Ma non è possibile. Allora ci sono due alternative: cedere al dubbio o aprirsi alla fiducia. Se guardiamo solo a noi, affondiamo. Non dobbiamo guardare alle nostre forze personali, a quello che siamo capaci di fare, a ciò che siamo: dobbiamo invece soprattutto cominciare: dobbiamo buttare tutto alle nostre spalle, continuare a camminare, andare avanti, tenendo lo sguardo fisso su di Lui, su Dio. Fidiamoci di Dio, di Lui che è Vita e… vedrete: cammineremo sulle acque, passeremo attraverso il fuoco, affronteremo l’impossibile.
Nella barca il più delle volte stiamo bene, ci sentiamo protetti, crediamo di essere al sicuro. Ma ad un certo punto però, la vita ci impone di uscire, ci chiede di fare delle scelte insondabili, non possiamo più tergiversare: allora prendiamo tutte le nostre forze, usciamo dalla sicurezza, dalle certezze, e andiamo dove il Signore ci chiama. In quel momento, fratelli, non siamo più sulla barca, camminiamo sulle acque, siamo soli. Non ci sono più i nostri appigli, le nostre solide prese, i genitori, gli amici, i confratelli, a cui ricorrere. Dobbiamo arrangiarci, dobbiamo farcela ad ogni costo, dobbiamo galleggiare altrimenti affondiamo. E se alla sera ci assale la nostalgia, sentiamo la precarietà del nostro camminare, siamo tentati di tornare indietro; quando sentiamo l’atrocità del dubbio invadere i nostri cuori, quando non crediamo più in noi stessi, quando tutto ci apparirà impossibile, e ci volgiamo a guardare indietro, ecco: questo è il momento in cui affondiamo, è il momento in cui sprofondiamo. Che fare allora? Come ha fatto Pietro: perché è questo, fratelli, il momento di guardare a Gesù, è questo il momento di tendergli le mani: fidiamoci di Lui, ascoltiamo la sua voce che ci sussurra: “Coraggio, non aver paura, ci sono io; esci pure dalla barca delle tue sicurezze e vieni tranquillamente verso di me”. Bene, fratelli: buttiamoci tranquillamente allora; e vi assicuro che ce la faremo. Perché solo così impareremo cosa vuol dire la fiducia e la fede; capiremo allora di aver avuto sempre solo paura (che noi chiamavamo religiosità) che ci tratteneva e ci bastava; constateremo che Lui non ci abbandona mai; lo incontreremo e gli daremo la mano, facendo finalmente esperienza diretta di Dio perché fino ad allora, forse, dentro la nostra barca, Lui non c'era. E impareremo che fede è rischiare, osare, uscire dalle certezze, fidarsi, affondare ed essere salvati.
E concludo: stendiamo la nostra mano verso Gesù: se guardiamo alle nostre forze non possiamo che dubitare di noi e ne saremo sommersi. Se guardiamo alle nostre forze non possiamo che dire: “ Non ce la faremo mai, non ne siamo capaci”. Se guardiamo al mare, ai problemi, ci spaventiamo, ne saremo terrorizzati e angosciati. Se guardiamo al vento, agli ostacoli, alla gente e agli eventi sfavorevoli, ci demoralizziamo e affondiamo. Guardiamo invece Gesù. Confidiamo in Lui. Chiediamo aiuto a Lui. Noi non possiamo, ma Lui può. Stendiamo la nostra mano, Lui stenderà la sua. Se di fronte ad un problema noi abbiamo dei dubbi, pensiamo forse che Dio non possa farcela? Allora: confidiamo in Dio, non guardiamo né il mare, né il vento: guardiamo solo a Lui e camminiamo. Teniamo il nostro sguardo su di Lui, teniamo la nostra mano nella Sua, e avverrà il miracolo: anche noi cammineremo sulle tue acque. Amen.


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