giovedì 18 agosto 2011

21 Agosto 2011 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Il vangelo di oggi si apre con una precisa domanda di Gesù ai suoi discepoli. A noi può sembrare strano che Gesù voglia conoscere l’opinione della gente sul suo conto. Ma non dobbiamo dimenticare che la società del suo tempo si fondava principalmente sui valori di onore e disonore: più di chi fosse in realtà, uno doveva preoccuparsi soprattutto di che cosa la gente pensasse di lui; il valore delle persone era infatti stimato in base a quello che diceva la gente: meno sull’essere, più sull’apparire. L'onore del clan, della famiglia, della tribù era l’unica cosa importante: veniva prima ancora del valore reale delle persone. Un metro di giudizio, fratelli miei, che non è molto lontano da quello imposto dalla mentalità di questa nostra società contemporanea superevoluta. Anche oggi, la paura di non essere considerati è profondamente radicata in noi: “Nessuno mi considera, nessuno mi apprezza, nessuno mi vuole”. Indice della nostra insicurezza: e per questo siamo alla ricerca disperata di stima, di amore, di amicizie, di riconoscimenti. Più questa paura ci domina e più la nostra vita diventa una corsa alla ricerca dell’apparire, una vita fittizia e irreale. Non conta più ciò che siamo, ciò che viviamo o ciò che sentiamo, ciò che Dio sussurra al nostro cuore, il nostro progetto, la nostra vocazione, ma conta soltanto non sfigurare, essere accettati, apprezzati, ammirati.
Ma perché Gesù sembra adeguarsi a tale mentalità? Perché agli occhi dei suoi discepoli vuole essere un uomo come tutti gli altri, il più possibile aderente alla loro forma mentis; vuole essere in tutto come uno di loro. Era quindi naturale che il Maestro si preoccupasse di conoscere cosa pensassero di lui, della sua missione e della sua predicazione, le folle che lo seguivano, che crescevano numericamente giorno dopo giorno: e Gesù ha voluto mettersi in gioco anche su questo. Ovviamente senza rimanerne turbato o succube delle loro risposte.
I discepoli, quindi, sollecitati in maniera così diretta, gli riportano le opinioni più diffuse: “Ti ritengono Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta”. Tutto vero. Però sono anche un po' reticenti e bugiardi, perché di Gesù si dicevano tante altre cose; si diceva, per esempio, che era un poco di buono, uno che stava volentieri con le donne, che in alcuni casi dimostrava verso di loro qualcosa in più di una semplice amicizia; uno che assumeva atteggiamenti scandalosi e ambigui, che stava apertamente in compagnia di gente scomunicata come i pubblicani, uno che amava mangiare e bere, insomma un "eretico". Tutto questo non glielo dicono, anche se erano voci altrettanto diffuse, che loro come anche Gesù stesso ben conoscevano. Egli, del resto, fu molto amato ma anche molto odiato, perché non fu una persona insignificante, anonimo, senza carismi, uno che ti lasciava indifferente; tutt’altro: una volta che l'avevi incontrato, dovevi necessariamente scegliere: o ti piaceva o ti infastidiva; o lo consideravi amico oppure nemico. Non c’erano alternative. Gesù inoltre, prima di fare quella domanda, aveva già guarito centinaia di persone, aveva risuscitato morti, aveva moltiplicato pane per migliaia di persone, aveva sedato tempeste. Eppure tutto questo non era servito a fargli avere un generale riconoscimento, sincero e onesto. Cosa avrebbe dovuto fare ancora, perché tutti gli credessero? La fede non nasce da ciò che si vede soltanto, ma da “come” si vede. Vedere così, semplicemente, senza coinvolgimento mentale, non porta automaticamente alla fede: bisogna guardare con interesse, con serietà, con apertura, con onestà, bisogna farlo con altri “occhi”, con quelli della fede; perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. Ecco perché le dicerie della gente su Gesù sono così diverse: è il risultato di una visione parziale e superficiale: ciò che dicono di lui è vero, ma non rispecchiano per intero la realtà. Sono supposizioni, opinioni, ragionamenti, ipotesi, congetture, giudizi o pregiudizi. Sono titoli, anche lusinghieri, elevati, ma non colgono nel segno, non dicono interamente chi è Gesù: “Giovanni Battista” era un grande asceta, uno che mirava alla perfezione. L'ascesi, il perfezionarsi, il combattere i difetti, i vizi, era importantissimo ma se l'ascesi diventava negazione della vita, se l'ascesi diventava rinuncia alla vita, allora si poneva contro la Vita. E Gesù non era questo. Anche oggi molte persone “perfette” sono cariche di aggressività: giudicano tutti e non usano nei confronti del prossimo né pietà né misericordia. La loro vita è un “no” alla vita. Dio invece chiama a dire "sì" alla vita, ad amare Lui, che è Vita perfetta. “Elia” fu il più grande profeta dell'Antico Testamento. Era così rigoroso che in un giorno solo uccise quattrocentocinquanta sacerdoti di Baal. Essere combattivi e lottare, ieri come oggi, è molto importante, ma non è tutto: se si fa della vita una lotta continua, si diventa degli intransigenti perennemente arrabbiati. E Gesù non era questo. Chi fa dell'aggressività la loro arma per attaccare tutto e tutti, non si accorge che la vera guerra, quella che credono di combattere fuori, è invece dentro di loro. Infine “Geremia”: nella Bibbia è il simbolo del giusto che soffre. Gesù ha sofferto, tantissimo, ma non ha fatto solo questo. Ha portato anche la vera felicità, la gioia, l’entusiasmo. Per molti invece la vita è solo dolore, solo sofferenza, solo una “valle di lacrime”: perché in realtà si interessano solo della loro vita, non della Vita, non di Dio. Certo anche noi, nella nostra vita, incontriamo angosce e sofferenze, ma dobbiamo imparare a starci dentro, a viverle, non a fuggirle. La vita non è tutta qui. Gesù è venuto in questo mondo non per soffrire, o perché soffriva, ma per insegnarci a superare la sofferenza, il dolore, la paura; Gesù è venuto a portarci la buona novella, il “vangelo”, il lieto annuncio, messaggio di felicità e di speranza.
Questo dunque dice la gente: ma Gesù non si ferma qui. Quello che dicono di lui i lontani, non gli interessa molto; Egli vuol sapere cosa “loro”, i suoi discepoli, pensano di Lui. E corregge il tiro: Ma “voi, chi dite che io sia?”. E Pietro si lancia con la sua risposta, che gli sgorga dal cuore...
Ma noi, noi, chi diciamo che sia Dio? È una domanda che ci tocca direttamente e singolarmente. Conoscere ciò che gli altri pensano di Dio, non ci serve, non ci deve interessare; nella vita prima o poi arriva inesorabile il momento in cui noi, e solo noi, dobbiamo affrontare certe questioni vitali, e darci delle risposte; e allora, ciò che conta non è ciò che fanno o credono gli altri, ma ciò che facciamo, viviamo, crediamo noi; ciò che conta è la nostra decisione personale.
E dunque: conosciamo Dio? Lo sentiamo vicino? Lo sentiamo “nostro”? Ascoltiamo la sua voce che ci parla? Lo percepiamo? L’abbiamo mai “incontrato”? No? E allora, come possiamo dire di “conoscere” uno che non abbiamo mai incontrato? E se lo abbiamo incontrato, cos'ha cambiato Cristo nella nostra vita? Cos'ha modificato nel nostro carattere, nella nostra persona? Nulla? Allora ci siamo illusi: non lo abbiamo mai incontrato e non lo conosciamo! Anzi non ci siamo mai preoccupati di incontrarlo e di conoscerlo; e questo vuol dire che per noi, Lui non conta niente, è irrilevante. Incontrarlo, invece, significa smettere di essere quelli di prima; lasciarlo entrare nel nostro cuore è come aprire le porte ad un uragano, lasciarsi travolgere da un vento impetuoso e irresistibile; è come innamorarsi perdutamente di qualcuno: una esperienza che ci cambia radicalmente la vita.
Ed è proprio per questo, fratelli, che molti lo evitano, che hanno paura di lui: perché Dio è un'esperienza forte, coinvolgente, radicale. Molti preferiscono imbalsamarlo, rinchiuderlo in certi schemi, in certi riti, in certe formule, pensando di poterlo gestire. Preferiscono incontrare i pensieri “su Dio” o le preghiere “a Dio”, piuttosto che incontrare Dio in persona. “Conoscere” Dio, come ho detto, vuol dire invece esserne stravolti, innamorati persi; non si tratta di una conoscenza razionale, di chi è sapiente, ma di una conoscenza d'amore, di chi ama, la conoscenza di chi è attratto da Lui, di chi vuol tuffarsi nell’oceano del suo amore. Dio è un'esperienza, un incontro, che tutti possiamo fare, non è riservata ai dotti e ai santi. E se lo incontriamo, ce ne accorgiamo subito: lo sentiamo istintivamente che c'è, perché ci cambia la vita, concretamente, visibilmente, ci fa vivere una nuova vita, ci fa capire che fino ad allora abbiamo solo sopravvissuto, abbiamo vegetato, dormito, abbiamo camminato col paraocchi. Un po’ come è successo a Pietro. Il Pietro del vangelo di oggi, non è un teologo, un filosofo che sentenzia. Pietro è l'istinto, l'intuizione, la passione. Dio non si coglie con la mente; Egli è un istante perennemente presente, un fulmine, una saetta. Come in amore: se siamo innamorati lo sentiamo, lo avvertiamo in maniera inequivocabile, ci fa battere il cuore e tremare le gambe. L'amore non è un sillogismo, un calcolo, un ragionamento. È un impulso del cuore, non un prodotto del pensiero. E Gesù lo conferma chiaramente quando, alla risposta di Pietro, gli dice: «Beato te, Pietro, perché né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli».
Carne e sangue equivale qui a ciò che è umano, terreno, frutto del raziocinio. Cioè: “Non lo hai imparato a scuola, non te l'ha insegnato qualcuno, non l'hai imparato sui libri, ma è la tua anima, il tuo cuore, che l'hanno percepito, che l’hanno colto”.
Per gli ebrei “conoscere” vuol dire “sperimentare”, rapportarsi. Quando nella Bibbia un uomo “conosce” una donna vuol dire che è entrato nella sua intimità, ha avuto con lei rapporti sessuali; la “conoscenza” è “esperienza”: ora, un conto è sapere una cosa, un altro è percepirla, viverla, adattarla al proprio io; una cosa è essere andati a tanti incontri spirituali, a tante messe, un'altra è “sentire” la presenza di Dio; una cosa è sapere dell'amore, un'altra è amare; una cosa è chiacchierare sul progetto della nostra vita, della nostra vocazione, e una cosa molto diversa è attuarlo, viverlo. Nessuno si è mai ubriacato con la parola “vino” e nessuno si è mai riscaldato con la parola “sole”. Ripeto: Dio, fratelli miei, non è un pensiero, un progetto, ma una realtà, una “persona” concreta di cui inebriarsi, appassionarsi, innamorarsi.
Se dunque Dio non ci sconvolge l'esistenza, non ci fa più dormire la notte, non ci fa cantare di gioia infinita, non ci fa danzare esultanti anche col vento e la pioggia, se non viviamo il pianto consolatore del sentirci amati da Lui, non diciamo di aver conosciuto Dio. Assolutamente. Prima incontriamolo, e solo dopo potremo parlare di Lui. Succede anche che qualcuno si sposi senza amare l'altro, ma non definiamolo matrimonio; possiamo anche essere molto religiosi, essere dei consacrati a Dio, senza peraltro averlo mai incontrato né averlo mai sinceramente cercato; ma siamo onesti, fratelli: non chiamiamo queste pseudo esperienze “una vita per e con Dio”.
Un ultimo flash: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». La Chiesa è di Cristo. La Chiesa è Cristo. Ecco perché, fratelli, la chiesa deve essere il luogo dell'esperienza di Dio, dell'incontro con Lui. Altrimenti perde il suo centro, la sua ragion d’essere, la sua vitalità. Quando andiamo in chiesa e partecipiamo ad una liturgia o ad un incontro di preghiera, quello che conta non è ciò che diciamo o facciamo, ma se “tocchiamo” Dio, se lo incontriamo, se Lui ci tocca. Andare in chiesa, e non essere “toccati”, è inutile, è tempo perso. Se non c'è Dio, non c’è vita. L'uomo di oggi ha un enorme bisogno di esperienze spirituali vere, di incontri profondamente autentici. Si copre di mille cose, riempie le case di oggetti, lavora senza sosta, si rifugia nella confusione, riempie le giornate di mille interessi: perché ha paura di incontrarsi, di sperimentarsi, di vedere quello che è nel suo intimo. Ha paura di scoprirsi sbagliato, fallito, inconcludente; ha paura di sentirsi giudicato anche dall'Alto oltre che dal basso (da sé e dagli altri). Per questo gli è indispensabile più che mai incontrare Dio, sperimentarlo in se stesso e negli altri, cantarlo, viverlo, sentirlo vibrare, fremere, nell’intera assemblea: nella sua Chiesa. La Chiesa di Cristo, fondata su Pietro “roccia”, sia dunque anche per noi il luogo dove si è toccati da Dio, dove possiamo piangere, ridere, sentirci a casa (non giudicati), sentirci compresi e ascoltati, dove possiamo dare voce a quello che abbiamo dentro, anche perché se non lo facciamo lì, rischiamo di non farlo da nessun'altra parte.
Amiamo allora la nostra Chiesa, fratelli: difendiamola. Perché è Lei che ha la missione fondamentale di proteggere il fuoco sacro che c'è dentro ognuno di noi; è la casa dell'anima e di tutto ciò che vive nell'anima. È Lei che ci lega a Cristo, che ci rende liberi da tutti quei modelli che ci fanno ammalare, dai comportamenti devianti, aggressivi, da tutti quei demoni (rabbie, risentimenti, ossessività, ecc) che purtroppo abitano dentro di noi, da tutte le paure che ci impediscono di esprimerci e di essere veramente noi stessi; in una parola è Lei che ci affranca da tutti i condizionamenti che ci soffocano il cuore e l’anima. Non dimentichiamolo, fratelli: se siamo legati a Cristo, siamo sciolti da tutto il resto; se siamo legati al resto, purtroppo siamo sciolti da Lui. Soltanto chi è legato a Cristo e alla sua Chiesa, è veramente libero. Sempre. Ecco: se la Chiesa non sarà tutto questo per noi, fratelli, la nostra vita sarà inutile, insignificante, totalmente vuota e superflua. Amen.

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