giovedì 26 maggio 2011

29 Maggio 2011 – VI Domenica di Pasqua

«Pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore».
Il messaggio che possiamo ricavare immediatamente, leggendo il Vangelo di oggi, è che dobbiamo “entrare nello Spirito”: dobbiamo cioè incontrare Gesù, entrare in Lui, vivere di Lui. Parole semplici, facili da capire, ma non altrettanto semplici e facili da mettere in pratica; anche se le occasioni per poter incontrare Gesù in qualsiasi momento della nostra vita, delle nostre giornate, sono numerosissime: basta aprire bene gli occhi. E indossare gli occhiali. Cioè? Dobbiamo indossare gli occhiali della nostra fede, della nostra interiorità, dobbiamo calarci in quella dimensione del nostro io che è lo Spirito: una dimensione che corriamo il rischio di mortificare in continuazione, riducendo il vissuto del nostro cristianesimo a una delirante religione di facciata. Dobbiamo ritrovarlo, lo Spirito, e tenercelo stretto: è infatti troppo facile perdere per strada il suo linguaggio e la sua immagine. Bene: è per questo che Gesù ci promette oggi “un altro protettore”, un altro avvocato, un altro “chiarificatore”. Uno con cui potremo fare fino in fondo la nostra esperienza di discepoli, quella cioè di fare “esperienza di Dio”. Ma andiamo con ordine.
Siamo ancora nel cenacolo. Gesù continua il discorso di addio iniziato domenica scorsa. I punti da precisare sono ancora molti e importanti e devono essere capiti bene dai discepoli.
Domenica scorsa, Gesù annunciava la sua partenza per un'altra vita, per un altro luogo, dove non c'è più da temere e dove c'è posto per tutti. Anzi, lì ognuno ha il suo posto, che è suo, unico e insostituibile. Oggi Gesù ci conferma che Lui se ne va e che qui non vedremo mai più il suo volto: Egli però rimane con noi sotto un'altra forma, in un altro modo, in maniera diversa: mediante lo Spirito, lo Spirito Santo. È sempre il tema del distacco che caratterizza nel Vangelo di oggi, come già in quello di domenica scorsa, il senso di tristezza dei discepoli, del loro sentirsi soli, orfani, pieni di paura (“Non sia turbato il vostro cuore”, Gv 14,1): si sentono improvvisamente smarriti, senza guida e senza riferimento. Il leader, il capofamiglia, il carismatico, se ne va e loro si chiedono se da soli ce la faranno.
Come non capirli? Tutti noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di riferimenti, di leggi, di regole chiare e precise. Ma ─ e Gesù lo sa bene ─ lo scopo di un buon maestro è quello di fare dei suoi discepoli altrettanti maestri. Li vuole crescere, vuol farli adulti, indipendenti, maturi, anche se questo potrebbe comportare il rischio di perderli. Il desiderio di un padre è vedere che i propri figli diventano adulti; è questo che lui vuole ardentemente: perché se li mantenesse sempre bambini, se li costringesse ad avere sempre bisogno di lui, a dover pendere sempre dalle sue labbra, dimostrerebbe di non amare i propri figli, sarebbe come se li usasse, li manipolasse.
Non è possibile rimanere sempre studenti; ciascuno ad un certo punto deve diventare maestro della propria vita. Nessuno può continuare a dire: “Mi hanno insegnato così! Ho fatto quello che mi hanno detto, ho eseguito gli ordini!”. Ma se Dio avesse voluto che non ragionassimo, che non fossimo responsabili, non ci avrebbe dotati di cervello. Gesù anzi ci dice: hai le gambe: cammina; hai gli occhi: osserva; hai le orecchie: ascolta; hai il cervello: usalo.
Di fronte a Lui dobbiamo essere completi e autonomi, non mezze calzette, dei piagnucoloni. La Chiesa deve formare uomini liberi, veri, dalla grande personalità, uomini forti, integerrimi (non come quegli esseri spregevoli, anche tra i preti, di questi ultimi tempi); uomini che sappiano vedere, interpretare la storia, prevederla; uomini alternativi, come lo è stato Cristo Gesù; devono volare alto. E “volare” non significa solo muovere le ali, significa restare in aria autonomamente, senza alcun sostegno. Dobbiamo guardare la luna, fratelli, non il dito che la indica. Siamo noi gli “illuminati”; non abbiamo bisogno di seguire acriticamente quelli che si autodefiniscono tali! Siamo noi che dobbiamo diventare i veri maestri, i veri pastori: Gesù diceva sempre: “Non guardate me, guardate chi sta dietro a me”. E noi, che lo seguiamo, dobbiamo guardare avanti. E vedrete che se non chiudiamo gli occhi, ci vedremo, eccome; se non ci tureremo le orecchie, ci sentiremo molto bene, ascolteremo attenti; se non sclerotizzeremo la nostra mente, capiremo sicuramente la Verità. E se non isoleremo il nostro cuore, vivremo entusiasti l'Amore.
Molti pensano che essere guidati dallo Spirito sia come avere una stazione radio in testa. Basta accenderla e immediatamente ci fa sentire quello che ci serve. Basta premere un pulsante e sapremo subito cosa fare; tutto viene di conseguenza: siccome nel matrimonio c’è la presenza dello Spirito, allora automaticamente tutti gli sposati sanno cos'è l'Amore; siccome nell’ordinazione di un prete c’è lo Spirito, allora tutti i preti conoscono perfettamente Dio; siccome quando preghiamo, lo Spirito è al nostro fianco, allora tutti sappiamo sempre cosa fare. No fratelli, non funziona così!
La stessa Chiesa sbaglia se pensa di dare ai fedeli un Dio già pronto, un Dio già bello e confezionato, un Dio soltanto da credere, pregare, temere, amare; non è così, la Chiesa deve solo insegnarci a scoprirlo Dio, a cercarlo, a trovarlo, ad amarlo; perché solo chi cerca Dio, il vero Dio, quando lo trova non lo lascia più.
Il Cristianesimo infatti non ci offre un Dio in confezione regalo, ma ci insegna a cercarlo tra mille difficoltà: per questo delude molti. Il Cristianesimo non ci dà regole di vita, da tenere incorniciate sotto vetro, ma ci invita a viverle! Non ci dà la vita tout court, ma ci dice di vivere la Vita, scoprendo noi stessi, scoprendo la realtà che ci circonda, e ad incontrare Dio.
Oggi la gente è innamorata delle “guide”: maghi, indovini, santoni, guru; è innamorata di chi ci dice sempre in anticipo cosa fare, come comportarci, quello che è giusto o non è giusto per noi. La gente ha rinunciato all’autonomia intellettuale: preferisce essere condotta per mano come un bimbo, avere degli idoli già pronti, dei miti da seguire, da imitare, da copiare (basti pensare a quei poveri cretini che si esibiscono quotidianamente sui media con desolanti parodie del sacro!); ha bisogno di qualcuno cui affittare il proprio cervello e la propria vita. È così che prolificano i falsi profeti, i buffoni e i clown che pretendono di essere altrettanti Dio, di essere dei santi carismatici, con poteri soprannaturali di decisione sulla fede, sulla testa e sulla vita degli altri; controfigure che dicono con voce suadente: “Fai così. Fai come ti dico io, perché io so”.
Ecco dunque perché Gesù ci ha assicurato lo Spirito Santo: proprio perché diventassimo noi dei maestri, noi i responsabili della nostra vita. Dio è già dentro di noi con lo Spirito, Egli è il nostro Maestro; è Lui la nostra guida. Nessun altro! Che dobbiamo fare allora? Impariamo, ascoltiamo, assimiliamo, stimiamo e apprezziamo le persone, curiamo la nostra formazione; ma poi cresciamo, diventiamo responsabili della nostra vita. Dobbiamo saper rispondere e “dare ragione” a tutti, di ciò che diciamo, di ciò che facciamo, di ciò che crediamo: come ci raccomanda Pietro nella seconda lettura. Non basta infatti vivere la propria fede e chiarirla a noi stessi; occorre essere in grado di chiarirla anche agli altri, agli increduli, ai diversi, a chiunque ce ne chiede ragione. Perché chiunque ha il diritto di chiederci in chi crediamo, il motivo del nostro credere; a tutti dobbiamo dimostrare che il nostro messaggio è valido, possibile da realizzare, e che offre una risposta esauriente agli interrogativi della vita; dobbiamo testimoniare con i fatti le parole della nostra fede e della nostra speranza. Quindi non basta vivere, ma bisogna saper vivere, saper dire, saper giustificare, saper dare un riscontro tangibile a ciò che viviamo e a come lo viviamo. Questo è il motivo per cui il nostro comportamento, il nostro stile di vita, quando è radicalmente fedele allo Spirito, è un comportamento di rottura, un comportamento sempre contro corrente, in disaccordo con gli schemi del “mondo”: perché il “mondo”, come dice Gesù, non può relazionarsi con lo Spirito, in quanto «non lo vede e non lo conosce».  Ma cos’è questo “mondo”? Il “mondo” è per Giovanni, come la “carne” per Paolo, la vita vissuta dall’uomo-carne (in contrapposizione con l’uomo-spirito), che non sente in sé la presenza di Gesù; è la vita dell’uomo che pretende di vivere autonomamente illudendosi della e nella propria autosufficienza. È il vivere “senza Dio” come se Cristo non esistesse e non fosse mai esistito. Dio invece, anche se oggi non è più "visibile", vive e continua a vivere in noi, attraverso di noi, con il suo Spirito. Per questo una grande responsabilità ci attende, fratelli: perché noi, lo Spirito di Dio, possiamo rianimarlo o lasciarlo morire.
«Fra un poco non mi vedrete più». Cioè: “sto per morire, mi stanno venendo a prendere per uccidere”. E aggiunge: «Ma voi mi vedrete perché io vivo, vivo in voi e voi vivrete». Gesù, sentiva che gli apostoli gli volevano bene. Anche se erano uomini pieni di paura, gretti, a volte duri a capire; però gli volevano bene, e questo bastava. Gesù sentiva  che le sue parole facevano breccia nel loro cuore, che la sua vita li affascinava, che erano innamorati, anche se impauriti, del suo messaggio. Gesù sentiva che quello che i suoi dodici amici avevano visto, fatto, sentito, provato con lui, era entrato dentro al loro cuore, era parte di loro e non avrebbero potuto dimenticarlo mai. Non avrebbero potuto più perderlo.
La stessa cosa deve succedere anche a noi, fratelli: perché quel Gesù che ci ha amato per davvero, sarà sempre con noi, vivrà in noi; quel Gesù che ci ha guarito dalle nostre catene, rimarrà per sempre con noi; quel Gesù che ci ha aperto gli occhi, chi ci ha fatto vedere la verità, che ci ha appassionato il cuore, rimarrà perennemente con noi, in noi.
In che modo però possiamo dimostrare di tenere tanto a Lui? Osservando i suoi comandamenti: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama», dice Gesù.
Giovanni parla di comandamenti: e noi li colleghiamo immediatamente ai “dieci comandamenti” del catechismo; ma a pensarci bene, Gesù ci ha lasciato un solo comandamento, ammesso che si possa chiamare così anche questo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Un “comandamento” improprio, infatti: perché in realtà l'amore non si può comandare, non si può ordinare a nessuno di amare: l'amore nasce spontaneamente, in piena libertà. Nessun genitore può dire ad un figlio: “Amami”. Può sperarlo, desiderarlo, può augurarselo. Ma non può costringerlo. L'amore vive solo là dove c'è libertà. Gesù quindi non ha “comandato” di amare, non l’ha mai “ordinato”; lo ha semmai consigliato. L’unico comandamento vincolante per chi vuole seguirlo è infatti quello di “vivere come Lui”, di “seguirlo”, di diventare, cioè, come Lui, uomini veri, liberi, trasparenti, pieni di vita e di Dio. Essere in una parola “genuini”: perché ci possono comandare di essere onesti nella vita, nel lavoro, ma se non viviamo l'onestà per rispetto di noi stessi, non sarà una vera onestà; sarà magari frutto di paura (di essere scoperti!) ma non frutto di amore. Possono ordinarci di andare a Messa tutte le domeniche, ma se non sentiamo dentro di noi che questo ci fa bene, che nutre la nostra anima, che ci rende più cristiani e più maturi, noi continueremo si ad andare, ma per evitare le chiacchiere e le critiche degli altri, non per amore; andremo per obbedire ad un precetto, ma non per libera scelta; andremo per essere cristiani in regola, ma non discepoli di Gesù. Così pure possono comandarci di andare agli incontri sul Vangelo, alle Lectio divine, agli incontri di formazione e di carità, ma se non sentiamo dentro di noi la bellezza, la verità, la ricchezza di queste esperienze, se non le cerchiamo noi spontaneamente, ci andremo certamente, ma tutto ci scivolerà addosso, non ci passerà nulla, ci stancheremo subito e condiremo il tutto con ricchi sbadigli. Se lo facciamo su comando, lo facciamo per “paura”. Se lo facciamo per amore, vivremo di Amore. Del resto possono ben dirci di rischiare, di osare, di puntare più in alto nella nostra vita, di essere aquile, ma se abbiamo paura di volare, se non sentiamo alcun richiamo delle altezze, della bellezza del volo, ci sforzeremo anche, ma non arriveremo mai a niente. Perché non potremo mai fare di una gallina un'aquila.
Fare dunque le cose per forza, perché qualcuno ce l'ha ordinato, non ci fa crescere, anzi ci rende solo più impauriti, più legati e dipendenti. Noi possiamo crescere solo se facciamo le cose per amore: magari faticando, soffrendo e sudando; ma solo facendole per amore, sentiamo che ci fanno bene e ci riempiono il cuore. Se vogliamo fare di un uomo un buon suddito, diamogli delle regole e facciamo in modo che obbedisca. Ma se vogliamo farne un uomo libero, un uomo onesto, un cristiano, amiamolo!
Gesù ci ha promesso lo Spirito: «Il Padre vi darà un altro Paraclito». Ora, in greco “Paraclito” significa “Avvocato”, colui che è chiamato in causa per difenderci, che sta con noi quando siamo soli; ma vuol dire anche “Consolatore”, colui che ci aiuta, che ci protegge, che ci sta vicino, che non ci lascia soli. Quante volte, fratelli miei, siamo convinti di essere completamente soli, persi, in balia di un “mondo” che vive cose totalmente diverse dalle nostre, in balia dei nostri dubbi, oppressi dalle nostre insicurezze! È proprio allora che il Consolatore ci dice di aver fiducia, di non disperare, ci assicura che metterà sulla nostra strada un qualcuno che ci capirà, che ha la nostra stessa sensibilità; qualcuno che ci aiuterà, ci difenderà, ci proteggerà; qualcuno che entrerà nel nostro mondo, lo comprenderà, e consolerà il nostro cuore. È sempre stato così, fratelli: i Santi ce lo insegnano. Dio non ci ha abbandonati, ci ha lasciato il suo Spirito. Se noi ci fidiamo di Lui, sarà impossibile sentirci soli.
Concludo sottolineando ancora la forza e la gioia del messaggio di oggi: essere certi che al nostro fianco abbiamo un “altro Paraclito”, un Consigliere che coinvolge Gesù nella nostra vita, un Consolatore che lo fa entrare dentro di noi e che ci fa vedere la nostra vita e il prossimo che ci circonda con i suoi occhi; un Avvocato che fa di Cristo lo scopo, il progetto e il criterio della nostra esistenza. Bene. Consapevoli di ciò, accogliamolo allora, fratelli, questo Paraclito; accogliamolo dentro di noi, apriamogli le braccia e il cuore, accettiamo i suoi suggerimenti, i suoi insegnamenti. Viviamo uniti in Lui con Cristo, nell’amore del Padre. Come? Amando, fratelli miei. Semplicemete amando. Perché lo Spirito è Amore. La nostra fede è protesta all'Amore: lo suscita, lo presuppone, lo incarna in noi. È lo Spirito Amore che tiene unita la nostra vita, con le sue contraddizioni, con i suoi fallimenti. È lo Spirito Amore che la motiva e la indirizza. È lo Spirito Amore che si realizza in noi quando amiamo i nostri fratelli. Tutto questo è lo Spirito Amore. E questa, fratelli, è la buona notizia di oggi. Amen.


giovedì 19 maggio 2011

22 Maggio 2011 – V Domenica di Pasqua

«Io sono la via, la verità e la vita».
Il vangelo di oggi ci riporta alle ore immediatamente precedenti la passione di Gesù. Siamo nel cenacolo, durante l’ultima cena. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù fa un lungo discorso di addio: egli sta per andarsene, e lascia ai suoi il suo testamento spirituale, dice le cose più intime, le cose più profonde e care. Giuda è già uscito per tradirlo, e quindi tra non molto le guardie verranno ad arrestarlo; il tempo stringe, tutto ormai è pronto per il “consummatum est” finale. Il fantasma della croce proietta già la sua ombra sinistra lassù, sulla cima del Golgota. Gesù dunque ha ancora molte cose da dire ai suoi: soprattutto vuol far capire bene la portata della sua missione terrena, vuol spiegare ancora una volta il rapporto intimo e indissolubile che esiste tra lui e il Padre. I concetti sono piuttosto difficili; i discepoli annaspano, non capiscono, come appare evidente dai loro interventi: Pietro ha appena finito di dire “Darò la mia vita per te” che Gesù lo raggela predicendogli il suo ripetuto tradimento. Tommaso vorrebbe maggiore chiarezza: “Ma Signore se non sappiamo dove vai, come facciamo a conoscere la strada per raggiungerti?”. Filippo, dal canto suo gli dice: “Signore mostraci il Padre e questo ci basta”. Poveri discepoli! Sono pieni di confusione, di paura. Hanno capito che qualcosa di molto grave sta per accadere, sentono il pericolo; la paura per la vita di Gesù, e per la loro, è ormai palpabile. Un tumulto di domande assilla il loro cuore: “Che ne sarà di noi? Cosa ci accadrà? Dove andremo a finire? Finirà tutto? Ci siamo sbagliati a credere in Gesù?”. Domande più che giustificabili, per le quali si aspettano risposte chiare, rassicuranti: vogliono certezze: “Indicaci la strada; dicci come fare; dacci regole chiare su dove andare, come fare, cosa essere, e noi lo faremo”. Sono proprio spaventati. Il verbo greco tarassw (turbare), indica una profonda agitazione, sono sconvolti: “Gesù tu eri tutto, avevamo messo tutto in te, ci avevi appassionato il cuore... e adesso?”
Dobbiamo capire questi poveri uomini. Non è giusto infierire su di essi, come fa qualcuno, interpretando le loro parole come mancanza di fede, come volontà di prendere le distanze da Gesù, di disconoscerlo, di mettere in discussione gli anni passati insieme con lui. Lo Spirito che illuminerà le loro menti è ancora lontano, e quindi si comportano come possono. Gesù li tranquillizza: “Io me ne vado e voi sarete un po' tristi. Ma tranquilli: vado a prepararvi un posto. Non scappo. Ci rivedremo. Vado e poi torno a prendervi”. In altre parole: “Avete paura perché tutto sembra finire. Sembra: ma non è così. Dietro al buio si nasconde una luce più grande”.
Ecco fratelli miei: questo in sostanza dice Gesù ai suoi, e questo continua a dire a noi ogni giorno. Capite quanto sono importanti per noi queste parole? I pericoli sono tanti, le contrarietà, le sconfitte, il dolore, la paura, sono le nostre compagne di viaggio. Purtroppo non possiamo sottrarci alla paura; non possiamo evitare il dolore. Possiamo però affrontarlo confidando nelle parole di Gesù, perché ogni paura nasconde nel suo profondo una certezza più grande e ogni dolore una gioia più abbondante.
Le parole di Gesù devono rappresentare per noi la nostra ancora di salvezza: in ogni momento difficile della nostra vita, dobbiamo ricordarci chi siamo e chi è nostro Padre. Così, quando non siamo capiti e ci sentiamo attaccati da tutte le parti, facciamoci coraggio e diciamoci: “Niente paura, Lui sa”. Anche se gli altri non ci comprendono, Lui ci comprende, sempre: e questa è una certezza. Quando ci guardiamo allo specchio della nostra anima, e ci succede di vergognarci per quello che siamo o per quello che abbiamo fatto, diciamoci: “Non temere, sei figlio di Dio”. E capiremo che, per quanto in basso siamo caduti, non dobbiamo perdere la speranza del riscatto: possiamo e dobbiamo ripartire, dobbiamo ricominciare, nella certezza del suo amore paterno e materno.
Quando c'è tempesta nel nostro cuore e non sappiamo dove andare o cosa fare, rassicuriamoci: “Non aver paura, c'è Lui”. E con Lui raggiungeremo il porto sicuro. Quando dobbiamo affrontare il giudizio di un superiore, di un capo, di una autorità, che può modificare in parte o anche completamente la nostra vita, dobbiamo ripeterci: “Sei figlio di Dio: egli ti ama, nessuno può farti del male, abbi fiducia in Lui, egli è tuo Padre, ti aiuterà comunque”. E avremo nel cuore una grande pace.
Tutto questo, credetemi, funzionerà! Perché in certi momenti particolarmente forti e difficili abbiamo bisogno anche noi di certezze: dobbiamo allora gridare non una, ma due, dieci, cento volte la nostra fiducia in Dio, di metterci nelle sue mani: a volte lo faremo piangendo, a volte cantando o al ritmo del respiro. E questo, fratelli, è preghiera, questo significa pregare.
Certo la preghiera non è una “bacchetta magica” che ci risolve tutti i problemi: i problemi, sicuramente rimangono, ma in compenso ci dà la certezza che se anche tutto dovesse crollare, anche se dovessimo sbagliare tutto, Lui c'è sempre; e di Lui, di Dio, noi ci fidiamo.
“Nella casa del Padre ci sono molte dimore” dice Gesù; c’è posto per tutti. Ognuno ha il suo posto: un posto personalissimo che non è uguale a quello di nessun altro. Spesso molti si sentono soddisfatti, si sentono nel giusto, in perfetta regola, solo perché fanno quello che fanno gli altri. Dovrebbero invece sentirsi male: perché Dio non crea nessun doppione, nessun duplicato; non esiste un comportamento standard, uguale per tutti. Ogni fotocopia di vita è una vita sbagliata, non realizzata in proprio, non osata. Dio, in ciascuno di noi, è diverso da chiunque altro. Certo dare il buon esempio è importante: abbiamo sicuramente bisogno di vedere e di guardare gli altri per imparare, per capire; ma il Dio che si fa vedere da noi, che si manifesta in noi, che nasce in noi, è altro. Sì, è vero: Egli ci ha creati tutti a sua immagine e somiglianza; l'immagine, un marchio di fabbrica identico per tutti; ma è la “somiglianza a lui”, quella che ciascuno deve costruire in sé, che è per tutti diversa da chiunque altro. È qualcosa di unico, di originale, di personalissimo, un qualcosa mai scoperto prima. Sbagliano quindi quelli che ritengono una “divisione” una “separazione”, il cammino alternativo, diverso dal proprio, per raggiungere la stessa meta; sono cammini che rispondono a chiamate diverse. Come pure sbagliano quelle persone che per “comunione” intendono una assoluta uniformità, un totale appiattimento gli uni gli altri; questa è solo omologazione.
Lo slogan di Dio è: “Ognuno al suo posto perché ognuno ha il suo posto”. Ciascuno ha il suo compito. Ciascuno ha la sua strada: ogni cammino, ogni esperienza, ogni vita, sono unici, è l'originale: non possiamo confrontarli. Viviamo ciò che siamo e troviamo il nostro posto, unico, in questo mondo, perché ognuno è “unico” agli occhi di Dio.
Le vie dunque per arrivare a Dio sono molteplici: c'è chi arriva a Dio attraverso una vita consacrata, monastica e religiosa, e chi arriva attraverso la vita laicale; chi arriva attraverso il lavoro di una diocesi, di una parrocchia, di un monastero, di un istituto e chi arriva attraverso il lavoro di una famiglia; c'è chi arriva attraverso la conoscenza di sé in una vita contemplativa spesa a servizio di Dio, e c'è chi arriva attraverso la dedizione di sé in una vita attiva spesa a servizio degli uomini. C'è chi arriva rinunciando all’amore terreno, amando e unendosi unicamente Dio, e c'è chi arriva amando e unendosi a un altro essere umano, con la benedizione di Dio. E infine c'è anche chi non sceglie nessuna strada, perché non gli interessa arrivare a Dio, non ne ha voglia, pensa di farne a meno: beh, tranquilli: perché in questo caso è Dio che arriva a lui! È lui, il Pastore, che va a riprendersi la sua pecora smarrita.
Evitiamo, fratelli miei, di fare confronti antipatici, quando si tratta di vita di preghiera e di esperienze di fede. Dio non guarda mai la forma, ma il contenuto del cuore.
Se giudichiamo e disprezziamo gli altri per la strada che percorrono, convinti che è la nostra quella giusta, già siamo sulla strada sbagliata, ci siamo messi su una strada che non porta sicuramente a Dio.
Gesù dice: “Io sono la via... la verità... la vita!”; osserviamo l’ordine con cui le nomina, perché non è casuale: Gesù è la via che conduce alla verità, perché solo nella verità una vita è piena, sensata, realizzata, e merita di essere vissuta.
Gesù non dice: “Io ho la strada buona”; dice solo: “Io sono la strada”. Gesù non ha bisogno di darci altre regole, codici, indicazioni stradali da seguire: dobbiamo semplicemente seguire Lui. Gesù è tutto, è il cammino, l'unico, che ciascuno deve percorrere.
A quanti gli chiedevano cosa fare per avere la vita eterna, cosa fare per essere felici, cosa fare per andare al Padre, Gesù a tutti ha sempre detto: “Seguimi”. E questo compendia tutto.
Gesù non dice: “Io ho la verità”, ma dice: “Io sono la verità”. “Io”, soltanto Io.
Ci sono invece molte chiese, molte religioni (o pseudo tali), molti santoni o guru (sul tipo del recentemente scomparso Sai Baba) che si arrogano il diritto di dire: “Io ho la verità, io sono Dio, seguimi e ti farò “avatar” (incarnazione) di Dio”. Siamo seri, non indulgiamo alle stupidaggini! La verità non la si può possedere: la si può soltanto vivere. Non si può mai “avere” la verità; si può al massimo essere veri. La verità per queste persone equivale ad un pacco di conoscenze da applicare a proposito e a sproposito. Per Gesù invece, Verità (lÐqeia, togliere il velo) è scoprire quello che si è, è scoprire la propria realtà intima così com'è.
Gesù non dice: “Io ho la vita”, dice: “Io sono la vita”. Gesù non è una assicurazione stipulata per campare tranquillamente, senza sbalzi o problemi. Gesù è la Vita che dobbiamo vivere, che dobbiamo conquistare: “Vuoi vivere? Vivi!”. Ma non c'è altra possibilità per godere una vita piena, che buttarsi dentro Dio e viverla in Lui.
Sbaglia chi confonde la “vita” con il fare molte cose, con l'avere un sacco di esperienze, con il viaggiare molto: “vivere”, per il Vangelo, non è buttarsi allo sbaraglio, dove capita: ma è sentire, percepire, sperimentare la “Vita” che vive in noi.
E concludo con le parole di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!”. Facciamo nostra questa preghiera, fratelli. Facciamo nostro questo accorato invito perché Gesù ci renda partecipi della abbondanza di bene e di amore che il Padre rappresenta. Approfittiamo per sgomberare la nostra mente da tutte quelle immagini fasulle di Dio, che nel corso della nostra vita ci siamo creati per soddisfare il nostro egoismo. Smettiamola, fratelli, di credere in un Dio qualunque, in un Dio imprecisato e vago, in quel Dio addomesticato, di cui tutti più o meno ci siamo fatti un'idea: dobbiamo credere unicamente nel Dio di Gesù. Non facciamo come quelli che sono convinti di credere nel Dio di Gesù, e invece continuano a credere in divinità misteriose e inquietanti, costruite su misura. Il Dio di Gesù è un Dio adulto che ci tratta da adulti; un Dio che non ci allaccia le scarpe, né ci risolve i problemi: ci aiuta ad affrontarli, questo sì: ci spiega anche che molti dei nostri problemi non sono poi così fondamentali da doverli superare ad ogni costo, che la vita ha comunque dei tesori nascosti che siamo chiamati a scoprire. Il Dio di Gesù è un Dio vittorioso nella risurrezione, che ha un piano per la salvezza dell'umanità; che ha un sogno, la Chiesa, i suoi discepoli, che sono chiamati non a salvare il mondo, ma a vivere da salvati, costruendo quel Regno che lui è venuto ad inaugurare; un Regno di giustizia e di pace, di amore e di luce, di sguardo verso l'altrove e verso l’altro che ci vive accanto. Un Dio che continua a venire là dove la sua Chiesa si raduna, un Dio che si rende presente nei Sacramenti e nell'amore che i discepoli si scambiano. Un Dio adulto, dunque, splendido, affascinante, lontano e vicino, accessibile e misterioso, seducente e libero, che svela a ciascuno in particolare, nel profondo, chi siamo e qual è la nostra Via, cos'è la Verità, cos'è la Vita. Ecco, fratelli: cerchiamo di conoscere il Dio che ci ha conosciuti, che ci ha amati da sempre, singolarmente; cerchiamo di non sfuggirgli, di essere attenti quanto più possibile, alle sottili sfumature del suo Spirito, ai sussulti che ci trasmette nell'anima, all'essenziale della nostra esistenza terrena. Mettiamoci umilmente alla scuola del Maestro Gesù, chiediamogli se il Dio in cui crediamo, il Dio che professiamo, che celebriamo,  è veramente il Dio vivificante che Egli ci ha svelato. E non stanchiamoci mai di ascoltare e di meditare la sua Parola, fratelli: misuriamoci con essa; e che essa ci illumini, ci guidi, ci aiuti, ci converta. Amen.


venerdì 13 maggio 2011

15 Maggio 2011 – IV Domenica di Pasqua

«Io sono la porta delle pecore».
Gesù, per spiegare le grandi verità di Dio, usa le semplici immagini del suo tempo. Il recinto era una specie di muretto che circondava uno spazio utilizzato da più pastori. Alla sera ognuno vi conduceva le pecore, che di notte erano guardate da un unico custode. Al mattino il pastore tornava, chiamava le proprie pecore per nome e queste, riconoscendone la voce, lo seguivano fuori dal recinto. Ecco il perché del buon pastore e delle pecore: era quello che succedeva ogni giorno e che tutti conoscevano. Le pecore conoscevano la voce del loro pastore perché tutto il giorno stavano con lui: lui le proteggeva, lui le difendeva, lui le portava al pascolo. Si creava tra di loro un rapporto di conoscenza e di relazione. Oggi a noi, figli della civiltà industrializzata, questa immagine del pastore dice poco: ma a quel tempo riproponeva una situazione molto comune, chiara e comprensibile.
Le parole di Gesù del vangelo di oggi, inoltre, a noi sembrano dolci, tranquille, rassicuranti, zuccherine: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un buon pastore molto patinato, con barba curatissima e capelli fluenti, un grazioso agnellino sulle spalle, il bastone in mano, che precede, con sguardo sognante, un numero sparuto di pecorelle belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue sono parole dure, critiche, di aperta denuncia; parole pronunciate in un clima di particolare tensione, in un clima di feroce avversione nei suoi confronti: una situazione molto difficile che, tuttavia, non riesce a condizionarlo; Gesù non si lascia intimidire, non usa guanti di velluto, non parla per mezzi termini, non ha esitazioni, ma colpisce giù, dritto nel segno.
Siamo in prossimità di una delle porte del Tempio, di quella chiamata “Porta delle pecore”; un particolare che sicuramente ha offerto a Gesù lo spunto per parlare di greggi e di pastori. Davanti e intorno a lui c’è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, sentendosi nel proprio ambiente, in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, i farisei, gli ultras della fede, i puri e duri.
E Gesù, con voce tonante, in sostanza dice loro: Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza riflettere. Avete scordato l'essenziale, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità recuperata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente, la giudicate e basta, la usate. Ma la gente non vi ascolta più, parlate due lingue diverse, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione.
Questo dice Gesù: consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. La gente è stanca di mercenari. La gente vuole ascoltare altre parole, parole dette con amore, dette con passione, dette con la forza della verità. Le sue parole, appunto. La gente vuole ascoltare il suo messaggio, il suo “Vangelo”. E cosa dice Gesù, il messia-pastore? Che Lui è l’unico pastore in grado di far uscire le pecore dal recinto in cui sono rinchiuse e portarle al Padre. Perché egli solo è il “buon” pastore: anzi egli solo è “
é poimÑn é kalçv
”, come dice il testo greco: “il pastore quello bello”, quello integro, quello capace di amare da adulto, di servire l'umanità, di prendere sul serio il proprio ruolo perché profondamente appassionato del bene dell'uomo. Gesù è il pastore che conduce verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; è colui che difende, che protegge dagli attacchi esterni, che aiuta nei momenti di difficoltà; è il riferimento per sapere dove andare e quale strada percorrere.
Gesù è il pastore che chiama le pecore una ad una; immagine bellissima: il suo essere pastore passa attraverso l'intimità del nome di ciascuno di noi. Sembra quasi dirci che per Lui non contano i numeri, i grandi numeri; per Lui contano i nomi, i singoli. I grandi numeri sono belli, danno soddisfazione, ma significano anonimato, estraneità. Gesù conosce ognuno di noi per nome; ognuno viene chiamato individualmente, ognuno si sente conosciuto per nome, amato, convocato, curato, affidato. Ognuno di noi entra nella sua intimità e conosce la sua voce: una intimità così profonda da individuare la sua voce tra migliaia di altre voci.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la relazione con lui, conta il riconoscere la sua “voce”. Attenzione: per una volta l'evangelista Giovanni non dice qui “Verbo”, “Parola”, per indicare il Signore, ma semplicemente “Voce”; forse perché si è reso conto che una terminologia più impegnativa poteva confonderci; egli sa perfettamente ciò di cui abbiamo bisogno; l’uomo ha l’assoluto bisogno di sentire la vicinanza costante di Gesù, ha bisogno della sua presenza: e non c'è altro modo che testimoni di più questa presenza, che udirne la sua “voce”.
Per questo, fratelli miei, è così importante l'incontro personale, il conoscere la voce, il dare del “tu” al Signore: per questo dobbiamo recuperare l'importanza della nostra dimensione spirituale, la dimensione affettiva nel nostro cammino di fede: dobbiamo risentire il nostro cuore ardere d’amore, un cuore che, come abbiamo visto domenica scorsa per i due di Emmaus, può riscaldarsi e bruciare soltanto in un rapporto diretto di conoscenza, di desiderio, di fiducia, di amore.
Gesù dunque è venuto a chiamarci per nome, per condurci al Padre. Egli è la porta: e noi dobbiamo passare attraverso di lui, dobbiamo attraversare Gesù per entrare e uscire. Notate bene: egli non dice di essere la “porta dell'ovile”, ma la “porta delle pecore”. Gesù si presenta come colui che noi pecore possiamo incontrare, attraversare, come colui che ci dona accesso ad un mondo “altro”, ad un modo di vedere noi stessi e gli altri completamente diverso. Gesù chiama le pecore per nome e le pecore riconoscono la sua voce, perché è una voce che parla direttamente al cuore, che salva, che riempie, che consola, che scuote, che dona energia, che perdona, che inquieta, che sconcerta, che porta a verità, alla Verità tutta intera.
“Attraversare” Gesù, significa passare per una porta stretta, lo sappiamo; per farlo, dobbiamo essere autentici, essere indifesi come agnelli, essere nudi ma fiduciosi in lui.
Gesù ci chiede di configurarci a lui, di dilatare il nostro cuore, di allargare i nostri orizzonti, di fuggire la piccineria, fosse anche santa e devota; ci chiede soprattutto di perdere la nostra vita per donarla agli altri, come egli ha voluto e saputo fare.
È bello allora che questo Pastore ci conduca fuori. Gesù non è uno che chiude la porta, non è uno che rinchiude dentro, che imprigiona; è il Pastore che fa entrare ma anche uscire. Quante volte, fratelli miei, Gesù ci chiama per nome per farci uscire da quelle situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalla nostra “chiusura ermeticamente protettiva”, per aprirci agli altri, per guardare all'altro come a un fratello, a una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva attenzione per noi stessi, dall’eccessivo ripiegamento su di noi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà, allo spenderci di più per gli altri e un po' meno per noi.
Ma dobbiamo stare in guardia; è Gesù che ci mette in guardia dai ladri e dai briganti: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore. Molti dicono di venire per il tuo bene: stai attento perché sono briganti e ladri!”.
È questo l’avvertimento del buon pastore, il principio che deve essere fondamentale per la nostra vita: “Chi tenta di rubarci l'anima è un ladro. Chi tenta di rubarci ciò che abbiamo dentro è un brigante. Chi ci imprigiona è un impostore. Non facciamolo entrare! Difendiamoci, se possiamo, oppure scappiamo”. Il vero pastore (genitore, coniuge, prete, confratello, consorella, o amico che sia) entra in noi solo per darci vita, entra perché possiamo crescere, fiorire, evolverci, divenire. Se non fa questo è un ladro: viene per prendere, per sottrarci, per legarci a sé. Il pastore ci invita, ma non ci impone mai nulla, non usa mai la forza; ed è sempre presente nel momento del bisogno; non fugge via come il mercenario. Il ladro invece impone, usa violenza, colpevolizza, ci lega a sé e ci ruba la vita che abbiamo dentro. Il pastore ci conduce alla nostra verità, alla Verità; il ladro ci porta alla sua verità, facendoci credere falso ciò che è vero e vero ciò è falso.
Chi non pratica la carità e la bontà, è un brigante; se qualcuno ci fa sentire cattivi, sporchi, sbagliati, è un brigante; se ci fa sentire idioti, cretini, stupidi, è un brigante; se ci usa per il suo piacere fisico o per i suoi interessi, è un brigante; se ci ruba la gioia di vivere, la nostra personalità e la nostra vitalità, è un ladro.
La vita deve vivere. La vita vuole espandersi. La vita vuole dilatarsi. Noi siamo fatti per crescere sempre più, per realizzarci sempre più, per divenire sempre più ciò che Lui ha pensato per noi. Il pastore è appunto colui che fa rifiorire questa nostra vita; vuole che la nostra vita si espanda, cresca, si realizzi, fiorisca: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
Ogni volta che noi non ci difendiamo dai ladri, che non ci proteggiamo, che non lottiamo per noi stessi, che non combattiamo per la nostra vita, che permettiamo agli altri di fare di noi quello che vogliono, noi sviliamo noi stessi, ci trattiamo come se non avessimo valore, come se fossimo una nullità, un oggetto che tutti possono manipolare a loro piacimento.
In certi momenti invece bisogna alzare la voce, farsi forza e lottare con tutte le nostre forze. Dobbiamo difenderci da ladri e briganti, soprattutto se camuffati da pastori.
È un classico: se non lo custodiamo per bene, il nostro tesoro ci verrà inevitabilmente rubato. Ladri e briganti entreranno dentro di noi e calpesteranno tutto ciò che di bello trovano. Guardiamoci intorno, fratelli miei: quanti derubati ci sono nella nostra società; persone che hanno permesso al proprio partner, all’amico, a colui che esse ritenevano un pastore, un fratello, di rubare la loro anima, la loro vita soprannaturale, la loro vitalità, il loro slancio, la gioia di amare Gesù e di essere da lui riamati, il dono preziosissimo della loro vocazione, a cui un tempo erano così tanto legati!
È quindi soltanto su Gesù che dobbiamo contare: è di Lui solo che dobbiamo fidarci, perché è lui l’unica porta del nostro cuore, la porta che dobbiamo oltrepassare per entrare dentro noi stessi e per uscire incontro ai fratelli: perché chi è in contatto con sé stesso è in contatto anche con i fratelli, e chi incontra Gesù, incontra se stesso e gli altri.
Gesù è la porta per entrare in lui, per incontrarlo; ma nel momento stesso in cui lo incontro, egli mi manda fuori, mi fa diverso, mi trasforma, mi cambia, mi manda là dove c’è bisogno della mia presenza; mi apre porte di me che non conoscevo; mi spalanca tutte le stanze della mia anima e del mio cuore, mi apre orizzonti e incontri che prima neppure sognavo.
C’è un metodo per vedere se uno ha incontrato veramente Cristo? Sicuro: se uno rimane sempre lo stesso, insensibile verso gli altri, ottuso e incartapecorito, certamente non ha incontrato Cristo. Se uno è di vedute ristrette, egoistiche, e non va mai oltre se stesso, non ha incontrato Cristo. Se uno va regolarmente a Messa, segue attentamente la liturgia, si accosta alla Comunione, partecipa a tutte le funzioni, ma non è capace di perdonare al coniuge, ai figli, al confratello, alla consorella, agli amici, non ha incontrato Cristo. Quelli che si comportano in questo modo sono persone che vogliono entrare nell'ovile da un'altra porta che non è quella di Gesù e di questi il Signore dice: “Sono ladri e briganti; anche se sono Pastori emeriti, Dottori della legge, Teologi, Preti, Frati, Suore, Laici impegnati, sono tutti ladri e briganti!”.
Gesù dunque è la porta: e allora approfittane, esci passando attraverso di Lui, vai, apriti, incontra, impara, non fermarti, non temere, grida, annuncia la sua Parola: Vangelo vuol dire “buona nuova”. È buona proprio perché è sempre “nuova”, non è mai la stessa. Gesù fu ucciso non perché portò un messaggio buono, ma perché portò un messaggio nuovo. Il nuovo ci terrorizza, ci fa paura? Il nuovo ci toglie le sicurezze che avevamo prima? Vuol dire che non passiamo attraverso Cristo. Se uno non diventa nuovo, non si rinnova, è già vecchio in partenza, ha già smesso di vivere. Il Qohèlet dice: «Tutto invecchia». O ti rinnovi o muori. La gioventù non è un'età della vita, ma è una dimensione dell'animo. Ci sono giovani già vecchi e ci sono vecchi sempre giovani. Chi non si rinnova invecchia
[...impara, Mario!]
. Anche una Chiesa, anche una parrocchia, anche una comunità religiosa, possono diventare vecchie. Come? Se i loro componenti sono “vecchi”: se predicano cose che non interessano a nessuno, se non toccano l’anima delle persone, se non parlano al loro cuore, se danno soltanto risposte inutili a domande che nessuno pone, se non sanno rinnovarsi, se non sanno lasciarsi sollecitare dal presente; ecco, fratelli miei: allora abbiamo una chiesa, una parrocchia, una comunità religiosa vecchia, destinata ad estinguersi.
Bisogna lasciarsi interrogare dai tempi, dialogare, confrontarsi, saper cogliere i veri problemi, i veri bisogni del nostro tempo. Lo ha fatto Gesù, lo hanno fatto i Santi, dobbiamo farlo anche noi, con il loro stesso spirito, sempre e comunque passando per la famosa “porta”.
Dobbiamo metterci continuamente in gioco, fratelli miei, senza presunzione; dobbiamo avere il coraggio di far vivere in noi ciò che deve vivere, di far nascere ciò che deve nascere, ciò che è nuovo, con tutta la fatica e il travaglio che comporta. E dobbiamo avere il coraggio di far morire ciò che deve morire, di porre fine a ciò che è finito, di dichiarare concluso ciò che non ha più senso di esistere, ciò che rischia di frapporsi tra noi e il buon pastore, occludendo il passaggio attraverso la “Porta”. Ci vuole molto coraggio per entrare nella porta del tempo presente! Ma se entriamo attraverso di Lui, attraverso Cristo nostra Porta, allora tutto diventerà più semplice.
E saremo felici, fratelli: sì, perché allora ci sentiremo non pecoroni, non beoti, non rassegnati, non storditi dal delirio della contemporaneità, ma amati e chiamati per nome, portati a salvezza e libertà dall'Unico che ci conosce! Perché allora ci sentiremo veramente Chiesa di Dio, sogno del risorto, passione dell'incarnato, tormento dei discepoli! Ci sentiremo Chiesa, capace di Dio, chiamata a vegliare con sincero amore il gregge dell'umanità, guardiana non mercenaria, ansiosa di indicare il Cristo a chi cerca la vita in abbondanza!
In questa domenica siamo chiamati anche a pregare per i nostri pastori: il papa, i vescovi, i sacerdoti: perché possano essere sempre di più a servizio della Chiesa, avendo come modello Gesù che ha dato la sua vita per tutti. Stiamo loro vicini con il nostro affetto, con la nostra preghiera, sapendo che, come noi, anche loro sono persone in cammino. Preghiamo poi in particolare per le vocazioni di speciale consacrazione a Dio: il Signore tocchi i cuori dei giovani perché sappiano ascoltare e rispondere con generosità alla Sua chiamata. Amen.



mercoledì 4 maggio 2011

8 Maggio 2011 – III Domenica di Pasqua

«Resta con noi, Signore, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».
Quello di oggi è uno dei brani più conosciuti e più belli dell'intero vangelo. «In quello stesso giorno, il primo della settimana....»; un giorno ricco di grazia, che ha riproposto più volte la realtà del Cristo risorto. Dopo la sconvolgente esperienza di Maria di Magdala e la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro, ormai vuoto; dopo il misterioso ingresso del Signore risorto nel cenacolo, a porte chiuse; dopo il dono dello Spirito e della pace, in quello stesso giorno, Gesù risorto, non più soggetto a condizionamenti spazio temporali, raggiunge lungo la strada due discepoli incamminati verso Emmaus. Si allontanano dalla città che uccide i profeti. Sono scoraggiati, tornano a casa loro, scappano. Sono tristi, i discepoli, e parlano delle loro disgrazie. Meglio, si lamentano, si caricano a vicenda. La tristezza è palpabile, la delusione e l'amarezza sono profonde, insostenibili, terribili. C'è un crescendo nel parlare: dallo sfogo lamentoso, attraverso l'approfondimento degli eventi, fino al dibattito acceso, alla vera e propria discussione con Dio. Gesù si avvicina e cammina con loro. Ma essi non lo riconoscono; del resto, come potrebbero? Non alzano mai lo sguardo da loro stessi per poter incrociare quello del Signore. Sono talmente pieni del loro “sacrosanto” dolore da non accorgersi che il motivo della loro sofferenza non esiste più! Sono totalmente incapaci di uscire dalla spirale vorticosa di quel loro nulla, in cui sono precipitati dopo la scomparsa di ogni loro sicurezza.
Quante volte, fratelli miei, succede lo stesso anche a noi: siamo depressi, ci lamentiamo di tutto e di tutti, niente ci sta bene: invecchiando poi, non sopportiamo più nulla; perfino le chiacchiere amichevoli, lo scambio di qualche impressione, l'amabile conversare del nulla, la vacuità del dire, ci irritano enormemente; nulla di soddisfa. Con Dio, poi, è un disastro. Diventiamo pretenziosi, quasi insolenti. E Lui, di fronte alla nostra idiozia e al nostro vuoto assordante, tace. Tace suo malgrado, perché Dio ama la discussione con noi; egli stesso la modera, vuole che ci lasciamo coinvolgere nella riflessione, ci chiede di indagare. Dio, rispettoso e discreto, ci considera capaci di conoscere, di arrivare a conclusioni ragionevoli e positive; ci chiede di essere audaci nell'interrogarci. Egli non ci vuole cristiani beoti: vuole gente convinta, battagliera. Ma noi ─ non appena egli si mette al nostro fianco lungo il percorso della vita, quando con tutta la sua amorevolezza cerca di farci capire che in fondo il nostro dolore non è poi così insuperabile ─ diventiamo immediatamente ombrosi, insofferenti; ci offendiamo: “ma come si permette Dio di mettere in discussione il nostro dolore? Che ne sa lui della nostra situazione attuale? Delle nostre preoccupazioni, dei nostri problemi? Che ne sa lui delle condizioni in cui siamo costretti a vivere oggi? della disoccupazione, della difficoltà di arrivare a fine mese, del tirare su dei figli, della situazione internazionale, delle guerre, del terrorismo, della crisi economica, della fame, del malcostume generale che ci fagocita? Perché mai vuole scuoterci da questo nostro dolore? In fin dei conti il dolore ci rassicura, ci dona identità, ci identifica… e in questo nostro percorso di autodistruzione folle, finiamo col costruirci una nuova identità. Finiamo col coltivare il dolore per se stesso: “Ho perso un figlio. Sono un infartuato. Ho il cancro. Mio marito mi ha lasciata...”. Il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento: così ci presentiamo, così vogliamo che ci riconoscano, sperando dagli altri, magari, un cenno di benevolenza, un gesto di compassione…  Siamo degli illusi, fratelli miei. Quando finalmente capiremo che dobbiamo fuggire il dolore come la peste? Il “sepolcro” deve essere abbandonato; deve essere  superato, non usato come segno di riconoscimento.
“Cosa è successo?” Chiede il risorto. È mai possibile che questo intruso sia tanto “svanito” da non conoscere, almeno per sentito dire, quel che è successo a Gerusalemme?
Sono offesi, frastornati, i discepoli; e ne hanno tutti i motivi, poveracci. Sono rimasti improvvisamente orfani della loro guida, su cui avevano riposto ogni speranza. E gli parlano della passione, della croce, della morte di Gesù: ma nulla; Lui, che li ha affiancati, sembra non ricordarsene; Lui che ha superato tutto questo, sembra non sapere  nulla.
“Che è successo?” ripete. Eh sì, “noi speravamo”... speravamo in un futuro di libertà….
“Speravamo”. La speranza si riferisce sempre ad un futuro: declinarla al passato, come fanno loro, significa ammetterne il totale fallimento. Purtroppo è sempre difficile accettare un fallimento: il fallimento di un progetto, di un'azienda, di un gruppo parrocchiale, della propria vocazione, della propria vita. Il fallimento della speranza porta inevitabilmente alla morte interiore. La delusione, poi, è la punta estrema del dolore: è un dolore sordo, che suscita rabbia, che aggiunge alla sofferenza la consapevolezza dell'inganno; un dolore che ci rimette completamente in discussione, fin nel più profondo, che ci destabilizza, che ci impedisce di riprendere coraggio. Delusioni, speranze abbandonate ad agonizzare, senza che nessuno riesca ad abbreviare tale sofferenza. Eppure lì, proprio lì in fondo, alla soglia dell'annientamento, Dio ci ascolta e ci aspetta, cammina con noi.
“Noi speravamo” insistono i discepoli: ma siamo stati proprio degli stupidi a voler seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui! “Noi speravamo”: ma ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La nostra speranza è morta su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel suo sepolcro.
Ebbene, fratelli: quanti ne abbiamo incontrati di discepoli come questi, tristi e rassegnati! “Noi speravamo”, continuano a ripetersi. E intanto non si accorgono che il Signore, creduto morto, cammina con loro.
Si aspettano comprensione, i discepoli, da questo compagno occasionale: si aspettano compassione, condivisione. Ottengono invece uno schiaffone in pieno viso.
Stolti e tardi di comprendonio”, dice loro lo straniero; “Stupidi e idioti! Ignoranti!”.
La sua provocazione li scuote, li costringe ad alzare lo sguardo. È ora di capire, loro come noi, che non sempre chi ci dà una carezza ci vuole bene; non sempre chi ci dà uno schiaffo ci vuole male. A volte una bella scrollata ci distoglie dal dolore e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa. Essi si scuotono ma continuano a non capire: “cosa sta dicendo questo sconosciuto? Come si permette?”
Sciocchi e incapaci di capire le Scritture”, insiste lui. E giù a spiegare il senso di quella sofferenza, della Sua sofferenza, della sua passione e morte, aiutandoli a rileggere gli ultimi eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio. I discepoli del risorto, non possono, non devono fermarsi alla croce, alla morte!
Le parole del vangelo di Luca sono qui taglienti, quasi insostenibili: il problema, fratelli, il problema vero, non è l'assenza di Dio, il fatto che Dio improvvisamente sia mancato al nostro sguardo, ma la nostra incapacità di riconoscerlo, la nostra tragica miopia. Siamo tutti talmente concentrati su noi stessi, sui nostri problemi, da non essere in grado di riconoscerlo neppure quando cammina accanto a noi, quando ci aiuta ad attraversare la strada, ad evitare le buche e i pericoli del percorso.
Si, fratelli, perché egli è costantemente con noi; Egli cammina sempre accanto a noi: e ci spiega pazientemente l’incomprensibile: ossia come Dio abbia accettato di cambiare, di adeguarsi, di abbandonare la rassicurante eternità, la perfetta autosufficienza, l'immobilità beata, per sporcarsi le mani con noi; per questo Egli cammina, si è messo in viaggio; un viaggio lunghissimo: dall'eterno al finito, dall'essere Dio al diventare uomo, dalla perfezione assoluta all'incarnazione. E tutto ciò per amore, soltanto per amore. Dio non è un masso granitico, immobile e compatto, ma soffre, cambia idea, decide. Ama e, si sa, l'amore è sempre in movimento; l'amore chiede sempre sofferenza.
Gesù dunque spiega loro le Scritture, apre loro l'intelligenza; e, attraverso la Parola, essi possono finalmente capire cosa è veramente successo... È un momento di grande tensione, questo: i due ─ pur essendo stati amabilmente insultati ─ ascoltano col fiato sospeso. Non fanno gli offesi, anzi... percepiscono che questo tale li sta aiutando ad interpretare gli eventi, a capirli in profondità. Il cuore di questi tiepidi discepoli finalmente si scalda. Poi il tepore divampa, e diventa fuoco incontenibile.
Lo conosciamo anche noi a volte questo fenomeno, vero, fratelli? La Parola meditata si insinua dentro di noi, ci inquieta, ci apre, ci obbliga alla verità. E più troviamo argomenti contrari a questa verità che avanza, più i nostri granitici pregiudizi vacillano, scricchiolano, finché alla fine dobbiamo arrenderci! Il nostro dolore, che paradossalmente ci gratificava, viene spazzato via dalla Parola che ci riscalda e illumina. Allora tutto acquista senso, tutto acquista una nuova dimensione. La nostra vita, riletta alla luce del grande progetto di Dio, assume un valore completamente diverso. È come se Gesù ci dicesse: “Non cercatemi nei fatti straordinari. Non inseguite continuamente ciò che sembra magico e miracoloso, perché non mi trovereste. Cercatemi piuttosto lungo i percorsi quotidiani, nei gesti elementari, nelle piccole cose. Fermiamoci insieme sulle Scritture, figli miei; fidatevi della mia Parola, non di quelle degli uomini... a volte forse non succederà niente, ma a volte sentirete un turbamento profondo, un ardore improvviso che infiammerà il vostro cuore. Ebbene, quel turbamento sono io a crearlo, perché sono io che parlo nel vostro cuore”.
Ecco, fratelli, Gesù ci educa così; ci insegna a non rivolgere la nostra fede allo stupore dei miracoli, ma al fascino che nasce da ogni parola e da ogni gesto che trasmette un messaggio d'amore. E allude proprio a questo quando, chiedendogli di restare con noi, ci mette in condizione di superare la tristezza, la solitudine, il vuoto, la delusione...
Arrivati intanto al villaggio, Gesù con un sorriso saluta i discepoli. Ma essi, ancora incerti e impauriti, vengono presi nuovamente dal panico: “Come, te ne vai già? Resta con noi, è buio, fermati!”. E il Signore si ferma, e resta con loro. Si ferma, e resta con noi. Il Signore non ci abbandona, fratelli: il Signore si ferma eccome! Egli vuole fermarsi, Egli vuole restare con noi: è sufficiente che noi glielo chiediamo!
E Gesù entra con loro; Gesù entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati.
E qui, all'interno, avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due si aprono, e lo riconoscono! «Ma egli sparì dalla loro vista».
No, Signore, non andartene. Non ora. «Mane nobiscum Domine, quoniam advesperascit, et inclinata est iam dies ─ Rimani con noi Signore, perché si fa sera e il giorno sta per finire!». Non lasciarci mai soli, Signore, soprattutto quando il giorno della nostra vita sta per concludersi!
È proprio così, fratelli; il Signore non ci può abbandonare, non può lasciarci soli, mai! Lo ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo(Mt 28,20).
Cristo risorto, vivo, cammina infatti al fianco di ogni uomo, gli parla con le parole della Scrittura, si dona a lui nell'Eucaristia, lo nutre, lo illumina, lo guida attraverso tutte le Emmaus del mondo, verso quella salvezza che non conosce più sere, perché illuminata perennemente dalla luce del mattino di Pasqua, l'unica luce che non tramonta. Crediamoci, fratelli, e comportiamoci di conseguenza.
E termino con le parole del Beato Giovanni Paolo II: «Quando si è fatta vera esperienza del Risorto, nutrendosi del suo corpo e del suo sangue, non si può tenere solo per sé la gioia provata. L'incontro con Cristo, continuamente approfondito nell'intimità eucaristica, suscita nella Chiesa e in ciascun cristiano l'urgenza di testimoniare e di evangelizzare... Il congedo alla fine di ogni Messa [l’Ite missa est] costituisce una consegna, che spinge il cristiano all'impegno per la propagazione del Vangelo e l'animazione cristiana della società. Per tale missione l'Eucaristia non fornisce solo la forza interiore, ma anche, in certo senso, il progetto. Il cristiano che partecipa all'Eucaristia apprende da essa a farsi promotore di comunione, di pace, di solidarietà, in tutte le circostanze della vita». (Lettera apostolica “Mane Nobiscum Domine”, 2004, nn. 24.25.27, passim).
Questa dei due è la nostra esperienza, questa è la nostra vita. Confusi e scoraggiati, quando meno ce lo aspettiamo, ci succede qualcosa. Qualcuno si fa nostro compagno di viaggio e ci aiuta a comprendere, ad interpretare, a vedere e a saper ascoltare. Nel nostro cuore si accende di nuovo la fiamma della speranza, lo zelo per il Signore, il fuoco dell'amore.
Fermiamoci allora, fratelli, e mangiamo tutti insieme il Pane del banchetto; condividiamo l'amore; muniamoci del mantello e del bastone, e di nuovo incamminiamoci per portare ad altri l’amore del Risorto!
Donaci per questo, Signore, occhi che possano scorgere la tua presenza, che vedano la bellezza della vita, anche tra le mille difficoltà e delusioni della vita; donaci orecchie che sappiano ascoltarti e che possano riconoscere la tua voce tra i tanti rumori quotidiani; donaci ogni giorno compagni sinceri, guide sicure con cui condividere il nostro cammino; donaci, Signore, di riconoscerti in ogni momento della nostra esistenza e, dopo le nostre Eucaristie, di contagiare chi ci circonda con la gioia incontenibile e l’amore ardente che solo l'incontro con Te può dare. Amen.