domenica 5 giugno 2011

12 Giugno 2011 – Pentecoste

«Pace a voi! Come il Padre ha mandato me anch’io mando voi».
Pentecoste: sono passati cinquanta giorni dalla Pasqua. Per gli antichi il numero cinquanta era il simbolo del completamento di un certo periodo, un tempo che si concludeva: a cinquanta anni a Roma, per esempio, si era dispensati dal servizio militare; per gli ebrei il cinquantesimo anno era l'anno del giubileo, della riflessione, dove uno si fermava per riflettere su quanto c'era stato di corretto e di scorretto nella propria vita. Che la Pentecoste venga cinquanta giorni dopo la Pasqua, indica dunque che un tempo è finito, che un ciclo si è concluso: è il tempo del Gesù terreno e delle sue immediate apparizioni dopo la Pasqua.
Da oggi si apre un nuovo tempo, il tempo dell'uomo, della Chiesa, il tempo dello Spirito. Ma vediamo come sono andate le cose. Cosa è successo in particolare?
Gli apostoli, dopo la morte di Gesù, stanno attraversando un periodo di grave stato emotivo: sono presi dallo sconforto, dalla paura e dalla delusione, e si sono rifugiati tutti insieme nel cenacolo, il rifugio che ricordava loro ancora la presenza di Gesù: si sono rinchiusi all'interno, perché hanno una paura folle.
Gesù lo sa. E allora, prima di ogni altra cosa, deve tranquillizzarli, deve sgomberare il campo dalla paura.
«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: Pace a voi». Cioè: non abbiate paura, state tranquilli! Sono io, sono ancora qui, come prima, più di prima.
Hanno bisogno di stare insieme, gli Apostoli; sono ancora terrorizzati. Immagini strazianti sono ancora impresse nella loro mente: hanno visto cosa è accaduto a Gesù e soprattutto come è accaduto, come è stato ucciso. In una società come la loro, in cui l'individuo ha valore soltanto se appartiene ad un gruppo, ad un popolo, ad un'etnia, la paura di ritrovarsi isolati, soli, fuori dal gruppo, rifiutati, esclusi, è quanto di peggio possa loro capitare (è la morte civile). Ma come se non bastasse, hanno il terrore della sofferenza fisica; hanno paura di fare la stessa fine di Gesù; ed essi hanno ben visto che fine gli è toccata: torturato, flagellato senza pietà, crocifisso, morto lentamente sulla croce. Sono immagini che tolgono la tranquillità a persne semplici come loro. E qui, beh, obiettivamente, la gran paura ci sta proprio tutta!
Non dimentichiamo infatti che la paura è una caratteristica umana, una nostra prerogativa; per tutti c'è il momento della paura; anzi ci sono casi in cui la paura di perdere la vita, la paura di morire, arriva addirittura ad annullare nell'uomo il piacere stesso di vivere, può portare a perdere la gioia della vita, a farlo rinchiudere in se stesso; ecco perché, per vivere serenamente, dobbiamo accettare l’idea che la vita prima o poi finirà, inesorabilmente: con o senza tutte le nostre cautele, con o senza tutte le nostre precauzioni. Anzi, dobbiamo imparare a fraternizzare con “sorella nostra morte”, dobbiamo imparare a conviverci, fratelli miei; altrimenti questa nostra vita non sarà mai una vera vita. Sarebbe come morire già da subito. 
Tutto può accadere nella nostra vita: ma il futuro è nelle mani di Dio; e questo mi sembra di poter cogliere dalle parole di Gesù, quando dice: «Pace a voi». State calmi, siate sereni, non temete, non piangete inutilmente! Dovete essere più forti, dovete essere i vincitori della paura; affrontate il mondo: sono io che vi mando: sono io che vi dico «Andate»; «come il Padre ha mandato me, così io mando voi». Anche se avete tanta paura; non ce n’è motivo, andate; andate; non rimanete rinchiusi qui dentro. Uscite fuori, combattete e vincete il mondo!
Ecco, questo ha detto Gesù ai discepoli di allora; e questo Gesù ripete oggi a tutti i suoi discepoli, a tutti coloro che egli continua a mandare per le strade del mondo. Anche a noi, fratelli, Gesù ripete queste parole; perciò ascoltiamolo, diamogli credito; andiamo anche noi, senza esitazioni, nel nostro mondo contemporaneo per vivere e annunciare il suo Vangelo: certo, anche noi abbiamo paura, anche noi siamo trattenuti da mille condizionamenti; ma nulla ci può e ci deve bloccare: non la paura del rifiuto, non la previsione di sconfitte, non il rispetto umano, non il giudizio degli altri; nulla ci deve bloccare, nulla deve congelare il nostro entusiasmo di vivere la vita di Cristo, davanti e a dispetto del mondo.
Del resto, Gesù ci ha dato l’esempio, e questo ci deve confortare e sorreggere; anch’Egli nella sua vita terrena ebbe paura: in certi momenti scappò, in altri si sottrasse alle persone o si muoveva di nascosto o di notte per non farsi vedere. Negli ultimi giorni provò una paura e un'angoscia tali, da “piangere sangue”. Ma andò avanti per la sua strada, nonostante tutto. Non permise alla paura di ciò che gli sarebbe accaduto, al futuro, di bloccarlo. Continuò imperterrito (a “muso duro” dice il vangelo) nel suo viaggio, e arrivò fino in fondo.
Come già gli apostoli nel cenacolo, anche noi abbiamo un luogo in cui sentirci al sicuro; sono le nostre chiese; esse rappresentano per noi un grembo materno che ci protegge: lì ci sentiamo nel nostro ambiente, al sicuro, lì rimaniamo nascosti; ma attenzione, fino a quando rimarremo chiusi lì dentro, non potremo “vedere la luce”, non potremo mai “nascere”, la nostra vita non potrà svilupparsi, non saremo mai adulti, non potremo mai vivere autonomamente il messaggio di Gesù.
«Andate». Animo dunque. Non dobbiamo farci bloccare dalla paura, fratelli. Pentecoste è fidarsi di Gesù, è ascoltare la sua voce che ci dice: “Voi ora uscite perché avete la forza per farlo. Io sono con voi, il mio Spirito è con Voi, è dentro di voi; e con la sua forza ora voi andate fuori nel mondo e fate ciò che dovete fare”.
Ecco, fratelli, è matematico: ogni volta che confidiamo in Dio, che ci fidiamo di Lui, che accettiamo il fatto che Lui è presente nella nostra vita, che è dentro il nostro cuore, noi troveremo sempre la forza di uscire allo scoperto e di vincere tutte le paure, tutte le nostre battaglie.
«Detto questo soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo». Gesù, alitò su di loro. Alitare su qualcuno significa trasmettergli la vita, donargli ciò che abbiamo di più intimo. Il verbo “alitare” (in greco ™mfus£w) è lo stesso usato nella Genesi per indicare l'atto creativo di Dio. Dio ci dona la sua forza, la forza con la quale egli ha agito ed ha amato: la sua forza creatrice. Un gesto meraviglioso, che si presta a due considerazioni.
La prima è che noi abbiamo la stessa forza di Gesù. Quindi prendiamo coscienza di questa forza che ci abita dentro, rendiamoci conto della nostra energia, rendiamoci conto della potenza (lo Spirito) che si è sviluppata in noi e che ci appartiene. Smettiamola di dire: “Siamo peccatori”, “siamo incapaci, sbagliamo...”, e trovare così la scusa  per non far niente. Nossignori, noi siamo potenti perché siamo un tutt’uno con lo Spirito di Dio.  Dire che non possiamo, equivale a negare la potenza di Dio; dire che siamo deboli, fragili, incapaci, significa rifiutare l’azione di Dio, preferendo quella di satana.
Certo, ammettere che abbiamo a disposizione la potenza divina, ci crea un sacco di responsabilità. Forse per questo a volte preferiamo ignorarlo; è meglio far finta di non saperlo. Perché sapere di poter cambiare la propria vita, di poter dire “no” o poter dire “sì” quando serve, di poter agire e influire sull'ambiente che ci circonda, vivere in una parola da altrettanti profeti, beh, è decisamente responsabilizzante.
La seconda considerazione è che tutto ciò che abbiamo dentro di noi in forma germinale, come seme, si risveglia e si produce, come già nella creazione, grazie allo Spirito che lo feconda. C'è infatti tutta una ricchezza, un mondo, una creazione intera che si deve sviluppare in noi. Tutto è in noi come un seme: accettare l'azione dello Spirito, vuol dire essere pronti a prenderci cura dei suoi doni, ossia delle nostre doti, delle nostre qualità, delle nostre risorse, dei nostri carismi. Gli uomini sono pieni di ricchezze ma non le sviluppano. Noi dobbiamo avere nei confronti dei doni dello Spirito le stesse attenzioni che abbiamo nei confronti dei figli: vanno curati, sviluppati, amati, ascoltati; bisogna dar loro spazio, bisogna investire tempo prezioso. Se noi facciamo così, non solo saremo felici ma ci sentiremo ricchi perché noi siamo le nostre ricchezze. Se le amiamo, amiamo noi stessi. Noi dobbiamo essere, come nella Bibbia, la “Genesi” (Gn 1-2), ossia la "creazione" di un mondo che si deve formare, sviluppare; non rimaniamo caos, non declassiamoci a un ammasso indefinito e informe. Noi conteniamo la vita.
Perché l’uomo di oggi è infelice? Perché si preoccupa di milioni di cose, ma non di se stesso. Non gli interessa; è completamente impegnato a produrre ricchezza, a sviluppare l'immagine di sé, il suo apparire, ad accrescere il suo conto in banca. Crea, ma non si crea. Sviluppa, ma non si sviluppa. Fuori è ricco, ma dentro è nella miseria più nera.
E arriviamo al versetto finale: Gesù a questo punto rende consapevoli i discepoli dell'enorme potere che hanno: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Qui Giovanni usa due verbi: il primo è f°jmi, perdonare, mandare via, scacciare, rimettere. Il secondo, krto, è trattenere, tenere in pugno, impossessarsi, dominare, avere dominio, spadroneggiare. In altre parole: Voi avete due possibilità: o mandate via o trattenete; o lasciate andare o tenete in pugno. Decidete voi cosa fare.
Conseguenza: il perdono deve entrare nel nostro stile di vita, fratelli; dobbiamo praticarlo sempre, anche nelle piccole situazioni di ogni giorno; e di ferite ne soffriamo a migliaia: uno sgarbo, una battuta irriguardosa, un giudizio negativo, spietato...
Dobbiamo perdonare: sempre; semmai, se lo riteniamo opportuno, possiamo esprimere con calma il nostro disappunto, possiamo far notare educatamente che abbiamo ricevuto un torto senza motivo, ma poi dobbiamo perdonare. Lasciamo che l'amarezza passi, continuiamo a vivere, buttiamoci tutto alle spalle, guardiamo avanti.
Se non perdoniamo, continuiamo a vivere immersi nel passato. Continuiamo a macerarci la mente e il cuore su ciò che doveva essere, ma che non è stato. Accettiamo la realtà, perdoniamo e continuiamo a vivere. Abbiamo questo grande potere, fratelli: non siamo in grado di prevedere ed evitare le ferite della vita, ma possiamo sempre perdonare chi ce le ha causate, perché in quel momento siamo noi che decidiamo cosa fare: se tenere o lasciare andare, se rimanere offesi o perdonare. Possiamo decidere di essere feriti una sola volta, dagli altri, se perdoniamo; ma possiamo decidere di ferirci continuamente da noi stessi, se non perdoniamo. Perdoniamo non per essere bravi ma per essere liberi. Non c'è niente di bravo in chi perdona, perché perdonare è accettare di essere feriti. Ogni ferita è un sasso che ci colpisce. Un sasso ci ha colpito e ci ha fatto male; abbiamo tra le mani questo sasso: che vogliamo farne? Vogliamo vendicarci scagliandolo al mittente? Questo non cambierà la nostra situazione, non ci toglierà la ferita ma ne provocherà una nuova nel nostro fratello.
Vogliamo utilizzare quel sasso per trasformare ogni nostro contatto, ogni nostra carezza, in una sassata per tutti? O vogliamo perdonare? Deponiamo il sasso, fratelli: lasciamolo cadere, lasciamolo rotolare per la sua strada. Se non facciamo così, ci troveremo ogni mattina ad alzarci e a guardare quel sasso. E senza che noi ce ne accorgiamo quel sasso ci penetrerà, entrerà dentro di noi, ci trasformerà, il nostro cuore diventerà come quel sasso; invece di lanciare gesti d'amore, continueremo a lanciare sassate, poiché quel sasso ha dilaniato il nostro cuore, lo ha pietrificato.
La violenza genera violenza. Solo il perdono spezza la catena. Solo il perdono spezza questo automatismo. Il domenicano Henri Lacordaire diceva: “Vuoi essere felice per un instante? Vendicati. Vuoi essere felice per sempre? Perdona”.
Allora, buona Pentecoste, fratelli: lo Spirito riempia il nostro cuore. Quando siamo tentati di non perdonare, invochiamo lo Spirito. Quando sentiamo di non essere abbastanza presi dalla Parola, invochiamo lo Spirito. Quando in parrocchia, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, non riusciamo a legare con nessuno, anzi finiamo col litigare con tutti per delle immense sciocchezze, invochiamo lo Spirito. Quando gli eventi della vita ci fanno letteralmente perdere la luce e tutto sembra piombare nelle tenebre più fitte, invochiamo lo Spirito. Quando siamo stanchi delle solite nostre scuse, dei soliti luoghi comuni; quando ci accorgiamo che la nostra fede e la nostra carità languono e si defilano; quando l'incendio del Vangelo si è ridotto nel nostro cuore alla brace della consuetudine, invochiamo lo Spirito. Spalanchiamo i nostri cuori e le nostre menti: che lo Spirito entri in noi, fratelli miei, che ci faccia violenza, che scardini tutte le nostre porte ancora chiuse a doppia mandata. Che mandi in frantumi le nostre finte difese, il nostro stupido schermirci; e soprattutto che risvegli nuovamente in noi l'ardore e il desiderio di amare! Amen.

  

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